domenica 31 gennaio 2016

Suicide squad - un trailer bello!



Va bene, mi hanno convinto, il biglietto per il film lo prendo.
Saranno stati i Queen. Quanto tempo era che non sentivo i Queen in un trailer? Wayne's World?  Esiste forse un accompagnamento sonoro più Figo? Difficile...
Sarà stato vedere in azione il Joker di Leto e vedergli fare "cose da Joker". Quelle cose che fa il pazzerello cartaceo non così cattivo come i tragici (pur bellissimi) anarchici shakespeariani del grande schermo. Sarà il sorriso della bellissima e magnetica Margot Robbie, di cui ho un poster dai tempi di Wolfs of Wall Street. Sarà stato il ricordo del Fury di Ayer, che qui torna sceneggiatore e regista, ancora impresso nella testa con il suo umorismo caustico, le relazioni interpersonali brutali quanto cameratesche, il grado di cattiveria splatter extra large. 


E' l'uomo giusto. Sarà la voglia di rivedere Will Smith in un ruolo bello super/action dopo eoni, dopo Hancock, pure qui cazzuto e un po' dolente. Sarà un po' la curiosità di ritrovare il da me troppo spernacchiato Kinnanan, che nel nuovo Robocop alla fine, almeno lui, non era neanche così male. Ma soprattutto da queste poche scene si evince che il tono, lo stile del film, c'è tutto e riesce a essere quello giusto, sopra le righe, colorato e dissacrante. Un tono grafico che lo distingue, lontano dal troppo epicismo dei cine comics DC degli ultimi tempi e per questo chilometri più vicino a quello che sono di fatto i fumetti della Suicide Squad, delle divertenti, ironiche ed eccessive tamarrate. E poi con tutto il freddo di questi giorni non vedo davvero l'ora che arrivi l'estate. 
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lunedì 25 gennaio 2016

Crimson Peak - la nostra recensione!


Nuovo mondo, piena era vittoriana. Edith Cushing (Mia Wasikowska) è una ragazza indipendente e vuole fare da grande la scrittrice. Ma non vuole raccontare di giovani donne travolte dalla passione  e diventare una nuova Jean, vuole essere la nuova Mary Shelley. Solo che è una donna e nonostante ci sia già la Shelley non è facile per lei imporsi all'attenzione di editori americani modernissimi ma ancora per l'epoca maschilisti. La liquidano subito appena scorgono una grafia ordinata ed elegante tutta cuoricini e storie in cui compaiono elementi fantasy paleo-young-adult come i fantasmi. E non importa se lei specifica a chi legge i suoi manoscritti che i fantasmi rappresentano shakespearianamente le ombre del passato che l'uomo razionale e moderno deve superare. Scrive di fantasmi e la bollano come sognatrice, rigettano le sue opere perché le frivolezze scritte per lo più da damine ottocentesche per damine ottocentesche non vendono in quell'epoca. O forse non abbastanza, sta di fatto che i testi scritto dalle donne li sgamano e cestinano subito. Edith deve "nascondersi" al maschilismo editoriale. Le serve una macchina da scrivere per camuffare la grafia rivelatrice, trovare uno pseudonimo maschile e sperare che chi leggerà le sue opere non la discriminerà più e la pubblicherà senza esitazione. Solo che il padre, Carter Cushing (Jim Beaver), funzionario di una grossa banca, lo sa che sua figlia più che una rivoluzionaria è in fondo una sognatrice in senso classico, che crede nei fantasmi perché da piccola è convinta di averne visto uno e che da romanticona è destinata a cadere tra le braccia del primo bellimbusto tenebroso uscito da un qualsiasi young adult. E il tenebroso arriva. Il baronetto inglese Thomas Sharpe (Tom Hiddleston), rampollo di una decadutussima casata dedita al business dell'argilla. E' un mezzo-inventore ma per lo più ha costruito finora solo giocattoli. E' mingherlino, con l'occhio triste e sogna di salvare il business di famiglia realizzando un escavatore per l'estrazione dell'argilla. Una diavoleria a vapore creata su modello di una locomotiva ultra-steampunk che necessiterà di un sacco di soldi per lo sviluppo, da commissionare anche a esperti internazionali per gli aspetti più complessi. Thomas non incanta col suo fascino il padre di Edith, la sua nomea di esperto ballerino dai modi eleganti non gli basta per concedergli un finanziamento, anche perché, carta canta, già tre banche lo hanno rimbalzato. Il giovane è losco, oltre al fatto che un "baronetto" per i Cushing, arrivato poi dal vecchio mondo, è un parassita sociale che vive sulle spalle di altri. Un pessimo partito senza nemmeno un callo sulle sue lunghe e bianchissime mani, segno che in tutta la vita non ha lavorato neanche una mezz'ora. Un rigurgito di privilegio medioevale ai tempi della riscossa dell'uomo comune. Gli sta così sulle palle che a casa i Cushing lo chiamano lord Fontleroy (citazione da "il piccolo lord"), magari non incanterà nemmeno la figlia. Edith ha già un bel ragazzotto da sposare, il medico dalla pettinatura orribile Alan, un Charlie Hunnam, che era sul set forse perché pensava fosse Pacific Rim 2 e poi è rimasto per le riprese. Alan è affidabile, grosso e muscoloso e già condivide con la ragazza diverse passioni. E invece no. I modi gentili, le braccine molli e il corpicino più minuto, gli occhioni di Thomas affastellati sul visetto pallido da cane bastonato la travolgono come un tir e per una serie di accadimenti infausti Edith finirà per seguire il baronetto nella sua derelitta magione inglese. Un villone sperduto e diroccato allucinante. Fatiscente, marcio, col tetto sfondato e con il pavimento che viene sempre più a sprofondare in una inquietante fanghiglia cremisi, la "argilla rossa Sharpe", astutamente prodotta sotto le fondamenta della abitazione. Un posto sfigato che Edith può sopportare solo per lo sconfinato amore verso il grande sognatore Thomas, ma che diventa presto un luogo da incubo se deve essere condiviso anche con la sorella di Thomas, Lucille (Jessica Chastain). Una donna elegante quanto altera, schizzata e probabilmente pericolosa. Da non contraddire mai per evitare di finire uccisi dalle sue occhiatacce gelide. Vuoi il fascino sinistro del posto, vuoi la paura di trovarsi lontano da casa, presto Edith, la moderna ed emancipata, concreta Edith,  perde la razionalità e come gli era già accaduto da bambina, ricomincerà tra quelle mura a vedere dei fantasmi. 


