domenica 31 dicembre 2023

The Old Oak: la nostra recensione del nuovo film del leggendario Ken Loach

Inghilterra di provincia dei giorni nostri. 

Ormai per qualcuno di quelle parti l’invasione dell’Inghilterra è in atto, nella totale indifferenza o in collusione con i potenti. 

Nessuno può farci niente, nemmeno e soprattutto nella vecchia e dimenticata Durham, cittadina mineraria del nord est mineraria un tempo famosa e ora fallita insieme alla sua principale industria, nonostante le coraggiose e disperate lotte a suon di scioperi, durate tanti mesi e lacrime. 

Tutti si sono dimenticati di loro fino ad ora, ma ecco che nella cittadina di colpo ci sono nuovi arrivati: una variegata compagine di vecchi e ragazzini giunti con un pullman e diretti a stipare ulteriormente case fatiscenti a basso costo. 

Secondo voci discordanti i nuovi vengono dalla Siria o qualcosa del genere, per via di quelle assurde politiche di scambio culturale o di supporto ai paesi poveri o per la guerra o qualcosa di analogo. Ma la percezione generale è che questi tizi, che non spiccicano una parola di inglese, parlano e vestono con strani turbanti, sono “molto diversi” dalla fauna locale, al punto che e per qualcuno fin dal primo secondo non dovrebbero esserci per niente a Durham. 

Non sono inglesi e vengono preferiti e coccolati dalla beneficienza come “poveri vip”, in un posto dove gli aiuti ai poveri comuni già mancano o arrivano con il contagocce e dove la gente è già al limite, già esasperata, senza lavoro e senza servizi pubblici e sociali che funzionano. Per più di una persona, i siriani ruberanno il poco lavoro che c’è o si dedicheranno h24 alla delinquenza, comportandosi presto a Durham come fossero a casa loro e anzi quasi offendendo, come quella ragazza (Ebla Mari, che interpreta Yara) che appena scesa dall’autobus si è messa a fotografare il quartiere e le persone come se pensasse di trovarsi allo zoo, fino a che un bravo cittadino le ha strappato la macchinetta di mano e gliela ha rotta. La ragazzina ha pianto e per tutti se lo è meritato, ma il proprietario del vecchio bar, TJ (Dave Turner) sembra essersela presa a cuore, sembra che abbia deciso di supportare nel suo Old Oak, l’unico locale pubblico davvero funzionante di tutta la città, tutta la compagine dei nuovi arrivi. Forse perché è un uomo strano e malinconico che vive da anni solo con il suo cane. Forse perché sta troppo dietro agli occhi di una ragazzina con la macchina fotografica e non capisce più “da che parte stare”. Per qualcuno degli avventori più solidi dell’Old Oak il locale di TJ bisognerebbe piuttosto occuparlo per farci una base, organizzare lì una protesta contro il governo, chiamare la stampa, farsi sentire.

Ma il “rimbecillito” TJ vorrebbe solo spalancare le porte a tutti e anzi tornare ad aprire l’ampio locale adiacente al bar, chiuso da anni, per adibirlo di nuovo a mensa pubblica gratuita. Una mensa con cucina a tutti gli effetti che aveva permesso, grazie alla solidarietà di tutti, di sfamare le tante famiglie di minatori nel lungo e tragico periodo dello sciopero di tanti anni fa. Una mensa che aveva già rappresentato negli anni '70 per la piccola cittadina la speranza di un futuro migliore.

Per TJ la situazione presente non è diversa da quella di allora, in fondo. Così come le persone più povere e abbandonate non sono troppo diverse, anche se vissute in periodi storici e luoghi diversi da Durham. Dal niente ma con tanta fatica, con l’impegno di TJ, della piccola fotografa e di ampia parte della comunità straniera e locale che si mette a disposizione come supporter, elettricisti, idraulici, camerieri e fornitori, la mensa, con la stessa forza del passato, ricomincia a funzionare e ad accogliere i bisogni di tutti i cittadini indistintamente. Con l’aiuto anche della chiesa locale, delle anziane signore che cucinano i piatti, di chi si improvvisa camiciaia e di chi tiene tutto pulito e funzionale, il paese inizia a rinascere. 

Tutti sono invitati in qualche modo a partecipare, ma i vecchi avventori “abbandonati” del bar, insieme alla parte più arrabbiata di Durham, non accettano questa “improvvisa preferenza altruistica” e iniziano a organizzarsi per far fallire il locale. 

Magari basterebbe davvero poco per far crollare la baracca e spezzare i sogni di vanagloria di TJ: quel tanto che basta da farlo tornare a testa bassa a servire il whisky senza troppi grilli in testa.  


Nonostante gli anni siano 87, Ken Loach non si ferma di certo e anzi continua ad arricchire, con nuove pellicole, il suo cinema ironico, eroico, drammatico, civico, disincantato e profondamente, eticamente, “umano”. Un cinema che dal 1967 riesce ad essere sempre ancora attuale, qualcosa di cui abbiamo sempre profondamente bisogno. Un cinema “universale”, al punto che anche se forse non siamo vissuti o viviamo negli stessi, amati è un po’ odiati, sobborghi inglesi cantati da Loach, i temi, i personaggi e i luoghi raccontati dal regista nelle sue storie possono apparire anche al pubblico italiano famigliari, vicini, urgenti, qualche volta “profetici”. 

Prima della pandemia e prima dell’esplosione del “delivero”, nel 2019, Loach già ci parlava del futuro: il “nuovo Medioevo” in cui vivevano, quasi da gladiatori, i veri lavoratori 2.0 del nuovo millennio: gli addetti alla consegna rapida dei pacchi. Il mercato che cambia, le responsabilità che da sociali diventano dopo secoli di progresso di nuovo individuali, la vita che viene scandita da tempi stretti e paghe sempre più basse: tutto viene combattuto per tirare avanti come si può, con il sorriso e per il bene della famiglia, con una cinghia sempre più stretta. A testa bassa e con tanta voglia di lavorare. 

Oggi Loach con lo stesso disincantato e la stessa testa bassa, ma senza dimenticarsi di rappresentare ancora una volta la straordinaria forza emotiva dei suoi piccoli eroi di provincia, ci parla del presente e del futuro di un mondo e di un popolo umano che continuamente si mischiano e si spostano: per via delle miserie e della guerra, spesso andando a rendere le zone problematiche ancora più problematiche. 

Il piccolo caleidoscopio umano di Durham a questo fenomeno reagisce gioiosamente scomposto. Si interroga al bar, sbraita, scoppia a ridere e poi ammutolisce. Prima incassa le disparità di trattamento e poi si incazza: tira fuori il libricino nero in cui tiene bene elencate tutte le promesse politiche mai adempiute ma poi decide chi deve essere il suo vero nemico: scegliendo alle grandi disillusioni la solita, facile ma comprensibile, guerra tra poveri. 

Questo però non accade a tutte le persone di Durham. Al contempo, partendo però da un diverso punto di vista, non “dalla massa” ma “dal singolo”, scegliendo di conoscere le persone anche solo incontrandole con lo sguardo, accade qualcosa di diverso per parte della gente del paesino come per il burbero TJ interpretato dal bravo Dave Turner. Scatta qualcosa di arcaico ma anche “recente”, vicino ai tempi delle grandi lotte sindacali: uno spirito sopito di solidarietà e di fratellanza senza bandiere, genuino quanto “operativo”.


Un istinto di mutuo-aiuto spontaneo quanto contagioso, che in poco tempo supera differenze culturali e barriere linguistiche, che arriva a legare le persone più disparate e a rendere meno complessa la vita di tutti. 

Una “supplenza sociale” quasi “troppo funzionale” per piacere e farsi accettare soprattutto da chi è già stato troppo oppresso, troppo schiacciato e deluso dalle miserie quotidiane di un sociale istituzionalizzato vacante, in cui ha confidato e  che non ha funzionato a nessun livello.  

Loach gioca sul continuo cortocircuito politico/emotivo che travolge i personaggi, tra gli afflati di altruismo, la rabbia e il legittimo cinismo e autocommiserazione. Esplora il suo piccolo mondo sociale in ogni componente, lo viviseziona con tutta la leggerezza e maestria di cui è capace, infonde tragedia e romanticismo nella giusta misura nelle piccole storie di ogni personaggio, porta bene alla luce i sogni quanto le “barriere architettoniche” del l’ingranaggio sociale. 

