venerdì 31 marzo 2023

Il viaggio leggendario: la nostra recensione del film per i più piccoli con protagonisti i Dinsieme ed Herbert Ballerina

In una casetta della Sicilia dei giorni nostri sembra una sera come tutte le altre, ma solo perché con Dominik ed Erick, il super duo “DinsiemE”, tutte le sere sono sempre super fantastiche!!! Così, dopo che la coppia ha provato a realizzare una pizza con qualche ingrediente che sa di torta e una torta con qualche ingrediente che sa di pizza, è stato chiamato il delivero e le amiche per un riuscitissimo “smalto sui piedi party”, fino a che tutti si sono addormentati sul divano davanti alla televisione. All’improvviso però, in piena notte, qualcuno bussa alla loro porta in un modo inaspettato che terrorizza tantissimo, con il rumore dei denti di Erick che iniziano a battere per la paura che riempie presto tutta la stanza. Avvicinatisi alla porta con tanto tanto coraggio, infine l'hanno aperta di scatto gridando, spaventandosi e spaventando il corriere espresso (Herbert Batterina) che era lì per consegnargli un pacco misterioso. Dentro la scatola c’è una console misteriosa con preinstallato un altrettanto misterioso videogioco. Dominik legge con stupore di sfuggita che la casa di produzione si chiama “Giniu”, come lo scienziato pazzo che da sempre li tormenta, ma non fa in tempo ad avvertire Erick che entrambi, come per magia, vengono risucchiati dentro il gioco stesso, nel leggendario regno di Leggendaria. Si trovano ora in un mondo medioevale, già vestiti come “provetti” abitanti di un mondo medioevale e pronti per partire per grandi avventure. Subito si imbattono in vecchie conoscenze come il robottino Omni e lo scienziato pazzo dottor Timoti, fratello “colorato diversamente” dello scienziato pazzo dottor Giniu. Scoprono presto che Leggendaria è divisa in tre reami e servono tre oggetti magici per passare da uno all’altro per infine tornare a casa. I legittimi tre regnanti sono misteriosamente spariti e un misterioso “reggente”, che si serve di cavalieri neri e pirati, ha gettato tutto questo strano mondo nel caos. Per tornare a casa e salvare tutti i due DinsiemE dovranno fare affidamento sul loro spirito di avventura e sulla fiducia incrollabile che hanno l’uno per l’altra e per se stessi. Ad aiutarli personaggio tra la fantasia e la realtà: una regina Ginevra indipendente e combattiva (Sofia Iacuitto) in cerca di Re Artù (Ladislao Liverani) e un filosofo barbuto che sembra tanto babbo natale e ha un nome simile a quello di un pianeta (Gianni Franco). Riusciranno i nostri eroi a terminare il videogioco e tornare a casa?

Arriva nelle sale la coppia di youtubers palermitani DinsiemE, composta dai giovani Erick Parisi e Dominick Alaimo, con la trasposizione cinematografica del loro libro “Il viaggio leggendario”. Molto attivi sui social e amatissimi da legioni di piccoli fans che collezionano anche le loro figurine e i vari gadget, i DinsiemE propongono da alcuni anni un intrattenimento leggero e garbato rivolto a bambini dai 3 anni fino alle scuole elementari, dando vita a scenette buffe, canzoncine da cantare insieme stile karaoke e piccole storie che con mirate scelte di linguaggio e tematiche riescono bene a stimolare l’attenzione del giovane pubblico, “incuriosendolo” anche con finalità di tipo educativo. È particolarmente interessante sotto questo profilo che all’interno dello strampalato videogioco in cui è ambientata la pellicola trovino posto, con le dovute semplificazioni del caso, tanto Re Artù che il filosofo Platone: quasi a fornire una felice “anteprima” di personaggi e narrative che negli anni della scuola saranno progressivamente approfonditi. Erick e Dominick scandiscono con chiarezza ogni frase, descrivono in modo semplice e diretto ogni situazione che vengono ad affrontare e non dimenticano mai di porre un particolare accento sulle emozioni che provano i vari personaggi, cercando in questo di stimolare i più piccoli verso competenze di stampo relazionale. Inoltre la loro vena comica, carica di giochi di parole e battute ad effetto pronunciate quasi sempre con gli occhi rigorosamente sgranati, rende i DinsiemE felicemente vicinissimi, anche per questioni geografiche, all’umorismo tipico di Maccio Cappatonda. Oltre a questa strizzata d’occhio al pubblico più grandicello, ci sono poi i buffi “scienziati pazzi” Timotei e Giniu (interpretati da attori ancora misteriosi, di cui si trovano poche notizie in rete). Con le loro maschere e tutine eccentriche, come per la continua necessità di gesticolare per esprimere fisicamente in modo buffo tutte le loro emozioni, la coppia di scienziati sembra come il robottino Omni essere uscita direttamente da una puntata dei Power Rangers. La combinazione di tutti questi elementi ci porta a uno spettacolo che coinvolge i più piccoli ma che si fa guardare con divertimento anche dai loro “accompagnatori” più grandicelli. Un effetto che rispetto ai video della coppia nella pellicola viene ulteriormente espanso dalla straordinaria presenza del mitico Herbert Ballerina, storico collaboratore di Maccio Cappatonda e genio della comicità surreale, a cui viene qui cucito addosso un improbabile ruolo da “cavaliere nero”, sir Romualdo, con un “minaccioso problema fonetico” nel pronunciare le parole calcando sulla “F”, tipo il papero Duffy Duck. 


La regia è di Alessio Liguori, che ha esordito dietro la macchina da presa con una campagna pubblicitaria per Save the Children e ha già esperienze con pellicole di genere fantastico. Liguori ha scelto di dare vita al mondo di Leggendaria utilizzando per scenari location di epoca medioevale realmente esistenti sul nostro territorio, costumi storicamente accurati e anche un discreto numero di effetti speciali, semplici ma efficaci. L’effetto finale, tra cavalieri, pirati e magia, è piuttosto riuscito e per stile rimanda esplicitamente alle produzioni fantasy televisive degli anni '80 come Fantaghirò.

Adeguato tutto il cast di supporto, tra cui si segnala Riccardo Cicogna nei panni del divertente e scombinato Capitan Sarrangia. 

Il ritmo della narrazione è ben gestito e il pubblico dei più piccoli riesce a stare incollato alla storia per tutti i suoi 78 minuti di durata, tra giochi di parole, momenti musicali e piccole scene d’azione.  

Il viaggio leggendario è una pellicola leggera e divertente, specificatamente pensata per il pubblico di giovanissimi fans della coppia di youtubers DinsiemE. Per gli  adulti anche una occasione inaspettata per raccontare ai più piccoli chi erano figure “misteriose” come Platone e Re Artù. Bravi gli interpreti e piuttosto ricercata la messa in scena. Imperdibile per gli estimatori della coppia come di Herbert Ballerina. 

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giovedì 30 marzo 2023

John Wick 4: la nostra recensione del nuovo capitolo della saga cinematografica sul super killer interpretato da Keanu Reeves

Ci troviamo di nuovo in una distopia in cui gli assassini del 21mo secolo vivono come samurai dell’epoca Sengoku, in una “via della pistola” carica di onore, rimpianto e sangue. 

Abito nero doppio petto corazzato in kevlar, armi da fuoco ricercate per stile e maneggevolezza, anelli, medaglioni, marchi a fuoco e missive vergate in regale pergamena con sigilli in cera lacca rievocanti rituali e codici da medioevo cavalleresco. Torna sulla scena l’uomo nato tra le strade dell’est Europa e forgiato per diventare simile a una lama, l’incarnazione della strega Baba Jaga, “l’uomo nero”, il signore dei killer. Oppure se vogliamo semplicemente il cinquantenne “John” (Keanu Reeves, che cinquant’anni li porta benissimo), che avrebbe voluto una vita tranquilla accanto a sua moglie e un cane, in una casetta con giardino nella periferia americana, ma che il destino ingrato ha preferito sguinzagliare di nuovo, iracondo e determinato a distruggere da solo, pezzo per pezzo, l’ordine costituito massimo degli assassini (e specchio dell’ordine mondiale): la Tavola. E dire che tutta la nuova e interminabile scia di sangue e bozzoli di John era nata “dal molto piccolo”: da una crudele ragazzata ai suoi danni per via della compravendita di un’auto. Dopo la devastazione di alcune delle più importanti famiglie criminali del mondo, la Tavola aveva ordinato infine a Winston (Ian McShine), il direttore dell’Hotel Continental di New York, di eliminare lui stesso John, suo amico. L’esecuzione ha avuto luogo negli ultimi piani dell’edifico (alla fine del terzo film), con l’uomo nero che dopo un colpo mortale di pistola a tradimento è caduto nel vuoto per svariati piani, disarticolandosi in un modo tale che nessun essere umano sarebbe potuto sopravvivere. Ma a raccogliere quelle carni contorte ancora incredibilmente vitali è accorto il “Bowery King” (Laurence Fishburne), il re del mondo sotterraneo dei senza tetto che da sempre si contrappone alla Tavola. John è incredibilmente rinato e subito si è gettato nel deserto da solo, dritto alla testa del capo della Tavola (George Georgiou), che ha subito schiacciato come un acino d’uva. La Tavola ha subito il colpo quasi con indifferenza e in brevissimo tempo, quasi “pigramente” si è ricostituita sotto la guida di un nuovo capo, il giovane ambizioso e aristocratico “Marchese di Gramont” (Bill Skarsgard). Il primo atto del nuovo capo è stato “punire Winston per il suo fallimento”, radendo al suolo il suo hotel. Ma gli hotel Continental, santuari e luoghi franchi di rifugio di ogni assassino (un po’ come le chiese in Highlander), abbiamo già scoperto che sono una catena pari agli Hilton e John Wick si è già rifugiato così nel Continental di Osaka, gestito dal suo vecchio amico Koji (Hiroyuki Sanada) e dalla sua figlia Akira (Rina Sawayama). Il marchese, scoperto il rifugio, manda all’attacco un esercito di assassini pesantemente armati e capillarmente corazzati capitanato dal suo personale braccio destro, il gigantesco Chidi (Marko Zaror, sempre più massiccio, “alto” e compiaciuto nel ruolo di cattivo). Ma per sicurezza invia sul posto anche Caine, un temibile e letale killer non vedente (Donnie Yen, che si inventa per l’occasione una variante gun-fu dello stile di combattimento alla Zatoichi) in passato grande amico di John e ora sotto perenne scacco della Tavola, che minaccia di uccidere sua figlia non appena lui rifiuti un incarico. Attirato dalla possibilità di ricavare tanti soldi, ad Osaka è giunto anche l’underdog “Mr Nobody” (Shamier Anderson), un talentoso cecchino solitario con al seguito un cane da caccia. Ma l’Osaka notturna dai ciliegi in fiore sarà solo l’inizio della nuova mattanza in giro per il mondo di John Wick, che presto si sposterà nella più assurda discoteca di Berlino per affrontare Killa (un gigantesco Scott Adkins, re indiscusso degli stunt-man, che nell’anno di The Whale di Brendan Fraser indossa per compiere delle acrobazie incredibili un simile costume di scena, che gli conferisce almeno duecento chili in più), per poi arrivare in Francia, dove insieme a Winston e King cercheranno di sovvertire la Tavola una volta per tutte, grazie a un duello rituale la cui preparazione sarà lunga, complessa e oltremodo sanguinosa. Con gli assassini di tutto il mondo che andranno ad affrontare John su tutte le strade della capitale francese (come sempre “guidati nella caccia” dalla voce alla radio di una sensuale e ironica Dj come in I guerrieri della notte di Walter Hill) per diverse ore, per incassare la più alta taglia mai garantita di sempre. Ma si può davvero sconfiggere la strega Baba Yaga? 


