lunedì 30 luglio 2018

Mr. Long - la nostra recensione




Mr Long (l'attore Chang Chen) è il killer più elegante, letale e silenzioso di Taiwan, un autentico ballerino mortale armato di un coltello che muove con grazia implacabile, veloce, coreograficamente appagante. Il coltello però non è per lui solo un'arma, ma anche un chirurgico e preciso strumento per la cucina, la sua vera passione. Mr Long è il samurai dell'arte dei miracle blades dello chef Tony.  Dopo aver sbudellato da solo una decina di malavitosi dipingendo con i cadaveri in un lurido sotterraneo un dignitosissimo Pollock, Long si dedica al vero amore: la creazione e farcitura a mano dei ravioli al vapore, dall'impasto alla tavola, con tutta la virile sapienza di dosare i tempi di cottura, aggiustare i sapori con gli aromi, godendo dei risultati senza quasi mutare mai espressione (che è da poracci), ascetico e corrucciato. Long è un uomo che ha scelto lo zen di Carlo Cracco come unica filosofia di vita, parola d'ordine: "ricerca", nel lavoro ai fornelli come nel killeraggio.
A una certa, cucina così bene che sono andato su Tripadvisor a cercare un ristorante taiwanese pensando: "Metti che è genetico, saranno tutti cuochi da paura!!" spoiler: no. 
Mentre mi sale l'acquolina che sarebbe stata poi disillusa, dal film scopro che il nostro cuoco-killer ha un nuovo contratto, che lo spinge fino a Tokyo. Mi pregusto uno scontro tra coltelli con la yakuza locale e poi un duello su chi fa meglio il ramen. E ho ragione. Ma le cose vanno male per il nostro eroe, qualcuno ha forse tradito, la missione non può concludersi, non si trova la farina doppio zero giusta. In un attimo il killer è in un sacco lurido, a rotolare sotto la pioggia, tra il fango di un dirupo, dove finiscono tutti gli eliminati di Masterchef. Però è vivo, è scappato con poco onore e tanta fortuna all'esecuzione finale, è ferito. Da allora vaga nei bassifondi più poveri della città jappa, quelli abitati dagli immigrati, di cui due Taiwanesi come lui, per ricalcare la trama di Balla coi lupi. È qui che incontra il piccolo Jun (Bai Runyin), un orfano di origine taiwanese che senza dire una parola gli porta dei vestiti puliti, delle verdure e infine la mamma gnocca. Mica male il piccolo Jun. E mentre l'uomo si nasconde nei resti diroccati di una casa, ha tempo pure di disintossicare la mamma di Jun per renderla una donna onorata e di instradare il piccolo al lavoro minorile come suo assistente cuoco. Tra il bimbo e il cuoco-killer nasce un legame speciale e la capacità di Long di creare delle pietanze gustose con gli elementi più poveri, attira presto l'attenzione della piccola comunità dei sobborghi (tutti jappi tranne due), che decide di testa sua di farne un venditore ambulante di ramen. Tra un impasto gestito come un sacco da kung fu e una ristrutturazione di casa diroccata (che Long dirige con il suo puro carisma mentre gli altri lavorano), tra lunghi silenzi zen e sguardi languidi rivolti corrucciati al domani avverso (o forse tutto questo è dovuto al fatto che non ha ancora capito una sola parola dell'idioma jappo e i due coreani che ha intorno non aiutano), Long sta forse cambiando per sempre la sua vita, senza che se ne renda davvero conto. E magari sogna di farlo al fianco di Lily (Yao Yiti), la madre di Jun. E magari confida in Jun, che come spinge il suo pesante carrello di venditore di ramen ambulante ha una passione che i bamboccioni si sognano. Ma il volto di Long non tradisce alcuna emozione, l'occhio è sempre vigile e i riflessi pronti a esplodere. Il taiwanese è guardingo, chiuso in se stesso, pronto a prendere una nave che lo riporterà forse alla sua vecchia vita. Quale strada sceglierà? 


