mercoledì 30 dicembre 2020

Quimby The mouse - la nostra recensione del capolavoro di Chris Ware nell’edizione pregiata di Oblomov Edizioni

 


Quimby assomiglia apparentemente al topolino degli albori in bianco e nero, vive apparentemente in un mondo assurdo Tex Avery in cui tutti e buffo, dagli incidenti stradali alle decapitazioni. Quimby vive un rapporto strano con il supereroe/ladro Ciclone ma soprattutto con se stesso, per via delle sue due teste. Una di loro sta male, si affatica troppo, si addormenta sempre, forse sta morendo e dovrà essere rimossa. Quimby potrebbe diventare solo e sentirsi di conseguenza “più piccolo” nel suo mondo, un mondo che senza l’altra testa è enorme quanto vuoto ma sempre con qualcosa di ingombrante in strada quando guidi un’auto, qualcosa da sbatterci contro. No, non siamo a Topolinia, ma a Omaha, negli Stati Uniti. Un posto bellissimo una volta, ma tutto chiuso nel presente, da quando Quimby non è più un topolino a due teste. Forse le cose cambierebbero se saltasse fuori l’altra testa, pur recisa potrà pure valere qualcosa? Bisognerebbe vedere nella credenza della cucina, pur con il rischio che quella inizi a piangere allegando tutta la casa. Ma il rischio si può correre, perché basta aprire la finestra e la cascata di lacrime ci porterà fuori, nel mare aperto, con la credenza come barca. Lì per lo meno potremo pescare e se quella testa extra continuerà a piangere la useremo come esca.


Follia escapista fortemente psicanalitica, sarcasmo sulfureo, una continua sperimentazione grafica e molteplici piani di lettura. L’arte “sequenziale“ propria del fumetto che spacca la logica “consequenzialista”, spingendo il lettore a muoversi tra le tavole a volte come tra i labirinti e rebus della settimana enigmistica, a volte tra i dettagli invisibili e didascalie a bordo pagina, libero di capire o non capire il contesto, rimanere folgorati o indifferenti. Così come accade nella vita. Quimby The Mouse, nato come striscia e presto diventato apripista della poetica visiva unica di Chris Ware, collocandosi agli inizi dei suoi Acme Novelty Library è un’opera enorme, fredda, geometrica e sontuosa quanto piccolissima, intima, che riesce a scaldare il cuore a chiunque si avvicini a lei con il giusto entusiasmo. Entusiasmo che nasce dalla scoperta prima di tutto dell’enorme “oggetto-libro” in cui l’opera è riversata in questa enorme e ultra-curata edizione. La copertina è un minuzioso quadro astratto simile a una finestra, composto da geometrie semplici e rivoli raffinati eleganti. Se fosse il rivestimento di una tavoletta (enorme) di cioccolata, sarebbe un prodotto di Willy Wonka. Sul retro di copertina una specie di diagramma pieno di cerchi, frecce e flussi, con disegni microscopici resi ancora più complicati da comprendere per via della colorazione in rapporto allo sfondo. È di fatto la prima “prova diabolica” che Ware, che ha curato ogni singolo dettaglio dell’albo, dai layout alle note in microscopico che dovrebbero essere relative ai credits della tipografia, pone al lettore. Un plauso enorme a Oblomov che sceglie una carta e formato che non nasconde alcuno di questi dettagli. Ci perderete due diottrie, vi prodigherete con lenti di ingrandimento e le lampade più appropriate a far riverberare fin alla grammatura del cartonato, ma in quel retro di copertina vi ci dovete immergere con tutta la testa o forse non riuscirete a superare la prima pagina del volume. Armeggiando un po’ ce la farete e vi sarà dischiusa l’ironia e il calore strabordante nascosto tra le geometrie più asettiche. Aprirete così l’albo e inizierete a leggerlo “tutto”, partendo dai molti ed esilaranti contenuti di stampo editoriale che contiene. Vi accorgerete che il formato assurdo, quello che vi ha più volte allontanato dall’acquisto per paura del “ora dove lo metto, se non ho un’auto?” ha un senso, Quimby The Mouse è come un quotidiano, con articoli di fondo, pubblicità, articoli di approfondimento. Ci sono anche dei lunghi tutorial per creare fai da te degli oggetti! C’è un significato nascosto al tutto e come tutti i grandi misteri Ware ce lo spiattella in prima vista senza che ce ne accorgiamo, come lanciando all’improvviso una barzelletta cattiva all’interno di uno spettacolo comico. Poi ci guida in un percorso grafico e narrativo subito criptico, straniante e progressivamente lo dissolve, palesa, fino a tornare a quel punto, al punto che tutto l’argomento dell’opera è sempre stato “quel punto”. Tutto combacia e ci si trova in un mare di lacrime, incapaci di girare la pagina e scoprire il nuovo indovinello visivo o narrativo. Sembra un po’ di trovarsi davanti a S - la nave di Teseo di J.J.Abrams, sembra di leggere una delle storie più intime di Gipi, dove l’autore ha tutta l’esperienza e generosità di farci accedere al suo mondo interiore. Di più, si scopre e riconosce una tecnica innovativa di fare arte e fumetto, al punto da poter comprendere meglio altri autori che possono essere “passati da queste parti”, leggendo anche loro Ware. Mi sono tornati dei rimandi forti al numero di Dylan Dog di Rathiger , In fondo al male, comprendendo l’amore sconfinato che Ratigher ha per Ware, al punto che ora a capo della Coconino sta cercando di portare in Italia altre opere di Chris Ware, partendo da Rusty Brown alla ristampava commemorativa di Jimmy Corrigan il ragazzo più in gamba della terra, non a caso altre opere che con Quimby The Mouse si sono alternate a puntate negli Acme Novelty Library. Tutti speriamo che Rathiger riuscirà a portare di Ware il gigantesco, in tutti i sensi, Building Stories, per esempio. Quimby The mouse è invece realizzato da Oblomov, ma il ramo non è certo lontano dall’albero in quanto la casa è diretta da Igort, non a casa il precedente boss di Coconino e fautore della medesima filosofia nella scelta degli autori. Igort crea così una edizione super-extra lusso, davvero imperdibile anche solo come oggetto d’arte. Leonardo Rizzi, adattatore leggendario delle opere di Alan Moore (
V per vendetta, Watchmen), Neil Gaiman (Sandman), Frank Miller (300, Ronin), Warren Ellis (Transmeteopolitan), riesce con Ware a far risaltare tutto l’umorismo, poetica, fine intelligenza. Alcuni passaggi rappresentano delle costruzioni visive e narrative ardite, ma scorrono con naturalezza e leggerezza nella nostra lingua. 



Vorrei dirvi di più di Quimby, vorrei “svelarvi il segreto” come molte testate hanno già fatto fin dal titolo dell’articolo dedicato, ma voglio lasciare a voi la scoperta, l’estremo appagamento che sa scaturire la lettura di quest’opera di Chris Ware, non a caso oggi considerato dalla critica uno dei più grandi artisti viventi del mondo delle nuvole parlanti. Anche questo è un punto critico involontario nel cimentarsi nella lettura delle sue opere: l’assunto che quanto stai per leggere “è il top della gamma artistica contemporanea”. Ware “intimorisce”, spesso si colleziona perché “si deve collezionare”, si sfoglia per cinque minuti, si saltano tutte le parti scritte con i loro muri di parole e diagrammi, non si capisce se bisogna leggerlo dall’alto, dal basso o a ritroso, lo si trova “Comunque magnifico”, forse “troppo critico“, si appoggia sullo scaffale in bella mostra come una riproduzione di Andy Warhol e... non si prende più in mano. E invece bisogna tuffarcisi dentro, prendere un pomeriggio intero per leggere e decifrare le 60 pagine più dense di informazioni che potreste immaginare. Se ci riuscirete, vincendo gli innumerevoli trabocchetti visivi geometrici, perdendo diottrie, cercando magari di realizzare fai da te un pupazzo meccanico seguendo le istruzioni, di colpo vi apparirà a fianco Chris Ware con l’aria bonaria, i suoi occhialini rotondi e sorriso beffardo. Senza un perché vi verrà voglia di abbracciare lui come abbraccereste Willy Wonka.

