domenica 31 dicembre 2023

The Old Oak: la nostra recensione del nuovo film del leggendario Ken Loach

Inghilterra di provincia dei giorni nostri. 

Ormai per qualcuno di quelle parti l’invasione dell’Inghilterra è in atto, nella totale indifferenza o in collusione con i potenti. 

Nessuno può farci niente, nemmeno e soprattutto nella vecchia e dimenticata Durham, cittadina mineraria del nord est mineraria un tempo famosa e ora fallita insieme alla sua principale industria, nonostante le coraggiose e disperate lotte a suon di scioperi, durate tanti mesi e lacrime. 

Tutti si sono dimenticati di loro fino ad ora, ma ecco che nella cittadina di colpo ci sono nuovi arrivati: una variegata compagine di vecchi e ragazzini giunti con un pullman e diretti a stipare ulteriormente case fatiscenti a basso costo. 

Secondo voci discordanti i nuovi vengono dalla Siria o qualcosa del genere, per via di quelle assurde politiche di scambio culturale o di supporto ai paesi poveri o per la guerra o qualcosa di analogo. Ma la percezione generale è che questi tizi, che non spiccicano una parola di inglese, parlano e vestono con strani turbanti, sono “molto diversi” dalla fauna locale, al punto che e per qualcuno fin dal primo secondo non dovrebbero esserci per niente a Durham. 

Non sono inglesi e vengono preferiti e coccolati dalla beneficienza come “poveri vip”, in un posto dove gli aiuti ai poveri comuni già mancano o arrivano con il contagocce e dove la gente è già al limite, già esasperata, senza lavoro e senza servizi pubblici e sociali che funzionano. Per più di una persona, i siriani ruberanno il poco lavoro che c’è o si dedicheranno h24 alla delinquenza, comportandosi presto a Durham come fossero a casa loro e anzi quasi offendendo, come quella ragazza (Ebla Mari, che interpreta Yara) che appena scesa dall’autobus si è messa a fotografare il quartiere e le persone come se pensasse di trovarsi allo zoo, fino a che un bravo cittadino le ha strappato la macchinetta di mano e gliela ha rotta. La ragazzina ha pianto e per tutti se lo è meritato, ma il proprietario del vecchio bar, TJ (Dave Turner) sembra essersela presa a cuore, sembra che abbia deciso di supportare nel suo Old Oak, l’unico locale pubblico davvero funzionante di tutta la città, tutta la compagine dei nuovi arrivi. Forse perché è un uomo strano e malinconico che vive da anni solo con il suo cane. Forse perché sta troppo dietro agli occhi di una ragazzina con la macchina fotografica e non capisce più “da che parte stare”. Per qualcuno degli avventori più solidi dell’Old Oak il locale di TJ bisognerebbe piuttosto occuparlo per farci una base, organizzare lì una protesta contro il governo, chiamare la stampa, farsi sentire.

Ma il “rimbecillito” TJ vorrebbe solo spalancare le porte a tutti e anzi tornare ad aprire l’ampio locale adiacente al bar, chiuso da anni, per adibirlo di nuovo a mensa pubblica gratuita. Una mensa con cucina a tutti gli effetti che aveva permesso, grazie alla solidarietà di tutti, di sfamare le tante famiglie di minatori nel lungo e tragico periodo dello sciopero di tanti anni fa. Una mensa che aveva già rappresentato negli anni '70 per la piccola cittadina la speranza di un futuro migliore.

Per TJ la situazione presente non è diversa da quella di allora, in fondo. Così come le persone più povere e abbandonate non sono troppo diverse, anche se vissute in periodi storici e luoghi diversi da Durham. Dal niente ma con tanta fatica, con l’impegno di TJ, della piccola fotografa e di ampia parte della comunità straniera e locale che si mette a disposizione come supporter, elettricisti, idraulici, camerieri e fornitori, la mensa, con la stessa forza del passato, ricomincia a funzionare e ad accogliere i bisogni di tutti i cittadini indistintamente. Con l’aiuto anche della chiesa locale, delle anziane signore che cucinano i piatti, di chi si improvvisa camiciaia e di chi tiene tutto pulito e funzionale, il paese inizia a rinascere. 

Tutti sono invitati in qualche modo a partecipare, ma i vecchi avventori “abbandonati” del bar, insieme alla parte più arrabbiata di Durham, non accettano questa “improvvisa preferenza altruistica” e iniziano a organizzarsi per far fallire il locale. 

Magari basterebbe davvero poco per far crollare la baracca e spezzare i sogni di vanagloria di TJ: quel tanto che basta da farlo tornare a testa bassa a servire il whisky senza troppi grilli in testa.  


Nonostante gli anni siano 87, Ken Loach non si ferma di certo e anzi continua ad arricchire, con nuove pellicole, il suo cinema ironico, eroico, drammatico, civico, disincantato e profondamente, eticamente, “umano”. Un cinema che dal 1967 riesce ad essere sempre ancora attuale, qualcosa di cui abbiamo sempre profondamente bisogno. Un cinema “universale”, al punto che anche se forse non siamo vissuti o viviamo negli stessi, amati è un po’ odiati, sobborghi inglesi cantati da Loach, i temi, i personaggi e i luoghi raccontati dal regista nelle sue storie possono apparire anche al pubblico italiano famigliari, vicini, urgenti, qualche volta “profetici”. 