Sabu (da non confondere con Nobu, oltre che regista eccelso e attore di culto, per chi ama gli anime tradotti in live-action è stato anche in World Apartment Horror e in Ichi the Killer), confeziona con maestria un'opera molto potente, piena di eleganza,di cuore e di cibo da paura. Ma la cosa davvero bella è che Chang Chen e il piccolo Bai ricordano per bravura e naturalezza, in modo sorprendente, "Beat"  Takeshi  (il soprannome  "da attore" di Takeshi Kitano) e Yusuke Sekiguchi in L'estate di Kikujiro. Un rapporto fatto di silenzi, rispetto, gesti ripetuti per mimesi, che scaldano il cuore, che definisce più di mille parole un legame padre - figlio "scoperto per caso", che anima di luce anche le scenografie più truci e decadenti della pellicola. E Chen è simile a Kitano anche per come interpreta il suo classico "gangster", con il fare sornione e lunare, con l'andatura un po' strana, con i movimenti fulminei spesso abbinati ad azioni esagerate e splatter, con il mood di Buster Keaton. Un samurai moderno retto da un codice comportamentale ferreo (anche i combattimenti presenti nel film sono di fatto degli scontri tra samurai, quasi anacronistici, ma per questo epici). Mr.Long non è però una copia di Otomo, Aniki, Uehara o degli altri killer di Kitano (che sul lato "food" peraltro preferiscono pescare più che cucinare... salvo quella scena di Outrage Beyond dove lo yakuza Otomo di Kitano si diletta di Ramen... condendo i tagliolini in brodo  di dita mozzate...) perché sul volto imperscrutabile di Chen sembra in atto una continua esplosione di emozioni trattenute, diverse per intensità dal "tic emozionale" che sembra ogni tanto "animare Kitano".  Una "vitalità nervosa" che qualche sentimento lo tradisce. Se i killer di Kitano (l'ultimo, Otomo, protagonista della recente serie Outrage) sono maschere disincantate di uomini distrutti dalla vita in attesa di una grande morte in combattimento, il killer di Chen è ancora acerbo e forse può sognare un futuro diverso. Chen gestisce bene, dosando al meglio, i sentimenti del suo killer, confermando una bravura già vista nei suoi film di Wong Kar Wai. Nel killer di Chen c'è quindi molto Kitano ma anche molto di Sabu stesso, vedi per esempio la sua prova d'attore in Usagi Drop... ma forse mi sto dilungando. 


Anche  se la piccola epopea di Mr. Long si annida in luoghi disperati, la sua storia è piena di cuore e il cast dei comprimari aiuta bene dell'amalgamare "le portate" del film di Sabu. Tutte gustose e speziate come si conviene. Come in tutti gli yakuza movie di ispirazione "kitanesca" c'è azione fulminane e spietata (quasi splatter alla Tak Sakaguchi ogni tanto), c'è tragedia, c'è melodramma, ma c'è spazio anche e soprattutto per la dimensione umana, che comprende anche l'umorismo, la gentilezza e introspezione. E poi c'è il cibo, visto come lusso ma anche come forza vitale. Cibo esplorato a 360 gradi. Le zuppe di verdura più povere, raccolte direttamente dalla terra in strappo, rubate, che con i loro vapori e bolle d'acqua in ebollizione riscaldano i luoghi più freddi e derelitti della città bassa. Il ramen, cibo di tutti i giorni, la cui lavorazione e vendita è quasi una lotta fatta di muscoli tesi e fatica (e dire che Jackie Chan in Mister nice guy faceva dei ramen leggeri, eleganti, coreografici... Chen qui invece ci fa la lotta, da quando tira l'impasto a quando trascina il carrello da ambulante sulle salite della piccola città). I ravioli di carne, cibo più raffinato, trattati nella lavorazione con eleganza chirurgica e con una ritualità quasi religiosa, preservando la carne senza manipolarla, avvolgendola nell'impasto con l'attenzione di un trapianto di cuore. Il film di Sabu è profondamente un film sulla cultura del cibo e sulla sua funzione sociale. Mr. Long è un film che funziona in tutti i suoi livelli, che sa conquistare per la coolness del protagonista, che sorprende per le scene d'azione fulminee e spietate, che sa far ridere quanto piangere, che fa riflettere. Un menù completo e succulento che va forse a perdersi nella programmazione estiva e che quindi va scovato sui cartelloni. Se amate il cinema orientale è da non perdere. È una bella scoperta e la scoperta è ancora più ghiotta se prima non conoscevate Sabu (cercate Happiness, magari) un regista da tenere seriamente d'occhio. E chissà se anche Chang Chen riuscirà nei nostri lidi a mietere qualche cuore (se vi innamorate, potete vedere nel nostro idioma con Chang Chen, non sempre protagonista, anche Happy Together, Eros, Soffio, 2046, The grand Master, Red Cliff, The assassin, La tigre e il dragone... la scelta è ricca). Buon appetito. 
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giovedì 26 luglio 2018