Talk0

martedì 29 dicembre 2020

S.W.A.T. : la nostra recensione della risposta cinese ad Act of Valor

 


Cina, giorni nostri. Una pericolosa associazione criminale dedita alla droga, che potremmo chiamare “gli occidentali”, sta espandendo il suo losco traffico dentro i confini dello Stato di Mao, facendo leva su dei traffichini locali collaborazionisti, disadattati e pure un po’ tossici. La droga originale straniera, la “Rainbow“, viene per motivi di marketing ribattezzata In Cina “Red“ in virtù dell’unico colore che si vede mentre la si assume, potenziandone gli effetti collaterali relativi al senso di paranoia e ad un’incontinenza bruciante (a uso ridere di una specifica gag). A contrastare la “Red” si mobilita la “Blue”, ossia la Blue SWAT Commando, una squadra di super Elite della polizia composta da modelli di intimo palestrati e spesso a torso nudo, espertissimi in ogni tattica militare, ogni mezzo, ogni arma, dotati di cameratismo e sense of humor, rispettosi della parità di genere, dall’uniforme impeccabile, patrioti inappuntabili. Mentre le indagini filano di un liscio che non ci si crede, la SWAT, divisa in squadra 1 e 2, si diletta in scontri simulati di tutti i tipi, alternandosi nei ruoli di buoni o cattivi (non a caso squadra blu buona e rossa cattiva), finendo spesso in situazioni in cui tutti si tolgono la canotta e mostrano gli addominali, mentre in sottofondo c’è un pezzo cinese che sembra la Haka degli All Blacks del rugby. Piccoli spaccati di critica sociale: la squadra 2 patisce dei piccoli favoritismi nei simulati, le esercitazioni costano un po’ troppo per il budget della divisione, il cecchino interpretato da Nailiang Jia ama fischiettare (incredibilmente, pure in lingua originale, forse un effetto collaterale di Casa di Carta) “Bella ciao”. Fine della critica sociale, anche perché qui non siamo in Tropa de Elite di Padilha: passiamo al piatto forte, le colorate e accurate scene action tattiche tipiche della SWAT. Ci sarebbe da dire che pure nei film sulla SWAT americana, compreso quello con Colin Farrell e Samuel Jackson, la trama era più una scusa per incatenare delle esercitazioni reali tipiche del corpo scelto, con basso interesse per cose più “cinematografiche”, compresa una decente rappresentazione del “nemico/sagoma da abbattere”. Pure qui è uguale e quando non si menano, per finta tra di loro, i nostri eroi patiscono il confronto con un nemico inadeguato, sfigato, autolesionista, male armato e generalmente pezzente. Roba che le sagome del tiro a segno delle fiere, a forma di papera, c’hanno più dignità. Tra i debosciati che infastidiscono in modo minimale il super team, eccoti il boss locale drogatissimo che va in giro con il pannolone o il writer sovversivo in tuta colorata armato di balestra, arrivando agli sconfortantissimi villain occidentali. Se nella saga di Wolf Warrior avevamo per lo meno cattivi bidimensionali ma tenaci, resistenti e latori di morte e con pure carisma come il Tomcat di Scott Adkins, il Big Daddy di Frank Grillo, la Moneymaker e Kozlov, in questo SWAT c’è la fiera della parodia discount delle “americanate”. Abbiamo come capo trafficante occidentale un Heisenberg dei poveri, segue uno straccionissimo sosia demenziale di Dominic Toretto e altra roba scarsa, imbarazzante e generica (tra cui la versione scema del Tomcat di Adkins!!!) che cade puntualmente come birilli senza sottrarre troppo tempo su schermo ai palestrati a torso nudo cinesi in primo piano. Insomma, riusciranno i nostri eroi a battere il nemico senza neanche sudare?



Non è Tropa d’Elite, ma non è manco Sniper di Dante Lam o PTU di Johnny To, dove la polizia è protagonista ma combatte anche con la sua anima nera e fallimenti personali. SWAT di Ding Sheng, per altro regista degli ottimi Little Big Soldier e New Police 2013: Lockdown con Jackie Chan, è più vicino alle brochure sulle attività e mezzi del corpo d’elite cui la pellicola è dedicata, come altri prodotti occidentali del “brand SWAT”. Non c’è volutamente troppa introspezione, si punta all’azione, specie alla simulazione fedele aggiornata agli ultimi giocattoli hi-tech del corpo (dai droni volanti ai robottini da spionaggio con cingoli, passando alle armi da disturbo elettronico) e qualche volta allo humor. Gli attori, peraltro giovani e simpatici, un po’ tutti uguali come ne La Sottile linea rossa (citazione volta a innervosire i fan di Malick) sono chiamati la maggior parte del tempo (quando non fanno le gag e i discorsi motivazionali patriottici, per intenderci) a ricreare scenari tattici di squadra perfettamente coordinati, al punto che quando si arriva alle scene di repertorio che riguardano i veri membri della Blue SWAT Commando (perché pure queste ci toccano) non si avvertono le differenze. Anche “gli originali” sono palestratissimi, impeccabili, affascinanti e ben coordinati, a differenza di quei mangia-hamburger dei reali soldati americani che interpretavano se stessi nell’analogo film-brochure Act of Valor, dimostrandosi tanto dei soldati da paura quanto degli uomini comuni, dal fisico comune e panciuto, nonché con fragilità emotive (oltre che attori canissimi). Qui non accade tutto questo aspetto “documentaristico” sul mondo interiore dello SWAT medio cinese e salvo il piccolissimo dramma del cecchino che deve trovare coraggio, tutti sono perfetti e simpatici nella vita quotidiana come nelle indubbiamente spettacolari scene di simulazione di combattimento (ed essendo attori veri non recitano neanche male). Se Wolf Warrior era poi il festival dell’iperviolenza liberatoria, con concessioni fantasy come i lupi digitali da affrontare con le baionette, SWAT nasconde sotto il tappeto ogni possibile lettura favolistica come apparizione di sangue, predilige per la maggior parte del tempo i proiettili di vernice delle simulazioni tra squadra 1 e 2 e quando occorre menare le mani “con le paperelle del tiro a segno” lo fa nel modo più asettico e non compiaciuto. 

Piccolissima ma gustosa la critica al sessismo, con momenti che da un lato puntano alla parità di genere considerando che “questa donna può combattere come un uomo”, alternati a momenti in cui i maschietti ancora continuano a vedere le donne come invisibili se non oggetti sessuali. Nel momento più assurdo, un cattivo occidentale che sorveglia l’isola dei cattivi viene abbindolato da una donna-swat che gli compare sulla costa, si scioglie i capelli e lo irretisce come fosse una sirena.  

Divertente, con ritmo, una bella fotografia ma forse troppo pettinato e abbastanza semplice nell’intreccio (action americano “light” anni ‘80 style), SWAT è un ottimo passatempo senza troppe pretese. Un po’ come una puntata di Carabinieri, aiuta molto a cogliere il lato più simpatico delle forze dell’ordine. Tre passi indietro al film action orientale medio, ma la serata coi pop corn te la fa fare. 

Talk0

lunedì 28 dicembre 2020

The prey - la preda: la nostra recensione del film di Dick Mass sulla gita di un leone mangiatore di uomini ad Amsterdam

 


Amsterdam, giorni nostri. Con il museo di Van Gogh chiuso e il quartiere a luci rosse un po’ fuori mano, un enorme leone mangiatore di uomini gira dalle parti del parco in cerca di divertimento. Dotato di una fame inestinguibile, presto diventa un pericolo per la cittadinanza. La veterinaria dello zoo (Sophie Van Winden) insieme a un cameraman esperto in documentari sugli animali (Julian Looman) indagano. La municipalità, dopo un paio di tentativi maldestri di catturarlo, decide quindi di affidarsi al un cacciatore di leoni esperto: un inglese eccentrico su una sedia a rotelle con cingolati (Mark Frost). 