Guillermo Del Toro lascia per un attimo da parte il suo bellissimo giocattolone Pacific Rim per dedicarsi a un progetto più piccolo, un horror classico del passato sul modello Universal e Hammer, girato mentre sta contemporaneamente portando nel futuro il mito dei vampiri con la sua serie multimediale The Strain. Crimson Peak rappresenta un sentito "grazie", un maxi omaggio  al genere che ha cresciuto e animato il talento del grande regista. Il nome della protagonista è Cushing, in memoria del grande attore horror Peter Cushing. Lo stile narrativo scelto è horror-vintage gustosamente e gioiosamente sopra le righe,  teatrale  sia come "staticità" che come rappresentazione (potrebbe domani essere convertito in piece con pochissime variazioni) che in senso di "pomposo". La trama presenta più di un riferimento a Rebecca, la prima moglie, scritta da Daphne du Maurier e diretta nel '40 da Alfred Hitchcock, la magione in cui è ambientata la maggior parte del film è "viva", pulsante e maledetta  come nel classico del '63 di Robert Wise, The Haunting - Gli invasati. 
Il problema semmai è che la casa è fieramente "troppo" viva e pure un po' baraccona, tra il castello di Greyskull che avete in cantina e il castello di Dracula di Gardaland, come nel remake di The Haunting con Liam Neeson (e una straordinaria Lily Taylor) del 1999 per la regia di Jan de Bont, ma ci torneremo dopo. 
Per questa avventura Del Toro torna a lavorare allo script con un vecchio amico, il regista e sceneggiatore Matthew Robbins, che ricordo quando ero piccino dietro alla carinissima commedia per ragazzi con robottini buffi anni ottanta Miracolo sulla ottava strada. Una chicca da recuperare. Con Del Toro partner alla sceneggiatura, Robbins aveva scritto poi Mimic, un horror crepuscolare, uno dei  primi successi del futuro regista di Hellboy, con cast sontuoso che annoverava un grande Giannini, all'epoca lanciatissimo in produzioni internazionali. Mimic aveva una storia ambientata sotto una grande città, nel cuore umido delle fogne, tra fumi e lerciume  in cui un bambino povero faceva la sgradita conoscenza del "signor scarpe buffe". Una creatura da incubo, un insetto camuffato da uomo, dentro al quale sotto chili di trucco e computer grafica, già si muoveva il mitico attore - mimo Doug Jones, poi interprete di Abe Sapiens in Hellboy, poi corpo del bellissimo e decadente Pan e del terribile uomo pallido in Il labirinto del fauno. Mimic sembrava un film horror - action classico ma non giocava la "carta alien".  Lavorava di atmosfere più soffuse, lente, quasi fantasy. Puntava a immergerci in un mondo oscuro e inquietante sul quale strisciavano esseri spaventosi e infidi. Tutto era reso mistico e affascinante, vecchio e decadente, gotico, anche grazie ai colori acidi da direttore della fotografia Dan Laustsen . Un mondo "altro" nascosto dal mondo di superficie. Una formula che con budget più ricco la New Line gli chiese di replicare per Blade II. Del Toro anni dopo e molti successo dopo aveva poi prodotto e sceneggiato, sempre in tandem con Robbins, Non avere paura del buio, affidando la regia allo scrittore di fumetti, esordiente, Troy Nixey. Ancora realtà ai confini della fantasia (tema carissimo a Del Toro) ancora bambini alle prese con creature fantastiche, questa volta esseri minuscoli, che brulicano tra le pareti e le tubature di una grande casa. Una casa che diventa protagonista assoluta della vicenda con le sue stanze sontuose e passaggi segreti. Un'altra favola nera forse meno riuscita di Mimic ma di grande fascino. Forse meno riuscita perché i mondi, reale e immaginario, si mischiavano troppo, perdendo un po'di identità. Forse lo sbaglio che si ripete anche in Crimson Peak. 