Nel 2013 Derek Kolstad, un ragazzotto del Wisconsin di soli 24 anni ai suoi primissimi lavori per il cinema, scriveva una sceneggiatura di nome Scorn: un action che raccontava il tragico ritorno al mestiere dell’assassino di un uomo ormai ritiratosi dalle scene di nome “John Wick”, lo stesso nome del nonno materno di Kolstad. Come per il primo capitolo della saga di The Purge di Blumhouse, scritta da James DeMonaco e uscito sempre nel 2013, l’opera di Kolstad costruiva una vicenda dal sapore classico e ultra-collaudato (Purge è un “home invasion”, questa un “revenge movie”), ma collocata in un mondo distopico particolarmente originale quanto solido, accattivante: pieno di regole, istituzioni e costumi così suggestivi e atipici da poter essere esplorati anche in film successivi. Una formula che a distanza di 10 anni si è rivelata doppiamente vincente, anche perché a dirigere il “lato più classico della classica pellicola di genere action”, che su consiglio dell’attore principale Keanu Reeves assunse a tutti gli effetti il titolo John Wick c’era anche “chi l’action lo sapeva fare”, ossia due tra i più celebri coordinatori di stunt-man e scene di azione attivi sulla scena fin dagli anni 90: Chad Stahelski e David Leitch. 

Chad Stahelski, praticante del Jeet Kune Do di Bruce Lee, cintura nera di Kick Boxing e primo americano a partecipare in Giappone nel torneo di arti marziali miste Shooto, è diventato in breve uno stunt-Man e coordinatore di stunt leggendario. Attivo fin dal 1994, nel suo primo film, Il corvo di Proyas, fu la controfigura del compianto Brandon Lee e in seguito divenne la controfigura ufficiale di Keanu Reeves nella saga di Matrix.

David Leitch ha invece imparato da solo come autodidatta le arti marziali e aperto dopo la laurea in relazioni internazionali un suo dojo, è  noto per essere stato stunt-double di Brad Pitt in Fight Club e Troy ed è addirittura stato stunt-Double per il campione marziale Jean Claude Van Damme in due pellicole. Stahelski e Leitch fondavano insieme nel 1997 la 78Eleven, una società di formazione e coordinamento degli stunt-man sulla linea delle grandi scuole di arti marziali legate alle produzioni di Hong Kong, dal cui lavoro sarebbero usciti tra gli alti i premiati stunt della saga di Jason Bourne. I due sempre insieme nel 2009 si avvicinavano ancora di più alla cabina di regia, come coordinatori stunt e direttori di seconda unità di quella piccola (e stranamente poco celebrata) perla che è stata Ninja Assassin di John McTeigue. Nel 2014 per il film che scelsero per il debutto alla regia di Stahelski coinvolsero per il ruolo principale di John Wick un attore loro amico e grandissimo appassionato di arti marziali come Reeves, oltre a un raffinatissimo cast con nomi come Ian McShane, Joe Leguizamo, Michael Nyqvist, Willem Dafoe e il recentemente scomparso Lance Reddick (a cui questo ultima pellicola è dedicata). Per il personaggio di Reeves, con il pieno supporto ed entusiasmo dell’attore i due si inventarono tutto un particolare stile di combattimento misto, con attacchi a mani nude mutuati per lo più dal judo (per il sistema di prese e proiezioni) e mixati a un uso delle armi da fuoco secondo il particolare stile del Mozambique Drill (ma quando Wick si trova a usare un nunchaku compare ovviamente lo stile di Bruce Lee). La volontà comune era ovviamente farne un film-manifesto del “nuovo” genere action, con per fulcro lunghissime ed elaborate scene di combattimento e inseguimenti, ambientato in un modo distopico di “neo-samurai”. Un po’ come Matrix ma con meno robot e filosofia. Quello che ne è seguito è storia. John Wick negli anni è diventata una saga di successo dagli intrecci sempre più “epici” e dalla messa in scena sempre più complessa che ha attratto nel cast molti attori di successo (come tra i tanti Anjelica Hudson, Halle Barry, Laurence Fishburne, Peter Stormare, Franco Nero, Ruby Rose) come grandi interpreti del cinema action a base di  marziali (Yamamotoyama Ryuta, Mark Decascos, Yayan Ruhian, Tiger Chen, Scott Adkins, Marko Zaroz, Donnie Yen). È già in produzione un capitolo 5 e uno spin-off dal titolo Ballerina con interprete principale Ana de Armas (ambientato tra il terzo e quarto film), oltre a una serie tv sull’Hotel Continental. Stahelski ha diretto tutti i film e dirigerà Ballerina, Leitch è passato a Deadpool 2, Atomica Bionda, Bullet Train. Con la 87Eleven Productions nata nel 2019, i due hanno già prodotto, seguendo sempre la stessa filosofia, pellicole interessanti come Nobody con Bob Odenkirk (in qualche modo “omaggiato” in John Wick 4 dal personaggio di Mister Nobody di Shamier Anderson).


La qualità produttiva della saga di John Wick, quando l’eccentricità del sul “mondo parallelo”, da subito è sembrata così peculiare da far pensare a molti che si trattasse di un autentico Cross-Over della serie Matrix delle Wachowski. Una teoria che è stata a lungo incoraggiata e corroborata da alcuni risvolti di trama come dalla presenza nel cast di entrambe le saghe di Reeves e Fishburne (con Carrie Ann Moss che pare voglia essere della partita per il quinto John Wick e forse seguirà anche Hugo Weaving), come dalla curiosa circostanza che prima del covid Matrix 4 e John Wick 4 erano misteriosamente schedulati in uscita quasi lo stesso giorno. Oggi sappiamo che non è così, ma in fondo è sempre suggestivo credere a questo strano “gemellaggio” e il maggiore indiziato resta la “Mozambique Drill”. L’unica tecnica del wick-verso per eliminare un avversario per sempre con un ultimo colpo alla testa, condicio sine qua non tutti i personaggi, anche se passati sotto uno schiacciasassi o caduti per centinaia di metri, sono in grado di rialzarsi e tornare a combattere senza problemi. Qualcosa che ricorda in qualche modo le leggi “sull’energia vitale” di un videogame...o di una simulazione alla Matrix. Tutta la realtà di John Wick sembra poi “sovrascritta”  dalle regole di un videogame alla GTA e “chi comanda il mondo”, come i personaggi dell’Aggiudicatore e dell’Amministratore del terzo film, sembrano essere simili per atteggiamento e movenze ai programmi senzienti di Matrix. Ovviamente fino ad ora tutte queste si sono rivelati amabilissimi depistaggi ad opera degli stessi autori, ma in futuro…chissà…


Ma veniamo a noi e al quarto film, che si dimostra da subito il più lungo, il più spettacolare e il più epico della saga. In breve tempo passiamo dagli scontri a cavallo con revolver di un deserto dalle forti suggestioni western della sequenza d’apertura, ai samurai corazzati del ventunesimo secolo di una Osaka perennemente in equilibrio tra presente e futuro, dove un buon arco può colpire meglio di una mitragliatrice. Vedere insieme Sanada e Reeves, come padre e figlio sodali e armati di Katane e pistole, ci fa tornare in mente la “parte bella” del controverso, pasticciato ma esteticamente godibilissimo “b-movie” 47 ronin di Carl Rinsch. Lo scontro con le forze della Tavola avviene dall’ultimo piano dell’hotel verso il piano terra, in un percorso stilistico/marziale che cita L’ultimo combattimento di Chen (e in cui compare un nunchaku). Donnie Yen, l’attore che non a casa ha dato vita sullo schermo a una felice saga su Ip Man, il maestro di Bruce Lee, è ancora il più grande artista marziale del cinema e quando entra in scena con il suo killer cieco Caine fa sua la pellicola. Vederlo duellare con eleganza con Sanada è solo l’inizio e quando arriva a confrontarsi con Scott Adkins ci si aspetta per forza un re-match di quanto avveniva in Ip Man 4, con Yen che gli scarica addosso la classica raffica di pugni stile Wing-Chun. Adkins come sempre sa conferire eleganza e tempra a un personaggio da tutti i punti di vista disegnato per essere odioso e scorretto. Killa è un villain crudele a senso unico, signore e padrone di una Berlino notturna hi-tech che tra cascate d’acqua, pire di fuoco e mucchi di persone intente in balli sfrenati, ha il fascino di un girone dantesco. Si arriva a Parigi dopo un’ora a venti di film e Stahelski decide di fare la versione John Wick dei Guerrieri della notte. Una “Anabasi” a tutti gli effetti che farà lottare un Keanu Reeves sempre più stanco e incazzato contro un numero sproporzionato di killer che cresce di metro in metro lungo il percorso del suo duello finale. Ad accompagnarlo o contrastarlo “a fasi alterne” il killer cieco di Donnie Yen, il gigante quasi muto di Zaroz e l’interessante e misterioso Nobody di Shamier Anderson. È qui che il film deflagra. Le parole si riducono al minimo e assistiamo a una spettacolare quanto infinita sequenza di combattimento che si snoda tra le macchine a tutta velocità sulle strade degli Champs Elysees, edifici abbandonati, i parchi e le scalinate di Parigi. Il film cannibalizza il linguaggio dei videogame con sparatorie e cazzotti che ci vengono raccontati in articolati e lunghissimi piani alla Scorsese, dove l’obiettivo si sposta progressivamente con eleganza, raccontando l’azione stilisticamente con sempre nuovi punti di vista. Siamo accovacciati tra le macchine insieme a John Wick, in prima persona, mentre incede contro di lui un’orda di killer. Poi dall’alto lo seguiamo farsi largo stanza per stanza e piano per piano all’interno di una struttura diroccata quasi al buio, che ci viene illuminata proprio dalle sue bocche da fuoco (qui per l’occasione anche incendiarie). Dalle sue spalle vediamo poi John correre dal basso all’alto di una lungo e impervia scalinata, procedendo gradino dopo gradino eliminando nemici che a volte gli rotolano addosso o lo fanno cadere fino all’inizio del percorso. Per chi è nato ai tempi delle sale giochi sembra di rivivere al cinema i livelli delle sparatorie di Blood Brothers o Time Crisis, i labirinti da affrontare a volo d’uccello di Gautlet, i “barili” da saltare di Donkey Kong. Tutto riesce a fondersi in un linguaggio stilizzato quanto elegante, sempre funzionale quanto originale nel raccontare al meglio ogni scena attraverso interpreti che si buttano nell’azione a testa bassa, seguendo un articolatissimo percorso di guerra che definisce sul piano fisico/marziale il peculiare “carattere” di ogni personaggio. La realizzazione di questa parte è così convincente che il tempo letteralmente vola e se ne vorrebbe subito ancora, come fosse possibile inserire un nuovo gettone e incominciare una nuova partita.