Senza “fare lezioncine”, senza proclami e  favole, ci fa accogliere la complessità e il dolore di ogni singolo personaggio: ce lo rende reale e credibile, ci fa mettere nei suoi panni soprattutto quando ci calzano più scomodi, ce lo fa comprendere anche nei suoi errori di comunicazione, nella sua spontanea antipatia. Tutti vivono e lottano all’interno di un quotidiano fatto di tante piccole azioni prima che di fiumi di parole, sempre a testa bassa, pratici, sanguigni e un po’ delusi, stipati in case popolari fatiscenti, spalla a spalla, nella periferia del mondo, tra mille difficoltà, sbagli e ripensamenti, dolore e poca fortuna. Tutti provano a trovare una direzione possibile o un “trucco momentaneo” per convivere, prima di tutto “con se stessi” e noi viviamo con loro questo viaggio, grazie all’occhio e alla sensibilità di uno dei più grandi maestri del cinema. 

Ogni volta Loach, come Miyazaki, dice che l’ultimo girato è l’ultimo film, ma speriamo come sempre che si sbagli. The Old Oak dal punto di vista della direzione degli attori, della messa in scena visiva e sonora, del ritmo e dell’intreccio narrativo è l’ennesimo piccolo (ma grande) capolavoro dell’autore inglese. Un film che per qualcuno è manifesto politico ma è anche e soprattutto testamento spirituale, da amare e possibilmente da studiare, (magari nei corsi di politica e sociologia ma anche nei licei), soprattutto da non dimenticare.

Una pellicola imperdibile anche solo per aiutarci a riflettere su dove inevitabilmente  “sta andando il mondo” e magari cercare un modo di “aggiustarlo”: dopo esserci messi, provvidenzialmente, ancora per una volta, nei panni dei piccoli, grandi eroi della working class di uno dei più grandi autori del cinema di sempre. 

Talk0

sabato 30 dicembre 2023

Anatomia di una caduta: la nostra recensione del magistrale thriller diretto da Justine Triet e con protagonista una strepitosa Sandra Huller

Siamo in una baita isolata tra le Alpi. 

All’esterno è tutto bianco, ordinato, freddo, quasi asettico. Ogni cosa sembra avvolta da un silenzio perenne. Ma all’interno dell'abitazione c’è vergogna, tragedia, rabbia, musica a tutto volume.

Al primo piano ha luogo una strana intervista tra una ragazza dell’Università e la padrona di casa, una nota scrittrice e traduttrice che ha vissuto per molti anni in Inghilterra. Si parla dell’atteso prossimo libro. Si parla della improvvisa scelta di aver lasciato tutto, comprese cattedre universitarie,  per andare a vivere isolata con il marito francese in un luogo in cui si parla solo tedesco. Si parla della necessità di mettere al primo posto la famiglia. I sorrisi cordiali si fanno col tempo sempre più tirati e le risposte alle domande sempre più confuse, mano a mano che la musica sale, piena di urla e tamburi che sembrano voler sfondare le pareti.  

Fino a che il caos sonoro dal piano di sopra arriva a interrompere ogni sorta di dialogo. Poi di nuovo silenzio. L’autrice (Sandra Huller) offre un té alla sua ospite. Per tranquillizzarla dice che suo marito, insegnante ora in congedo, è intento nel bricolage per trasformare la dimora in un Bed and Breakfast e che si sta impegnando tanto. È per questo un po’ stressato, ma quella musica a tutto volume “lo calma”, è tutto ok. La donna cerca di apparire convincente, ma il rumore riparte subito, aumenta, fino a farsi intollerabile per “violenza”. La scrittrice inizia ad avere una crisi di nervi, cominciano a scendere dalle sue guance le lacrime, con gli occhi sembra lanciare del messaggio di aiuto alla sua interlocutrice. 

A due piani di distanza il figlio della donna, ipovedente, esce in fretta da una porta secondaria della casa con il suo cane. Forse per fare una passeggiata tra la natura in una bella giornata di sole. Forse perché quel rumore, che arriva fino allo scantinato dove si trova, è troppo alto anche lui e forse teme cosa potrebbe seguire “a quel rumore” tra i suoi genitori, quando si presentano in genere situazioni di questo tipo. Anche l’intervistatrice dopo poco lascia l’abitazione. 

Infine anche la musica cessa.

Al ritorno dalla passeggiata il ragazzino, guidato dal cane, trova il corpo senza vita del padre a pochi metri da casa. Forse è caduto dalla balconata dell’ultimo piano. Forse è stato spinto giù da qualcuno.

Iniziano le indagini. Si analizzano schizzi di sangue, rimbalzi del corpo contro prima sul balcone del primo piano e poi sulla tettoia della rimessa. Si cercano impronte, dettagli, il minimo indizio. 

Si chiamano gli avvocati e la moglie sceglie di essere seguita da un suo amico inglese, così come sceglie una interprete tedesca per deporre in aula per farsi capire al meglio. Vengono chiamati gli assistenti sociali per il bambino, che durante tutto il processo dovrà vivere altrove.


Inizia il processo, dove in un miscuglio linguistico tra francese, tedesco e inglese vengono alla luce solo discordanze, si fanno largo testimonianze e indizi solo parziali, mentre l’unica certezza scientifica rimane una morte per caduta.

Insieme all’autopsia del cadavere va in scena anche l’autopsia di una famiglia. Non servono molte altre parole per introdurre lo spettatore dentro alla cattedrale di ghiaccio visiva ed emotiva messa in scena da Justin Triet. Un viaggio all’interno della disgregazione umana che ci porta a contatto di personaggi simili ai fantasmi di loro stessi, racchiusi ognuno in un dolore incomunicabile quanto indicibile. Tutti sono sulla scena carnefici e tutti sono vittime in misura uguale, mancano un Hercule Poirot o una Signora Fletcher a ordinare per lo spettatore gli eventi, manca quella spesso “salvifica” certezza cinematografica di sapere come sono andate le cose e ci permette di puntare il dito sul colpevole.

È in scena una famiglia che dopo tante crisi e non detti esplode come una bomba nucleare, con una tale carica dirompente che non ci permette di ragionare sui cocci per avere una ricostruzione dei fatti.

C’è tra i personaggi un imprescindibile problema di lingua e di relativa comprensione tra culture di matrici diverse, dove il peso di una singola parola deve essere misurato con una cura spesso bizantina per non incorrere nel Lost in translation. C’è giuridicamente un problema relativo alla comprensione della disabilità e alla conseguente capacità di un disabile di saper leggere con chiarezza una situazione particolarmente strana e complessa per via dei suoi limiti fisici. C’è un problema relativo all’interesse del minore, nel poter continuare ad avere rapporti significativi con la sua famiglia in un momento in cui lo stato per legge gliela tiene lontana. C’è un problema relativo al valore reale di documenti e registrazioni realizzati in momenti di rabbia e confusione (non si parla di social ma ci siamo vicinissimi). 


Anatomia di una caduta nei suoi 150 minuti non annoia neanche un secondo, proprio  per il suo farci sentire costantemente immersi e turbati dalle mille domande che animano la pellicola. Veniamo, grazie all’occhio attento della regista, spinti  costantemente a ragionare sui volti, sui dettagli rilevati dalla scienza, sulla morfologia dei luoghi, sulle procedure. Infine, estenuati, la pellicola ci spinge con intelligenza a puntare il dito sui mille ingranaggi sociali fallati che oggi tengono insieme lo stato di incertezza esistenziale di una famiglia che, caduta a parte, potrebbe essere quella di chiunque.

È un film che fa incazzare e lo sa fare bene, sfruttando al meglio tutti gli strumenti del cinema, dall’uso della macchina da presa all'interpretazione, dal valore del comparto sonoro ad una attentissima costruzione delle locations.

È per questo un film da non perdere, da studiare e comprendere nelle sue mille sfumature tecniche quanto tematiche.