Con Crimson Peak si viene a riformare il gruppo di Mimic. Tornano insieme a Del Toro e Robbins, Laustsen e Jones, torna la voglia di raccontare la storia inquietante di una casa "ai confini del reale".  Il cast è ristretto ma funzionale. 
Molto interessante e vincente la scelta di una attrice come Mia Wasikowska. Una corporatura acerba, goffa e poco slanciata. Ancora bambina nel modo di porsi, con occhioni scuri ed espressivi. Dalle forme  burrose incredibilmente sensuali anche se poco slanciate , elegante in vestitini tutti ricami dell'epoca vittoriana. Un'attrice non bella ma affascinante che in breve ha saputo stregare molti registi e produttori. Era già un'interprete perfetta, spontanea e credibile nella serie In Treatment, dove vestiva i panni di un'atleta un po' lolita, Sophie, che si confessava sul lettino dello psicologo Gabriel Byrne. Un'adolescente per una volta credibile (e sono in poche) che è stata scelta dalle major per dare corpo a molte eroine di carta. Come a una cresciuta e indipendente Alice nel sontuoso ma forse troppo pasticciato Alice in Wonderland di Tim Burton, un personaggio che riprenderà a maggio in Attraverso lo specchio, ma senza la regia di Burton. La Wasikowska è stata poi la più recente versione cinematografica di Jane Eyre e di Madame Bovary e riesce a essere perfetta anche come eroina in Crimson Peak. Forte ma vulnerabile, sognatrice quanto concreta, ha alcuni dei dialoghi più belli della pellicola e non si riesce a non volerle bene, a non essere preoccupati per lei. 
Funziona  benissimo per questo horror gotico anche l'elegante e malinconico Tom Hiddleston, già Loki nei Marvel Comics e uno degli attori "da tenere d'occhio". Ha un guizzo negli occhi che lo fa sembrare un giovane Gene Wilder, è parecchio versatile, teatrale quanto basta e riesce davvero a bucare lo schermo. Mi pare un vero peccato che insistano nell'offrirgli solo ruoli un po' emo di ambiguo doppiogiochista dall'aria triste traumatizzato da un'infanzia infelice. Qui cerca una variante sul tema, ma dietro agli abiti vittoriani pulsa ancora il cuore di Loki. Non che sia un male.