Certo un film action di quasi tre ore, che si trova in un multisala con a fianco un film di Rocky di quasi tre ore (Creed III), può sembrare uno strano segno dei tempi. Ma mentre Creed III dura tre ore e ne vengono percepite dallo spettatore quasi otto, John Wick 4 è tutta un’altra storia: pura estasi per chi è in cerca di una serata disimpegnata. Come sempre c’è tanta, tantissima azione, ma Keanu Reeves riesce a infondere nel suo personaggio tanta ironia, autoironia e umana malinconia. Quando Reeves duetta con McShine, Yen e Fishburne si respira una forte complicità e affezione tra i rispettivi personaggi. Shamier Anderson riesce a cucirsi addosso un personaggio che potrebbe avere le carte in regola per essere un protagonista e Bill Skarsgard affronta, con molta regale compostezza e tanta ironia, il ruolo ingrato di un “marchese piccolo piccolo” a cui conferisce tic isterici e un perenne stato di autentica e maledetta paura. 

Tutti bravi. Ne vogliamo un altro. 

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sabato 25 marzo 2023

Delta: la nostra recensione del film di Michele Vannucci con Alessandro Borghi e Luigi Lo Cascio che ci porta dritti nel “cuore di tenebra” lungo i corsi d’acqua degli affluenti del Po.

Tra le acque basse di un corso d’acqua solitario, in una nebbiosa alba invernale, si sente solo un lento e pesante rumore di remi. Nascosto allo sguardo da rami secchi fitti simili a una infinita gabbia scheletrica, intabarrato in un cappotto pesante per non morire dal freddo su una piccola imbarcazione in legno, c’è un uomo imponente, barbuto e silenzioso (Alessandro Borghi). Si ferma al centro di una zona abbastanza ampia e immerge il capo di un bastone di metallo in acqua. Aziona una  batteria girando una manopola e tutto per tre metri viene elettrificato. Decine di trote, siluri e pesci gatto, tra cui alcuni davvero enormi, affiorano riversi e ustionati dalle acque scure. Una bella pesca furtiva che il gigante barbuto può condividere con il suo branco di sodali, uomini dei paesi dell’est nati e cresciuti sui fiumi come lui, conosciuti per caso un giorno lungo un corso d’acqua e subito diventati una famiglia. Dopo tanti anni il fiume riporta il bracconiere dalle parti in cui è nato, un Delta del Po (il film è girato tra Ferrara e Rovigo) dove qualcuno un tempo lo chiamava “Elia”. Lì si trova ancora la casa diroccata in cui è nato e soprattutto un contatto sicuro, il barista Causo (Sergio Romano), che ha promesso tanti soldi per smerciare il pesce. Non staranno in zona per molto, appena Causo li pagherà saranno già altrove, magari sul Danubio.

Le coste dello stesso Delta del Po sono battute in quei giorni anche dal segaligno ingegnere quarantenne “Osso” (Luigi Lo Cascio) e dalla poco più che ventenne “Nani” (Greta Esposito), fratello e sorella appassionati della musica di Mina e militanti di una associazione a difesa dei patrimonio ittico. È un piccolo circolo di una ventina di membri con sede per combinazione proprio nel bar di Causo, un luogo situato sulle palafitte davanti al fiume al di sotto del grande ponte autostradale. Al circolo partecipano tanti attivisti barbuti e incazzati che non sono mai riusciti a salvare la flora e fauna dagli sversamenti della grande industria inquinante che ammorba il territorio. Un mostro troppo grande da affrontare con leggere carte bollate. Ma oggi la storia è diversa. Nani e Osso hanno trovato lungo fiume dei pesci ustionati da scariche elettriche, un frigorifero e forse un sospetto furgone bianco. Sono tornati i pirati di fiume del nord est. Indizi simili sono stati segnalati anche da altri militanti, al punto che si può quasi mappare una zona di pesca, magari trovare il covo e fare affidamento sul fatto che probabilmente sono pochi e isolati. Per vendicarsi. Osso invita alla calma: le autorità raccoglieranno testimonianze e foto e risolveranno la cosa. Per Nani e gli altri invece i poliziotti si presenteranno solo una volta che i pirati non si saranno più e al circolo toccherà ricominciare una lunga nuova e costosa fase di ripopolamento dei pesci. Bisogna fare qualcosa. Magari spaventarli agitando bastoni, magari con in testa un bel passamontagna per non farsi riconoscere. Gli inviti a ragionare vanno a vuoto e parte la caccia, c’è già qualcuno che parla di menare le mani. Intanto Elia giunge per caso nel bar e incontra Anna (Emilia Scarpati Fanelli), che un tempo stava insieme ad Osso ma ancora prima si ricorda di lui, quando era piccolo e viveva poco distante da casa sua. Anna si affeziona, incontra gli altri pescatori di frodo e scopre che non sono dei mostri ma poveri disperati non troppo diversi dai locali. Di colpo Elia non si sente più un fantasma del fiume e ragiona sul fatto di poter tornare a vivere lì, ma dura poco. In una spirale di rabbia e vendetta, destinata in breve tempo e irrimediabilmente a crescere, il grosso uomo del fiume sarà costretto a difendersi con le armi, diventando un vero e proprio “mostro di palude” da abbattere in una rancorosa caccia all’uomo di cui parlano anche i telegiornali. Anche il razionale Osso alla fine dovrà fare i conti con il suo lato oscuro da uomo di fiume, arrivando quasi all’insanità mentale nel tentativo di ucciderlo. 


Seconda pellicola per Michele Vannucci dopo il felice esordio al lungometraggio nel 2016 con Il giorno più grande. La sceneggiatura è nuovamente scritta in collaborazione con Anita Otto e protagonista della vicenda è nuovamente il sempre più granitico e gigantesco Alessandro Borghi, qui nei panni ben riusciti di un silenzioso “Rambo di fiume”. Lo avevamo apprezzato come guerriero, titanicamente coperto di fango ne Il Primo Re, gli abbiamo voluto bene nei panni silenzioso e orgoglioso coprotagosta di Le otto montagne, lo abbiamo ritrovato anti-eroe post-atomico in Mondo Cane. Con Delta sentiamo di volergli sempre più bene come nuovo volto dell’italico cinema di genere, anche grazie all’ottimo lavoro che sta facendo sul lato produttivo la Groenlandia di Matteo Rovere e Sydney Sibillia (che nel film si ritagliano anche un gustoso cammeo da pescatori). A condividere con Borghi la scena di questo “western crepuscolare acquatico padano”, un Luigi Lo Cascio che dopo aver dimostrato grandi capacità in ambito drammatico, fin dall’esordio folgorante ne I 100 passi, ormai si destreggia con disinvoltura anche in parti “action in salsa pulp” come nella recente serie Amazon The Bad Guy. I loro due personaggi anche se appaiono sideralmente distanti per mentalità e fisico in realtà presto diventano molto simili (c’è nel film una foto di Osso da piccolo “molto potente” che rivela in qualche modo la sua aggressività nascosta), ugualmente robusti e determinati. Si dice che la coppia di attori abbia sostenuto un duro addestramento fisico nuotando nelle acque gelide del Po, non dissimile agli allenamenti che Borghi ha sostenuto a meno due gradi nudo e coperti di fango per Il primo re. Elia e Osso si cercano e confrontano a distanza per tutto il film, con i personaggi femminili (davvero molto brave la Esposito e la Fanelli) che fanno da inevitabile “Trigger” per tenerli più rabbiosi, fino a che lo scontro si fa vivido, personale e mortale, con una intensità e violenza così convincente da sembrare quasi una pellicola coreana alla Old Boy. La fotografia è davvero curata e risalta la suggestiva bellezza crepuscolare dei luoghi. il ritmo parte lento ma subito diventa incalzante, quasi convulso, l’accompagnamento sonoro è carico di pathos e rumori suggestivi ricavati in presa diretta.