Straordinari gli interpreti per la naturalezza e umanità “affranta” che riescono ad infondere nei loro personaggi. Adeguatamente glaciali le location, tra chalet di montagna e aule di tribunale ugualmente fredde, riprese con un particolare realismo e dovizia di dettagli. Meravigliosa la messa in scena, per ritmo e continue suggestioni narrative volte a scompigliare le carte, tra machiavelliche procedure sociali e giuridiche che quasi sembrano affliggere più che rendersi utili ad un fattore umano sempre più contratto e confuso. 

Forse per l’intelligenza della sua costruzione una delle migliori pellicole degli ultimi anni. 

Justine Triet, reduce dall’ottimo Sybil - Labirinti di donna, scrive e dirige un perfetto meccanismo narrativo che fonde alla perfezione il meglio dell’odierno cinema sociale (anche dei Dardenne, per l’essenzialità e chiarezza nella messa in scena), il thriller giudiziario e il giallo investigativo. 

Una lezione di cinema. 

Talk0

venerdì 29 dicembre 2023

Maestro: la nostra recensione del film Netflix diretto e interpretato da Bradley Cooper, sulla vita del grande compositore Leonard Bernstei

Una vita vissuta attraverso il costante filtro della musica, travolti dalla gioia e dalle emozioni della composizione e poi della direzione, trasformando il proprio corpo in un diapason emotivo. Sempre sollecitati e innamorati dalle note, forse più spesso travolti dalla passione, ma umanamente in cerca comunque di un equilibrio, un punto fermo e un porto sicuro. Per il musicista Leonard (Bradley Cooper) quel punto di sostegno è la cantante e attrice Felicia (Carey Mulligan). Sono insieme fin dall’inizio del loro percorso professionale, tenero e lontano come un film in bianco e nero, poi ancora insieme e sposati in un mondo ultra colorato e quasi psichedelico, pieno di fama, allori ed eccessi. 

Leonard e Felicia si sostengono come quando, prima giovanissimi e poi anziani, giocano a sedersi, sull’erba nel parco, schiena contro schiena, senza guardarsi negli occhi. Certo spesso “cercano i loro occhi”, come quando lui termina un concerto e lei è dietro le quinte. Si cercano, si guardano e sorridono tra mille persone come prima cosa, come se tutti gli applausi venissero solo dopo quella tacita approvazione, la più importante condivisone della gioia. Però l’equilibrio della coppia sta anche nell’abbassare quegli sguardi nella loro vita di tutti i giorni, educando gli occhi ad abbassarsi e guardare oltre, tenersi distanti, accettando di non soffermarsi sui molti tradimenti “quasi compulsivi” di lui. Un po’ per quieto vivere, un po’ perché le persone come Leonard, così a stretto contatto con l’arte e per questo in grado di creare musiche meravigliose, sono qualcosa di così inestimabile che quel “dono” sembra venire prima di tutto il resto. 

Poi certo succede che il meccanismo si rompa, che il sostegno reciproco si spezzi e che le vite dei due si allontanino, pur rimanendo nostalgicamente ed emotivamente vicine, fonte di ispirazione e tenerezza reciproca. 


Maestro è un film che ancora una volta ci parla di come dietro a un grande uomo ci sia una grande donna, disegnando un percorso umano, artistico ed emotivo che si srotola lungo una intera esistenza. Un percorso che ha molto a che fare con la musica e i musical più famosi del nostro tempo. 

Se in un botta e risposta mi si dice: “Leonard Bernstein”, subito rispondo West Side Story intonando la melodia di tutte le canzoni più emblematiche del fantastico musical. Quindi, stesso giochino: “Maestro - il film su Leonard Bernstein” la mia mente ha pensato all’istante “West Side Story - come Bernstein ha creato il musical” e, oltre a canticchiare le canzoni aggiungo anche un passo di danza! E invece no... Maestro è un film gradevole, molto ben recitato e altrettanto ben diretto che racconta la vita amorosa di Bernstein. I suoi successi musicali vengono citati molto lontanamente, soprattutto il West Side Story. Quindi totale delusione per una fan (leggermente) invasata come me! Ma pazienza!! Bradley Cooper è strepitosamente uguale al Maestro, soprattutto la voce è impressionante. Ma, d’altra parte, Bradley è bravissimo qualsiasi cosa faccia, quindi gli piace vincere facile. Il film ha tutto quello che ci si aspetta da lui: lui che si aggira in mutande, lui che dà di matto, lui che commuove fino alle lacrime…

Molto brava Carey Mulligan, il cui personaggio sostiene amorevolmente quanto pragmaticamente ogni vulcanico stato d’animo del compositore, costruendo con Cooper una intesa che ricorda quella tra Geoffrey Rush e Lynn Redgrave in Shine

Il film ha un andamento un po’ convulso nella prima parte, ma diviene sempre più lineare e ordinato verso la metà della pellicola, dove arriva a definirsi chiaramente come un “film a due”, con tutto il mondo al di fuori della coppia che rimane volutamente distante e indefinito. 

Sicuramente da vedere, però subito dopo consiglio la visione di West Side Story e, per i fan più accaniti, su Youtube si trovavano le lezioni di Leonard Bernstein (utili anche per apprezzare lo straordinario lavoro di Cooper nell’immedesimazione anche puramente “fisica”)… oltre che la registrazione di una riedizione con Josè Carreras e Kiri Te Kanawa del mio amato West Side Story.


BeeGis e Talk0

mercoledì 20 dicembre 2023

Adagio: il nuovo film scritto e diretto da Stefano Sollima, terzo atto della sua trilogia sulla “Roma Criminale”

 


C’è una Roma postapocalittica, circondata da un incendio che avanza, con i lapilli e la cenere che cadono dal cielo come una sinistra e sporca neve. La corrente elettrica non è più stabile e la sera la capitale più volte finisce nel buio, del Medioevo e della paura, all’improvviso. La temperatura è sui quaranta gradi ed è difficile anche solo respirare, provare a correre significa accasciarsi dopo pochi metri. Con queste premesse, non è forse un caso che ovunque infurino caos e violenza.

Manuel (Gianmarco Franchini) è poco più di un ragazzino, ama la musica trap e un po’ di trasgressione, ma accudisce amorevolmente un padre invalido e malato (Tony Servillo). Purtroppo è finito in un losco affare per colpa di alcuni poliziotti senza scrupoli, capitananti dal disperato e sempre più instabile Vasco (Adriano Giannini), dovendo per questo ricorrere all’aiuto dello “zio” Polniuman (Valerio Mastrandrea) e alla sua piccola rete criminale. È così che Manuel finisce sotto la custodia svogliata del Cammello (Pierfrancesco Favino), un uomo pericoloso e giudicato mentalmente instabile, uscito dal carcere solo perché sta morendo di cancro. È l’ultimo posto in cui la polizia può trovare il ragazzo, anche perché il Cammello ha un grosso debito nel confronti del padre di Manuel, al punto da volersi magari vendicare di lui. Ma forse nonostante tutto e tutti tra il Cammello e il ragazzo può nascere un sentimento diverso. Per il giovane può essere l’occasione per scegliere di riprendersi la propria vita dopo una serie di piccoli errori che l'hanno compromessa. Per l’uomo, ormai ridotto a una maschera di muscoli e dolore, è forse l’ultima occasione per sentirsi di nuovo un padre e un uomo per bene, prima di morire.  

La città si trasformerà presto in un far west suburbano che non farà sconti di sangue e pallottole. Un luogo pieno di nascondigli e trappole dove contenere fucili e luoghi per le torture, ma anche un carnaio così confuso e ingestibile di uomini disperati in fuga, al cui centro chiunque può trovare un modo per confondersi, nascondersi e forse fuggire via, oltre il fuoco, oltre la stazione dei treni. 


Dopo i celerini corrotti e kamikaze di ACAB e dopo le famiglie criminali moderne con rigurgiti del grande impero di Suburra, Sollima chiude con questo thriller/pulp/disaster movie la sua trilogia sulla “Roma criminale”.  È un film notturno e ruvido, con colori e atmosfere alla 1997: fuga da New York, ma è anche un film dal sapore tragico sul difficile rapporto tra padri e figli. È un film che rievoca il “fascino della criminalità”, ma che al contempo non si perde in troppi elogi della stessa, con risvolti caustici, carichi di disillusione e tristezza, vicine alle migliori pagine di Scerbanenco. 