Convince e conquista, probabilmente divertendosi un mondo nel recitare un personaggio tanto sopra le righe come Lucille, la bravissima e bellissima Jessica Chastain. E' come vedere Antony Hopkins interpretare Hannibal Lecter. Ti fai una carriera di personaggi seri e complicati come la sua analista in Zero Dark Thirty e poi di colpo ti lasciano "sfogare" con un personaggio di pura invenzione e totale follia. Il risultato è che ruba la scena a tutto il resto del cast, trucchi e scenografia, effetti speciali, musiche e regia fino a mangiarsi tutto il film, dominando incontrastata la scena. Una furia umana. Lucille è pazza e non fa niente per nasconderlo dal primo momento in cui la vediamo sulla scena. Già nel trailer. Molte delle cose che fa sono oscure e rimarranno misteriose anche alla fine della pellicola. Se ci sarà un seguito sarà probabilmente incentrato su di lei. Da applausi. 
Dal punto di vista della sceneggiatura il film non punta a inventare nulla, crede fermamente nel suo essere una "messa cantata" degli horror più classici e amati. Non ci sono reali colpi di scena, la sua forza sta tutta nel fare al meglio, con stile, il suo sporco lavoro di prodotto di intrattenimento. L'ambito in cui la pellicola vuole essere davvero originale è nella cifra stilistica di Del Toro, che risiede nell'atmosfera. La creazione di un mondo "altro", la casa e i suoi fantasmi, un luogo e personaggi in bilico tra passato e presente, architettura vittoriana nelle cui fondamenta si annida la tecnologia steampunk. 
Quello che può essere un problema per lo spettatore è che a differenza delle altre opere di Del Toro il confine tra reale e immaginifico qui non c'è, in virtù di una unica realtà alternativa, sul modello di quanto spesso capita, ma con più coerenza, nei sogni gotici di Tim Burton. La villa si dimostra da subito come uno scenario estremamente fittizio. Teatrale, sontuoso e spettacolare ma mai un luogo reale, in cui si può pensare abitino veramente delle persone. La casa nel remake di Hauntig di De Bon era una specie di luna park gotico, con percorsi d'acqua, stanze degli specchi, sale da ballo a carillon e pure giostre di cavalli, ma per lo meno era una casa costruita da un ricco bislacco per far felici (sulla carta) dei bambini. Ma il villone di Crimson Peak sembrerebbe e vorrebbe essere qualcosa di più sobrio e funzionale, solo parzialmente sopra le righe. Ci sta bene che sia nel sottosuolo un groviglio di ingranaggi e tubi costruiti per l'estrazione. Fiumi di argilla che sembrano di sangue con trivelle che sembrano davvero giganteschi trapani a vapore volti a torturare un gigante nel sottosuolo. Ci sta bene che si acceda al sottosuolo con un ascensore rugginoso, ci sta bene che la stanza delle invenzioni di Thomas stia a metà tra il laboratorio di un mad doctor e la cameretta di un bambino. Tutto Favoloso, originale, intrigante . Ma la "parte  giorno" come è resa? Il tetto dell'abitazione è sbrindellato e visto che c'è la neve fuori saranno almeno zero gradi. Ma chi ci abita dentro porta una sciarpina, accende il fuoco, sta sotto la copertina sul divano e nulla più. Peraltro dal buco sul tetto sembrano entrare perennemente foglie secche come se fossimo in autunno e ci fossero degli alberi piantati direttamente sul tetto. Foglie che non arrivano al suolo, bellissime ma reali quanto un salva schermo. Nel villone, enorme, vivono letteralmente in due, con un servitore misterioso che va e viene, con il resto del mondo, la civiltà, a quattro ore a piedi da li'. Non è chiaro come facciano a tenere poi tutto pulito anche perché dal sottosuolo sgorga continuamente la argilla rossa che si sta mangiando le fondamenta della abitazione. Staranno tutti impiastrati di rosso? Ma manco per il cavolo, basta dare un pestone alle piastrelle, che sbrodolano argilla come fosse nutella in una singola scena e per il resto del film il problema è dimenticato. Anche nel Labirinto del fauno, negli Hellboy e nel secondo Blade c'erano luoghi da sogno, ma erano più realistici, separati, sembravano dei piccoli mondi paralleli credibili. I personaggi vivevano in un mondo reale e saltuariamente facevano capolino nella "favola". Qui pare invece ci sia gente che vive in una casa ricavata da un plasticoso (e ripeto visivamente favoloso) tunnel degli orrori. Potreste all'istante amare la magia di un set che trasuda eleganza, impegno e ricerca del dettaglio più originale e stiloso. Ammirarlo come ammirereste luna scenografia elegante e sopra le righe di una rappresentazione teatrale. Ma potreste pure trovarlo troppo, troppo assurdo. 
E poi c'è Doug Jones, che da corpo ai fantasmi. Si muove in modo inquietante, funziona nel suo incedere sempre originale e scattoso, acrobatico quanto doloroso, ma i fantasmi che incarna hanno gli stessi difetti della casa, stanno in un mondo tutto loro, un luogo che con il realismo fa a cazzotti. Avete presente la cacarella che vi viene quando vedere un fantasma al cinema? Presente Le verità nascoste di Zemekis? Non so come capita a voi, ma per me, che non mi fanno particolare impressione gli insetti o gli animali, i mostri cinematografici che mi spaventano di più presentano delle connotazioni, pur limitate, che rimandano a una parvenza di umanità, anche se contorta. Se manca questo input o ci sono elementi caricaturali nella sua rappresentazione (come i fantasmi di Ghost Busters o La Madre del film omonimo, guarda caso prodotto da Del Toro) io troverò un mostro magari bellissimo, ma ho più voglia che paura di vederlo. Sono curioso ed esaltato dagli effetti speciali più che atterrito. Mi diverte e non spaventa. Ora, i fantasmi di Crimson Peak sono per me una versione più "horror " della Sposa Cadavere di Tim Burton. Braccia allungate, corpi filiformi o recisi, pure gli occhioni a volte. Comprerei oggi tutte le action figures, li trovo bellissimi, tutti ben caratterizzati. Ma non mi fanno paura, non avverto la tensione salirmi al loro arrivo e mi viene da pensare che sia per chiara scelta registica, che Del Toro anche qui non abbandoni il suo dictat "io sto con i mostri". La paura e tensione arriva comunque dai veri mostri delle pellicola, gli umani, ma può un horror di stampo classico rinunciare all'impatto dei fantasmi per spaventare, relegandoli a creature più fantasy che horror? 
Forse Crimson Peak nella sua ricercata originalità rischia di buttare per aria il modello di film che vuole omaggiate.
Se vogliamo c'è un esempio ideale di film horror moderno che rievoca al meglio lo stile vintage della Hammer ed è The Woman in Black di Watkins. Ambienti gotici ma vissuti, recitazione sopra le righe ma senza che l'azione si fermi prima che il personaggio abbia tempo di pronunciare la sua battuta, elementi soprannaturali che fanno realmente paura. Una formula non facile da replicare, tanto che lo stesso seguito di The woman in black, L'angelo della morte, che esce da noi in questi giorni in home video in ritardissimo e senza essere passato dal cinema, non ha avuto i fasti del primo capitolo. 
Crimson Peak manca di quell'equilibrio perfetto tra merletti e spaventi e in genere risulta troppo sognante per risultare davvero minaccioso. Ma personalmente l'ho trovato un più che valido intrattenimento, un bellissimo giocattolo colorato e rifinito con una componente splatter da non sottovalutare. Si esce dalla sala contenti, segnando sul taccuino il nome di Jessica Chastain come nuova femme macabre, da mettere subito in top accanto a un'altra Jessica, la Lange di American Horror Story. Non è il film più riuscito di Del Toro, ma se siete fan del regista gli vorrete ugualmente bene. Le ragazzine amanti dei gotico romantico lo adoreranno comunque. Chi cerca un horror che spaventi a raffica rimarrà deluso. Gli amanti del fantasy e di Tim Burton potrebbero trovarlo più che gradevole.
Meglio Crimson Peak o The Haunting? Non riesco a dirlo, giocano di fatto nello stesso campionato ma vanno in direzioni così opposte da non poterli sovrapporre. A me piacciono entrambi nel loro esagerato, grandioso e gotico mondo di case da incubo, tanto sovraccariche di dettagli quanto artisticamente sontuose.  
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mercoledì 20 gennaio 2016