La terra dell'abbastanza




Dalla scoperta del Kebab con la cicoria al primo omicidio stradale passa meno di mezz'ora della vita di due giovanissimi dei quartieri popolari (i giovani Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti). Paura, sogni infranti di colpo e confusione, i due decidono di scappare e di rifugiarsi a casa del padre di uno di loro (Max Tortora, davvero interessante in un ruolo drammatico inedito e sfaccettato), uno che saprà come sistemare le cose. Le cose si sistemano, il tempo passa. La vita scolastica prosegue, tutto sembra dimenticato, gli amici diradano la frequentazione quando qualcosa cambia e cambia per sempre. Il tizio che avevano preso sotto l'auto non era uno qualsiasi ma un malavitoso potente, la cui dipartita ha giovato parecchio alle famiglie rivali (tra cui un boss con il volto di Luca Zingaretti), ora ben propense ad allargare l'organico includendo nel business gli autori del gesto. Ora che sono famosi, i due possono iniziare la loro piccola ascesa nel mondo criminale. Certo c'è un po' di gavetta da fare, ma la grande occasione può essere sempre dietro l'angolo. 
Damiano e Fabio D'Innocenzo ci portano in una "Gomorra possibile", dove il mito del gangster viene spazzato via da un verismo tragico quasi rosselliniano, dove le umane miserie urlano prepotenti, dove non esistono vie di salvezza, giustizia e redenzione. Un mondo crudo raccontato con l'incedere della favola nera. Un mondo dove le vite dei propri figli, e il futuro, vengono comprate e gettate come dei gratta e vinci perdenti. Un film molto bello, che avvicina i fratelli D'Innocenzo ai fratelli Dardenne e riporta in sala il cinema di impegno sociale. Buono il ritmo, veloci e caustici i dialoghi, una vena poetica e malinconica sommessa ma presente, forte. Non ci sono eroi, non c'è spettacolarità, non ci sono orpelli né umorismo. Non è un film per tutti, è un film dolente e impegnato, che sa essere sgradevole, cattivo, tragico, irrisolto. Ma è davvero "tanta roba", dall'interpretazione alla regia, passando per una storia semplice quanto perfetta. La terra dell'abbastanza è in sala, ma molto difficile da trovare sul territorio, sopratutto in questo periodo . Buona caccia. 
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lunedì 23 luglio 2018

Due consigli veloci su Jurassic World - Il regno distrutto, che "poteva essere meglio", e un invito alla lettura a Made in Abyss