Adagio prende il nome dal titolo del trascinante pezzo dei Subsonica che si può ascoltare a fine pellicola e che in fondo racchiude in sé tutto quanto la pellicola ha da dire. È una storia crepuscolare, fatta di uomini falliti giunti all’ultimo round della loro esistenza, per preservare come possono le loro future generazioni in una lotta fratricida. Uno stato d’animo preciso di uomini silenziosi e in corsa, o intenti a bofonchiare mezze parole con rabbia, a cui contribuisce emotivamente tutto lo score sonoro curato sempre dai Subsonica, quanto brani particolarmente calzanti presi tra i fiori all’occhiello di Califano e Patty Pravo.

Roma brucia, come ai tempi di Nerone, mentre ha luogo una lotta a guardie e ladri dove onore e vergogna continuamente si mischiano e confondono. Al centro c’è il ragazzo confuso ma combattivo, perennemente in bilico tra fanciullezza e un’inevitabile e forse predefinita adolescenza criminale, interpretato dal bravo Franchini. È un ragazzo che combatte per lo più disarmato, ma a proteggere le sue spalle arrivano tre autentici mostri, ma dall’animo molto umano, che sembrano usciti direttamente da un film di Takashi Miike o da un fumetto di Frank Miller. Il Daytona di Servillo sembra pazzo, ubriaco e malfermo. Guarda in aria mentre continua a ripetere ossessivamente le tabelline per calmarsi, appare assente, vive in ciabatte e pigiama, spettinato e storto. Ma quando occorre sa muoversi come un fantasma e colpire di sorpresa con i suoi coltelli, rapido e letale, “irriconoscibile” come il Kaiser Soze dei Soliti Sospetti. Il Polniuman di Mastrandrea appare se possibile ancora più inerme: cieco e quasi impossibilitato a lasciare il suo appartamento, sporco e solitario. Ma nel buio può essere letale e colpire con precisione anche con una pistola. Il Cammello di un Favino non dissimula invece per nulla la sua pericolosità: completamente glabro e muscoloso, dallo sguardo torvo e quasi alieno, mette a disagio anche solo a guardarlo. Possiede  una forza erculea e una sopravvivenza simile al Marv di Sin City, ma forse la sua debolezza risiede proprio nella necessità di ritrovare almeno mentalmente una propria “forma umana”. 


Se questi sono “i buoni”, Il Vasco di Giannini, che sembra per follia e attacchi isterici il Gary Oldman di Leon, avrà il suo bel daffare per tenere testa a tutti e tre, invischiandosi sempre più in un caccia da incubo in cui sono però in gioco anche i soldi per il suo affidamento dei figli. Anche Vasco quindi infine combatte per qualcosa di buono, nonostante tutto.

Non ci sono eroi, non ci sono davvero “cattivi”, tutta Roma brucia mentre stormi di uccelli migrano altrove, i treni per scappare sono fuori uso e le persone si accalcano e accasciano per strada dal caldo. Per rendere questo incubo credibile non si è lesinato negli effetti speciali e nella costruzione di riuscite scene di massa: l’inferno di Sollima è davvero vivido, affascinante quanto realisticamente terribile. 

In questo viaggio di sola andata verso l’auto distruzione collettiva non mancano però momenti di puro lirismo, scene di riscatto esistenziale, donne che cercano di cambiare in meglio i loro uomini, malinconici addii e incontri casuali dal sapore amaro quanto ironico. Sollima sceglie di avvolgere il tutto in una cornice “patinata”, quasi da cinefumetto, non lesinando sull’azione più sanguigna e brutale, indugiando nello splatter, senza risparmiare sul conto dei morti e scene tragiche fino all’amarissimo finale, quasi un omaggio allo Strange Days delle Bigelow. Tutto funziona come i poliziotteschi anni ‘70 a cui questa idea di cinema espressamente e affettuosamente si ispira, compreso il fatto che sotto “la superficie” di queste produzioni “a tinte forti” si possono spesso riscontrare alcuni temi proprio della tragedia (quella di Seneca soprattutto), insieme a momenti di grande poesia. 

E sotto quel cielo di lapilli e cenere che evocano quasi Pompei c’è tutta la potenza che il nostro cinema di genere sa ancora oggi offrire.  

Se cercate un buon film pulp/action/catastrofico da vedere a Natale, dribblando commedie e cartoni animati, siete nel posto giusto. Ancora una volta Sollima non delude le aspettative e si conferma un ottimo cantore del crime movie nostrano.

 Talk0

lunedì 18 dicembre 2023

Santocielo: la nostra recensione del film di Natale di Francesco Amato con protagonisti Ficarra e Picone

Oltre le nuvole c’è un paradiso che pare il monte Olimpo, “stile neoclassico”. È lì che risiede il Padre Eterno (Giovanni Storti) insieme alle schiere angeliche: lavorano h24, ricevono le preghiere che arrivano in lettere volanti dalla Terra, cantano divinamente, forse esaudiscono miracoli.

Ma oggi no, oggi in paradiso sono in crisi.

Ormai la misura è colma e dopo tante brutture come guerre, devastazioni e danni al clima, l’uomo non può continuare a essere graziato per sempre, giusto perché ha fatto sporadiche cose bellissime come la Cappella Sistina. Anche se a dirla tutta pure i santi rappresentati nella Cappella Sistina neanche assomigliano a quelli veri… E quindi al motto “Una volta qui era tutto dinosauri ed era meglio”, tutto è da rifare! 

“Vai con il diluvio!”, decide il Padre Eterno in persona, ma “qualcosa” si intoppa.

La costituzione del paradiso ha negli anni riconosciuto una clausola/postilla/cavillo che recita: “In caso di decisioni gravi o divisive, deve pronunciarsi su queste tutta l’assemblea degli angeli”. Ed effettivamente lo stermino della razza umana può essere qualcosa di divisivo, anche se solleverebbe parte degli impiegati angelici dal dover continuare a lavorare all’archivio che raccogli ogni giorno nuove preghiere, un incarico un po’ noioso…

Si fa largo tra i santi l’ipotesi alternativa di inviare un nuovo salvatore: per cambiare il cuore degli uomini, migliorarli e prolungare in corner la vita della razza umana. Parte una votazione, come in Parlamento, con i pulsanti e le lucine che si accendono sul tabellone. Si decide infine per pochi voti proprio per l’invio di un nuovo messia, sollevando qualche critica legittima.

Ma chi ci va? 

Di sicuro Gabriele no, che l’ultima volta è stato pure menato e poi la gente del 2023 è quasi peggio di chi si aggirava nell’anno zero. Tutti si defilano ma uno vuole andarci comunque, a tutti i costi. È un tizio proprio dell’ingrato reparto di smistamento preghiere, uno che aspetta da anni e anni di essere promosso al settimo cielo, quello dove si canta nel coro e dove lui è sicuro di fare grandi cose grazie a una voce bellissima. L’angelo con aspirazioni da cantante gospel si chiama Aristide (Picone), è biondo, ovviamente buono e dall’aria ovviamente angelica, forse un po’ sprovveduto ma determinato, così viene istruito subito per la missione. Dovrà solo scendere sulla Terra, entrare in un bar, “ipnotizzare” una candidata con quella particolare preghiere che prende il nome di “annunciazione”, provvedere “all’installazione del salvatore” attraverso il tocco della mano sulla sua pancia, ritornare  e avere il suo avanzamento di carriera al settimo cielo. 

Poiché non tutte le mani angeliche hanno di default la funzione ingravidante, la mano di Aristide viene messa a contatto con uno specifico liquido magico fumoso, per poi essere ricoperta per sicurezza da un guanto protettivo: l’energia che basta per un colpo, un colpo solo. Per farlo agire in incognito e risparmiarsi così le botte di Gabriele, viene confezionato per lui un “completo da terrestre” color azzurrino e si predispone una discesa rapida sulla terra, in una poco felice discarica in zona Napoli. Aristide è carico, determinato e pure armato di tutti i suoi specialissimi superpoteri angelici: come la facoltà di attraversare muri e ostacoli e la telecinesi per prendere gli oggetti a distanza. 

Cosa potrebbe andare storto?


Al bar designato come luogo dell’incontro ci arriva in un secondo, la giovane barista che si trova davanti è proprio la candidata prescelta. 