Delta è un film di lotta e vendetta, se vogliamo forse stilizzato nella costruzione narrativa ma potente e convincente nella messa in scena e nell’interpretazione, che risalta lo scontro prima psicologico e sempre più fisico tra due uomini che si odiano con la più collaudata geometria della narrativa di genere più classica. Se il cinema di genere ”action” può rinascere nel nostro paese con una sua identità è proprio grazie a queste produzioni, queste storie e questi interpreti. Sono storie di cacciatori e prede che profumano della ruvida eleganza dei romanzi di Mauro Corona, ma in questo caso sanno affondare felicemente anche tra i corsi d’acqua del Cuore di Tenebra di Conrad, nei boschi fitti di caccia del Rambo di Stallone come del Tranquillo weekend di paura con Reynolds. I personaggi vivono a strettissimo contatto con la natura e il loro territorio, al punto che parlano slang stretti e gutturali, tra il padano e il veneto (molto convincenti in questo sia Borghi che Lo Cascio), dal suono per il cinema ancora misterioso e medioevale, quasi da favola nera. La fiera e quasi aliena natura dei luoghi dona incredibili paesaggi di calma e silenzio, ma è ovviamente per la maggior parte del tempo “selvaggia e matrigna”: annebbia lo sguardo, gela le ossa, risulta così avida di frutti che per questo è perennemente “contesa” tra due gruppi di uomini parimenti affamati, che danno vita a una guerra tra poveri anche solo “per un pugno di pesci”. Come a sottolineare che il bisogno di marcare il territorio è ancora oggi come in passato qualcosa di ancestrale, su cui è giusto ragionare e mediare senza ipocrisie. Le ragioni dello scontro quasi fratricida tra pirati e locali di conseguenza hanno anche un sapore di “rivalsa”, andando psicologicamente a sanare il senso di impotenza nei confronti di un potere costituito lontano e intoccabile, rappresentato tanto dalla “grande industria inquinante” che può distruggere tutto protetta dalla legge più farraginosa, quanto da uno stato di perenne povertà dei paesi dell’est ancora difficile da invertire. Tutte suggestioni dalla valenza anche politica, molto presenti e urgenti nel nostro quotidiano e che il famigerato “cinema da tinello” di Muccino e Fabio Volo non cerca manco per sbaglio di trattare. Invece il cinema di genere, tra i suoi mostri e i suoi orrori, da Carpenter a Romero ma passando anche per i cannibali di Deodato e la “provincia gotica” di Pupi Avati, Lorenzo Bianchini ha ancora oggi il potere di dare voce a questa “rabbia sociale”, anche per sua natura sconnessa e feroce, per permetterci di elaborarla interiormente anche con il linguaggio dell’avventura. Negli anni 60/70 gli spaghetti western cercavano l’avventura tra i luoghi caldi come la Spagna, ideali per simulare i deserti infiniti, paesaggistici quanto interiori, degli Stati Uniti. Ma finalmente di recente abbiamo scoperto nel nostro cinema di genere anche le meraviglie del nostro territorio più selvaggio e inospitale: dal mondo di fango e pioggia a due passi dalla capitale de Il Primo Re di Rovere alle fitte foreste del nord est di The Shadow di Zampaglione, dalla periferia romana dai palazzi quasi post-atomici di Lo chiamavano Jeeg Robot di Mainetti alle città fantasma di frontiera di Over The River di Bianchini. Delta di Vannucci come il dramma futuristico La terra dei figli di Culpellini (tratto dalla meravigliosa graphic Novel di Gipi) esplorano l’infinito potenziale simbolico dei corsi d’acqua del Po, con riprese sulle terre dal Polesine al Ferrarese, andando a scavare anche sulla storia “umana” di quei luoghi aspri e solitari. Non è un caso che la storia di Delta sia stata ispirata a Vannucci dai molti racconti e testimonianze che lui stesso ha ascoltato quando si è trovato a vivere a contatto con la provincia bolognese, ma anche dalle storie vere raccolte di un libro affascinante come Morimondo di Paolo Rumiz. Abbiamo voglia di altre storie di questo tipo e speriamo anche per questo che un prodotto ”di genere” raffinato come Delta incontri felicemente il pubblico. 

Il film action-drammatico di Vannucci vanta una storia ruvida ma per nulla banale e piena di spunti di riflessione, paesaggi affascinanti e attori molto coinvolti nel progetto, che hanno dato vita a personaggi davvero convincenti. Un film divertente e pieno di sequenze visivamente suggestive che farà la gioia di ogni appassionato delle pellicole di genere. Abbiamo un nostro “Rambo di fiume” ed è un vero peccato se non andate a godervelo al cinema. 

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venerdì 24 marzo 2023

Vera: la nostra recensione del docu-film sulla vita di Vera Gemma diretto da Tizza Corvi e Rainer Frimmel


Roma, giorni nostri. Vera è una donna che per forme e stile non passa certo inosservata, che vive il mondo della notte tra i locali notturni più in voga della capitale, quelli che ospitano Arisa e Federico Fashion Style. Ogni tanto anche lei fa le passerelle e viene fotografata con la stessa passione che si riserva ai vip. La sua giornata inizia sul tardi e passa da un provino sfortunato e l’altro, tra un fidanzato palestrato in perenne richiesta di soldi (interpretato da Gennaro Lillio) e raccomandazioni per il suo nuovo primo film e le visite ai container dove si trovano le super otto dei filmini di famiglia. Poi un giorno mentre su una strada di periferia è accompagnata da Walter (Walter Saabel), il suo solito amatissimo autista, accade un incidente. L’auto si scontra con un motorino sul quale viaggiano il carrozziere Daniel (Daniel de Palma) insieme con suo figlio Manuel (Sebastian Dascalu) di otto anni. Il ragazzino si rompe un braccio e subito viene portato in ospedale. Padre e figlio vivono una vita difficile di periferia e Vera rimane molto scossa dall’accaduto, si affeziona a entrambi e decide di aiutarli anche economicamente. I suoi amici e la sorella Giuliana cercano di dissuaderla da una frequentazione così strana ma Vera non cede sul fatto che sia giusto continuare a stargli vicino. 

Torniamo a parlare di un’opera di Tizza Corvi e Rainer Frimmel su questo blog dopo Mister Universo, recensito nel 2016. Sono una coppia artistica che nasce dalla comune passione per la fotografia, che entrambi hanno studiato alla Graphische Lehranstalt di Vienna per poi lavorare in giro per il mondo, tra New York, Parigi e Roma. Hanno una particolare passione nel raccontare nel loro cinema le storie di persone che vivono con forza e umiltà ai margini, sulla strada come le storiche famiglie circensi. Amano descrivere la gente vera e senza filtri, intorno a cui modellano delle pellicole su misura: dei docufilm in cui le persone possono raccontarsi parlando con amici, come rivivere in prima persona, assistite da attori professionisti, delle situazioni reali della loro vita. Quello che la coppia dei registi riesce a ricavare da questo tipo di trattamenti sono lavori molto pieni di calore, umanità e dotati di una spontaneità quasi rosselliniana. 


È fin dall’inizio un felice incontro quello tra Tizza Corvi, Rainer Frimmel e Vera Gemma. La vita di Vera nella Roma dei giorni nostri è vivida quanto malinconica, quasi un western crepuscolare post-industriale all’ombra dei fasti “fantasmatici” della grande Cinecittà anni 70. Una terra di frontiera tra locali notturni e sale slot, case di periferia senza acqua, mercatini dell’usato e infiniti depositi per sfascia carrozze. Un luogo che sembra lontanissimo da Via Condotti ma nel quale si aggira con la stessa calma, vestita fieramente come una drag-queen e con in testa dei coloratissimi cappelli dai colori fluo da cowgirl post-moderna, una “eroina solitaria” e anticonvenzionale come Vera. Una eroina che vorrebbe magari recitare come “tradizione di famiglia” ma ha per il cinema il volto “troppo moderno”, troppo “reinterpretato” da alcuni interventi di chirurgia plastica cui ha dovuto sottoporsi fin da bambina per volere dei genitori, inseguendo il mito dell’epoca della bellezza fisica a tutti i costi, anche tramite il bisturi. Chi non la conosce crede che sia una specie di bambola di gomma, quando poi lei parla le persone spesso si ricredono, arriva l’entusiasmo ma infine la scartano e la cosa si ripete all’infinito, come in una sorta di Giorno della Marmotta. Fuori dai set dei provini, realizzati tanto in studio che nelle impossibili cucine di registi squattrinati, la nostra eroina vive per lo più tra i ricordi e con un grande bisogno di dare affetto agli altri, perché si sente lei stessa “nata fortunata” all’interno di una famiglia diventata molto ricca grazie al lavoro di un padre famosissimo, di cui basta fare il nome per far aprire mille porte e cambiare la faccia di ogni interlocutore. Quasi fosse una specie di superpotere, il “nome del padre” diventa per Vera anche una condanna, un modello ideale di vita per lei (e forse per chiunque) quasi irraggiungibile, a cui lei giocoforza viene messa costantemente a paragone. Un peso silenzioso che Vera condivide con l’amica Asia Argento, che diventa coprotagonista in alcune scene. Le due insieme, in uno dei momenti più toccanti del docu-film, vanno a rendere omaggio in un cimitero romano alla famosa “tomba del figlio di Checov”, dove riposano le spoglie di una persona sulla cui lapide non è nemmeno indicato il nome di battesimo, ma solo la illustre paternità. Una condizione esistenziale tragica che va anche oltre la morte e che tutti coloro che sono nati da genitori “troppo grandi” in qualche modo patiscono, cercando come possono di sfuggire alla scomoda “etichetta”, onorevole quanto pesante, che Vera affronta però con il sorriso, quando chiunque la ferma per strada per farsi una foto con lei solo per via di quel nome. Il “mondo del cinema” vive nei confronti di Vera un buffo atteggiamento “ostilmente cordiale”, irrisolto, di “affettuosa distanza”. Un rapporto tra fans e operatori del settore che spesso si mischiano tra loro, che i due registi riescono a cogliere al meglio in tutte le sue più assurde e repentine contraddizioni che Vera stoicamente subisce. Come piene di contraddizioni e “non detti” sono le spesso irrisolte e burrascose relazioni sentimentali di Vera, sempre a un passo dal sembrare delle truffe affettive manifeste che lei titanicamente cerca comunque di affrontare con un altruismo e positività a senso unico. È bello pensare che nel mondo esistano persone capaci di voler bene al prossimo come fa la Vera raccontata in questo film. 

Così, quello che rimane alla fine della visione è il quadro umano molto tenero di una donna combattiva quanto fragile, irrisolta quanto tenacemente positiva nel suo modo di guardare il mondo. Un quadro che grazie dalla grande perizia tecnica di Tizza Corvi e Rainer Frimmel ci viene raccontata in una pellicola fresca, ben ritmata, con degli interpreti così ben calati nella parte da non permetterci quasi di distinguere i personaggi reali dagli attori. Davvero bravissimo il piccolo Sebastian Dascalu. In una colonna sonora molto ricca di classici della musica pop Italiana la voce di Loredana Bertè si sintonizza al meglio nel raccontare la vita generosa e difficile di una donna come Vera. Il film scorre molto veloce, diverte e commuove.

