Egitto, da qualche parte tra dei palazzi fatiscenti e il
deserto. In un luogo fuori dal tempo che potrebbe essere negli anni '70 come in
un futuro post-apocalittico alla Mad Max, o peggio in un inquietantissimo
presente, vive in un appartamento disadorno insieme alla sua famiglia una
coppia sui quarant’anni con tre bambini, due sui sei/otto anni e uno di alcuni
mesi. I muri e i pavimenti sono in cemento grezzo e coperti di macchie di
natura indecifrabile, il bagno è di un paio di metri e assolve anche alla funzione
di stanza per il bucato, in soggiorno c’è una piccola televisione a tubo
catodico, un divano sfondato e nient’altro. Quando si tengono le finestre
aperte c’è il rischio che nella casa entrino i densi fumi delle ciminiere di
una attigua fabbrica “di qualcosa”, che inondano il locale di una specie di
nebbia bianca mefitica. La donna (Demyana Nassar) ha i capelli raccolti sotto
il velo tradizionale, ha vestiti da lavoro ed è sempre intenta a fare qualcosa.
Si occupa da sola della casa, dei figli e delle spese, mentre il marito è quasi
sempre fuori a lavorare in fabbrica o chissà dove. Lui ama girare per casa
costantemente con gli occhiali da sole e una chiave inglese sempre al suo
fianco. Ogni tanto rientra con cose senza senso che escono da degli scatoloni,
come una fontana di cartapesta con attivazione elettrica o una palla da
discoteca. I soldi che arrivano in casa sono amministrati da lui al cento per
cento con assoluta tirchieria, a volte anche sottratti dalle mance dei bambini.
Sono protetti da una piccola cassetta di sicurezza già più volte scassinata e la moglie ne ha un
accesso limitatissimo solo per il cibo e per l’affitto, che l’uomo si ostina a
pagare con mesi di ritardo. Ogni tanto rivolgendosi ai figli l’uomo promette di comprare per loro un biliardo, anche se non ne hanno mai visto
uno e non sanno cosa sia. Le poche volte che parla alla moglie senza impartirle
ordini in modo aggressivo, l’uomo le racconta di piccole mucche geneticamente
modificate di alcuni centimetri che offrono latte di qualità superiore a quello
che lei gli compra. Lei in tutto questo è stoica, abbastanza taciturna e
lavoratrice instancabile. Un giorno per gli otto anni del bambino più grande
fanno una grande festa, alla quale partecipa anche un mago. Un numero prevede
la sparizione e riapparizione di un volontario attraverso una cassa magica. Il
marito si propone e il gioco ha inizio. Solo che alla fine del numero qualcosa
non funziona e al posto del marito compare un pollo. Il mago riesce a scappare
nella notte, gli ospiti se ne vanno alla spicciolata e la donna ha questo pollo
che in effetti, seduto sopra le scarpe del marito, ha un qualcosa di
famigliare. Nei giorni che seguono attraverso un loschissimo amico di famiglia
con una golf verde si cerca di trovare il mago girando tra i circhi di zona,
mentre il pollo è affidato a un esperto stregone voodoo, che si spera
“competente in materia”, che gli fa strani riti, lo lecca e gli fa mangiare
delle foto dell’uomo scomparso. Di conseguenza il pollo sta male e deve essere
assistito con delle flebo dal veterinario più lercio della zona su un
tavolaccio pieno di sangue e animali morti, mentre nella sala d’aspetto si
accoppiano dei cavalli. Intanto inizia a
farsi largo il problema di “chi porterà i soldi a casa”, mentre l’uomo è ancora
in quello stato. Certo è più prudente iniziare a dire in giro che il marito è
scomparso. Nella fabbrica la moglie non può sostituirsi al posto di lavoro
marito in quanto donna, ma il bambino di otto anni sì e lo prendono al volo.