Aristide la segue e prova a ipnotizzarla, ma non ha fatto bene i conti con la sua memoria perché l’annunciazione non se la ricorda per niente. La predestinata sotto shock scappa via con il fidanzato, anche perché l’angelo in modo poco accorto e un po’ inquietante l’ha seguita nel bagno femminile cercando di toccarla, facendo la figura del maniaco. Con la nuova madonnina in fuga, deve trovare velocemente un modo per ritrovarla. Ma prima occorre una pausa per riprendersi e riorganizzarsi al meglio, che gli viene prontamente offerta con un giro di birra dal riccioluto Nicola (Ficarra). Nicola dopo cinque anni di fidanzamento e sette di matrimonio, si sta separando dalla moglie psicologia Giovanna (Maria Ventura) e si trova proprio in quel bar per riprendersi e organizzarsi meglio. A dire il vero è brillo già da un pezzo e ragiona sconclusionato sul fatto che le donne sono proprio strane, “troppo femminili” per essere capite da essere comprese dagli uomini. 

Appena vede l’angelo gli offre una birra. 

Un paio di ore e di birre dopo, seguite da una imbarazzante sessione al karaoke a tema canti della parrocchia, Nicola e Aristide vengono buttati fuori dal locale. Sono in mezzo alla strada, poco lucidi entrambi, cantano e fanno casino in piena notte. Poi Nicola sta per finire sotto un’auto e Aristide deve intervenire. Per salvarlo l’angelo lo tocca con la mano, che improvvisamente e improvvidamente si trova scoperta dal guanto protettivo. 

Nicola è salvo ma ingravidato. 

Nel caos e nell’impatto Aristide perde i poteri e finisce anzi proprio lui investito,  senza memoria,  in ospedale in coma, per tre mesi. Il Padre Eterno non la prende benissimo. Nicola smaltisce la sbornia e dimentica quasi tutto. 

Tre mesi dopo, al risveglio, l’angelo caduto si ricorda di aver salvato la vita a Nicola e poco altro. Nessuno all’ospedale sa davvero chi sia questo strano paziente e così la polizia va a cercare il tizio del suo ultimo ricordo: il riccioluto “compagno di una bevuta”, nella scuola cattolica in cui lui insegna. Nicola è molto severo e poco amato dagli alunni. Insegue piccoli cospiratori che si burlano di lui con graffiti infamanti e non ha nessuna voglia di seguire la preparazione dello spettacolo natalizio  del coro degli alunni, che viene delegato alla appena arrivata Suor Lucia (Giannetta). Zero spirito di Natale, zero empatia, zero voglia di cambiare. 

Poi però, con l’arrivo di Aristide, le cose inizieranno a cambiare. Tra varie vicissitudini l’angelo ritroverà la memoria, riuscirà a farsi assumere nella scuola come elettricista e ad aiutare suor Lucia nella messa in scena del Marcellino pane e vino. Si installa questa volta lui stesso nella casa di Nicola, con l’insegnante che alla fine non riesce più neanche a mandarlo via.

Anche  perché sono passati tre mesi e un paio di settimane e Nicola con il tempo appare sempre più gentile e accogliente, nella stessa misura in cui la sua pancia appare sempre più tonda. Magia della gravidanza, che presto viene confermata da esami clinici. All’inizio un razionale e incredulo Nicola aveva preso un po’ scetticamente tutta la storia di poter essere incinto, pur convinto dal collega insegnante di scienze della “molto remota possibilità” sulla base di precedenti della natura illustri, come la cernia/cernio e il pesce pagliaccio. Ma presto da irritato e scontroso Nicola passa a tranquillo e felice e arriva a commuoversi, con lacrime senza fine, durante il Marcellino pane e vino


Quando però un medico un po’ impiccione rende nota in televisione l’ecografia dell’uomo incinto, come fenomeno unico nel suo genere da studiare, sulla vita di Nicola si scatena il panico. Telecamere, giornalisti, folle adoranti, haters, ristoratori e giostrai sono sotti sotto casa sua h24. I vicini impiccioni hanno sempre l’orecchio teso al muro e si fanno strane idee sulla presenza di Aristide in casa dell’insegnante, spopolano le magliette celebrative, non si riesce più a uscire di casa senza che qualcuno cerchi di toccare Nicola. Pure continuare a insegnare in una scuola religiosa appare…complicato…

Finché suor Lucia riesce a far scappare tutti di nascosto nel paesino tranquillo dove lei ha i genitori. Un paesino sui monti, accogliente, disposto con tutta la sua cittadinanza a rimettersi a nuovo per avere un nuovo nato, dopo tanto tempo, in quella zona. Si può per il nascituro ristrutturare la vecchia clinica. Si può chiedere al veterinario di occuparsi del parto. C’è un così grande andirivieni di persone pronte ad aiutare che il paesino sembra diventare un piccolo presepe vivente, pieno di lucine e di gioia. Insieme all’angelo e alla suora, ad accompagnare Nicola nella scoperta della maternità c’è anche Giovanna, di nuovo in crisi ma questa volta per colpa del suo nuovo amore franato, forse con la voglia di ricucire i rapporti con l’ex marito. Del resto ora finalmente Giovanna e Nicola hanno qualcosa in comune: sono entrambi incinti. L’atmosfera è felice ma il fatto di partorire in questo luogo quasi magico sulle montagne, lontano dalla città e dalla sua scuola dove insegna, non sembra per l’insegnante di matematica una cosa giusta. Anche se non è un pesce pagliaccio non ci dovrebbe essere nulla da nascondere in fondo.

Riuscirà Nicola a portare alla luce il nuovo Salvatore?


Il regista e sceneggiatore Francesco Amato lo abbaiamo già “incontrato” qui sulle pagine del blog nel 2020,  grazie a un piccolo ma interessantissimo film drammatico con risvolti fantasy dal titolo 18 regali. È un autore che spesso ha dimostrato, come Alessandro D’Alatri, una particolare sensibilità nel trattare le relazioni umane e il loro sottile legame con il trascendente, scegliendo chiavi di lettura non banali, un approfondimento psicologico non scontato, una narrazione molto ritmata e una particolare vena malinconica di fondo. È questo il primo incontro di Amato con Ficarra e Picone, reduci dalla loro prova di maggiore successo con La stranezza di Roberto Andò. Il duo comico ha lì dimostrato di essere particolarmente bravo anche in campo drammatico e l’idea di vederli ora in un film di Amato fin dalle prime battute appariva qualcosa di interessante, anche nel segno di una rilettura sagace del tema natalizio legato alla maternità .

Santocielo viene definita una “favola civile” e vorrebbe giocare con gusto e ironia su temi dell’attualità caldi quanto ancora difficili e divisivi, ponendo i riflettori in senso positivo sulle difficoltà e bellezza della costruzione e mantenimento di una famiglia, sulla mancanza di “socialità reale” di persone troppo legate al mondo dei social, sulla necessità di credere nel trascendente senza aspettarsi sempre qualcosa in cambio come fosse un bancomat. Amato vuole ancora parlarci di legami e “quello che ci sta intorno”, vuole farci sorridere e riflettere sui tabù attraverso i topoi natalizi e trova nella sua personale “cosmogonia” un Giovanni Storti nuovo Padre Eterno/“Zeus” 2.0 unico, sagace quanto strepitoso nel suo battibeccare con gli altri santi dello “stato dell’umanità”.

Amato riflette in modo non scontato anche sul ruolo di distacco/sostegno verso il partner, esercitato dal personaggio della moglie psicologa interpretato dalla brava Barbara Ronchi, che in un processo di auto-analisi inizia a mettere in crisi le più forti spigolature del femminismo “più spinto” e “giudicante” proprio di questo periodo storico. I temi e le intuizioni ci sono, come la visione più “democratica e pragmatica” della religione (qualcuno direbbe “europeista”), ma la pellicola nella sua cornice super natalizia, colorata e piena di canzoncine, dove spesso si fanno largo dialoghi prettamente zuccherini, ogni tanto annaspa nella melassa. I più piccoli magari apprezzeranno, il pubblico adulto con problemi diabetici è però avvertito. 