Divertente, irriverente, qualche volta cattivello e pure satirico, il film scritto e diretto da Dick Mass è una autentica sorpresa che arriva a noi in home video grazie a Blue Swan e in streaming gratuito per gli abbonati Amazon Prime. È il classico film di “caccia al mostro” in salsa splatter e battute ironiche, sul modello di Piranha 3d, Zombeavers, Black Sheep. La fotografia è molto colorata, l’azione incalzante, l’umorismo si dipana in una serie di personaggi improbabili e sopra le righe intenti nel fare scemenze. Poliziotti che si sparano al buio tra di loro, cacciatori improvvisati che cadono nelle loro stesse trappole, bambinaie un po’ distratte, politici pomposi, tutto “fa menù” per il peluchoso, un po’ finto e un po’ creepy mangiatore di uomini. Una creatura che si muove tra il digitate ok e il “digitale barbone”, un po’ di animatronic e un po’ di giochi d’ombra, che al tempo stesso è simbolo e parodia di questo genere di film. Una creatura fintissima ma adorabile di cui però ci si affeziona, come ci si affeziona subito per il suo assurdo cacciatore sui cingoli, che pare una versione umanizzata di Rick di Rick e Morty. L’attore televisivo inglese Mark Frost è un vero mattatore per carisma sulla scena, ironia e pazzia, riuscendo però a percorrere un filo sottile che non ne fa una macchietta, concedendogli un umanità sincera. Le scene in cui il nostro eroe si scatena ripagano di un paio di comprimari un po’ appannati, al netto della divertente e non scontata final girl bionda della Van Winden. Tutto in Prey fila liscio, tra una risata e qualche effettaccio gore.

In alcuni momenti sembra quasi da vedere il misto di “furia urbana e personaggi fumettosi” delle scene della parte finale di Un lupo mannaro americano a Londra di Landis. Tra i “buffi abitanti di Amsterdam” come non citare la coppia dei netturbini uno balbuziente e uno distratto, il cacciatore stile Fracchia con figlio iperattivo, il rasta dalla criniera leonina che viene scambiato più volte per il predatore e ama fare la cacca dietro ai cespugli del parco. 

Si ride tra tanta azione, in sintesi, nel puro stile dei b-movie ma con tanto amore per il genere.

Bel colpo per la Blue Swan questo Prey.

Talk0

domenica 27 dicembre 2020

Wolf Warrior - la nostra recensione del primo film, del 2015, della saga del “Rambo Cinese” di Jackie Wu (Wu Jing per gli amici)


Cina, 2015, lungo il confine con il “resto del mondo”. Una zona brulla e non coltivabile stile Sparta, ma pur sempre terra dell’eroico popolo cinese. I membri di una organizzazione internazionale criminale identificabile come “gli occidentali”, piegati culturalmente al conseguimento del solo “vile denaro”, guidati da ex militari capitalisti come TomCat (Scott Adkins) e spregevoli collaborazionisti (Ni Dahong) ne hanno pensata un’altra. Vogliono portare via dalla Cina una benedetta e prodigiosa scoperta scientifica per farne una letale arma biologica con cui colpire vilmente la Cina stessa. Ma non hanno fatto i conti con gli eroici soldati cinesi che si stanno addestrando lungo quel confine, tra cui vi è il ribelle ma giusto, nonché letale, cecchino/esperto di arti marziali/tattico/assaltatore/ultra-patriota Leng Feng (Jacky Wu). Un uomo indistruttibile, spiritoso, altruista, integerrimo, letale e dall’effetto arrapante su ogni donna che gli si avvicina, pure se a capo di tutto l’esercito (Yu Nan). Un soldato pronto a vendicare tutti i compagni falcidiati dagli “occidentali”, in genere riconoscibili perché gli unici con un pur minimo approfondimento psicologico. Ce la farà il nostro eroe? Piccolo spoiler: Wolf Warrior è la serie di più grande successo della storia del cinema cinese, che ha incassato così tanto e così presto che alla fine della pellicola, prima che uscissero gli spettatori dalla sala (immagino sulla base delle sole prevendite), avevano già annunciato sui titoli di coda l’uscita della seconda pellicola. 


Da noi, cattivi “occidentali” italiani, giunto stranamente dopo il suo seguito Wolf Warrior 2, arriva grazie a Blue Swan, con una punta di trepidazione per chi come me lo aspettava, anche il primo capitolo della saga di Leng Feng. Il film è sempre scritto, diretto e interpretato da Jacky Wu e di fatto è la pellicola che lo ha consacrato a divo. Immediato è il possibile raffronto con Bruce Willis. Anche Jacky Wu nasce come attore in ruoli più leggeri, quasi da “spalla comica” al netto del fatto che fin da subito si dimostra un artista marziale da paura. Lo ricordiamo a fianco di Jet Li in Badges of Glory / Cani Sciolti, in cui è un insostenibile macchietta “over-sympathy”, lo ricordiamo in Kill Zone a fianco prima di Donnie Yen e poi di Tony Jaa in SPL/Kill Zone (di cui è da poco uscito SPL 3/Kill Zone Paradox). Nel tempo lo abbiamo visto, al pari di Bruce Willis e le sue canotte sporche, sempre più pompato nel fisico e sempre più sudaticcio, forse l’attore action che suda più di tutti per la fatica dell’impegno che ci mette, a dimostrazione della sua lenta trasformazione in “eroe proletario”. Coperto così di secchiate di sempiterno sudore, Wu Jing (o Jacky Wu se preferite) approda a Wolf Warrior come attore principale/autore/regista/produttore e sbanca tutto. Crea un eroe pieno di ingenuità e buoni sentimenti, uno come tanti in linea con gli action-Hero americani degli anni ‘80, e questo può essere un approccio originale non scontato per il cinema asiatico action e i suoi soliti eroi crepuscolari, i suoi Infiniti “underdog” sconfitti dalla vita ma con ancora un colpo il canna per fare la cosa giusta, diventati canone dagli anni ‘80 cinesi. In più, secondo punto interessante e vincente, è un eroe che mena prevalentemente dei villain occidentali, che appaiono in proporzione enormi e minacciosi quanto degli orchi, caratterizzati con sguardo da pazzi e appeal da mostri di un horror slasher alla Jason/Leatherface, “plasticosi” come i cattivi fumettosi dei supereroi Marvel. Terzo punto, ma forse il più importante di tutti, è un eroe al centro di pellicole ad altissimo budget, girate con ritmo e molta capacità nella gestione di scene d’azione che possono permettersi oltre che stunt meravigliosi, ambientazioni gigantesche e spettacolari, effetti speciali e sfoggio di ogni tipo di attrezzatura militare, dai droni armati ai carri armati ed elicotteri d’assalto. 