Orfani: nuovo mondo - n.3 - Vertigine


Rosa ha trascinato il gruppo di sopravvissuti del cargo clandestino battente bandiera liberiana. Ne ha salvati quanti più poteva combattendo i mostri e i cagnacci robotici della Jiric e ora non ce la fa davvero più, è inerme, mezza morta, trascinata dalle acque di un fiumiciattolo presso forse la bocca di qualche pesce spaziale. Ma Vincenzo e Lora la trovano. E chi sono Vincenzo e Lora? Sono anche loro dei sopravvissuti allo sciagurato atterraggio di fortuna di capitan Caesar (personaggio sempre meno epico e sempre più scemo numero dopo numero, ma a cui vogliamo bene), scaricati come monnezza sulla giungla del Nuovo Mondo prima che il cargo prendesse fuoco sul numero uno della nostra serie preferita. A loro è andata meglio che a Rosa e soci, non sono stato scelti finora come pappa per mostri e sembra stiano già mettendo su una casetta abusiva in riva al fiume. Fiume in cui arriva come un sacco di patate Rosa e rieccoci quindi al punto di partenza. Lora, un bel donnone deciso quanto materno, si prende cura della nostra eroina; Vincenzo, ometto pratico quanto imprevedibilmente acuto, va a soccorrere il resto del gruppo. Ma i mostri li hanno seguiti dal numero 2 ed è di nuovo, subito, giunto il momento di mettersi in marcia. Con Rosa più morta che viva portata su una brandina, la carovana riparte e forse abbastanza presto un rifugio valido lo si trova. Una grotta che sembra fosforescente, sembra organica, sembra telepatica, sembra popolata di zombie fungiformi come in Last of Us. Un posto che sembra un casino di cose strane messe insieme ma soprattutto un posto che sembra "affamato". Ce la faranno i nostri eroi a cavarsela senza Rosa? 
"Corri, sgorbietto, corri!" Queste sono le parole che Rosa dedica al pesciolino che nuota ancora nel sul pancione di mamma, scritte sulla ormai familiare pagina del suo diario, che apre e segue gli avvenimenti di tutti i numeri della nuova serie di Orfani. La vita ci spinge tutti, spesso, a correre. Il buon Recchioni ce lo ricorda perché è vero e importante. Chi si ferma / accontenta spesso muore e questo può in effetti essere vero per noi terrestri quanto per i nostri naufraghi spaziali. Ma la vita non è una corsa solitaria, grazie al cielo ha più la forma di una staffetta. E siccome nessun uomo è un'isola, come diceva qualcuno, bisogna anche fidarsi di chi ci sta accanto, scegliere o anche solo accettare quello che c'è, delle uniche mani amiche che troviamo. E questo albo, scritto da Recchioni e Masi pone un forte accento sulla necessità di crearsi un gruppo, fornendo una azione sempre frenetica e convincente ma soprattutto corale. Tutti gli eroi del gruppetto sempre più vasto di Rosa sono importanti, unici, tutti sono a loro modo protagonisti e accompagnano la nostra eroina per una volta proteggendola. Anche la nostra emancipata amazone per una volta può quindi godere del trattamento standard delle principesse Disney. Ci piace vederla così indifesa ma anche così coccolata. Gli autori si inventano poi uno scenario davvero singolare, estremo, sanguigno. E la nostra cappuccetto rosso si ficca, nolente, spostata a braccia dal gruppo, in una versione da incubo della nota balena di Pinocchio. Un mostro così strano e incasinato che non può che essere uscito da un sonnellino post "peperonata dell'apocalisse". Ma è una peperonata che ci piace, vorremmo chiedere una porzione pure noi è magari anche la ricetta. In questo marasma tutti si impegnano, con un'eccezione che non sappiamo ci faccia più ridere o piangere, ma che troviamo appropriata. La storia sprizza azione e divertimento. Laddove invece trova senso il titolo di questo albo, Vertigine, è nei disegni di Genovese per i colori di Saponti. La giungla aliena del Nuovo Mondo si dimostra piena di precipizi e montagne gigantesche, così grandi e  spaventose che ci spingeranno a volte a cambiare in verticale il senso di lettura, ad arrampicarci noi stessi sulle tavole del fumetto. I disegni sono bellissimi, i "salti" tra un fossato e l'altro ripidissimi, la pancia della "balena" un overtour visivo psichedelico geniale, multiforme, soffocante e un po' pazzoide. Il numero ci è piaciuto. E' stato una bella corsa sulle montagne russe ma si è trovato anche lo spazio per l'introspezione. L'impressione è che la trama non ambisca per ora a correre a perdifiato, gli eventi "grossi" arrivano in tutta calma, ma se il divertimento si mantiene su questi livelli noi ci sentiamo "appostissimo" così.
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domenica 17 gennaio 2016

Speciale amarcord: Baldios - L'apoteosi della sigla generalista dell'era pre - Cristina d'Avena

"Buona sera, me lo da un Baldios?". E checcavolo sarebbe un Baldios poi? Ora provate a schiacciare play sul video qui sotto e a chiudere subito gli occhi, limitatevi ad ascoltare il testo.


Certo non aiuta molto sapere che a cantare questo pezzo sia il sedicente "coro di Baldios". Senza le immagini a corredo un "Baldios" potrebbe essere benissimo un robottino da cucina anni ottanta.


Potrebbe essere pure un digestivo.

Invece ascoltando queste note noi, che all'epoca come cantava la sigla eravamo "i giovani che credevano negli eroi", noi "girellari fieri", ancora oggi, ci esaltiamo. Anche senza le immagini pensiamo subito a uno specifico anime,  glorioso anche se un po' sfigato, realizzato dalla  Ashi per la Toei e venuto alla luce all'inizio degli anni ottanta. Uno di quei cartoni animati ultra drammatici alla Zambot, per intenderci, struggenti e pessimisti, melodrammatici e caustici in modo esagerato. Con animazioni che ancora oggi appaiono invecchiate pochissimo, musiche evocative, mecha design da paura che vende ancora modellini in metallo da 300 euro. Baldios aveva e ha ancora "i numeri".