Alla polizia nessuno ascolta la donna per la denuncia di scomparsa perché lì
“nessuno ascolta le donne in genere”, ma di contro ascoltano benissimo e h24 la
radio trasmette il commento di partite di calcio a tutte le ore. Le cure del
pollo sono inoltre costose, l’affitto pure arretrato va pagato, la “paga di un
bambino di 8 anni” è limitata dalla mole di produzione che può sopportare e la
donna deve così trovare un lavoro autonomo. Fortuna che qualcuno che può
aiutarla in quella società alla fine si trova: è un malavitoso. Riuscirà il
capofamiglia a risolvere la situazione?
Scritto da Omar El Zohairy e Ahmed Amer , il film ha per
titolo inglese Feathers, che significa “piume” ma ha anche una curiosa assonanza
con il plurale di “padre/capofamiglia”. La domanda da cui quest’opera prende
le mosse è semplice: “E se alcuni padri si trasformassero per magia in polli al
100%?”. È una domanda che muove una estrema provocazione “sociologica”, dalla
quale ci si aspetterebbe magari una storia surreale e sopra le righe su come
una famiglia normale si può riassestare dopo un simile cambiamento. Abbiamo
già avuto diversi film, specie americani, in cui “un padre” diventa un cane o
un gatto o qualche altro animale: film in genere pervasi da un umorismo “per
tutte le età”, quasi disneyano. Nella pellicola di Omar El Zohairy c’è invece
qualcosa che va al di là della “effettiva differenza di avere per casa un padre
o un pollo”, ossia la precisa critica a una società che non tiene abbastanza in
considerazione il ruolo della donna. Un luogo in cui le donne non possono
lavorare “in quanto donne”, non possono denunciare “in quanto donne”, non
possono vivere da sole “in quanto donne” (e qui il tipo losco con la golf verde
farà del suo peggio). Il fatto che il padre di famiglia sia diventato un pollo
diventa di colpo la cosa più normale al mondo, perché la stessa sequela di
eventi, al netto di uno o due maghi o stregoni in meno, sembra poter accadere
nel caso il marito sia scomparso per davvero o infortunato gravemente. È il
mondo sociale in cui vivono i protagonisti che fa paura, in quando fatiscente e
desertificato come i luoghi alla Mad Max in cui la vicenda si svolge. Questo
porta a una escalation degli eventi grottesca, che se idealmente parte da una
satira più nobilmente “fantozziana” arriva velocemente al surreale kafkiano.
Passiamo in un attimo dalla commedia alla tragedia e la bravissima Demyana
Nassar affronta tutto questo mondo senza mai quasi cambiare espressione e senza
arrendersi, con la consapevolezza che avere un marito così o un pollo è “del
tutto uguale”, con la certezza che qualcuno che le darà una mano non si troverà
da nessuna parte e che lei è l’unica che può cambiare le cose. Il suo
personaggio è quindi eroico già prima che la storia la metta davanti a questa
strana prova e viene chiaro da subito chi è il capofamiglia tra lei e “quello
ricoperto di piume”. È già eroico quando cerca nelle prime scene di proteggere
la sua casa dai miasmi industriali chiudendo a intervalli le finestre, in una
gag fisica quasi chapliniana. Il film prosegue dalla prima all’ultima scena
tenendo a braccetto il dramma e l’assurdo e riesce a farsi sempre coinvolgente,
a tratti divertente come a tratti davvero cupo, “alieno”, disarmante. Se questo
è il modo usuale di intendere la commedia per l’esordiente Omar El Zohairy, lo aspettiamo con estrema
curiosità nelle sue successive prove. Gli interpreti sono tutti molto bravi,
l’ambientazione è davvero fuori da ogni schema e pure la musica non poteva che
essere surreale, raggiungendo il picco in una variante techo-folk-egiziana del
tema di Love Story. Ogni tanto il mondo che descrive tra sangue e sporcizia è
quasi horror come la provincia fatiscente di Trainspottig di Danny Boyle.
Il capofamiglia è un’esperienza surreale da provare, magari con degli amici per parlarne insieme, farsi quattro risate e ragionare sui tanti spunti interessanti che questa pellicola fortemente underground muove. Per chi ama l’assurdo è una vera piccola perla.
Talk0
Nessun commento:
Posta un commento