Per fare un action con i fiocchi non serve altro e si può volendo soprassedere, come già in molti facevamo con gli action a stelle e strisce dell’era Reaganiana e abbiamo fatto con tutto il cinema di Michael Bay, su una trama ultra-patriottica dai risvolti spesso involontariamente comici. È questo però il limite “Culturale” invalicabile per altrettanti spettatori, la circostanza ineludibile che sono pellicole che oltre a inscenare il classico conflitto di “buoni contro cattivi” puntano a una precisa propaganda, qui esplicitata a caratteri cubitali. L’occidente è “cinico e affamato solo di denaro”, la Cina è una grande nazione dall’aria esteriormente severa ma subito pronta a darti una pacca sulla spalla e a farti entrare in famiglia. Ai tempi di Delta Force, ieri con Black Hawk Down o 13 Soldiers, oggi con Wolf Warrior (ma potremmo citare pure molto cinema supereroistico), con le ovvie differenze di fondo, sta quindi a voi valutare quanto una “trama ultra patriottica” possa offuscare la visione di un action movie. Ma per me personalmente è un po’ come guardare per la trama The Protector di Tony Jaa. Wolf Warrior è un action visivamente sontuoso, con combattimenti da urlo e tocchi di umorismo Die-Hard style (c’è tutta una relazione telefonica a distanza tra l’eroe sul campo  e il suo comandante che richiama, volgendola al casto platonico, la bromance tra Willis e Reginald Johnson...e funziona!). L’esercito cinese si muove ordinato avanzando seguendo le tattiche militari, il nostro eroe fa il cane sciolto tutto istinto e azioni fulminee, ma il vero spettacolo sono proprio i cattivi. Cattivi che più cattivi non si può, ma che come accade poi in Wolf Soldier 2 riescono sempre a rubare la scena per bad-assitudine, a mani basse. Hanno nomi buffi e generici come Tomcat, Assassin, Cowboy, Mad Cow, sono tutti interpretati da attoroni magari non famosi ma specializzati negli action movie, spesso  in pellicole orientali, dove fanno gli stunt man, gli artisti marziali e in genere i “cattivi”. Kevin Lee lo abbiamo visto nel recente SWAT (presto una recensione) di Sheng “Little big soldier” Ding. Era in Dragon Blade con Jackie Chan con cui sarà anche in un prossimo Police Story, lavora con Van Damme e Scott Adkins. Chris Collins è in Kill Zone Paradox e Ip Man 4, Sona Eyambe è stato in Call of the undead, Christopher Collins era in White Storm. Naturalmente spicca Scott Adkins, principe degli stunt-man e attore da action movie “tamarri”, spesso nel ruolo di cattivo. Adkins si mangia letteralmente ogni inquadratura, riempie lo schermo di carisma anche quando per esigenze di copione deve fare dei monologhi laidissimi o è costretto a indossare una specie di pigiama folcloristico. Anche se Tomcat e il suo manipolo di mercenari sono indubbiamente i cattivi, questi agguerriti urukai si mettono ad attaccare da soli due compagnie di soldati cinesi d’elite, elicotteri e blindati, tra cui appunto un protagonista pressoché indistruttibile. Con i loro pugni e calci fanno mulinare in aria più cinesi per volta, hanno un cecchino che da solo fa fuori mezzo cast, radono al suolo foreste usando una minigun come in Predator e tengono testa agli elicotteri con lanciamissili che scatenano bombe a disturbo elettronico, lanciategli contro da un Van che fa a zig zag tra fangose montagne. Sono pazzeschi e agguerritissimi mentre i buoni scelgono volontariamente il profilo basso, sono uomini comuni, grassocci e timidoni, patriottici ma fragili. Anche e soprattutto Wu Jing, che suda tutto il tempo con i goccioloni sulla fronte e sul naso, che quando si commuove tira fuori un’espressione inaspettatamente dolce, ha un fare da fratello maggiore con tutti e in fondo “è“ il fratello maggiore per antonomasia. Quello che non fa il belloccio per rubarti la ragazza, quello un po’ burbero ma che se lo chiami c’è sempre, quello che con le donne ci parla senza fare il mandrillo. Oltre alla trama, oltre all’azione sfrenata, probabilmente è il faccione di Wu Jing l’arma vincente di Wolf Warrior, ciò che ha conquistato tutte le platee lanciandolo fino al recente e riuscito colossal sci-fi The Whandering Earth...dove guarda caso ricorda ancora Bruce Willis, ma quello di Armageddon. Il potere delle canotte e del sudore di Willis scorre ancora potente in lui.

Blue Swan ci porta un bel film action per sollazzarci una serata. Divertitevi tra inseguimenti e sparatorie  e spegnete un po’ la testa come quando guardate una qualsiasi cosa di Michael Bay o Chuck Norris. Sembra di essere tornati agli anni ‘80, con tutta la loro ingenuità e azione esagerata. 

Talk0

P.S.: momento topico da segnare, quando il nostro eroe da vero “Wolf Warrior” affronta un branco di lupi digitali nella foresta, senza colpi e armato solo di baionetta. Pare di leggere Berserk di Miura!!!


venerdì 25 dicembre 2020

Auguri di buon Natale e felice anno nuovo da blog!

 

È stato un anno dimmerda difficile e anche quello che sta per iniziare sarà abbastanza dimmerda complicato. Alcuni dei pazzeschi progetti multimediali che dovevano partire si sono ingolfati (come il Canale YouTube), così come per motivi di lavoro si è contratto il tempo per pubblicare. Ci dispiace molto per tutto questo, ma appena la situazione si stabilizzerà un po’ preparatevi a qualche mirabolante sorpresa (i podcast) . 

Da parte mia e di Gianluca un abbraccio rigorosamente virtuale covid-free, un sincero ringraziamento a quanti si intrattengono ogni tanto su questa paginetta e i migliori auguri per l’anno nuovo. Sicuri che Avatar 2 tirerà pacco anche nel 2021.

 

Talk0 e Gianluca



giovedì 24 dicembre 2020

Dragonero il ribelle n. 14: Ricercati! - la nostra recensione


Mondo di Dragonero, anni dopo il corrente ciclo narrativo. Il vecchio Gmor con la sua badante elfica si appresta a una delle classiche “quest” dei vecchietti comuni: aspettare che arrivi il fabbro per sistemare una porta, seppur fantasy, che possa metterlo al sicuro dai rivenditori della Folletto, seppur fantasy, che da sempre spiano maligni i vecchietti oltre l’uscio di casa, nell’ombra. Nel mentre, per ammazzare il tempo, il nostro orco del fuori si dedica come tutti i vecchietti a un po’ di amarcord, scrivendo per la sua autobiografia alcuni momenti epici della sua giovinezza, quando era bello, ribelle, amava i Beatles e i Rolling Stones. Il primo dei suoi entusiasmanti racconti riguarda il momento di quando i ribelli sono riusciti ad aprire la loro prima linea di Deliveroo. Una specie di Amazon erondariano con capannone centrale e una linea di riders pallone-aerostatico-muniti. La seconda storia riguarda un suo viaggio nell’estremo oriente in cui ha fatto a botte con roba tipo ninja, in cui ha incontrato una tizia armata di accette con una missione che ora a ripensarci non si ricorda bene, quindi la tronca lì e si mette come tutti i vecchietti alle 19.40 a guardare la Ghigliottina all’Eredità Erondariana. La terza storia è la classica faccenda del nerd tecnocrate con una torre abbandonata, con in cantina un mosto tentacolare con cui girare i classici anime porno giapponesi degli anni ‘90. Solo che quelle cose nel 2020 non si fanno più, così come non si trovano più i programmini zozzi stile “La bustarella” in tv sui canali locali (i vecchietti spesso non affrontano internet per queste cose), quindi il mostro tentacolare va menato in onore del politically correct. Arriverà in tempo il fabbro, prima che Gmor passi a raccontarci di quella volta che è stato in coda alle poste a pagare l’IMU?

Ci sentiamo tutti un po’ come il vecchio Gmor, in questi giorni. Impossibilitati a vedere il futuro causa protrarsi di pandemia, ci buttiamo nelle confortanti braccia dell’amarcord, rimembrando i momenti pur difficili da cui siamo però usciti. Così questo numero di Dragonero a firma Vietti, magari scritto ancora in un’epoca precedente all’era Covid, diviene attualissimo, ci parla di noi in casa a guardare a un nemico invisibile oltre il vialetto, magari recuperando un paio di film di kung Fu in televisione, rileggendo i manga e... scusate sono uscito un attimo a ritirare un pacchetto pervenutomi con un pallone aerostatico tecnocrate... dicevamo? 