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giovedì 23 marzo 2023

2028: la ragazza trovata nella spazzatura (The day I found a girl in the trash) - la nostra recensione di un interessante film di “fantascienza sociale” polacco per la regia di Michal Krzywicki


Polonia, 2028. Per la mezzanotte del 31 dicembre è prevista la più grande performance-Art di protesta dell’influencer e attivista per i diritti umani Szymon (Michal Krzywicki, protagonista, co-sceneggiatore e regista del film). Il giovane dopo aver rilasciato una dichiarazione pubblica si toglierà la vita in diretta streaming, davanti a milioni di spettatori, con tutti i suoi organi che saranno destinati a salvare le vite di persone a lungo in attesa di trapianto. Nel discorso denuncerà le leggi penali del suo paese, che hanno permesso allo Stato di trasformare i detenuti per reati gravi in “automi”, attraverso la somministrazione constante nel loro organismo, attraverso un collare, di un farmaco che li rende simili a zombie. Gli automi vengono usati come un nuovo tipo di docili schiavi per i lavori più umili, la loro testa è costantemente rasata e devono indossare vestiti arancioni per essere sempre riconoscibili per strada. Non possono parlare, se non emettendo sporadiche e sconnesse parole, il loro cervello sembra regredito alle prime fasi dell’infanzia ma possono apprendere lavori ripetitivi e in questo essere utili alla comunità. Sembra reagiscano alla musica in modo inconscio: ogni tanto si fermano senza un particolare motivo e iniziano come a danzare. Chi detiene il potere avrebbe tutti gli strumenti per creare nuovi automi, magari estendendo la legge o trovando il modo di incastrare avversari politici. Chiunque può diventare un morto che cammina e c’è chi ovviamente potrebbe approfittartene, per questo sono molto severe le norme su chi cerca di sfruttare o abusare di un automa. Szymon, davanti a uno Stato che “può spegnere le persone che vuole”, decide di immolarsi, regalando i suoi organi con un atto di altruismo a degli sconosciuti bisognosi. Tutto è pronto, le interviste internazionali esclusive da Playboy al New York Post si sprecano, i colleghi hanno già fatto per lui una “festa di commiato”, lo studio legale che ha organizzato l’evento è diventato famosissimo e tutti attendono il grande gesto. Poi accade qualcosa di completamente inaspettato. Nella metropoli notturna con le luci al neon alla Blade Runner in cui vive, perennemente indossando una tuta nera con cappuccio e degli occhiali da sole simili a quelli di Kevin Spacey in K-Pax, Szymon  tra dei bidoni della spazzatura trova un’automa. È una ragazza sui vent’anni (Dagmara Brodziak, co-protagonista e co-sceneggiatrice) dal corpo minuto e coperta di sporco, qualcuno l’ha vestita con un abito da sera luccicante e le ha messo una parrucca bionda in testa per qualche motivo sconosciuto. Sembra vittima di un gioco erotico finito male in cui hanno abusato del suo fragile stato mentale e cerca continuamente di nascondersi. Le hanno tolto il collare e secondo i telegiornali questo è pericoloso: l’interruzione del farmaco può far riaffiorare l’aggressività nel soggetto con esiti imprevedibili. È il primo automa che Szymon vede da vicino in vita sua, il suo primo “contatto umano” con una delle persone per cui ha deciso di immolarsi dopo aver rifiutato in ospedale anche solo di incontrare una bambina a cui avrebbe donato gli organi. L’influencer decide di portarla a casa, per lo meno di lavarla e darle qualcosa da mangiare. Anche se questo tipo di contatti umani sono severamente vietati e sanzionati, in fondo a lui restano solo poche ore di vita. Lei sembra un pulcino che guarda per la prima volta qualcuno che si prende cura di lei, è spaventata quanto fragile, trema e ha una gran fame. Szymon su due piedi decide di estrarle il localizzatore luminoso che ogni automa porta sulla schiena e accompagnarla fino al confine di Stato, in un posto in cui la legge sugli automi non esiste. Durante un viaggio quasi bucolico tra la campagna più lussureggiante e le solitarie località di confine, il ragazzo inizierà ad interrogarsi seriamente sul suo sensazionale “suicidio programmato e pubblicizzato”. Dalle ragioni per cui lo compie, alle persone a lui care per cui lui davvero ritiene giusto farlo. Insieme alla ragazza, che ha ribattezzato “Blue”, per la prima volta Szymon sente di avere uno scopo per cui è ancora importante vivere. 

Lungo la strada Blue ha trovato una gallina e ora cerca di accudirla al meglio, come il ragazzo sta facendo con lei. Quando saranno arrivati al mare, la ragazza sarà in salvo. 


Il film di fantascienza sociale di Michal Krzywicki, scritto e interpretato insieme a Dagmara Brodziak nella loro prima prova con un lungometraggio, porta in scena un futuro prossimo venturo malinconico e dolente, frutto del fallimento della società moderna nel preservare eticamente il suo capitale umano. È un luogo dove si sono create nuove caste sociali di sfruttati, dove il suicidio “per spettacolo” è incoraggiato e dove i rapporti umani anche all’interno della famiglia diventano sempre più virtuali, distanti al punto da essere solo “simbolici”, mere “etichette sociali”. Non esiste un percorso di reinserimento sociale che non sia il trasformare le persone in un “oggetto sociale”, alla stregua di animali da allevamento, con la pellicola che più volte sovrappone metaforicamente gli automi agli animali allevati in batterie. Il viaggio esistenziale di Szymon parte in astratto dalla voglia di ribaltare da solo il mondo con un proprio gesto estremo di “autodistruzione” sulle cui radici personali la pellicola ci permetterà di indagare. Poi però il film prende la forma di un intimo e personale “percorso generativo” sulla scoperta nel protagonista di un sentimento simile alla paternità e forse all’amore. Quando Szymon si specchia nello sguardo di Blue il fenomeno dell’ “imprinting del pulcino” si attiva verso entrambi i personaggi e anche il film muta forma e intenzione e inizia a ragionare su un possibile futuro per i due. Dal disperato mondo cittadino notturno alla Blade Runner carico di palazzi e neon del primo tempo si passa (se vogliamo come nel finale di Blade Runner, ma prima) a un ambiente naturale più accogliente, carico di vegetazione rigogliosa, animali e corsi d’acqua. È interessante notare come i due mondi possano coesistere ed essere anche “non troppo distanti”, come a dire che la scelta di un futuro diverso può essere sempre e comunque alla portata di mano di chi decide di coglierla. 

Molto bravi gli interpreti, con menzione d’onore per la bravissima Dagmara Brodziak, in grado di dare vita con il suo corpo ed espressività a un personaggio complesso quanto tenero, selvaggio e pericoloso quanto umanamente fragile e sensibile. Visivamente si avverte un forte cambio di stile tra il primo e il secondo tempo, ma le due visioni arrivano via via a uniformarsi in modo armonico. Molti e sfiziosi i rimandi all’originale Blade Runner, al punto che una visione comparata delle due pellicole potrebbe essere molto stimolante. 2028: la ragazza trovata nella spazzatura è un piccolo film da festival, carico di molte interessanti suggestioni visive e narrative e interpretato da una coppia di attori molto affiatata e convincente. La produzione non fa affidamento su un budget molto ricco, ma sa bene compensare con le idee. L’accompagnamento sonoro ci porta in territori malinconici ispirato con gusto a quelli raccontati da Vangelis, molto stimolante il lavoro svolto sulla fotografia. Gli “automi” sono delle creature insolite e ricche di un potenziale che sarebbe bello vedere sviluppato anche in successive pellicole. Diversi dagli zombie romeriani quanto dai “lavori in pelle” di Dick, possono riflettere idealmente un’umanità ormai assuefatta e anestetizzata (magari dai social), ma subito pronta a un inaspettato risveglio una volta che scollegata dal collare". Una piccola perla per chi ama la fantascienza declinata al sociale e saprà quindi cogliere i tanti spunti che un giovane autore come Michal Krzywicki è in grado di proporre, con successo, già dai suoi primi lavori. 

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domenica 19 marzo 2023

Miracle (Miracle: Letters to the president): la nostra recensione del nuovo film del regista coreano Lee Jang-Hoon

Ci troviamo in una Corea del Sud degli anni '80, in un villaggio situato nella parte settentrionale della provincia di Gyeongsang. Jung Joon-kyeong (l’attore Park Jeong-min) è un ragazzo del liceo con gli occhi puntati verso le stelle e un innato talento per la matematica che potrebbe portarlo davvero lontano, magari alla NASA. Invece a scuola arriva spesso in ritardo e sembra sempre spento, stanchissimo fin dalle prime ore. Certo tutti i giorni il ragazzo prima di giungere a scuola deve affrontare una specie di “piccola avventura”, perché il bellissimo villaggio immesso nel verde dove vive non ha strade di collegamento percorribili con delle automobili o a piedi, ma solo attraverso i binari dove passano i treni. Ci sono i binari ma non una stazione ferroviaria, così i pendolari diretti in città devono districarsi in un percorso paesaggistico da sogno tra meravigliose gallerie avvolte dalla vegetazione e tre spettacolari ponti a strapiombo su una superficie d’acqua limpidissima, ma con il perenne rischio di venire travolti. I treni di linea sono in genere così puntuali e prevedibili da poter essere evitati con un minimo di programmazione, ma i treni merci sono un’incognita e qualche volta ci scappa la disgrazia. È la dura realtà con cui convive da sempre Jung Tae-yoon (Lee Sung-min) padre di Jung Joon-kyeong e macchinista proprio dei treni che percorrono quella tratta. È un lavoro che l’uomo cerca di affrontare con attenzione e scrupolo, ma che spesso gli toglie il sonno e lo costringe per lunghi periodi a stare lontano da casa. Così il ragazzo, orfano di madre, fin da piccolo cresce per lo più con il supporto di una sorella poco più grande, la sorridente Jung Bo-Kyeong (interpretata da Lee Soo-Kyung), e periodicamente scrive al presidente della Corea perché faccia per legge mettere una piccola stazione ferroviaria locale. Queste lettere per lo più rimangono inascoltate, per anni e anni, fino a che il ragazzo incontra a scuola una “musa” (impersonata dalla attrice  Im Yoon-ah ). È  ragazza che per “ il suo bene” (e perché le muse “si sentono realizzate solo facendo il bene degli altri”) decide di migliorargli la vita, spingendolo a fare qualcosa di diverso. Così Jung Joon-kyeong  per la prima volta inizia a “smuoversi” e aiutato da lei inizia per lo meno a scrivere delle lettere al presidente “grammaticalmente corrette”… perché anche questo fino ad allora poteva essere stato un problema. Con il supporto della musa il ragazzo inizia ad appassionarsi ai libri anche non di matematica, esplorando il genere “sentimentali”. Si avvicina insieme a lei ai videogame dove “bisogna imparare a correre” come Hyper Olympic di Konami, per cui la musa gli insegna il trucco di sfregare il tasto del cabinato con una monetine per andare più veloci. Poi un giorno la ragazza ispira per davvero Jung Joon-kyeong  a realizzare qualcosa “di grande” e lui si mette a progettare una specie di semaforo che rileva le vibrazioni, per capire in anticipo quando un treno si avvicina alle tre bellissime/maledette gallerie e prevenire incidenti. Lui scopre di essere capace di farlo e realizza un congegno di cu si avvalgono tutti i suoi concittadini pendolari. Poi il presidente finalmente risponde, forse per la grammatica migliore adottata. Si prospetta davvero all’orizzonte l’idea di realizzare una stazione vera e propria per il villaggio, ma lo Stato non da finanziamenti e Jung Joon-kyeong a budget zero con la collaborazione dei soli concittadini decide di crearne una su suo progetto. Anche questa impresa sembra realizzabile, forse. Peccato che ci sia sempre qualcosa di inesplicabile che nonostante l’impegno della musa impedisce ancora al ragazzo di pensare il suo futuro oltre i confini del suo villaggio, collegato con il resto del mondo. Forse ci sono prima per lui altre “sfide ingegneristiche” da realizzare, come riuscire a costruire “un ponte” che lo leghi emotivamente al padre.  