Avviso per i naviganti affezionati di questa paginetta. Per una serie nefasta di congiunzioni astrali,  non è stato possibile in questo periodo pubblicare con l'assiduità e l'amore che ci contraddistingue da anni, ma presto torneremo con maggiore costanza, più carichi di prima, a infestare con righe di testo e fesserie varie questi lidi. Giusto un appunto, che è poi un'affermazione di principio insopprimibile, sull'ultimo film di dinosauri peraltro ben diretto da J.A. Bayona. Non c'è niente da fare, laddove continua a scrivere e produrre quel miracolato misterioso di Colin Trevorrow, i dinosauri del parco immaginato dal compianto Crichton, sempre ben realizzati, sono destinati a vivere in film cretini. Film cretini in cui recitano bravi attori, dove la colonna sonora funziona, dove il ritmo narrativo c'è e si vede, ma in fondo sempre film cretini. E sono così cretini che se accendi per un secondo il cervello, anche per l'operazione di infilare la cannuccia della coca cola in bocca evitando gli occhi, sei fottuto. Le sinapsi iniziano a collegare i puntini e la trama appare per quello che è, un abominio di non senso in cui non torna niente, quasi più scemo della trama di Batman v Superman. Sembra ormai di vedere i film dei Transformers, che si dimenticano a ogni capitolo della storia scritta in precedenza e raccontata anche sei minuti prima, con l'aggravante di non avere lo stesso impatto deflagrante di un qualsiasi Bayhem. Ci vanno  bene i dinosauri sempre più Pokémon, come i tricera - pony intravisti nel primo Jurassic World, ci vanno bene i mostri geneticamente modificati per essere invisibili e zannuti e idro-statici e bio-addestrabili, ci va bene tutto perché Jurassic World non è un trattato di paleontologia, non vuole esserlo e vuole divertirci. Ma, vi prego, o gente con i soldi di Hollywood: portare via il progetto da Trevorrow e dai "cretini" che popolano il suo immaginario di sceneggiatore. Se negli anni '80 siamo stati abituati troppo bene da un autore / scienziato come James Cameron e negli anni '70 leggevamo già un altro autore / scienziato, che era appunto Crichton (oggi valorizzato da Westworld come merita, e non qui), non siamo preparati, noi vecchi spettatori, proprio a livello genetico, ai personaggi di Trevorrow. Che non sono "cretini pazzerelli" come certi di Raimi o della Troma, non sono "cretini eccentrici" come certi di Burton e dei Cohen, con sono "cretini funzionali" come le vittime di Freddy scelte da Craven... ma sono "cretini cretini alla Trevorrow (marchio registrato)". Troppo cretini. Se nel primo Jurassic Park le cose andavano male per un sabotaggio e per l'inesperienza "pionieristica" di "allevare dinosauri", già in Jurassic World sembrava impossibile che i personaggi addetti alla cura del parco non lo avessero fatto esplodere dopo tre minuti dal primo giorno di apertura ufficiale. E qui si fa peggio: ci si dimentica di intere isole, si inventano persone mai nominate prima, si accennano a pazzeschi progressi genetici che si pensa di accantonare per profittare economicamente di cretini paciughi genetici, ci sono "cattivi così cattivi" che entrano nelle gabbie dei dinosauri per togliergli dei pezzi del corpo a mani nude. Nessun militare che sia veramente armato, nessun addetto alla sicurezza che sappia cosa sia la sicurezza, avrebbe ancora quella "voglia pazza" di addestrare velociraptor  "per mandarli contro i terroristi". Ma cacchio, se sei sadico, poco animalista e vuoi mandare un animale feroce contro i terroristi non ti basta un toro o un bufalo? Non ti costa meno "l'allevamento" e il "rimpiazzo" di un drone militare? Se hai uno scienziato che ha scoperto come rendere invisibile un dinosauro, non puoi puntare magari sul fattore "invisibilità" più che sul fattore "dinosauro"? E il film, giuro, è tutto così. Le persone si comportano e agiscono in modo cretino per autentica vocazione. Tutte. Dobbiamo ribellarci, e parlo sul serio. Viviamo in un mondo troppo accondiscendente con prodotti stile Asylum e poi succede che Jurassic Park finisce in mano a Trevorrow. Con Bayona e Pratt che in più scene "giocano a fare Spielberg ed Harrison Ford", allestendo scene degne di un Indiana Jones, Trevorrow e la sua idea cretina di sceneggiatura non dovrebbe esistere. Anche a cervello semi-spento Trevorrow è nocivo. Non vi faccio spoiler ulteriori perché magari certe cose non le notate e la visione generale, per voi, ne beneficerebbe... ma porco cane... Ti fa sperare che i dinosauri esistano solo per mettere Trevorrow in una gabbia insieme a loro. Jurassic Word: il regno distrutto è un ottimo film sotto quasi tutti i punti di vista, salvo il fatto di essere stato scritto dall'equivalente di un bambino di tre anni poco sveglio e con deficit dell'attenzione. Tremendo e imbarazzante anche da raccontare.