Ritorno sul pezzo. Il buon Vietti confeziona una storia antologica che pur pregna delle malinconie di questo momento diverte, è piena di inseguimenti e soprattutto si mette al totale servizio di un team di disegnatori molto validi. Ben quattro, tutti molto originali nell’approccio e stile. Artisti che Vietti con generosità e capacità nel trovare talenti, sa far risplendere, ideando per loro gli scenari più congeniali.



Cristiano Cucina cura la storia che fa da cornice, quella con Gmor anziano. Fa un bellissimo uso dei chiaroscuri virando più sul lato chiaro, le sue tavole trasmettono un senso di gelo, che descrive al meglio uno scenario naturale quasi asettico, spoglio. Gmor ha un viso scavato, dolente, il mood dell’azione è quasi contemplativo, lento, ma c’è tra le pieghe delle tavole una nota scura, quasi “sporcata” nelle sfumature, che conferisce alla composizione una piccola e febbricitante vena horror.



La storia del “trattato commerciale“ è di Antonella Platano, diventa presto un lungo e adrenalinico inseguimento a piedi tra i viottoli e saliscendi di una città medioevaleggiante di stile europeo, curata nei dettagli quasi mattone per mattone. È evidente un sapiente uso dei retini, che dona alle figure umane bardate di corazza una qualità visiva quasi marmorizzata, alla Segrelles, che ci fa sentire il peso dei corpi, la forza di gravità e conseguente vertigine che riesce a trasmettere la tavola.




Vincenzo Riccardi cura la storia con guest star la rasta con due asce. La cornice è una cittadina di stile orientale inerpicata tra le montagne, brulicante di costruzioni arroccate e strade pullulanti di persone. Sembra di trovarsi in un film wuxia come La tigre e il Dragone di Ang Lee. Le figure diventano sempre più pittoriche, alla maniera di Lone Wolf and Cub, nelle scene di azioni. La colorazione è densa e carica di ombre.



Ludovica Ceregatti disegna la storia della torre. Il suo tratto è spigoloso ma molto cinetico, a volte trascina nelle inquadrature in modo quasi convulso. Lo stile delle figure ricorda i lavori di Sean Gordy Murphy. Le scenografie labirintiche, piene di cunicoli, scale e botole, richiamano i lavori a Tsutomu Nihei. 
È un mix molto interessante. 
Visivamente monto vario, a livello di storia un po’ frammentario ma gustoso, il nuovo numero di Dragonero ci è piaciuto e ci ha divertito, anche se si avverte in questa fase del mensile un po’ di staticità nella gestione dei macro-eventi, pur in ottica fantasy di world-building che accomuna tutta l’epica del genere. Sarà che un nemico come Leario e la Signora delle Lacrime ci stanno molto antipatici e non vediamo l’ora che i nostri eroi si confrontino con loro. Talk0

mercoledì 16 dicembre 2020

Operation Red Sea - la nostra recensione del Black Hawk Down cinese

 


In uno stato del nord Africa un’insurrezione armata particolarmente cruenta mette a rischio l’ambasciata cinese e diventa necessaria un’immediata evacuazione. L’esercito locale è allo sbando e chiede aiuto alla Marina cinese, che interviene inviando una squadra d’elite con il compito di aprire la strada ai convogli, circondati dai ribelli nel centro della capitale. Non sarà un’impresa facile.

Tratto da una storta vera e per certi versi simile a quella raccontata da Ridley Scott in Black Hawk Down, Operation Red Sea fa parte di una mia personale maratona alla scoperta del genere action-militare ai tempi della Cina contemporanea, che per ora comprende anche pellicole come Wolf Warrior e SWAT. Se risulta chiaro l’intento generale di dare delle forze armate un’immagine quasi supereroistica ma non troppo distante dalla gente comune, in una specie di operazione simpatia che recupera in modo interessante alcune delle meccaniche dell’action movie militare americano, specie di produzione Canon/Silver Pictures, in Red Sea batte forte la poetica di un regista specialista di “eroi infranti e perdenti” come Dante Lam. Dopo i suoi cecchini resi pazzi (Snipers), poliziotti con sulla coscienza dei bambini morti (Beast Stalkers), detective corrotti (Fire of coscience), da Lam non ci aspettavamo di colpo degli eroi positivi a tutto tondo. Profeta dell’action adrenalinico, sempre attento a una messa in scena altamente spettacolare quanto interessata al fattore umano, Lam difficilmente si piega qui alla visione più confortante e bidimensionale delle forze armate, portando sullo schermo uno spettacolo impastato di budella e piombo quantomai crudo e decisamente antieroico. Il fallimento è dietro l’angolo, i rimpianti e incidenti si susseguono. Una scena nella prima mezz’ora in cui la truppa spara pistole con cavo da funivia che pare uscita da Star Wars episodio 1, un paio di parate con i mezzi e uniformi puliti e l’obolo della “simulazione pettinata” in stile SWAT è pagato. Quella che segue nei 140 e passa minuti del film è una serratissima carneficina elegantemente presentata con rallenty e scene di massa. Pare di essere tornati ai bei tempi di John Woo. I soldati, che non sono qui per particolari operazioni simpatia quanto per sparare duro in un inferno in terra carico di terroristi, non sembrano affatto modelli di intimo indistruttibili. Sono tozzi, bruttini, “veri”. Se subito nei primi minuti iniziano a coprirsi con il sangue e le frattaglie dei loro nemici, verso due terzi di film pure i buoni sono per la maggior parte pieni di cicatrici, escoriazioni, parti corporee varie mutilate o disintegrate, ridotti  quasi a degli zombie se non del tutto morti in un continuo gioco splatter che riempie di teste recise e budella ogni inquadratura. I cattivi ti dicono che sono forse una decina e male armati, che vanno in giro con delle Fiat Ritmo scassate del 1981, poi vedi che diventano cento, duecento, tremila, diecimila, tutti tostissimi e armati anche di blindati pesanti, elicotteri. L’azione si fa su una scala così vasta che in poco si arriva al livello di caos visivo di Michael Bay per poi superarlo, arrivando al colore rosso folle di Splatters di  Peter Jackson. I super soldati cinesi sparano, smitragliano, cecchinano, squartano, crivellano con mini droni che farebbero la gioia di Goldrake, rubano mezzi pesanti, si buttano nelle tempeste di sabbia e contro le auto-bomba. I cattivi appoggiano i fucili di precisione su teste mozzate di vitelli morti, hanno sempre pronte una dozzina di auto con mitragliatrice, più uomini bomba. Il pallottoliere dei morti sale più che in Commando, più che in Better Tomorrow 2. Nella truppa da grande mostra delle sue capacità belliche e cazzimma l’attrice Luxia Jiang, una donna così tosta da ricordare Vasquez in Aliens e di fatto la prima interprete di un ruolo da militare in questa mia piccola rassegna cinematografica a risultare credibile nel ruolo. Tra i “cattivi” l’attore Mezouari Houssaim interpreta il ruolo di un cecchino tostissimo quanto letale.



Non è un film per tutti, il livello di violenza è alto, ma se cercate un action a tema militare duro ed estremo Operation Red Sea, portatoci in Italia da Blue Swan, fa per voi. È un film enorme, forse con troppi personaggi e troppa azione, ma un lavoro davvero ben fatto e che farà felici gli estimatori del genere. Le ambientazioni esotiche del mare somalo e del nord Africa donano un tocco inedito ma interessante, un po’ come accadeva in Wolf Warrior 2. Gli stunt, gli inseguimenti, le mille esplosioni e giri vertiginosi della macchina da presa, insieme a una trama di fallimenti e rimpianti, confermano la bravura del regista. Magari da gustare in combo con Operation Mekong, sempre di Dante Lam.