Forza quella stazione permetterà a suo padre di tornare la sera a casa e poi aiuterà il ragazzo a partire per iniziare una nuova vita. 

Riuscirà Jung Joon-kyeong a raggiungere i suoi sogni o la stazione che lo porterà verso il suo futuro non sarà mai realizzata ? 


Liberamente tratto da una incredibile storia vera, Miracle è un film che inizia quasi come una favola, prende presto i tratti di una commedia dai toni leggeri e romantici e poi si incupisce. La trama affronta il “lato oscuro dell’interiorità” e si fa dramma esistenziale e familiare, per infine rialzarsi ed elevarsi a metafora: l’immagine di una nazione la cui modernizzazione è arrivata a strappi, travolgendo o abbandonando senza troppi riguardi alcune realtà urbane. Il tutto avviene in modo progressivo e armonioso, con una “scrittura visiva” delicata, con i toni che all’inizio molto simili a un fumetto per ragazzi. Con grazia e la candida bravura dei giovani interpreti, i vari livelli narrativi iniziano a sovrapporsi in modo ordinato, attraverso una esplorazione dei personaggi che prosegue per complessità dalla descrizione dei luoghi in cui vivono all'analisi del modo in cui interiormente si sentono. Le piccole stazioni ferroviarie coreane, le cui sale di attesa sembrano soggiorni in cui sedersi in compagnia, leggere un giornale e condividere il the, diventano luoghi che legano le città come avvicinano le persone. La condizione di isolamento geografico diventa per il giovane protagonista la causa di uno stato psicologico non troppo lontano dall’Hikikomori, che la pellicola riesce a descrivere in un modo originale e ben riuscito. Molto carino il rapporto tra il ragazzo “chiuso in se stesso” e la sua estroversa “musa”, più problematico ma intenso il rapporto tra il ragazzo e un padre che cerca con grande senso di colpa di divenire un ingranaggio sempre più funzionale ed efficiente del “sistema paese”. Il film scorre veloce, con una leggera inflessione nella seconda parte, quando si passa dalle atmosfere da commedia all’esplorazione dell’interiorità dei personaggi. Il film qui quasi “si ferma a una stazione”, ma poi riparte con successo in una lunga corsa finale. 

Molto bravi gli interpreti, quasi sognanti gli scorsi paesaggistici lungo il tragitto tra il villaggio e la città, malinconica ma dai risvolti positivi la trama che va piano piano a svelarsi. 

Un film che diverte e commuove, magari esteticamente più vicino a un pubblico più giovane, ma che riesce a catturare l’attenzione anche di una fascia più generalista attraverso dei temi originali e anche profondi. 

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sabato 18 marzo 2023

Educazione fisica: la nostra recensione del film sul difficile rapporto tra scuola e genitori diretto da Stefano Cipani

Ci troviamo in una scuola italiana dei giorni nostri, in un sabato pomeriggio assolato. All’interno della palestra dell’istituto sono stati convocati dalla preside (Giovanna Mezzogiorno) alcuni genitori, mentre fuori i rispettivi figli stanno giocando nel campetto a basket.

L’imprenditore Franco (Claudio Santamaria) e Carmen (Raffaella Rea) credono di essere lì perché la loro relazione clandestina, consumata di recente e più volte nel parcheggio davanti alla scuola, è stata infine scoperta, con la preside che ha deciso di ficcanasare nelle loro vicende personali. Si sono già accordati per negare tutto e contro-denunciare con forza la calunnia, quando in palestra arrivano anche Aldo (Sergio Rubini) e Rossella (Angela Finocchiaro), i genitori adottivi di un ragazzo di origine straniera compagno di classe dei loro figli. Forse l’incontro potrebbe riguardare un atto di bullismo? Impossibile: i loro tre ragazzi stanno giocando a basket e ridendo insieme, a pochi metri da loro. Magari la ragione dell’incontro può essere diversa. La palestra è fatiscente e Franco e Carmen da ex alunni sono sicuri che non viene ritinteggiata da oltre 20 anni. La scuola crolla a pezzi e loro sono persone abbastanza abbienti, appartenenti al circolo del Tennis, mentre Aldo lavora in ospedale: può essere che la preside li stia cercando di coinvolgere in una raccolta fondi per una ristrutturazione dell’edificio con annessa anche una moderna infermeria. 

Strano, ma possibile. Certo, se fosse questa la ragione, perché una convocazione urgente, di sabato pomeriggio? 

In pochi minuti la preside arriva, con tutto il classico alone di supponenza e antipatia che da sempre si trascina dietro, da quando ha sostituito il figlio di Franco con un ragazzino portatore di handicap come protagonista della recita annuale. Puro finto buonismo. La situazione subito si fa tesa appena la preside parla e la ristrutturazione della palestra diviene l’ultimo dei problemi. Una ragazza le ha raccontato che tre ragazzi, i loro tre ragazzi, l'hanno stuprata proprio in quella palestra, tra le parallele e i cuscini per il salto acrobatico. Lo hanno fatto più volte e hanno ripreso le scene sul cellulare. La ragazza ha inizialmente provato a dimenticare l’accaduto, ma le azioni si sono ripetute nel tempo, diventando quasi una consuetudine per il “branco”. I filmati la preside non li ha ancora visionati ma “stanno girando”. La ragazza piangeva, era scossa e ci sono volute ore prima che raccontasse dell’accaduto. Era sincera e l’intenzione della preside è ora quella di chiamare quanto prima la polizia. Questa convocazione improvvisa con i genitori degli aggressori ha lo scopo di un iniziale confronto della scuola con loro, per aiutarli a preparare i rispettivi ragazzi a parlare con le autorità e collaborare. Non si vuole demonizzare nessuno, ma cercare di risolvere al meglio il tutto, nell’interesse dei minori.

I quattro genitori sono attoniti: l’immagine di immacolata innocenza che hanno dei loro figli sta come andando in frantumi. Così i quattro iniziano ad affrontare le classiche cinque fasi di “elaborazione del lutto” del modello Kubler-Ross: rifiuto, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. I genitori subito cercano di ricostruire i fatti concentrandosi metodicamente sulla assoluta innocenza dei loro “bambini”, senza nemmeno considerare l’ipotesi che quanto hanno appena ascoltato sia vero. “La ragazza si è sbagliata” diventa presto rabbiosamente “la ragazza è una facile, che è solita ubriacarsi alle feste” o peggio “li ha abbindolati, ha fatto loro violenza e ci ha incastrati per i nostri soldi”. Perché alla fine può essere tutta una questione di soldi, no? Una truffa ai danni di figli di ricchi imprenditori da parte di una ragazzina “che sa usare il suo corpo”, una bega che si può risolvere in contanti. La preside un po’ schifata dall’evolversi della situazione esce dalla palestra, per chiamare la babysitter e dirle che farà tardi, magari di aggiungere un paio di ore. Carmen esce di volata, va a prendere dal figlio, che sta giocando a basket con gli altri, e il suo cellulare. Il gruppo vede il filmato. È allora che tutto assume una prospettiva differente e i fatti necessitano di una nuova elaborazione.

Al rientro della preside, tutti i genitori sono concordi su una cosa: fargliela pagare cara se non starà dalla loro parte. 

 


Cosa può “fare” o “costringersi a pensare” un genitore, pur di preservare dentro di sé, anche solo a livello “inconscio”, l’immagine immacolata e “l’onore” del proprio figlio? Fino a che punto un genitore può spingersi ad accusare la scuola, lo stato e il mondo intero prima di rivolgere a se stesso la più banale e terribile delle domande: “io quanto sono stato bravo, come primo educatore di mio figlio, se mio figlio ha commesso errori così gravi?”. Domande terribili per i genitori di oggi come di ieri, che nessuno ha davvero la forza di affrontare, specie in un momento storico in cui i genitori per motivi di lavoro hanno sempre meno tempo da dedicare personalmente ai figli. Tutto il mondo a tutti i livelli deve essere così “a prova di bimbo piccolo”, proprio per supplire alla mancanza di sorveglianza e guida di genitori consciamente e inevitabilmente assenteisti. Senza tenere conto del fatto che i bambini diventano piano piano inevitabilmente adulti senza essere preparati ad esserlo, anche se i genitori provano a fare il massimo che possono. Il rischio concreto è che i problemi educativi, la morale, la sessualità, il “cosa è bene e cosa è male” e tutto quanto riguarda una inevitabile conoscenza più approfondita del mondo, siano questioni che non si affrontino mai, per nessun motivo, perché sarebbe come aprire ai propri “eterni pargoli” una porta “sul male” (e sul crescere) ormai inaccettabile perché ingestibile per mancanza del giusto tempo. Poi il “male” inevitabilmente arriva, perché nel mondo il male esiste. Il male terrorizza, ma pure può sedurre, qualcuno potrebbe pure considerarlo eccitante, “divertente”, pronto a conferire in un attimo potere ed emancipazione. Ed è “per pochi”. Sale così un fascino del proibito che presto scoppia in faccia a dei ragazzini anestetizzati da un mondo che “non ne parla e non ne può parlare”, senza che loro sappiano davvero “che cos’è”. Ma ora sono consci che può esistere ed è facile sperimentarlo. Educare è diverso da coccolare o proiettare sui figli i sogni dei genitori. Ma è meglio per troppi adulti non pensarci, rimandare all’infinito la questione anche quando inevitabilmente arriva qualcuno che come impegno sociale deve dare una istruzione e dei giudizi ai ragazzi, come fanno gli insegnanti e la scuola in genere. Questi “intrusi” vengono (tragicamente) sempre più visti come un “nemico naturale della famiglia”. In passato gli insegnanti erano addirittura stimati e ringraziati per il loro supporto educativo, ma i tempi cambiano, anche la scuola ha le sue colpe e trovare una fiducia tra famiglia e l’istruzione scolastica è un equilibrio complesso e qualche volta complicato. Far quadrare le cose assume alle volte contorni eroici. 