Le parole d’ordine sembrano diventare subito “leggerezza e innocenza a tutti i costi” e forse anche per questo appare un po’ forte l’accusa di blasfemia invocata dal parroco di Agrigento alla pellicola, ma il fatto stesso che sia tutto troppo, troppo, troppo leggero e innocente sembra essere il vero peccato originale di Santocielo, anche perché da questa leggerezza e innocenza  i due attori protagonisti sembrano essere quasi del tutto immuni. 

Ficarra e Picone dopo la prova drammatica tornano ad indossare le loro maschere consuete e come sempre scricchiolano nell’intesa a due, mancano di amalgama, viaggiano su binari narrativi ed emotivi sempre più lontani, senza che quel senso di millantata “amicizia”, più e più volte ribadita esteriormente in tutti i loro film, vada mai a palesarsi in qualcosa di autentico sulla scena. Manca complicità, manca spontaneità. I due sulla scena funzionano decisamente meglio da separati. La scommessa di far rivestire il ruolo “dell’incinto” a Salvatore Ficarra, nel duo il più “fumantino” e più portato alle gag facciali, è interessante ma si perde tra cliché scontati e luoghi comuni sulle “mamme pancine”, con l’attore che nella sua trasformazione al femminile si spiaggia su una condizione di “estasi” che assomiglia troppo esteriormente a un prolungato viaggio psichedelico senza ritorno. Ficarra “viaggia” e Valentino Picone con la consueta maschera del “fesso assorto” è però adattissimo a impersonare un epigono del Clarence di La vita è meravigliosa. Il suo angelo biondo e con gli occhi sognanti, puro quanto sbadato, è tenero ed espressivo quanto amabile, anche grazie al supporto  dal personaggio della “suora gospel” interpretato dalla brava Maria Chiara Giannetta. Se la pellicola fatica ogni tanto a decollare e qualche volte si attorciglia su se stessa, al minutaggio appare realmente eterna nelle sue oltre due ore, magari più adatte a uno spettacolo televisivo in due parti. 

Certo il film non scontenterà il pubblico di Ficarra e Picone quanto quel pubblico giovane che ha gradito la loro performance ne Il primo natale, ma il lavoro di Amato forse non riesce qui a esprimersi al meglio nella forma e sostanza di un pur garbatissimo cinepanettone.

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mercoledì 13 dicembre 2023

Improvvisamente a Natale mi sposo: la nostra recensione della commedia di Francesco Pantiero con Diego Abatantuono, Nino Frassica, il Mago Forrest, Elio e Carol Alt , seguito di Natale all’improvviso

Siamo di nuovo nella zona del Cadore e nel più bell’albergo di tutte le Dolomiti, quello gestito da Lorenzo (Diego Abatantuono). Questa volta il Natale si celebra davvero a dicembre e non a ferragosto (come avvenuto in Natale all’improvviso) e secondo tradizione: cenone, albero, presepe, coro, parenti, Babbo Natale, guerre a palle di neve. Tutto il “pacchetto completo” più una sorpresa speciale, voluta fortemente da Lorenzo, sembra essere pronto nei tempi giusti.

Forse. 

“Forse” perché il nuovo sindaco (Elio) ha deciso di rinnovare, svecchiare, fare tutto più moderno: un Natale 2.0. Basta vecchi alberi di Natale in piazza, benvenuto cilindro in bio plastica compostabile natalizio. Basta vecchi cori della parrocchia con le solite canzoncine delle feste, benvenuto nuovo coro del comune che può cantare pure le canzoni degli amatissimi Ricchi e Poveri e con guest star amate dal pubblico giovane. Basta il presepe, che sarà sostituito da un avveniristico spettacolo di immagini oleografiche da proiettare sui palazzi che costa un occhio ma sarà una figata. Basta luminarie che consumano troppo e le bollette poi si sentono. Basta giochi a palle di neve che intralciano il traffico e con gli schiamazzi intralciano la quiete. Basta alla tombola, che è in fondo la porta d’ingresso alla ludopatia. 

Tanti cambiamenti insomma, ma Don Michele (Frassica) non ci vuole stare. Anche perché ha già avviato il casting del presepe vivente e ha trovato un bambino ricciolino che è perfetto per il ruolo, alto il giusto per lo meno. Don Michele cerca alleati ma il suo amico di sempre Lorenzo sta pensando ad altro. 

È da alcune settimane che frequenta Serena (Carol Alt), conosciuta mentre era in cerca di una buona birra artigianale al negozio di alimentari biologici/agriturismo/fattoria del solito, unico, simpatico e un po’ scroccone agricoltore di zona (Paolo Hendel). Serena è bellissima e solare, americana, amante del pilates, della cucina sana, delle discipline orientali, del Feng Shui e dell’armonocromia. Serena sta piano piano cambiando la vita dell’albergatore e in meglio, perché Lorenzo dopo tanti anni la vede e non pensa più alla moglie scomparsa: Lorenzo sente di nuovo le farfalle in pancia. Per amore è diventato forse un problema pure far coesistere sull’albero di Natale dell’albergo le palle colorate rosse e verdi, così come tocca spostare i letti nelle camere per avere l’energia positiva del sole, servono più piatti a base di verdura, tappetini per lo yoga… ma alla fine sono solo “dettagli”: Lorenzo non si sveglia più a mezzogiorno, è meno malinconico, “sta bene” e sorride molto, tanto ma tanto più del solito. 

Anzi, quest’anno la sorpresa misteriosa la spoilera subito ai parenti: non sarà il Natale in agosto, ma il suo matrimonio a Natale. 

Del resto c’è sempre una prima volta se ne vale la pena. 

Tutti questi cambiamenti, armocromie, Feng Shui e farfalle in pancia un po’ spaventano la figlia Alberta (Violante Placido), che come ogni anno ha lasciato la città per arrivare all’albergo di Lorenzo per le vacanze di Natale. Timorosa del fatto che questa Serena oltre che una rivoluzionaria sia “troppo bella per essere vera”, l’avvocatessa agisce. Sguinzaglia gli investigatori dei quali si serve abitualmente per ricerche informatiche, catastali e al casellario penale mentre, da buona figlia preoccupata, inizia a occuparsi personalmente di pedinamenti e ricerche in loco. Il marito di Alberta, Giacomo (Primo Reggiani, che qui sostituisce nel ruolo Lodovico Guenzi), cerca di contenere la moglie in questa specie di caccia alle streghe, ma nel contempo ha il suo da fare per trovare un po’ di tempo da passare con la figlia Chiara (Sara Ciocca), che quando sono in vacanza dal nonno è tutta presa dai suoi amici e ora pure mezza innamorata di un cantante che spopola sui social. 

Giacomo sogna magari una camminata con le ciaspole, ma Chiara quest’anno ha soprattutto, come primo obiettivo, mettersi “in prima linea” con Don Alberto, per salvare il Natale tradizionale dalle follie moderniste del sindaco. L’unico felice e spensierato sembra Lorenzo, ma l’idea di mettere al primo posto un nuovo amore, decidendo di non occuparsi più h24 dell’albergo, lo rende un po’ pensoso. Anche perché il suo concierge/capo cuoco/giardiniere/commercialista/compagno di bevute/tuttofare Otto (il mago Forrest) è uno di cui ci si può fidare, ma fino a un certo punto. 

Riuscirà Lorenzo a sposarsi sereno con Serena senza venire truffato come Alberta prevede? Vinceranno Don Michele e Chiara la partita delle feste contro il sindaco? Giacomo avrà la giornata delle ciaspole con la figlia? 


Torna in sala e poi su piattaforma Amazon l’allegra brigata di Natale all’improvviso, in quella che sta diventando quasi una tradizione annuale. 

La formula, tanto per cambiare, è sempre la stessa (questa è una citazione colta..). Un Abatantuono, divertito e compiaciuto, un po’ Orson Welles, gigione ma anche molte sensibile, che viene sempre più calato nella personificazione vivente di Babbo Natale. Un Mago Forrest lunare e folle alla Peter Sellers, mattatore assoluto in tutte le gag fisiche e battute fulminati. Un Frassica perfettamente liturgico, quanto amabilmente fraterno nei confronti del personaggio di Abatantuono. Un cast di giovani capitanati dalla Ciocca che rimette centrale nella trama i più piccoli in un ruolo ancora una volta quasi “politico” (nel primo film dovevano salvare l’albergo da loschi imprenditori esteri, qui sono per la preservazione delle tradizioni natalizie), volto alla preservazione di un territorio che gli adulti stanno “svendendo”. Una giovane coppia moderna, quella della Placido e Reggiani, che cerca di fare la quadra tra lavoro e figli: tra le ossessioni professionali e il tempo da dedicare a una famiglia e una figlia, qui ancora più indipendente e “adulta”. La formula riesce e chi aveva già amato il primo capitolo si sentirà a casa, ma la presenza di Elio e della Alt offrono anche qualcosa di nuovo e interessante. 