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mercoledì 9 dicembre 2020

Monster Trucks - la nostra recensione di una variante del maggiolino tutto matto per il pubblico del North Dakota

 

 


Un impianto di trivellazione scava così in profondità da trovare un mondo sommerso, da cui spuntano fuori delle creature tentacolose e pucciose disegnate dal tizio di Lilo & Stich, Dragon Trainer e Wuba. Una creaturina, più per indole che per stazza, scappa. Si scatenano dei Men in black su dei monster truck a setacciare tutta la fangosa zona di prossimità. Nel mentre ogni ragazzo sogna di guidare un Monster truck sul fango, anche il nostro protagonista restaura un Monster truck mentre lavora dallo sfascia carrozze a svariati Monster Truck. Poi, sorpresa, anche la creatura aliena si scopre che ama i Monster Truck, perché se ne “indossa uno” e inizia a guidare felice sul fango come un Monster Truck vero. Forse tritandosi qualche arto poliposo ogni tanto, perché sarebbe inevitabile, ma felice, roba da allungare i tentacoli e fare Spiderman, correre sui tetti, inseguire ragazzine a cavallo in una love story interspecie. E tra un inseguimento e l’altro con i men in Black con il Monster Truck e qualche sfida con il bulletto della scuola e il suo Monster Truck, cosa ci può scappare per il gran finale? Chi dice una bella gara sul fango di Monster Truck? Vi ho detto che il mostro del Monster Truck fa per tutto il film versetti che paiono scoregge?

Se amate i Truck non siete in cerca di un film come questo, ma di uno spiazzo fangoso dove sgommare con il Truck. Per tutti gli altri questo proposto da Dreamworks è un onesto film per ragazzini di stampo anni ‘80, con piccola love story dentro e i paesaggi country del North Dakota. Il protagonista ha naturalmente un background doloroso e cerca la rivalsa, il suo amico tentacoloso lo capisce, c’è la musica dolce mentre nuota nel laghetto di notte, nel suo “abito Truck” con i fari accesi. Presto arriveranno un altro paio di tentacolosi pucciosi, probabilmente ne sarebbero arrivati pure altri se il film avesse avuto successo e ora parleremmo della saga di Monster Truck, magari a carattere corsaiolo contro altre auto mutanti. Poteva essere l’anello di congiunzione tra Scooby Doo e Il Maggiolino tutto matto. Avrebbe magari aperto la strada di un crossover con le tartarughe ninja e gli Street Sharks, ma non è andata così. Sarà che in Italia e resto del mondo dopo la stagione di The Grave Digger nessuno si fuma più il fascino del Truck con le ruote grosse. Spariti dalla tv più veloce della Mountain Dew dai supermercati. 

Peccato perché ai bambini, target di riferimento non oltre i 12 anni direi, piace questa creaturina tentacolosa con gli occhioni dolci. Gli effetti visivi sono carini, la storia, semplice ma carina, con qualche gustoso inserto da Kaiju Movie, prosegue dritta e senza intoppi. Anche i giovani attori sono simpatici e meno appiccicaticci e bambinosi del solito (è noto ai lettori Il mio viscerale odio per i ragazzini-attori-americani). Il regista Chris Wedge dopo i cartoon digitali L’era glaciale, Robots (quello da noi doppiato da Facchinetti) ed Epic, incappa in questo suo primo film con attori dal vivo e tonfa. Forse colpa anche di un budget così così. Ci fosse stato Michael Bay magari avevamo un nuovo Transformers e qualcuno che avrebbe saputo combinare meglio tentacoli e teen-agers... ma questa è un’altra storia e se siete del target di questo Monster Trucks probabilmente non potete ancora capirla. Se avete 6- 12 anni avete però trovato qualcosa da vedere con il papà la sera, per poi giocare con le macchinine sul tappeto. 

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martedì 8 dicembre 2020

Borat 2: recensione lampo!

 


Avete 2 minuti, anzi meno? Ecco due o tre punti che possono convincervi o meno a guardare in streaming il nuovo capitolo della saga di Borat.

Non perdiamo tempo! 

 

Perché NON guardare Borat 2:

- se non ti è piaciuto io primo, questo è ancora più rozzo e volgare

- perché se non hai tempo, è meglio guardare “Il sapore del successo”

- perché è un film girl power

 

Perché GUARDARLO:

- perché spiega ( a modo suo) com’è nato il Covid, come si è diffuso e come lo si combatte

- perché Sacha Baron Cohen è un figo

- Perché il ministro della cultura kazako è un gran personaggio

- perché gli ultimi 10 minuti sono esilaranti e ripagano della precedente ora e mezza

 

B.Gis

martedì 1 dicembre 2020

Dragonero il ribelle n.13 Le figlie di Karnon -la nostra recensione

 


La grande “Toscana Erondariana”, terra dei cavalli del palio della Siena erondariana e delle cosplayer mezze nude del Lucca Comics Erondariano. Proprio nel mese di novembre, in tempi remoti, delle ninfe generose (s)vestite da Witchblade, Vampirella, Poison Ivy, Felicia di Darkstalkers, Gatta Nera e altro ben di Dio... scendevano dai boschi fatati in terra lucchese (sempre erondariana) per allietare lo sguardo dei divoratori di fumetti e fargli credere per un attimo che il mondo in fondo non è un posto tanto male. Solo che quest’anno, in pieno lockdown e con il festival solo online, addentrarsi nella provincia lucchese erondariana diviene pericoloso e una giovane cosplayer di una rivisitazione sexy di Squirrel Girl finisce impallinata. La reggente della comune hippie di cosplayer silvestri, una strega di Warcraft, decide così di vendicarsi e forse scatenare su di loro la violenza apocalittica del carro della Viareggio erondariana dedicato al Dio - Bestia di Princess Mononoke, divinità spesso evocata in tutta la Toscana Erondariana quando vanno male le cose.

Nel mentre Ian e Gmor stanno gustando le migliori fiorentine erondariane in attesa di mettere le mani su una partita di cavalli di Maremma erondariana, che a una rivoluzione fantasy non si può andare solo con una due cavalli, come nel mitico libro sul ‘68 di Marco Ferrari. È tanto che Gmor e Ian non hanno un momento tutto per loro per mangiare due costate da sei chili al chiaro di luna e guarda caso si trovano molto vicino al bosco delle cosplayers dal quale sta partendo un casino degno di Blair Witch Project. Sera ormai è grande e ha lasciato la sua casetta sull’albero, chissà mai che la coppia decida tra un inseguimento e una scazzottata di adottare una piccola cosplayer da allevare nel villino di Solinan.