Ma saltiamo di palo in frasca e andiamo a qualche consiglio per la lettura.
In ritardassimo metto le mani su Made in Abyss di Akihito Tsukushi, manga edito in Italia da J-Pop in un formato interessante e molto curato. Dynit mi pare che abbia in streaming sulla piattaforma VVVVID una serie anime tratta dallo stesso, per ora sottotitolata in Italiano. Mi ha colpito molto. In breve. C'è un'isola al cui centro c'è un enorme cratere intorno al quale si è sviluppata tutta una società finalizzata al recupero di cimeli e risorse che ogni giorno il cratere stesso dispensa. Tracce di civiltà passate in forma di monili e oggettistica misteriosa, animali assurdi e potenzialmente pericolosi da cui trarre armi, utensili e cibo, la ricerca di nuovi habitat popolabili. Il cratere ha tutto ed è suddiviso in più livelli come una mappa di Super Mario che punta verso il basso. È facile scendere fino a un certo punto ma poi risalire dividente un problema, c'è tutto un sistema di rifugi, strumenti per la comunicazione, professioni specialistiche e attrezzature per lo scavo. Tutti fanno i ricercatori e tutti hanno la loro bella scala gerarchica e orfanotrofi funzionanti pronti ad accogliere i figli dei ricercatori dispersi. In uno di questi orfanotrofi c'è la figlia di una famosa cacciatrice di tesori dispersa, che un giorno in una sessione di scavo trova una specie di "Megaman", un robottino smemorato forse frutto di una tecnologia sconosciuta dei primi esploratori del cratere. La bimba con Megaman vuole andare in cerca della mamma, nei livelli più profondi del mega - buco (tanto per non ripetere "cratere"). Segue il mirabolante viaggio. Visivamente è curioso per una iniziale pucciosità che ricorda tanto le favole per bambini quanto i personaggi superdeformed dei giochi di ruolo vecchio stampo come Final Fantasy Tactics. C'è una attenzione folle al dettaglio, che mi ha ricordato un po' "l'oggettistica di Nausicaa", c'è una grande cura per flora/fauna/cibo come nei recenti giochi di Monster Hunter, c'è la voglia di stupire ma anche di raccontare un ecosistema per sommi capi "possibile". C'è un ottimo senso dell'azione, che in un contesto fantasy non può mancare, ma soprattutto c'è una attenzione ai personaggi non banale. Sono sfaccettati, complicati e tanto più oscuri quanto il viaggio si addentra nelle viscere della terra. Come diceva Nietzsche, a fissare l'abisso finisce che sia l'abisso a fissare un po' anche noi. Così come l'ingenuità presto sparisce davanti alle peggiori contorsioni dell'animo umano, anche i personaggi diventano visivamente sempre più cupi, allungati e inquietanti simulacri di cuori di tenebra. Si respira disperazione e i toni grigi con cui sono arricchite visivamente le tavole tendono quasi a soffocare la vista tavola dopo tavola, come se l'unico colore possibile fosse un grigio polveroso. Certo queste sono le "good vibrations" fornite dai primi due numeri, magari la normalizzazione e la noia sono dietro l'angolo, ma finora il viaggio è bello, mi sta piacendo, molto "burtoniano" nei toni generali. Anche se quindi può sembrare un'opera per bambini, Made in Abyss è tutta un'altra storia e visivamente inganna quanto un anime del passato che mi era piaciuto molto per lo stesso "equivoco grafico", Strage Dawn. Diffidare dei personaggi pucciosi, qualche volta sono più complessi di come li disegnano (volevo fare un riferimento a Chi ha incastrato Roger Rabbit?, ma sono stanco e non mi viene l'estro giusto). Quindi Made in Abyss per ora è bello, è stra- promosso, sono usciti solo 3 volumi (in jappolandia stiamo a 8) e vi invito a darci un'occhiata.


Sto leggendo, e spero di parlarvi presto, di Fire Punch, di Fujimoto. Un manga folle in modo assurdo e post-apocalittico, pure con derive mistico - cannibalesche, che mi sta piacendo. Anche se è così malato che mi fa fare dei viaggi strani è di sicuro una lettura che non lascia indifferenti (nel senso che anche se non piace, comunque si ricorda... il che può essere un bene o un male, ma è comunque sempre meglio dell'indifferenza). Si parla di semi-divinità che girano sulla terra facendo cose strane e inquietanti per ogni studente del catechismo. C'è un po' di Evangelion e un po' di meta - testualità, i disegni sono di quelli che colpiscono più che quelli che piacciono... ne riparleremo. Un altro manga "osservato speciale" è Freak Island di Hokazono, una specie di "Lost incontra Non aprite quella porta", con ovvie distorsioni da Le colline hanno gli occhi, caratterizzato da un disegno plasicoso ma accattivane, qualche bella accettata in mezzo agli occhi e il solito branco di personaggi da film horror che finiscono in un film horror e dovranno sopravvivere contro i soliti ceffi brutti e mutanti da film horror slasher. L'avevo abbandonato, poi sono arrivate in corso di trama delle figate che mi hanno fatto di nuovo avvicinare a lui, se amate gli horror slasher  alla Venerdì 13, motoseghe e arti mozzati in modo coreografico (ricorda un po' anche l'ultimo Resident Evil in questo) fateci un giro, è una giostra divertente, senza troppe pretese e tanto sangue finto. Leggerlo adesso mi ricorda il ciclo Notte Horror, che Italia 1 dava in estate dopo le puntate di Festivalbar. 
In ambito videogiochi, il retrogamig scorre ultimamente forte in me. Ho deciso di riprendere in mano dopo 10 anni Silent Hill - The room per PlayStation 2, mollato quasi a due ore dalla fine senza un perché. Forse lo finirò. La spolverata della Play2 mi ha fatto però re-inserire una storica collection di titoli classici Capcom. Che bello rigiocare a Black Tiger e leggere tre giorni dopo che è uno dei giochi preferiti pure del tizio che ha scritto Ready Player One. C'è armonia nel cosmo. A risentirci presto. Questo periodo turbolento e "impegnoso" mi ha assorbito troppo, ma presto finirà. Spero. Statemi bene e godetevi le vacanze, se potete. A risentirci quanto prima, magari prestissimo, magari tra un paio d'ore. Vi ho detto che Il Corvo - Memento Mori di Recchioni / Dell'Edera mi sta ricordando Sacro Terrore di Miller ma non ho ancora capito bene perché (oltre alla premessa, naturalmente)? Ne riparleremo presto. Statemi bene. 
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mercoledì 18 luglio 2018