Il cantante è un vero mattatore e si ritaglia il ruolo di un sindaco tanto buffo quanto “luciferino”. 

Il personaggio della Alt, super sorridente, con le sue manie new age e un accento americano che storpia le lettere come Tini Cansino negli anni ‘80 a Drive In, è così solare e innocente da non risultare mai antipatico nonostante tutto il gioioso trambusto che continuamente scatena. La sua Serena ha poi un'ottima chimica con il personaggio di Abatantuono, nella trama ancora più “conteso” tra la Placido e la Coccia in un triangolo generazionale inedito. 


Il film di Pantiero funziona e diverte nel suo presentarsi come il più classico e canonico cinepanettone 2.0. Tra buoni sentimenti, aria natalizia sparata a mille e scene divertenti pensate per far ridere anche (e soprattutto) i più piccoli, è il perfetto intrattenimento per i pomeriggi delle feste con i parenti: una “farsetta” da gustare a casa mentre si gioca a tombola o quando si arriva al cinema e ci si spiaggia sulle poltrone, con il bicarbonato e ancora i postumi del cenone. Astenersi se diabetici o se il cenone non si riesce a buttarlo giù neanche con il bicarbonato. Astenersi se si cerca qualcosa di diverso dalla più classica commediola italiana di Natale che esce classicamente a Natale. 

Improvvisamente a Natale mi sposo non inventa o innova niente. Certo, è un modo di fare cinepanettoni “2.0”: con più giovani sulla scena, più temi familiari e sociali a veicolare la trama, zero volgarità e una strizzata d’occhio alla commedia americana per tutte le famiglie. Ma rimane ancora un progetto fieramente  nostalgico, ancorato a meccanismi comici vintage e a una tradizione che per molti è già molto oltre il vintage. Tuttavia se siete sulla quarantina/cinquantina e se cercate quei sapori e colori che sapete possono farvi tornare negli anni ‘80, come quella “fragranza” di erba sintetica e lampadine un po’ fulminate che ogni anno riscoprite aprendo la scatola di cartone dove è riposto l’albero di Natale, il nuovo film di Abatantuono reca con sé quei profumi. Con onestà e anche un po’ di trasposto, al netto che vi piaceva davvero quella commedia anni ‘80. 

Chi cerca esattamene quello, qui lo troverà e potrà anzi vederlo per una volta con i nipotini piccoli. Anche per via dei tempi che cambiano, la spregiudicatezza di certi classici di “Boldi/De Sica” effettivamente qui non c’è più, anche se a molti un po’ di quei doppi sensi, donne sotto la doccia e battute cinico/cattive mancheranno nell’impasto generale. 

Siamo davanti a un cinepanettone 2.0 “senza uvetta” quindi, magari un po’ vegano, ma che nel postprandiale delle maratone culinarie con i parenti può sempre dare, a chi lo ricerca fortemente e con nostalgica costanza, il familiare sapore delle tradizioni cinematografiche festaiole classiche. 

Il cinepanettone è sempre il panettone del resto. C’è chi preferisce il pandoro poi, ma è un’altra storia…

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venerdì 8 dicembre 2023

Hunger Games - la ballata dell’usignolo e del serpente: la nostra recensione del nuovo film, diretto da Francis Lawrence, tratto dalla serie di romanzi di Suzanne Collins.

Molti anni prima della ribellione di Katniss, a Panem infuriò una terribile guerra. Il conflitto durò a lungo e fu terribile, trascinando il regno intero nel sangue e nella devastazione e spezzando ogni tipo di legame tra i distretti. Poi, con la pace, arrivarono gli Hunger Games: un evento pubblico di sottomissione allo stato vincitore, che si teneva ogni anno nella sua città più importante, Capital City. 

Fu così che nella capitale ogni anno cominciarono ad arrivare i “tributi”. Giovani ragazzi e ragazze, selezionati tra i 12 distretti secondo una lotteria dalle regole a volte oscure, scelti per affrontarsi in una battaglia mortale, uno contro l’altro, con l’ultimo sopravvissuto che poteva avere salva la vita e diventare ricco e famoso. Il copione era sempre lo stesso. Scaricati dai treni direttamente in un furgone dei rifiuti, i tributi venivano gettati in una grande gabbia dello zoo cittadino, dove tutti potevano essere osservati mentre, a fianco di leoni, scimmie ed elefanti, si rubavano il cibo, piangevano e cercavano di coprirsi dal freddo come potevano. 

Oggi tributo veniva poi, per un breve periodo, accompagnato in un corso accelerato di lotta e tattica da giovani strateghi della capitale. Ragazzi spesso della stessa età dei tributi, ma scelti tra gli studenti più preparati, tra i più “nobili” e i più talentuosi. Quella che sarebbe stata la futura classe dirigente, imparava così da subito come occuparsi di uno schiavo. 

Seguiva la lotta, ben ripresa dalle televisioni e sempre con il record di ascolti, all’interno dello show condotto dal popolare presentatore “Lucky” Flickerman (Jason Schwarzman, che impersona la versione più giovane del personaggio nella serie impersonato da Stanley Tucci). Dallo studio con i suoi ospiti ci si spostava presto nelle aree, spesso situante in zone dismesse un tempo parte delle macerie della vecchia città. Qui l’unica regola era sopravvivere fino alla fine, togliendo in fretta e senza troppi pensieri la vita degli altri ragazzini, a pugni o facendo uso delle armi proprie e improprie disposte sul campo di battaglia.


Alla decima edizione degli Hunger Games, mentre l’evento era sotto la direzione della spietata dottoressa Volumnia Gaul del dipartimento di guerra (Viola Davis) e del decano Casca Highbottom (Peter Dinklage), arrivò però un nuovo stratega: Coriolanus Snow (Tom Blyth, che riprende un personaggio nella saga interpretato da adulto da Donald Sutherland). 

La famiglia di Snow era decaduta e aveva perso tutto durante la guerra, mentre lui e sua cugina Tigris (Hunter Schafer) si erano trovati ancora bambini soli e indifesi, per strada, sotto le bombe. Per Coriolanus i giochi così come concepiti, anche attraverso le idee di suo padre, non erano il “miglior spettacolo” possibile. Non si poteva portare sul palco dei ragazzini malnutriti tenuti in uno zoo, per poi vederli stremati ammazzarsi con dei sassi. Erano sì i “giochi della fame”, ma a combatterli dovevano essere dei gladiatori e doveva essere un grande spettacolo, pieno di colpi di scena e azioni eroiche.

Bisognava prima di ogni cosa mettere in forze i tributi, facendo in modo che anche la loro presentazione pubblica in tv, prima dello scontro, fosse un vero e proprio show.  Da casa avrebbero potuto immedesimarsi in loro e magari per la prima volta “amarli”, al punto di devolvere per loro dei soldi che si sarebbero trasformati in “aiuti”: cibo, armature e armi da consegnare direttamente nell’arena grazie a dei droni. Per Snow per il bene dello show era lecito anche “barare” per favorire il proprio tributo, magari facendogli conoscere la planimetria di una Arena o offrendogli armi di nascosto: del resto le telecamere non riuscivano a inquadrare tutto. C’era nel ragazzo di sicuro il giusto cinismo per essere il migliore degli strateghi, ma forse nel suo animo stava nascendo qualcosa di diverso: era in fondo come loro un sopravvissuto. 

Il tributo che aveva il compito di seguire Snow era una bellissima ragazza del distretto 12, Lucy Gray Baird (Rachel Zegler). Una cantante folk dall’aria malinconica, ma anche una incantatrice di serpenti in grado di usarli come arma quando occorreva. Lucy fin dalla cerimonia di sorteggio si fece notare per la sua voce quanto per le sue terribili e nascoste abilità combattive e Snow fin dall’inizio provò qualcosa di molto forte nel suoi confronti, qualcosa di “simile a lui”. Da quell’incontro e dai fatti che ne seguirono si avviò il lungo e travagliato processo che portò il ragazzo a diventare il presidente di Panem. Dopo i giochi Snow avrebbe iniziato a viaggiare come soldato in più distretti del regno, conoscendo luoghi, persone ed emozioni nuove, forti e contraddittorie, che avrebbero cambiato per sempre il suo animo.