Era doveroso in questo strano novembre che Dragonero ricordasse a suo modo il Lucca Comics and Games (ovviamente stiamo scherzando, è solo una nostra personale lettura “stupidina” del volume). Lo fa con una bella storia tra “favola e paura”, tra bigottismo, fanciullezza violata e voglia di indipendenza come in VVitch di Robert Eggers, ambientata tra i boschi notturni, scritta da Luca Enoch e disegnata magistralmente da Lorenzo Nuti. Un intreccio semplice ma amabilmente crudele e ben ritmato, che parte subito come affascinante tour de force visivo, con tavole dense di natura, bui e lampi di luce, tra animali notturni e sensuali, fino a diventare poesia di chiaroscuri caravaggeschi crudeli, luoghi di sabbah sanguinolenti, teatri di scontri disperati. Un autentico banco di prova delle enormi capacità del disegnatore nel saper creare atmosfere e personaggi unici. Tra i boschi notturni gli alberi hanno le cortecce simili a spartiti musicali di Sergio Toppi. Le creature silvane hanno gli guardi obliqui, matti, pungenti e carichi di vita di Alberto Breccia, i corpi femminei attraenti e beffardi di Manara. Animali e mostri sono cupi, pieni di corna e zanne, emergono dal buio nel modo più narrativamente spaventoso, pungente, assediano lande cariche di una natura lussureggiante, viva. Vorrei come solito fare una top delle tavole più belle, ma è impresta quanto mai ardua. Il tratto di  Nuti mi ha affascinato e trascinato dentro un mondo visivo dal quale non si vorrebbe più uscire. Da pagina 5 a 13 il lettore cambia il suo punto di vista circa una creatura silvana. Passo dopo passo, tavola dopo tavola, da bambina appare come donna dalle forme sensuali. Poi di colpo dal suo sguardo scopriamo essere di natura ferina, ne abbiamo paura, ma subito dopo ritornano ad affiorare i suoi tratti ingenui. Così, quando questa creatura viene attaccata, noi comprendiamo perché i villici ne abbiano spavento, ma al contempo non vorremmo che le facessero del male. Tutto questo avviene con una regia perfetta, con una mimica facciale e corporale incisiva. Da pagina 26 a 31 appare la strega nel villaggio portando con sé il buio della notte, che si piega solo ai suoi occhi diabolici. Ma un istante dopo non è più un mostro, ha il volto di una madre colpita da un lutto improvviso. Umanità e mostruosità danzano insieme per tutto l’albo, confondendoci e spesso attraendoci in un unico caleidoscopio che lascio scoprire per il resto a voi. Sono certo che sentiremo molto parlare per future opere di Sergio Bonelli Editore  di Lorenzo Nuti. Attivo dal 2011, inizio folgorante sul mercato francese, già edito per  Kleiner Flug e insegnante di anatomia artistica per la Scuola internazionale di Comics di Firenze, dove è direttore un gigante come Frank “Rocketo” Espinosa (di cui presto parleremo sul blog ). Attendiamo con gioia tutti i suoi futuri lavori. 

Il nuovo numero di Dragonero ci ha convinto per la sua forte carica emotiva e meravigliosi disegni. La trama generale della nuova saga sembra ancora di ampio respiro, si procede con calma godendo passo dopo passo dell’enorme e lussureggiante panorama erondariano. 

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martedì 24 novembre 2020

Endless- il nuovo film romantico-fantasy di Scott Speer (Il sole a mezzanotte)


 


(Sinossi ponderata per un pubblico di adolescenti fan dei teen drama/Young Adult): La scintilla del grande amore tra Ridley (Alexandra Shipp, la “giovane tempesta” di X-Men) e Chris (Nicholas Hamilton, visto in IT e Captain Fantastic) arriva inaspettata e travolgente. Lei è una ragazza posata amante dell’arte, lui un fascinoso ribelle, gli opposti si attraggono ma è l’idillio è destinato a spegnersi di colpo in ragione di un terribile incidente. Senonché qualcosa di magico quanto la forza dell’amore impedirà che i due amanti si separino. Chris si ritrova fantasma, imprigionato in un eterno limbo ultraterreno, sotto la guida di un fantasma “esperto” quanto simpatico che gli insegnerà trucchi e privilegi di questo nuovo status. Ridley, grazie alla forza del legame che la lega a Chris, riuscirà attraverso un rituale a base di disegni al carboncino a comunicare con lui. I due prima si parlano nei luoghi del loro amore, poi si rincorrono nella vita di tutti i giorni, fanno gli stessi pensieri, alla fine forse si toccheranno. Ma questo contatto ha dei limiti e il loro frequentarsi ultraterreno forse non sarà... “Endless”. 



(Sinossi destinata a tutto il resto del pubblico): Nicholas Hamilton, attore che ricorda esteticamente un giovane Kevin Bacon, già scelto come archetipo del “bullo di paese” nel recente IT di Muschietti, oggi in sala interpreta più o meno lo stesso personaggio, Chris. Un ragazzotto ottuso dal medesimo sguardo vacuo del bulletto, comportamento primitivo - predatorio verso il genere femminile, disinteresse per studio o hobby, salvo una passione grave monomaniacale, a questo giro una moto al posto della macchina da zarro. Chris parla della sua moto e quando non lo fa beve pesante, fa l’asociale, è a livello culturale ripetitivo e pedante quanto un disco minore di Luciano Ligabue, dimostra zero prospettive per un futuro che difficilmente lo sposterà dal paesone tra i campi della provincia americana in cui vive. Inspiegabilmente, perché le donne sono creature inspiegabili, a Ridley (Alexandra Shipp), ragazza per bene, con futuro prestigioso all’università e poi nel campo legale, piace Chris. Ovviamente Chris non è di compagnia, non gli piacciono tute le “cose fighette da ragazze” come il sushi che piace a Ridley, l’amica pretenziosa altolocata di Ridley, la scuola che è “solo dei ricchi e che vuole fare Ridley solo per tirarsela lontano dal paesone provincialone”. Detesta e dileggia i genitori perfetti “e ricchi” di Ridley, presentandosi a casa sua in moto dopo che gli hanno chiesto per la trentesima volta di venire in macchina, che in moto guida come un cretino. Ma la moto per lui è tutto. Chris è contento, e questa è la sua precisa visione dell’amore, quando vede Ridley prendere quaderno e carboncino e disegnare lui sulla moto. Quello dovrebbe fare Ridley tutta la vita! Disegnini artistici su di lui con la moto, da farci le esposizioni artistiche e la carriera da pittrice monotematica, ovviamente senza muoversi dal paesone provincialone, pulendo casa, facendo da mangiare e aspettandolo a casa la sera quando lui torna ubriaco sulla moto. Perché questo deve fare una donna per il suo uomo, se lo rispetta cazzo!!  



Così siamo tutti con Ridley, quando la nostra eroina scopre di essere stata ammessa nella prestigiosa università lontana dal paesone provincialone e decide di non parlarne con Chris. Dice “prendiamo tempo” e noi immaginiamo che si allontanerà da questo molesto primitivo senza colpo ferire. Ma a una festa di lì a poche ore una amica di Ridley comunica la buona novella a tutti, al microfono della sala disco. Chris si ubriaca in tempo zero, Ridley è costretta a farsi prestare una macchina perché erano arrivati lì con la moto di Chris e nessuno guida la moto di Chris se no si arrabbia. Nel viaggio verso casa, Ridley guarda la strada mentre Chris continua da ore una nenia del tipo: “Perché non vuoi stare qui nel paesone per sempre a disegnarmi sulla moto? Perché rinunci al tuo talento di pittrice di me e della mia moto per andare a fare cose come studiare e realizzarti socialmente? Ma non capisci cos’è l’ammmore! Eeeeeri bellissima... ma Marlon Brando è sempre lui ooo lui ooo lui??”

Poi arriva il deus ex machina, la soluzione: la nota incapacità alla educazione stradale degli automobilisti del paesone provincialone porta ad una improvviso show di autoscontri. In due minuti: 1) Ridley va a sbattere contro un’auto che procede a fari spenti pianissimo tra i boschi e buio e nebbia; 2) Chris dal sedile passeggero va a sbattere contro il vetro perché il proprietario dell’auto in prestito non ha mai cambiato l’airbag rotto; 3) un’altra auto arriva a caso contro le due ferme procedendo in zona abitata a 300 miglia orarie. Quello che segue è in sostanza il senso di colpa di Ridley misto allo stress post-traumatico. Si sveglia all’ospedale e scopre che Chris è morto, ma se lo immagina dentro un brutto rip-off di Ghost con Patrick Swayze, con spalla comica e l’idea di rifare la scena del vaso usando dei pomodori cuore di bue. Per aumentare la connessione con Chris inizia a disegnare lui e la sua moto ovunque, arriva pure a chiedere alla madre gallerista una valutazione professionale sul suo modo di ritrarre Chris su una moto per lavoro (scena di angoscioso imbarazzo per entrambi in quanto i disegnini sono orrendi ). Come andrà avanti questa allucinazione? 