La sceneggiatura dei fratelli Di Innocenzo, tratta dallo spettacolo teatrale La palestra di Giorgio Scianna, è una riflessione sull’eroismo di un’insegnante (il personaggio della Mezzogiorno) nel diventare lei stessa “un reale ponte” tra la famiglia e una delle massime istituzioni, la giustizia, aiutando in concreto dei ragazzi e le loro famiglie in una situazione molto difficile. Un “farsi da tramite” spericolato, sentito quanto pericoloso e che va a infrangersi con un mondo dei genitori incapace di riflettere su se stesso. Al punto che i figli sulla scena non sono nemmeno rappresentati visivamente, se non “citati a livello sonoro” attraverso i rimbalzi di un pallone da basket oltre le pareti della palestra. Un “oggetto perfetto e intoccabile dell’ego” più che delle persone con cui relazionarsi . Allo stesso modo è assente la vittima, la polizia, uno psicologo o un assistente sociale, perché quello che viene a delinearsi fin dalle prime battute è uno scontro alla O.K. Coral tra scuola e genitori. O un “pomeriggio di sabato di fuoco”, se preferite. Ce lo dice la primissima scena: quando i genitori arrivano con le auto sul polveroso parcheggio dell’instituito alzando mulinelli di terra, con una colonna sonora da film western. Con Santamaria che dice “aspettateci qui, torneremo tra un’ora” come un bandito pronto a rapinare la banca. La palestra è come la banca diroccata di una città fantasma, un corpo in decomposizione pieno di crepe e calcinacci, per lo più ricordato dagli ex studenti come alcova per relazioni clandestine fuori orario. La preside di Giovanna Mezzogiorno come il classico direttore spaventato ma pronto a prendersi una pallottola parla piano, usa troppe parole, è ricurva, di bassa statura, gentile oltre il necessario. Santamaria sventola la carta di credito e la parlantina da consumato commerciante come una colt, senza scrupoli e umanità. Il personaggio di Raffaella Rea ha la gentilezza del rapinatore che ripete “queste cose non succederebbero se le istituzioni funzionassero bene” e Rubini e la Finocchiaro, con il loro cagnolino e l’aria smarrita, incarnano la classica famiglia per bene che da un momento all’altro può tirare fuori il forcone e farsi giustizia da sola. Se il campo della palestra è il luogo del duello, il buio degli spogliatoi permette di accedere a un altro mondo, un luogo interiore in cui qualcuno può di nascosto dagli altri piangere e magari combattere con quella domanda ossessiva: “sono stato un bravo genitore?”. È un dietro le quinte doveroso, silenzioso e doloroso che ci permette per un attimo di guardare “oltre la maschera” di personaggi troppo arrabbiati per poter dialogare in pubblico. 


Il film di Cipani è un forte atto di accusa ai modi in cui oggi, in troppi casi (spesso riportati tragicamente anche dalla cronaca locale), viene vissuta la relazione tra famiglia e scuola. Si parla anche di bullismo e violenza di genere, ma sono argomenti che la pellicola, per scelta precisa, ritiene necessario affrontare solo dopo che diviene possibile instaurare un minimo clima di fiducia tra genitori e insegnanti. È un film che in questa ricerca infruttuosa di dialogo diviene rabbioso e irrisolto, urlando l’urgenza di ripensare a questo rapporto complesso in modo più strutturato e consapevole, magari con il coinvolgimento attivo di più attori sociali. Un coinvolgimento che virtuosamente si sta facendo largo all’interno di iniziative tra operatori del terzo settore per ora ancora sporadiche ma positive, da sviluppare ulteriormente. Molto bravi tutti gli attori, anche perché quasi tutti intenti a impersonare personaggi umanamente inadeguati, sgradevoli e manipolativi. La visione passa velocemente, con un coinvolgimento dello spettatore che può “montare” insieme alla sua rabbia per come la vicenda va a dipanarsi e concludersi. 

Un film che fa riflettere e incazzare, di quelli necessari per poter immaginare un mondo diverso. 

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venerdì 17 marzo 2023

What’s love? (What’s love got to do whit It): la nostra recensione della commedia dai produttori di Bridget Jones e Love Actually per la regia di Shekhar Kapur

Siamo nella Londra dei giorni nostri, in una zona residenziale fatta di villette molto simili tra loro. Qualche volta tra il civico 47 e il 49 della stessa via sembrano coesistere felicemente due mondi lontani un intero continente. Sono due casette simili in tutto e per tutto, in cui vivono da sempre famiglie amiche pur etnicamente diverse che condividono spesso le rispettive feste tradizionali, con sul confine una casetta sull’albero dove fin da piccoli giocavano insieme Zoe e Kazim. Al numero 47 vive Zoe (Lily James), una inglesissima ragazza single sulla trentina che fa la giornalista, abita insieme alla sua eccentrica e solare madre Cath (Emma Thompson) e spesso viene ingaggiata per fare la babysitter a due bimbe. Le piace raccontare prima della buona notte “sue versioni personali” di favole classiche, un po’ autobiografiche e ironiche, in cui il principe azzurro infine non è poi “così azzurro” (nota: la James è stata Cenerentola nel film Disney live action diretto da Kenneth Branagh). Al numero 49 vive il trentenne medico single Kazim (Shazad Latif) insieme alla gentile e comprensiva madre Aisha (Shabana Azmi) e al resto della sua famiglia. Kazim è slanciato, spiritoso, una persona gioviale e moderna. È molto legato a Zoe e deve sposarsi a breve in un matrimonio combinato, come da tradizione pakistana. 

Ci sono delle vere e proprie agenzie che organizzano matrimoni combinati tra persone di origine straniera anche resistenti in altri paesi e la famiglia di Kazim si affida a quella dell’istrionico “Mo il combina-coppie” (l’attore comico Asim Chaudhry), che possiede un ampio database per nazionalità (anche miste), religione, passioni, colore dei capelli, temperamento, percorso scolastico e “gradazione cromatica della pelle”. Tutto da poter decidere con specifici questionari per verbalizzare con sicurezza tutte le richieste, soddisfatti o divorziati. Molto dubbioso ma deciso a perpetrare la tradizione, visto che i suoi genitori in fondo si sono conosciuti allo stesso modo, Kazim prova a contattare in skype la ragazza scelta di comune accordo che corrisponde al suo profilo: la giovane  Maymouna (Sajal Ali). Di anni 22, studentessa di giurisprudenza, timida ma graziosa, che è disposta a venire a vivere in Inghilterra e ora vive in una località del Pakistan dove Kazim ha ricordi del nonno. Sembra funzionare, alla famiglia lui sembra così contento che pure la madre di Zoe prova in qualche modo a organizzare un matrimonio alla figlia, puntando tutto sul veterinario James (Oliver Chris): trentenne, gentile, molto bravo a prendersi cura del loro cagnolino Bailey. 

Zoe non ci crede che l’amico di sempre sia d’accordo con questo modo indiretto di trovare l’amore, fatto con una specie di Tinder “per genitori a fine matrimonio”. Ma di contro è molto dubbiosa pure sul matrimonio che le sta combinando “fai da te la madre”. Di sicuro però, visto le sue “favolose” esperienze passate, non è che lei sia stata molto fortunata con i ragazzi. Il principe azzurro può però veramente essere trovato in quel modo nel 2022? Kazim è un po’ confuso, ma anche divertito dalla situazione. Così  Zoe coglie la palla al balzo per proporre a dei produttori un docu-film sui matrimoni combinati per ragioni culturali: un’occasione per lei per intervistare varie coppie di nazionalità diverse e seguire Kazim in Pakistan, dove lui conoscerà e poi sposerà la sua promessa moglie. Titoli provvisori del film: “Prima ti presento i miei” o “Amore e altri contratti”. La situazione parte in modo giocoso e coloratissimo, con gli eventi che sembrano svilupparsi fino quasi a diventare un musical dì Bollywood, ma poi iniziano a sorgere dei dubbi. Kazim e Zoe, perduti nella notte tra le indiavolate feste pre-matrimoniali pakistane iniziano ad avvicinarsi, ascoltando in un vicolo la suggestiva musica “Sufi”. Zoe nell’intervista che precede la celebrazione chiede all’amico se è davvero sicuro di compiere quel passo. La distanza tra i mondi del civico 47 e il 49 potrebbe in questo caso diventare siderale.