Futuro. Marin, il protagonista, era un alieno e come Actarus era giunto sulla terra per salvarci da altri alieni cattivi a cavallo di un robot enorme. Ma non fu altrettanto fortunato. L'eroe cercava aiuto nella classica base - centro di ricerche - silos dove si parcheggiavano i robottoni anni '70 - '80, ma tutti gli rispondevano picche. Perché i terrestri lo squadravano subito male, pativano subito un complesso di inferiorità. Marin andava in giro con un robot che era fighissimo, di una potenza spropositata e che per questo nell'anime si vedeva davvero poco. Un colosso che peraltro non aveva mai la gioia di pestare duro qualche mostro spaziale, limitandosi a poter schiacciare astronavine piccole e fastidiose come mosche. E poi perché doveva sempre essere Marin a guidarlo mentre gli altri piloti terrestri dovevano limitarsi a "comporre il giocattolone" guidando delle astronavine brutte che diventavano le gambe del colosso? Che fine aveva fatto la democrazia robotica di Getta Robot? Niente da fare, pilotava Marin. Oltre ad avere il robot "più grosso" e a guidare la rispettiva astronave più bella, Marin stava sull'anima probabilmente anche perché era davvero un Figo. L'eroe più gnocco degli anime di sempre. Sguardo languido, ciuffo vaporoso e ribelle, fisico da rockstar e movenze da vero principe azzurro. Occhioni intensi lontanissimi dallo sguardo da pazzo di gente come Tetsuya del Grande Mazinga o Ryoma di Getta Robot. E con una tutina elegante su misura faceva sembrare pure Aram Banjo un burinaccio di periferia. Roba che le bambine di inizio ottanta preferivano Marin a Terrence di Candy Candy. Anche perché c'era dietro alla storia dell'eroe spaziale anche tutto un intrigo amoroso a tre. E una "dei tre" era proprio una dei suoi più acerrimi nemici, una manza aliena da paura legata a lui da intrighi degni di Beautiful. Come conseguenza di ciò Marin piaceva parecchio al pubblico femminile ma stava sinceramente sulle palle a tutto il resto del cast e un po' pure a molto del pubblico del maschietti, soprattutto i più piccini, che da un cartone animato coi robottoni si aspettava di vedere dei cavolo di robottoni che si menavano. E ovviamente non arrivavano mai, perché inoltre in Baldios si parlava un casino e c'era tutto un discorso sui cattivi in fondo non così cattivi, sulla politica e sul rispetto del diverso. Baldios faceva pensare.


Purtroppo per questo Baldios "non finiva". Fu tagliato il budget per i bassi ascolti. Da 39 episodi previsti si chiuse baracca a 35. Ma a sorpresa Baldios il fandom se lo era comunque fatto. Così la storia venne "riaggiustata" in tempo record da un film che lo sintetizzava e chiudeva. Ma che, in perfetto stile giapponese, incasinava tutte le premesse rendendolo una storia alternativa. Un film comunque imprescindibile tanto per i fan che per chi è neofita. Soprattutto per le romanticone e i romanticoni, che apprezzeranno parecchio il suo finale. 
Oggi Yamato Video, che ha già editato la serie e il film da tempo, mette tutto in un unico cofanetto a prezzo imperdibile. Per i nostalgici una occasione ghiotta, anche perché i master sono ancora buoni e gli occhioni di Marin sono profondi come un tempo. E rivederlo da adulti è davvero un'esperienza gustosa e diversa dal solito. Un bel recupero. 
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giovedì 14 gennaio 2016

Addio ad Alan Rickman


Neanche il tempo di metabolizzare la dipartita di David Bowie, ed ecco che un'altra notizia tragica rimbalza sui social. Se ne è andato Alan Rickman, versatile attore inglese diventato famoso in ogni dove per essere stato Piton, uno dei personaggi meglio riusciti e sfaccettati della saga della Rowling...

lunedì 11 gennaio 2016

Addio Duca Bianco


Come ormai tutti saprete, si è spento uno degli artisti più prolifici, eclettici e rivoluzionari di tutta la storia della musica moderna. Non servono parole per esprimere quello che noi de Leconseguenze sentiamo in questo momento...lasciamo ogni commento alla sua musica.


giovedì 7 gennaio 2016

Dylan Dog 351 - In fondo al male


Si chiama Fiona Fenn ed è di Port Frost, un paesino della Scozia di 5000 anime in riva al mare, reso fugacemente famoso negli anni '70 dalla bellezza delle sue misteriose coste, teatro di una misteriosa leggenda, riprese dallo studio Hypgnosis per la copertina di un disco dei Led Zeppelin, Houses of the holy. Leggere Dylan Dog e magari scoprire così i Led Zeppelin è come trovare un cassa del tesoro sepolta e carica di dobloni. Nell'albo viene pure "suonata" The Rain Song e visto che abbiamo youtube, con tanto di pezzo corredato visivamente dalla copertina del disco, aspetti che c'entrano con la storia, utilizziamo questo media player, per una volta, senza andare a cercare solo le gare di rutti. 


E' stato bello, vero? Ma so che voi volete anche la gara di rutti ...


Ok, pratica evasa, torniamo a noi.
Fiona Finn ha un problema che la porta lontanissima da Port Frost, direttamente a Londra, in Craven Road, al campanello urlante dell'indagatore dell'incubo. La sua amica Molly Maclachlain è sparita da una settimana senza avvisarla, scomparsa nel nulla e forse finita male per via della brutta gente che frequentava. Anche se Dylan non si occupa di casi "ordinari" Fiona lo travolge, scatta la scintilla e il nostro eroe non aspetta nemmeno una tavola dell'albo per partire con lei verso Port Frost. Purtoppo non fanno in tempo ad arrivare a destinazione che già scorgono il corteo di un funerale. Molly è stata trovata uccisa e l'indagine di Dylan si tramuta rapidamente un una caccia all'assassino. Port Frost nasconde molti segreti, celati con cura dietro il volto amichevole, da cartolina, delle sue coste lussureggianti. Ma se qualcuno "togliesse il tappo" e tutta l'acqua turbinasse via come lungo lo scarico di un lavandino, il vero volto della cittadina si paleserebbe con tutta la sua deforme mostruosità. 