Giochi di potere (Backstabbing for Beginners): la nostra recensione del nuovo film di Per Fly con Ben Kingsley, Theo James ed una ancora affascinate Jacqueline Bisset



Iraq, dopoguerra. L'America e l'Occidente sono intenzionati ad aiutare la popolazione nella ricostruzione del paese pur di avere in cambio qualche goccia di petrolio e così nasce l'organizzazione internazionale "Oil for food". Un giovane burocrate americano inviato sul campo grazie a una forte raccomandazione e con le prospettive della più rosea delle carriere internazionali dovrà scontrarsi con il volto più oscuro e pericoloso delle associazioni umanitarie. 
"Lezione sul tradimento per principianti", "L'arte di pugnalare alle spalle, capitolo 1", "Imparare a mentire". A pensarci vengono in mente nomi più affascinanti per tradurre nel nostro idioma Backstabbing for Beginners di quel banale ed equivoco Giochi di potere scelto dal titolista "sig. Mario Rossi", che sembra magari un remake / revival del Jack Ryan di Ford. Ma gli intrighi di potere di fatto ci sono, e tanti, anche in questa pellicola di Per Fly sulla storiaccia (storiaccia vera, con relativi libri e processi veri riportati negli annali) vissuta da Michael Soussan (interpretato da quel simpatico "bietolone" di Theo James, da un paio di film pure attivo nella saga Underworld) ai tempi in cui lavorava per la Oil for Food sotto la direzione del misterioso Pasha (Ben Kingsley, immenso). Come Kingsley è perfetto nel ruolo del misterioso burattinaio, luciferino quanto inaspettatamente e provvidenzialmente umano, complicato e affascinante, Theo James ricopre al meglio il ruolo del funzionale, un po' assente, "volenteroso ma che non si impegna", ragazzotto pescato dal cilindro per essere di fatto il capro espiatorio degli intrighi di Pasha. Ricorda un po' il Tom Cruise de Il socio, per intenderci, è il "puro inconsapevole" con cui riusciamo bene ad empatizzare come spettatori e che proprio nel suo essere raccontato come "pesce fuor d'acqua" sa introdurci al meglio nella vicenda, invero nelle premesse complicate. Per questo Giochi di Potere funziona, diverte ed espone bene la Storia, che ogni tanto incede con sicurezza pure nell'action e nel drammatico, riuscendo al contempo a gestire i problemi politici e i sentimenti che muovono i personaggi. Per Fly, regista che si sta specializzando nella narrazione di storie legate al mondo della finanza (come la serie TV Follow the money) è una vera manna per chi cerca, soprattutto in questo momento storico, dei film che sanno essere leggeri quanto intelligenti, lo seguiremo con molta attenzione. Jacqueline Bisset ha un ruolo interessante, potente e carismatico, si muove con regalità sulla scena e dà all'intreccio un sapore quasi Shakespeariano, soprattutto nei duetti con Kingsley. Molto affascinante anche il personaggio di Belcim Bilgin, misterioso e sinistro il Rasnetsov di David Dencik. 
Pur lontano come impatto da film come Frantic e Un anno vissuto pericolosamente, Giochi di Potere a momenti ci porta in quelle atmosfere, risultando nell'insieme un compito ben fatto in grado di intrattenerci per una serata e di metterci in testa la voglia di informarci di più sulla vicenda storica sottesa.
In un periodo vacanziero in cui il massimo che il cinema può offrire nell'immediato è lo pseudo - remake di Trappola di Cristallo, con un palazzo tre volte più alto e con un eroico protagonista, The Rock, che deve scalarlo con una gamba di meno, fa piacere che si ritaglino una sala o due anche per questo Giochi di Potere. Cercatelo e dateci un occhio. 
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lunedì 16 luglio 2018