Dopo la fortunata saga di Hunger Games, che al cinema ha visto come interprete principale una straordinaria Jennifer Lawrence, in breve consacrata a star, l’autrice dei romanzi originali Suzanne Collins scriveva questo prequel, La ballata dell’usignolo e del serpente, che faceva luce su tanti piccoli e grandi fatti ed eventi rimasti nei libri solo accennati. Parliamo della storia relativa alla grande guerra, i primi “esperimenti” per gli Hunger Games, ma scopriamo qualcosa di più anche sulla flora e fauna di Panem, sulle ghiandaie imitatrici, sul “distretto scomparso” e ovviamente sul principale “villain” della saga, ovviamente il presidente Snow.

Quello che ritroviamo ora sullo schermo in una sceneggiatura curata dalla Collins insieme a Michael Lesslie (Macbeth, Assassin’s Creed) e Michael Arndt (il primo Hunger Games ma anche Miss Sunshine), è uno Snow dal carattere particolarmente complesso, quasi un “giovane Darth Vader”, ma si potrebbe scomodare idealmente anche l’Innominato di Manzoni. Un ragazzo dall’aspetto regale e dai modi gentili, più volte spinto dagli eventi a impersonare tanto il ruolo di vittima che di carnefice. A tratti rivoluzionario a tratti fiero conservatore dello status quo, amante oppure spietato misantropo. Da sempre costretto a sopravvivere contro tutti e contro tutto, avventuroso, capace di incredibili slanci di amore quanto di terribili vendette e complotti. 

Lo conosciamo da bambino mentre si nasconde tra le macerie di una città grigia e distrutta. Lo ritroviamo in cerca della grande occasione per salvarne il casato grazie a una borsa di studio che gli permette meritocraticamente di confondersi ai nobili. Lo vediamo indossare controvoglia la divisa “quasi da SS” da stratega, prima sotto la guida didattica del cinico e malinconico Highbottom (interpretato da uno straordinario Peter Dinklage), poi alla corte della folle dottoressa Gaul, che tratta uomini e animali quasi allo stesso modo: inserendoli in gabbie per fare di loro ogni tipo di esperimento e ricerca. 


Viene educato a essere cinico ma nel frattempo Snow conosce Lucy Gray e tutto il suo mondo cambia, si “espande”. Il personaggio della Zegler, diametralmente opposto a quello di Katniss, è fragile e ambiguo, sfuggente e a volte introverso.  La relazione che viene a instaurarsi tra lei e Snow vede all’inizio quasi imporsi quest’ultimo come figura “forte”, ma è un abbaglio e questo porta a un rapporto complicato e sempre più tossico. Il ragazzo è innamorato, ma più volte trova difficile proteggerla, facendosi spesso assalire da rabbia e malinconia. Lucy Gray è innamorata, ma più volte esprime il suo bisogno di indipendenza e libertà. È anche per questo rapporto tumultuoso, perennemente in bilico tra felicità e oppressione, che Snow viene a contatto con un mondo e modi di vivere per lui troppo pieni di contraddizioni e incertezze, conflitti ed emozioni forti spesso faticosi da gestire e inquadrare. È in fondo con l’idea di proteggersi e proteggere a tutti i costi le persone che lui ama, che in alcuni casi letteralmente muoiono sotto i suoi occhi senza che lui possa fare nulla, che il ragazzo inizia a indossare un'armatura emotiva e a progettare, per chi ama, gabbie sempre più articolate e stringenti.

Tom Blyth, che ha esordito piccolissimo nel Robin Hood di Ridley Scott e di recente si è fatto notare per una serie tv su Billy the Kid, assomiglia molto, anche fisicamente, a un giovane Donald Sutherland. È  bravissimo nel descrivere le mille evoluzioni del suo personaggio, in modo coerente quanto umano, trascinandoci dentro al suo dramma emotivo poco per volta e fino a che, inevitabilmente, Snow scopre del tutto il suo lato più oscuro. È allora che anche la fisicità di Blyth si “contorce”, in una prova attoriale anche fisica e dolorosa. Il personaggio interpretato dalla brava Zegler ha invece ancora la voce e il sorriso della sua Maria del West Side Story dì Spielberg. Quando è sulla scena anche il film diviene più volte una sorta di musical, carico di sonorità folk. La sua Mary Grace accompagna tragicamente Snow in questo cambiamento, ma non rimane passiva o “complice” davanti alla sua trasformazione, tirando fuori una forza d’animo, una risolutezza e anche una capacità fisica di difendersi sorprendente. Può sembrare fragile, ma è solo l’apparenza.


Intorno a questa storia d’amore e dolore ci sono naturalmente gli intrighi politici, le rivalità tra strateghi, la tv di un Flickerman che non fa rimpiangere Stanley Tucci e ovviamente i giochi.

Giochi in una versione particolarmente cruenta e drammatica, che non fa sconti sulla rappresentazione della violenza e sulla progressiva follia, distruttiva e autodistruttiva, che pervade tutti i partecipanti. È uno scontro che si gioca sulla arena ma che spesso si trasferisce anche nella sala degli strateghi e in vicoli più bui. Ma non mancano “zone di confine” in cui i piani tra il campo di battaglia e le retrovie si sovrappongono e dove possono trovare la morte oltre ai tributi pure gli strateghi e i “nobili” stessi, in meccaniche al massacro più ampie, articolate, strazianti quando squisitamente “politiche”. Hunger Games descrive da sempre i difficili equilibri di una società divisa per caste di potere e anche questo nuovo capitolo continua questi ragionamenti attraverso una scrittura anche particolarmente satirica. 

Molto valide anche le interpretazioni di Hunter Schafer e Joshua Kantara, nei panni di personaggi la cui presenza va ulteriormente a mettere in crisi ideali e sogni di Snow. Dinkage e la Davis impersonano invece creature così grottesche e spietate che non avrebbero sfigurato tra gli Harkonnen del Dune di David Lynch. C’è molta carne al fuoco e questo giustifica anche la durata poderosa della pellicola, che si assesta su tre ore abbondanti. Un tempo  che comunque passa via che è un piacere, senza intoppi e tempi morti.

La regia di Francis Lawrence (oltre alla saga di Hunger Games, anche Io sono leggenda e Red Sparrow) è come sempre solida e capace di descrivere al meglio tanto le scene drammatiche che quelle d’azione, preservando sempre su ogni aspetto il leggero “tocco fantasy” della penna delle Collins, che sa bene attingere dal mito greco del Minotauro quanto dal Battle Royale di Fukasaku. Molto bravi tutti i ragazzi che rivestono il ruolo di tributi e strateghi. Menzione speciale per la Vipsania di Amelie Hoeferle. 

Torna alla fotografia dopo la saga di Katniss anche Jo Willems, come tornano i costumi di Trish Summerville. Si continua a giocare esteticamente tra la fantascienza industriale della Metropolis di Lang e l’estetica asettica de Il trionfo della volontà della Riefensthal, assecondati anche dai ricercati set Art Deco realizzati da Sabine Schaaf (Iron Sky, La regina degli scacchi). 

Le musiche di James Newton Howard sono epiche e avvolgenti, struggenti, incalzanti e adattissime anche ai “momenti cantati” in cui è protagonista il personaggio della Zegler, la cui novità è davvero piacevole. 

Si parla già di sequel. 

Si parla di riprendere la storia di Katniss.

Le premesse sono buone e questo ritorno a Panem ci ha decisamente sorpresi in positivo:  il tempo passato dall’ultimo film sembrava forse troppo, ma siamo contenti di esserci sbagliati. 

La saga continua e per chi non ha ancora iniziato ad appassionarsi ai libri di Suzanne Collins e ai film con Jennifer Lawrence questo nuovo Hunger Games del 2023 è un buon punto di partenza, per tuffarsi in una delle storie young adult più riuscite di sempre. 

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