Primo numero di Dylan Dog sceneggiato da Ratigher, un autore di graphic novel interessante, fresco, piuttosto originale e ruvido nei suoi testi. Un animo inquieto perfetto per il personaggio inquieto per autonomasia. In questo caso non disegna lui l'albo, come solito, ma Alessandro Baggi, già attivissimo su Dampyr. 
Rathiger allestisce una storia davvero criptica e per me complicata, un flusso di coscienza che proverò a descrivervi nella consapevolezza che magari posso andare del tutto fuori strada. Per questo vi invito, se volete, a offrirmi nei commenti una vostra interpretazione della storia. E' comunque una chiave che potrebbe guastare una lettura preventiva e peraltro ve la fornisco sotto 

SPOILER



Questo non è per me un fumetto con protagonista Dylan Dog, quanto piuttosto uno Slice of Life. Una specie di racconto sulla quotidianità della vita, la narrazione di un fatto che ha ripercussioni sulla routine. Come tipo di racconto stiamo dalle parti di molte opere di Gipi, Zerocalcare e Jiro Taniguchi. In questa storia di Ratigher osserviamo la vita di una ragazza di provincia nel momento in cui si trova davanti alla perdita di una amica cara. Fatto che la porta a un ripensamento generale sulla vita che sta vivendo. In questo contesto Dylan esiste per lo più come una sua proiezione immaginaria. Un Dylan che tutti conosciamo tramite i fumetti, racchiuso nei suoi tic e argomentazioni tipiche. Un Dylan che risulta ininfluente ai fini del racconto perché forse la protagonista stessa è convinta della sua inesistenza. In senso ancora più lato potrei spingermi a considerare questo l'albo la risposta alla domanda: "In che misura l'evasione nel mondo della fantasia fornita da un fumetto riesce ad alleviare i dolori della vita reale?". 
Mi ricorda un po' un lavoro di Crepax in cui Valentina incontra Humphrey Bogart. Una ragazza che ama il nostro fumetto preferito, e questa è Fiona, sa che Dylan cadrà in ginocchio davanti a una bella donna (magari la lettrice stessa, lei), sa che se troverà nella sua casa un clarinetto si metterà a suonare male il Trillo del Diavolo, sa che davanti al pericolo sarà sempre disarmato, a patto che nelle vicinanze non ci sia il suo assistente a tirargli la pistola. Sa che in fondo non esiste e la soluzione ai suoi problemi deve trovarla da sola, ma comunque spera di essere incoraggiata, ispirata, dalla sua "presenza". Come un'ancora in mezzo al mare. Una speranza. Che in fondo è quanto si chiede ad un buon fumetto, soprattutto se rivolto ai più piccini, una scala di valori, la visione di un mondo migliore. 
Appioppando così alla "bell'e meglio" la categoria Slice of Life, trasformando così l'indagatore dell'incubo in una specie di "armadillo immaginario" (cit. Zerocalcare) che tutti vedono, la storia fin da subito si sposta ancora di più in campo onirico-metaforico, laddove la distruzione del mondo interiore della protagonista coincide con la distruzione della intera Port Frost. Alla fine dell'albo sappiamo che Fiona sa benissimo che fine ha fatto la sua amica, ma non vuole accettarlo (forse è partita "metaforicamente" per Londra dopo la morte della sua amica). Parimenti non vuole accettare che il suo piccolo borgo isolato dal mondo, una volta luogo sicuro e felice,  non gli piaccia più e non sia più sicuro, isolato dal resto del mondo. La strada che sta riaffiorando sotto il mare la porterà a unire la sua piccola realtà, che l'ha tradita, con un mondo più ampio ma che se vogliamo è in grado di spaventarla anche di più. Anche se forse metaforicamente è l'accettazione di essere diventata grande e più sola.

FINE SPOILER



Questo è quanto ho immaginato dopo un paio di letture, segno delle alte potenzialità dell'autore a fronte di una scrittura forse ancora troppo aspra, oscura e per nulla addomesticata alle regole più rodate dello story telling a fumetti. Qui il tasto lettura con pilota automatico è rotto. Avrà sicuramente influito il fatto di non aver disegnato lui l'opera o di essere stato seguito da un apparato redazionale che ancora non conosce, ma di questa opera di Ratigher si apprezzano molto di più le intenzioni che la resa finale. Senza l'interpretazione che ho provato a fornire sotto spoiler, che non è ovviamente oro colato, affrontando la lettura con le aspettative di un albo tradizionale, magari da leggere dopo pranzo nel pre-pennichella della domenica pomeriggio, questo racconto ha gli effetti classici della peperonata: un incubo. La protagonista si comporta come una squilibrata, una specie di ninfomane bipolare con scatti di depressione e violenza. Il nostro eroe ripete a macchinetta e all'infinito le sue "pose tipiche", il suo essere seduttivo, vegetariano, animalista, astemio, scettico e pessimo suonatore. L'indagine non va da nessuna parte fino a che a metà albo si dice: "Andiamo là!"senza che la cosa assuma davvero un senso anche dopo la fine dell'albo. Forse c'è pure un tocco fuori tempi massimo del "millennarismo" di fine anni '90. Tutte cose che avrebbero un senso se fossero spiegate in modo più chiaro, senso che magari lettori più svegli di me hanno saputo cogliere subito. Io ci ho messo un po', ma alla fine la gita a Port Frost me la sono goduta. Anche grazie alla colonna sonora dei Led Zeppelin. Rileggendola più volte. Anche grazie alle tavole disegnate da Baggi.