Il sacrificio del cervo sacro - la nostra recensione



Un cardiologo dalle mani bellissime e con il barbone da Babbo Natale (Colin Farrell) fa un casino per colpa di due goccetti di troppo e sul suo tavolo operatorio muore il padre di un ragazzino strano (Barry Keoghan, già bambino strano in Dunkirk). Il bambino è strano forte e inizia a stalkerare duro il medico, che per senso di colpa se lo prende pure in simpatia all'inizio. Il bimbo strano gli propone continui incontri, la visione forzata di Ricomincio da capo integrale, la limonata della madre... fino a che lo invita proprio a fare sesso con la sua mamma depressa Alicia Silverstone... ma è davvero lei??? Ma dove era finita e soprattutto perché la sua tuta da Bat-Girl era l'unica senza capezzoli in Batman e Robin di Schumacher?? Torniamo in tema. Insomma, non è una frequentazione sana, che si sta allargando pure ai figli del medico e allarma presto anche la di lui moglie (Nicole Kidman), casalinga algida che ama pratiche sessuali eccentriche stile bambola di plastica... scusate sto di nuovo divagando... dicevo, moglie Nicole Kidman, con un paio di nudi integrali per rinverdire i bei tempi, che fa qui la casalinga algida che si vede spuntare dovunque come un fungo il brutto bimbo strano. Un fungo con la faccia inquietante. Il gioco è bello, ma il medico si rompe un po' i coglioni all'ennesima strana richiesta del ragazzo... che mi pare che fosse confutare, in una delle molte scene di tensione omoerotica della pellicola, se il dottore avesse sotto le ascelle tre volte il numero dei peli delle ascelle del ragazzo strano... Quindi Colin Farrell inizia a diradare gli incontri, "c'ho da fare", "ti chiamo io nel giorno del mai", "stasera niente Ricomincio da capo" ed ecco che il piccolo mostro gli spara addosso una maledizione Horror da paura, roba biblica stile Charlton Heston in cinemascope. Se il dottore non ucciderà uno dei membri della sua famiglia a scelta, moriranno tutti e tre tra atroci sofferenze. Prima non riusciranno più a camminare, poi smetteranno di mangiare, poi arriverà il sangue dagli occhi e infine inizieranno a cadere come mosche. Questa piaga egizia su scala ridotta attacca prima il figlio e poi la figlia, ovviamente non c'è cura scientifica che tenga, ovviamente il ragazzino sa qualcosa ma è così figlio di puttana da non aiutare. Il medico dovrà decidere e in fondo tutto succede perché non ha voluto fare sesso con Alicia Silverstone. 


Il regista Yorgos Lanthimos è greco come le olive nere e la tragedia greca, motivo per cui appena usciva questo film nelle sale tutti a dire: "Ma dai??!! Una tragedia greca con maledizioni e crisi familiari annesse, ambientata ai giorni nostri con Colin Farrell cardiologo??!!". Ed è più o meno così, pur riconoscendo al nostro regista il patentino di "matto" già dall'opera precedente, quel Lobster fanta-strano dove se non ti sposavi entro 45 anni diventavi un animale a tua scelta. Lobster era straniante, ma pure questo Cervo Sacro non scherza per niente. È tutto strano e tutto rarefatto, pare a tratti di trovarsi  in un incubo di David Linch post peperonata, il greco ha tutte le accortezze tecniche del Kubick di Shining, infonde il misticismo malato di Rosmary's Baby di Polanski, ha la classe di farvi venire un mal di mare emotivo lungo e spietato. Gli attori funzionano nel loro muoversi in contesti sottilmente sinistri, il meccanismo narrativo regala un paio di scene scioccanti e la colonna sonora farà di tutto, tutto ciò che è inumanamente possibile e inammissibile per inquietarvi, agitarvi, tritarvi i timpani e devastarvi le sinapsi. Tutto funziona e funziona bene. Se fosse stato un Horror Blum House il piccolo Keoghan ora avrebbe dei piani di sfruttamento degni de La notte del giudizio e la Neca sarebbe già al lavoro per una action figures da mettere accanto a Freddy Kruger. Ma non è così, purtroppo e per fortuna. E il film funziona, anche se sa rendersi in qualche frangente antipaticamente troppo più  bravo nello spaventarci di quello che ci aspetteremmo. Perché il greco vuole risucchiarci in un incubo in cui i personaggi si trascinano impotenti verso un epilogo già segnato, c'è solo punizione all'orizzonte e nessuna redenzione, con vittime sacrificali che non possono fare altro che sperare per se stesse, anche nei modi più subdoli. È uno di quegli "Horror senza uscita", che tanto piacciono nel panorama europeo ma che non tutti siamo forse disposti ad accettare, decidendo di cadere indifesi tra le braccia della paura. Io un giro in sala ve lo consiglio, ma può essere che ne uscirete incazzati neri e pronti a ribollire di rabbia per quanto il greco è riuscito a colpirvi senza pietà dove fa più male, nel subconscio. È un film che per me può potenzialmente dividere il pubblico. Ma io ho gradito. 
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sabato 14 luglio 2018