Prima della pandemia e prima dell’esplosione del “delivero”, nel 2019, Loach già ci parlava del futuro: il “nuovo Medioevo” in cui vivevano, quasi da gladiatori, i veri lavoratori 2.0 del nuovo millennio: gli addetti alla consegna rapida dei pacchi. Il mercato che cambia, le responsabilità che da sociali diventano dopo secoli di progresso di nuovo individuali, la vita che viene scandita da tempi stretti e paghe sempre più basse: tutto viene combattuto per tirare avanti come si può, con il sorriso e per il bene della famiglia, con una cinghia sempre più stretta. A testa bassa e con tanta voglia di lavorare. 

Oggi Loach con lo stesso disincantato e la stessa testa bassa, ma senza dimenticarsi di rappresentare ancora una volta la straordinaria forza emotiva dei suoi piccoli eroi di provincia, ci parla del presente e del futuro di un mondo e di un popolo umano che continuamente si mischiano e si spostano: per via delle miserie e della guerra, spesso andando a rendere le zone problematiche ancora più problematiche. 

Il piccolo caleidoscopio umano di Durham a questo fenomeno reagisce gioiosamente scomposto. Si interroga al bar, sbraita, scoppia a ridere e poi ammutolisce. Prima incassa le disparità di trattamento e poi si incazza: tira fuori il libricino nero in cui tiene bene elencate tutte le promesse politiche mai adempiute ma poi decide chi deve essere il suo vero nemico: scegliendo alle grandi disillusioni la solita, facile ma comprensibile, guerra tra poveri. 

Questo però non accade a tutte le persone di Durham. Al contempo, partendo però da un diverso punto di vista, non “dalla massa” ma “dal singolo”, scegliendo di conoscere le persone anche solo incontrandole con lo sguardo, accade qualcosa di diverso per parte della gente del paesino come per il burbero TJ interpretato dal bravo Dave Turner. Scatta qualcosa di arcaico ma anche “recente”, vicino ai tempi delle grandi lotte sindacali: uno spirito sopito di solidarietà e di fratellanza senza bandiere, genuino quanto “operativo”.


Un istinto di mutuo-aiuto spontaneo quanto contagioso, che in poco tempo supera differenze culturali e barriere linguistiche, che arriva a legare le persone più disparate e a rendere meno complessa la vita di tutti. 

Una “supplenza sociale” quasi “troppo funzionale” per piacere e farsi accettare soprattutto da chi è già stato troppo oppresso, troppo schiacciato e deluso dalle miserie quotidiane di un sociale istituzionalizzato vacante, in cui ha confidato e  che non ha funzionato a nessun livello.  

Loach gioca sul continuo cortocircuito politico/emotivo che travolge i personaggi, tra gli afflati di altruismo, la rabbia e il legittimo cinismo e autocommiserazione. Esplora il suo piccolo mondo sociale in ogni componente, lo viviseziona con tutta la leggerezza e maestria di cui è capace, infonde tragedia e romanticismo nella giusta misura nelle piccole storie di ogni personaggio, porta bene alla luce i sogni quanto le “barriere architettoniche” del l’ingranaggio sociale. 

Senza “fare lezioncine”, senza proclami e  favole, ci fa accogliere la complessità e il dolore di ogni singolo personaggio: ce lo rende reale e credibile, ci fa mettere nei suoi panni soprattutto quando ci calzano più scomodi, ce lo fa comprendere anche nei suoi errori di comunicazione, nella sua spontanea antipatia. Tutti vivono e lottano all’interno di un quotidiano fatto di tante piccole azioni prima che di fiumi di parole, sempre a testa bassa, pratici, sanguigni e un po’ delusi, stipati in case popolari fatiscenti, spalla a spalla, nella periferia del mondo, tra mille difficoltà, sbagli e ripensamenti, dolore e poca fortuna. Tutti provano a trovare una direzione possibile o un “trucco momentaneo” per convivere, prima di tutto “con se stessi” e noi viviamo con loro questo viaggio, grazie all’occhio e alla sensibilità di uno dei più grandi maestri del cinema. 

Ogni volta Loach, come Miyazaki, dice che l’ultimo girato è l’ultimo film, ma speriamo come sempre che si sbagli. The Old Oak dal punto di vista della direzione degli attori, della messa in scena visiva e sonora, del ritmo e dell’intreccio narrativo è l’ennesimo piccolo (ma grande) capolavoro dell’autore inglese. Un film che per qualcuno è manifesto politico ma è anche e soprattutto testamento spirituale, da amare e possibilmente da studiare, (magari nei corsi di politica e sociologia ma anche nei licei), soprattutto da non dimenticare.

Una pellicola imperdibile anche solo per aiutarci a riflettere su dove inevitabilmente  “sta andando il mondo” e magari cercare un modo di “aggiustarlo”: dopo esserci messi, provvidenzialmente, ancora per una volta, nei panni dei piccoli, grandi eroi della working class di uno dei più grandi autori del cinema di sempre. 

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