di Sergio
Corbucci
Fango. Stivali
logori incedono facendo strisciare qualcosa di molto pesante,
qualcosa che le braccia, pur cercando di essere rilassate, faticano a
trascinare. L'inquadratura si allarga, si scopre che è un pistolero
vestito con una divisa dell'esercito nordista, si scopre che quello
che sta strascinando, con la sola sua forza, è nientemeno che una
bara. La musica esplode, i titoli di testa sono accompagnati da un
pezzo cantato da Rocky Roberts che ormai è leggenda (la colonna
sonora di Django ha avuto pure lei un pazzesco seguito, soprattutto e
stranamente in Giappone, dove la canzone più apprezzata dei Queen è
a tutt'oggi I'm going slightly mad... paese, sempre più strano più
cerchi di conoscerlo..).
Esistono dei
classici, opere in grado di suggestionare intere generazioni, che
nascono per caso, quasi ci fosse una misteriosa alchimia tra destino
ed esperienza dei cineasti. Nel caso di Django tutto sembra essere
partito da una singola idea, quasi un'apparizione metafisica, un
uomo che cammina trascinando la sua bara. Il resto è venuto dopo, ma
tutto è servito a suggello della potenza di questa immagine, caduta
forse in sogno a Sergio Corbucci. Corbucci era un regista
instancabile, quasi un artigiano esperto costretto a lavorare a
cottimo, uno spirito indomito con una forte umiltà, prolifico oltre
ogni dire, nel bene e nel male. Viene quindi facile paragonarlo oggi
a Miike. Che sia solo un caso il fatto che Miike abbia diretto
Sukiyaki Western Django? Anche lui prolifico, anche lui geniale.
Corbucci di capolavori ne ha fatti a bizzeffe e questo Django rientra
di diritto nella storia del cinema e con lui Franco Nero. Non solo,
Django diviene una stupefacente opera seminale, in grado di
influenzare pesantemente la cultura pop, non solo occidentale ma
anche orientale. A vederlo oggi suonano decine di campanelli, si
fanno collegamenti sorprendenti. Django di fatto veste in molte scene
come Jan Solo, Django porta nascosta la stessa arma di Itto Ogami
(solo che quest'ultimo la stipa in una culla, simbolo del futuro,
mentre Django usa una bara, simbolo del passato da dimenticare), la
stessa mitragliatrice ha nel film di Corbucci un ruolo da
protagonista in una scena che pare del tutto simile ad una sequenza
di Aliens scontro finale (versione estesa). E questo senza ricadere
nelle citazioni-omaggi più evidenti come il predicatore di Trigan
(con Croce armata), El Mariachi (con chitarra armata), il pistolero
di Gungrave (un mix tra Django e El Mariachi), il robot pistolero di
Burst Angel, il personaggio di Go Nagai (che appare anche in Mazinger
the impact di Imagawa) che si chiama guarda caso Django, un letale
pistolero con cicatrici armato di due revolver, vestito da cowboy e
con al collo un poncio.
Tutto questo non è
un caso, Django è una pellicola strapiena di trovate visive e
narrative, in cui è davvero difficile prevedere il corso degli
eventi. Una pellicola che risulta godibilissima anche oggi e se ne
venisse fatto un remake serio, uscendo così dalla cerchia dei soli
appassionati di genere, sarebbe ancora in grado di sbancare ai
botteghini. Ma fare un remake di Django deve essere argomento da far
tremare le gambe a tutti, non si può toccare un capolavoro. Ed ecco
che piuttosto si cerca la strada delle opere “di ispirazione”,
come Sukiyaki Western Django e Django Unchained (di fatto Tarantino
ha sempre scelto tale approccio, anche nel caso de “Quel maledetto
treno blindato” non ne ha fatta una copia con Inglorious Basterds,
ma se n'è solo servito da ispirazione per parlare di qualcosa di
simile ma nel contempo molto diverso).
Ma il cuore di
tutto, quello che rimane a imperversare nella testa è proprio
quell'immagine potente di inizio film. Quell'uomo che trascina la sua
bara. In una scena gli viene chiesto se ci sia qualcuno in quella
bara e l'uomo risponde: “Si chiama Django”. Perché di fatto
quella bara contiene lo stesso Django, ne contiene il passato, la sua
vita passata e il suo senso di colpa . Così come serve da
contenitore o promemoria per introdurre quanto serve per accaparrarsi
un futuro. È comunque un pesante fardello. Gli sarà davvero sempre
utile trascinarsi dietro un tale peso? Oppure è più giusto che sia
la terra ad occuparsi di custodire le bare?
Spero di avere
incuriosito un po' quanti non hanno ancora visto la pellicola. Cecchi
Gori ne offre un blu ray piuttosto dignitoso, considerando l'età
dell'opera, targata 1966. Assolutamente da vedere, magari come
propedeutica al nuovo Tarantino, magari in abbinamento al Django di
Miike.
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