What’s love? è una commedia inglese romantica e “multietnica” scritta da Jemima Khan, figlia del magnate James Goldsmith ma sposatasi nel 1995 con il pakistano Imran Khan. Jemima è stata giornalista e produttrice della serie American Crime Story, qui alla prima esperienza da sceneggiatrice. Il regista è Shekhar Kapur, autore di origine indiana conosciuto per la sontuosa ed “epica” serie cinematografica Elizabeth con Cate Blanchett, qui intenzionato a seguire un registro molto più leggero ma non per questo privo di spunti interessanti, specie in riferimento alla società moderna. Si parla delle relazioni umane “all’occidentale” sempre più difficili da instaurare “nell’era-Tinder”: destinate in molti casi a evaporare una volta che la fiamma della passione iniziale si è spenta in favore di un “contatto più fresco”. Si parla al contempo anche dei problemi di sradicamento a cui va incontro una ragazza che deve sposarsi e andare a vivere nel paese del marito, anche in un altro continente, nella speranza che a un certo punto “subentri l’amore”. Si parla di come amore “per un buon partito” possa essere inteso, per le famiglie di qualsiasi estrazione culturale, come  una specie polizza di assicurazione sul futuro dei figli più o meno codificata, secondo il modo di agire della madre inglese o pakistana. È poi c’è il principe azzurro delle fiabe: che a volte bacia una “bella addormentata”, qualche volta sembra il lupo cattivo e qualche volta è “gentile ma bruttino, ma ci si può accontentare” come la Bestia de La Bella e la Bestia. Il fatto che sia la sceneggiatrice che il regista conoscano da vicino e abbiano saputo raccontare con personalità e semplicità le diversità culturali tra Oriente e Occidente, offre una lettura di questi temi non banale, mediante da un giusto “disincanto” e ironia. Molto bravi e affiatati gli interpreti principali, divertente una Emma Thompson che assume nel corso degli anni parti sempre più stralunate da burbera vecchietta, gustosissima la piccola parte di Asim Chaudhry. La messa in scena nella parte inglese è piuttosto classica e ricorda visivamente commedie come Bridget Jones, in alcuni frangenti assume la forma dei docu-film a tema sentimentale di canali come Real-Time (quelli con le interviste che alternano l’azione), ma sa diventare un colorato film di Bollywood nella parte pakistana. Nel complesso è molto gradevole e la durata complessiva è adeguata. 

What’s love è una pellicola leggera e romantica con qualche spunto narrativo davvero gustoso. Lo spettacolo procede senza intoppi fino a una terza parte, un po’ contratta ma stimolante e suggestiva. Il film ideale per una serata leggera e romantica, che qualche volta sa far riflettere. 

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mercoledì 15 marzo 2023

Il capofamiglia (Feathers): la nostra recensione del film di esordio del regista egiziano Omar El Zohairy

 


Egitto, da qualche parte tra dei palazzi fatiscenti e il deserto. In un luogo fuori dal tempo che potrebbe essere negli anni '70 come in un futuro post-apocalittico alla Mad Max, o peggio in un inquietantissimo presente, vive in un appartamento disadorno insieme alla sua famiglia una coppia sui quarant’anni con tre bambini, due sui sei/otto anni e uno di alcuni mesi. I muri e i pavimenti sono in cemento grezzo e coperti di macchie di natura indecifrabile, il bagno è di un paio di metri e assolve anche alla funzione di stanza per il bucato, in soggiorno c’è una piccola televisione a tubo catodico, un divano sfondato e nient’altro. Quando si tengono le finestre aperte c’è il rischio che nella casa entrino i densi fumi delle ciminiere di una attigua fabbrica “di qualcosa”, che inondano il locale di una specie di nebbia bianca mefitica. La donna (Demyana Nassar) ha i capelli raccolti sotto il velo tradizionale, ha vestiti da lavoro ed è sempre intenta a fare qualcosa. Si occupa da sola della casa, dei figli e delle spese, mentre il marito è quasi sempre fuori a lavorare in fabbrica o chissà dove. Lui ama girare per casa costantemente con gli occhiali da sole e una chiave inglese sempre al suo fianco. Ogni tanto rientra con cose senza senso che escono da degli scatoloni, come una fontana di cartapesta con attivazione elettrica o una palla da discoteca. I soldi che arrivano in casa sono amministrati da lui al cento per cento con assoluta tirchieria, a volte anche sottratti dalle mance dei bambini. Sono protetti da una piccola cassetta di sicurezza già più volte scassinata e la moglie ne ha un accesso limitatissimo solo per il cibo e per l’affitto, che l’uomo si ostina a pagare con mesi di ritardo. Ogni tanto rivolgendosi ai figli l’uomo promette di comprare per loro un biliardo, anche se non ne hanno mai visto uno e non sanno cosa sia. Le poche volte che parla alla moglie senza impartirle ordini in modo aggressivo, l’uomo le racconta di piccole mucche geneticamente modificate di alcuni centimetri che offrono latte di qualità superiore a quello che lei gli compra. Lei in tutto questo è stoica, abbastanza taciturna e lavoratrice instancabile. Un giorno per gli otto anni del bambino più grande fanno una grande festa, alla quale partecipa anche un mago. Un numero prevede la sparizione e riapparizione di un volontario attraverso una cassa magica. Il marito si propone e il gioco ha inizio. Solo che alla fine del numero qualcosa non funziona e al posto del marito compare un pollo. Il mago riesce a scappare nella notte, gli ospiti se ne vanno alla spicciolata e la donna ha questo pollo che in effetti, seduto sopra le scarpe del marito, ha un qualcosa di famigliare. Nei giorni che seguono attraverso un loschissimo amico di famiglia con una golf verde si cerca di trovare il mago girando tra i circhi di zona, mentre il pollo è affidato a un esperto stregone voodoo, che si spera “competente in materia”, che gli fa strani riti, lo lecca e gli fa mangiare delle foto dell’uomo scomparso. Di conseguenza il pollo sta male e deve essere assistito con delle flebo dal veterinario più lercio della zona su un tavolaccio pieno di sangue e animali morti, mentre nella sala d’aspetto si accoppiano dei cavalli. Intanto inizia a farsi largo il problema di “chi porterà i soldi a casa”, mentre l’uomo è ancora in quello stato. Certo è più prudente iniziare a dire in giro che il marito è scomparso. Nella fabbrica la moglie non può sostituirsi al posto di lavoro marito in quanto donna, ma il bambino di otto anni sì e lo prendono al volo. Alla polizia nessuno ascolta la donna per la denuncia di scomparsa perché lì “nessuno ascolta le donne in genere”, ma di contro ascoltano benissimo e h24 la radio trasmette il commento di partite di calcio a tutte le ore. Le cure del pollo sono inoltre costose, l’affitto pure arretrato va pagato, la “paga di un bambino di 8 anni” è limitata dalla mole di produzione che può sopportare e la donna deve così trovare un lavoro autonomo. Fortuna che qualcuno che può aiutarla in quella società alla fine si trova: è un malavitoso. Riuscirà il capofamiglia a risolvere la situazione?


Scritto da Omar El Zohairy e Ahmed Amer , il film ha per titolo inglese Feathers, che significa “piume” ma ha anche una curiosa assonanza con il plurale di “padre/capofamiglia”. La domanda da cui quest’opera prende le mosse è semplice: “E se alcuni padri si trasformassero per magia in polli al 100%?”. È una domanda che muove una estrema provocazione “sociologica”, dalla quale ci si aspetterebbe magari una storia surreale e sopra le righe su come una famiglia normale si può riassestare dopo un simile cambiamento. Abbiamo già avuto diversi film, specie americani, in cui “un padre” diventa un cane o un gatto o qualche altro animale: film in genere pervasi da un umorismo “per tutte le età”, quasi disneyano. Nella pellicola di Omar El Zohairy c’è invece qualcosa che va al di là della “effettiva differenza di avere per casa un padre o un pollo”, ossia la precisa critica a una società che non tiene abbastanza in considerazione il ruolo della donna. Un luogo in cui le donne non possono lavorare “in quanto donne”, non possono denunciare “in quanto donne”, non possono vivere da sole “in quanto donne” (e qui il tipo losco con la golf verde farà del suo peggio). Il fatto che il padre di famiglia sia diventato un pollo diventa di colpo la cosa più normale al mondo, perché la stessa sequela di eventi, al netto di uno o due maghi o stregoni in meno, sembra poter accadere nel caso il marito sia scomparso per davvero o infortunato gravemente. È il mondo sociale in cui vivono i protagonisti che fa paura, in quando fatiscente e desertificato come i luoghi alla Mad Max in cui la vicenda si svolge. Questo porta a una escalation degli eventi grottesca, che se idealmente parte da una satira più nobilmente “fantozziana” arriva velocemente al surreale kafkiano. Passiamo in un attimo dalla commedia alla tragedia e la bravissima Demyana Nassar affronta tutto questo mondo senza mai quasi cambiare espressione e senza arrendersi, con la consapevolezza che avere un marito così o un pollo è “del tutto uguale”, con la certezza che qualcuno che le darà una mano non si troverà da nessuna parte e che lei è l’unica che può cambiare le cose. Il suo personaggio è quindi eroico già prima che la storia la metta davanti a questa strana prova e viene chiaro da subito chi è il capofamiglia tra lei e “quello ricoperto di piume”. È già eroico quando cerca nelle prime scene di proteggere la sua casa dai miasmi industriali chiudendo a intervalli le finestre, in una gag fisica quasi chapliniana. Il film prosegue dalla prima all’ultima scena tenendo a braccetto il dramma e l’assurdo e riesce a farsi sempre coinvolgente, a tratti divertente come a tratti davvero cupo, “alieno”, disarmante. Se questo è il modo usuale di intendere la commedia per l’esordiente Omar El Zohairy, lo aspettiamo con estrema curiosità nelle sue successive prove. Gli interpreti sono tutti molto bravi, l’ambientazione è davvero fuori da ogni schema e pure la musica non poteva che essere surreale, raggiungendo il picco in una variante techo-folk-egiziana del tema di Love Story. Ogni tanto il mondo che descrive tra sangue e sporcizia è quasi horror come la provincia fatiscente di Trainspottig di Danny Boyle.


Non è un film semplice e non vuole esserlo, ma sa incuriosire e coinvolgere se si riesce a vedere nelle sue peculiarità. Strano per i paesaggi, strano per le relazioni umane descritte, strano perché figlio di una cultura magari a noi lontanissima (anche nel senso di intendere l’umorismo). Chi pensa che sia un film comico nel senso tradizionale ne può uscire malissimo, se vogliamo possiamo trovare delle assonanze con il Black humor più underground/destabilizzante del sopra menzionato Boyle di Trainspottig come di Terry Gilliam,
  ma  Omar El Zohairy fa un lavoro molto originale, davvero unico e che sfugge alle definizioni. È un film che parla in modo sublime della grande forza delle donne nel fare i conti anche con l’assurdo e per questo è un film oltremodo attuale, un film che sa dare speranza.

Il capofamiglia è un’esperienza surreale da provare, magari con degli amici per parlarne insieme, farsi quattro risate e ragionare sui tanti spunti interessanti che questa pellicola fortemente underground muove. Per chi ama l’assurdo è una vera piccola perla. 

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