 


(Un amore Endless) quello che abbiamo in sala è in teen-drama sentimentale con un pizzico di soprannaturale, la malinconica cornice della provincia americana in autunno, una coppia di attori carini. Se siete adolescenti può avere le carte buone per intrattenervi, se siete un po’ più smaliziati è diverso. Endless punta molto su sguardi languidi e la chimica tra i due giovani protagonisti. Gioca narrativamente con i “fantasmi”, un po’ dalle parti della commedia a tinte noir Asso, con Adriano Celentano (dai ad Adriano quello che è di Adriano), un po’ dalle parti del romantico/soprannaturale Ghost, che ha consacrato la fama di Patrick Swayze. Come molti  young adult, ricerca riti e rituali soprannaturali che in fondo sono figli della passione per il fantasy anni ottanta, per dare pepe alla storia e al contempo elevare la materia. Si parla, sebbene con un mcguffin inconsueto fantasy, di elaborazione del lutto e la storia è ben studiata per apparirci tanto in chiave fantasy che realistica. Il fantasy aiuta, soprattutto il giovane pubblico, nel fornire una “prospettiva positiva dell’ultraterreno”, che parte dal sorriso infinito dello spirito-guida interpretato da Deron Horton. Ci troviamo narrativamente nella corrente “low-fantasy”, filone in cui  ai protagonisti vengono assegnate delle prove iniziatiche che li muovano dall’adolescenza all’età adulta, giocando con i simboli. Siamo un po’ dalla parte del fumetto I Kill giants di Kelly e Niimura o di A Monster Calls (Sette dopo mezzanotte) di Ness/Down. Speer usa bene il low-Fantasy -young-adult, per portare lo spettatore dentro a un percorso psicologico di “fronteggiamento del dolore”, allo stesso modo in cui con il suo precedente film, Il sole a mezzanotte, raccontava attraverso gli (apparenti) stilemi della favola “disneyana” la voglia di vivere di una protagonista gravemente malata, utilizzando come interprete una attrice bellissima, forte e determinata come Bella Thorne. Speer permetteva davvero  al pubblico di immedesimarsi nei  sentimenti della protagonista, senza farlo bloccare anzitempo nel constatare che fosse una “persona malata”, debole, destinata a essere protetta e accudita più che incoraggiata a vivere liberamente. Un modo interessante di fare cinema per ragazzi in grado di stimolare riflessioni, che rende anche questa nuova opera di Speer di intrattenimento quanto uno strumento didattico valido per una riflessione sul tema della “gestione del lutto”. 

Al di là di  questi meriti, Speer mette in scena un intreccio forse un po’ troppo sdolcinato per un pubblico più adulto, con attori “carini ma non travolgenti“ per lo spettatore più smaliziato, con una narrazione che si adagia forse con troppa disinvoltura sulle spalle di altre opere generando per i più anzianotti continui deja vu. Insomma, un film per un pubblico giovane interessante, ma un po’ sonnecchioso per i più grandicelli. 

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sabato 21 novembre 2020

Kill chain - uccisioni a catena: la nostra recensione di un simpatico action b-movie con Nicholas Cage

 

 


Un giorno questo blog recensirà tutti i film con Nicholas Cage. È un impegno di vecchia data che dobbiamo mantenere con quello che è uno dei nostri numi tutelari, l’uomo che con la sua pazzia affronta a muso duro ogni sfida cinematografica che gli si presenti. Anche quando non è in vena, la storia è brutta, il budget ridicolo: Cage c’è. Si mette una faccia da matto, indossa strani parrucchini ed è dentro l’azione, perché “Lui” è l’azione.

Kill chain è un filmetto. Te lo dice subito, con una “sigla di testa” che pare un telefilm tipo Squadra Cobra 11, te lo ripete quando Nick Cage entra effettivamente in azione dopo 45 minuti, come Stallone di Escape Plane 2. I primi 45 sono così “bypassabili” che potreste gustare il film saltandoli del tutto e arrivando alla “ciccia”. Quindi fate partire il film, cucinate i pop corn, fate un paio di telefonate e iniziate ad accomodarvi sul divano dopo la metà abbondante. Il nostro Nick gestisce un alberghetto pieno di alcol e mobili sfondati in qualche paese caldo del Sud America. Una sera gli arriva una donna in vestito rosso che vuole una camera, seguita subito dopo da un paio di sgherri armati. Presto tutti tireranno fuori pistole e partiranno intrighi, doppi e tripli giochi, con in mezzo a tutto un “tesoro”. Ma Kill Chain rimane un film “situazionale”, con Cage dietro al bancone della reception/bar dell’alberghetto che parla un casino, come in un film di Tarantino, giusto in tono minore. Si potrebbe anzi dire che al 90% Kill Chain sia come la scena della barzelletta al bar di Tarantino nel Desperado di Robert Rodriguez. Si spara, ma è un po’ confuso. Si parla, tanto, ma è una gioia. Perché tutti i personaggi chiacchierano in modo cool e buffo, amano “ascoltare storie”, trovano degli impossibili ma gustosi momenti di cameratismo, discutono di onore, passato e sogni, puttanate. Il tutto abbassando la canna di un fucile e sedendosi a condividere una bottiglia, per poi riprendere subito dopo le schermaglie. Così non è infrequente che assassini armati di fucili di precisione si trovano a parlare di “cuoci-riso” e subito ci troviamo “a casa”, in una pulp fiction. Ogni tanto qualcuno parla in spagnolo e la traduzione a schermo rende quasi fumettosa l’atmosfera generale. Funziona bene, si vede che è fatto con due lire, ma è dignitoso. Ken Sanzel, dopo aver buttato mezzo film, scrivein modo appropriatamente “logorroico” quanto “surreale”, dirige con mano sicura un tour di topoi stra-noti ma lo fa divertendosi e divertendoci. Ed è tutto merito di Cage se le cose vanno in porto. Il suo personaggio è occhialuto e compassato, simpatico e inoffensivo, ma è solo un’impressione. Appena gli viene concessa la possibilità di “tarantinare” qualche dialogo il nostro eroe si scioglie e rivela un background assurdo, folle, imprevedibile. Tutto contornato con il suo amabile sguardo elettrico, febbricitante. Anabelle Acosta, la “ragazza in rosso”, purtroppo non buca e lasciare a lei la gestione della prima parte della storia non ha aiutato. Angie Cepeda dà corpo a un personaggio femminile ugualmente insipida. Premio stima per Alimi Ballard ( ilkiller curioso), Eddie Martinez (Sanchez) e il simpatico Yusuf Tangarife (il killer Rasta) che avrebbero dovuto stare più tempo su schermo. Tarantino ci avrebbe fatto un film intero sui tre killer che parlano con Cage in questo albergo, si raccontano storie e tutto il resto. Le intuizioni buone ci stavano, Tarantino avrebbe dato motivazioni migliori al cast femminile e avrebbe licenziato sul tronco il tizio della colonna sonora. Ma qui non c’è Tarantino. La colonna sonora c’è, è di tale Mario Grigorov, moscissima nel suo giocare con le chitarre distorte di qualche band di scuola superiore. Per fotografia, ritmo e azione, tutto ciò che sta fuori dall’hotel e in genere tutta la prima parte del film, lo spettacolo è così scarso e  le cose girano così lente che sembra di stare davvero, troppo, in un telefilm tedesco. Taccio su tale Ryan Kwanten, attore belloccio e inespressivo che infesta i primi 45 minuti.  Amazon Studios produce, 96 minuti che sono la durata perfetta per un film di questo tipo. I primi 45 minuti purtroppo sono “non pervenuti”, potevano farci un altro film di 45 minuti e sarebbe stato un film a episodi più riuscito, ma non l’hanno fatto. Tirando le somme: da vedere in seconda serata, nel dormiveglia, concedendo un occhio a Cage, può essere simpatico e quasi sorprendente, fatto “nel modo giusto” di un gangster movie molto “narrativo”. Peccato che a una seconda visione, più lucida e critica, rimanga per lo più l’effetto simpatia. Ma Cage di simpatica ne ha comunque anche qui a pacchi. 

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