12 soldiers (12 strong): la nostra recensione del film in cui Thor interpretò il "suo" Rambo 3



Undici settembre 2001. Il mondo si ferma con le Torri Gemelle crollano su se stesse, colpite al ventre da due aerei di linea dirottati dai terroristi. Il capitano Mitch Nelson (Chris Hemsworth), stanco della licenza forzata che lo vuole attivo tra supermercati e pulitura delle grondaie domestiche, vorrebbe essere al fronte per dare una risposta immediata a ogni nemico dell'America, ma non per più di 21 giorni, che ha promesso ai suoi cari che quest'anno al pranzo di Natale ci sarebbe stato. Così smobilita mari e monti, si fa supportare dal suo commilitone Spencer (Michael Shannon) e insieme al simpatico latino Michael Pena, il "bro" Trevante Rhodes e altri companeros si fa trasportare in Afganistan a supporto di un generale dell'alleanza del nord (David Negahban) impegnato contro alcuni dei più spietati terroristi del mondo.  Il generale è male armato ma pieno di coraggio, il Plotone di 12 uomini con a capo Thor... cioè il capitano Mitch... potrà con i suoi strumenti di distruzione del terzo millennio puntare ogni bersaglio nemico e far partire dal cielo dei missili lanciati da enormi bombardieri che colpiscono chirurgicamente al millimetro. Un po' come il martello di Thor in fondo. Riuscirà il nostro eroe a compiere la sua missione e a trovare a Natale per la parata annuale? 
Tratto da una storia vera, prodotto da Jerry Bruckheimer e diretto da un regista con all'attivo solo un film, 12 soldiers è il war movie solido, un po' patinato ed esagerato e altamente spettacolare che ci si aspetterebbe fin dal trailer. I 12 super - soldati irrompono in Afganistan con più furia e potenza degli Avengers, con animo bonario e senso del dovere difendono i coraggiosi e male armati soldati locali, dissertano sul significato filosofico delle parole "soldato" e "guerriero", disintegrano ogni nemico è infine SPOILER tornano a casa senza un graffio o quasi FINE SPOILER


È un film d'azione, 12 soldiers, molto spettacolare nella messa in scena della famosa, folle e adrenalinica "corsa dei cavalli contro i carri armati" a cui è stato dedicato anche un monumento al World Trade Center. Le azioni di guerra sono ben descritte e ritmate, forse un po' esagerate, ma funzionano e divertono. Il resto è "retorico" o "patriottico" (a seconda di come la pensiate) quanto basta, con attori convincenti nel ruolo ma con una incredibile, straniante somiglianza con Rambo 3. Ed è pazzesco a pensarci, perché il film di Stallone precede tutti gli eventi descritti di almeno 13-14 anni. Le riflessioni sul guerriero in riposo forzato, l'amicizia virile tra combattenti d'onore, la forza delle armi più antiche, come cavalli e frecce, che sono in grado, se in mano a un vero eroe, di piegare ogni update tecnologico. Cambiano i nemici (quelli di Rambo 3 erano fittizi), manca la scena della "luce azzurra" (delle barrette luminose molto in voga negli anni '80) e il mitico "Buzkashi" (che ancora non mi capacito come non sia sport olimpico), ma c'è tutto il resto. Se gli eventi sono andati effettivamente come qui raccontato (alla sceneggiatura Peter Craig di Hunger Games, ma la storia è tratta dal libro "Horse soldiers" di Doug Stanton) la Storia con la "S" maiuscola ha ricreato Rambo 3 per almeno 70 minuti. Forse anche gli stessi soldati che sono partiti per questa missione, definita suicida e tenuta nascosta per molti anni, hanno visto Rambo 3. Sta di fatto che è riconosciuta come una delle missioni più importati per il conflitto in Afganistan, una missione atipica di cui è interessate vedere oggi una ricostruzione, che pur mutua molto alle regole dell'intrattenimento action. Da vedere come un action, consci del fatto che quando i soldati chiedono di "far venire la pioggia" dai bombardieri a qualcuno tornerà alla mente il primo Transformers di Bay. Io comunque l'ho trovato divertente, ma forse un regista più esperto nel descrivere gli "uomini in armi", con i loro pregi e difetti, (ho in mente l'Eastwood di American Sniper e la Bigelow di The Hurt Locker, per come inizialmente sembrava prendere le mosse questo film) poteva riuscire a trovare delle corde diverse per caratterizzare al meglio questi dodici eroi a cavallo ormai entrati nella storia.
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