Questo autore ha un tratto che richiama molto come rappresentazione dei personaggi il lavoro del rodato-amato duo dylaniato Montanari e Grassani, cui aggiunge una peculiare "esasperazione drammatica" nei visi, con tanto di occhi spalancatissimi e bocche che sembrano sempre sul punto di urlare, per me piuttosto gradevole e "vintage". E poi ha disegnato una protagonista sexy e con il fondoschiena notevole, aspetto che fa sempre piacere. Le scenografie sono davvero molto belle e particolareggiate, tanto quelle vivide e realistiche di Port Frost quando quelle surreali e disturbanti delle sue coste.  La struttura della tavola per la prima parte del racconto riprende i canoni classici cui siamo abituato con il mensile, ma nella seconda parte assistiamo a delle vere montagne russe, con la "gabbia bonelliana" (la divisione della tavola in rettangoli per lo più da sei) che si riduce, si moltiplica per poi diventare splash page per poi diventare "a cinque vignette" (con la centrale a campo lungo cinematografico) fino a invadere i bordi della tavola e abbattere ogni barriera, diventando tavola pittorica a tutto campo. Davvero interessante la sequenza da pagina 64 a 76. Mi ha molto colpito.
Quindi accogliamo con gioia Ratigher nella scuderia degli autori di Dylan Dog, sicuri nella sua maturazione artistica e giusto con la preghiera di venire incontro ai lettori più anziani come me, magari con intrecci più semplici (ma mai a discapito della sua originalità, che si nota e stima da subito). Baggi mi è piaciuto e lo attendo su altri lavori. Un numero da rileggere bene più volte. Non perfetto ma stimolante. Ruvido ma per questo anche sincero, emotivamente forte. 
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domenica 3 gennaio 2016

Orfani : nuovo mondo - volumi 1e 2


Rosa è nello spazio mentre il suo "sgorbietto" nuota ancora placidamente nel suo pancione. Dorme all'interno di una capsula, trasportata da un'astronave cargo piuttosto losca. La lotteria che assegna posti per vivere su una nuova terra a quanto pare è vera, il nuovo mondo esiste e accoglie Rosa direttamente con dei missili che la costringono a un atterraggio di fortuna, in una giungla aliena carica di strani mostri chtulu-formi e tentacolosi quanto tigri-xenomorformi e multi-oculari. Ma la futura mamma non si arrende, si strappa di dosso i pezzi di vetro che gli si sono conficcati nella pelle in seguito all'atterraggio poco ortodosso, indossa anfibi, pantaloni militari e maglietta del decathlon ed è pronta. Si arma con l'arco di Ringo, per tenere un contatto con lui, perché "l'arma di un avventuriero rappresenta la sua anima" direbbe un Granduomo (cit. leggete "Ya - la battaglia di Campocarne di Recchioni, che è una figata). Sanguinante, determinata e un po' incazzata Rosa si prepara a diventare spada e scudo del suo bambino. Ma non sarà sola. Con lei c'è un robottino "di salvataggio", Host, una sorta di hostess del volo appena schiantato. E' come una specie di testa decapitata di Eva 00 (già visto nella prima serie di Orfani un modello simile, guarda caso in compagnia di Ringo), pensa come un GPS e parla come una wiki, svolazza e nonostante abbia qualche chip danneggiato ha pure una personalità. come Irma. Ma non c'è solo il robottino con lei, la rossa presto trova al suo fianco ancora il vecchio pistolero, presente in scena in un modo tutto suo, ma quanto basta per non lasciare sola la sua bambina. Ma la Juric non sta a guardare, è sempre a caccia dei ribelli grazie ai suoi orfani robotici che, dismesse le piume dei corvi, ha moltiplicato come l'esercito dei cloni e resi sempre più servili, sempre meno Fighi e forse pure meno pericolosi. Orfani che hanno ora la nuova forma di schiavi a quattro zampe, cani meccanici da caccia. Ridicoli e tronfi, ora sembrano le truppe un po' buffe e un po' letali dell'esercito di Bryking Boss, direttamente presi da Kyashan. Saranno stupidi ma sempre letali, non meno delle creature del pianeta. Ma Rosa può contrastarli, è più forte, forse perché in lei c'è il doppio dei super-geni che hanno modificato gli Orfani, e il nuovo mondo si presenta da subito come un luogo dalle molte possibilità, forse davvero il posto giusto per il futuro della razza umana. Se solo questo dannato pianeta non cercasse di ammazzarla ogni tre minuti.



Terza stagione di Orfani delle quattro originariamente pensate da Roberto Recchioni. Una serie sempre molto action e molto "pop", ma per questi non priva di spunti interessanti. Nella prima stagione abbiamo conosciuto dei ragazzini senza più legami, orfani, cresciuti troppo in fretta e soli a causa di città improvvisamente esplose come se nulla fosse. Forse sono stati gli alieni forse no. Ragazzi diventati presto uomini, educati al mestiere delle armi al campo Dorsoduro (c'è un campo Dorsoduro pure in "Ya", lo sapevate?) Forse sono l'evoluzione umana definitiva, gli eroi che salveranno il mondo dalla minaccia aliena, i veri Jedi. Ma forse sono ancora, sotto gli steroidi e le armi d'assalto, ancora dei bambini, sperduti, in cerca della riconoscenza e amore che non hanno potuto avere, sentimenti che sperano di trovare dal loro nuovo genitore adottivo, l'esercito, diventando dei bravi boy-scout. Ma l'esercito non è granché come padre, non si pone problemi a modificarli geneticamente, a farli combattere tra di loro, a corazzarli, renderli armi specializzate nel fabbricare cadaveri. Da un'ambientazione da videogame, Halo su tutti, con i suoi "Spartan" nelle fonti di ispirazione, la trama ci ha procurato però, in pochi numeri, un colpo gobbo. Ci siamo spostati presto nei territori tetri dell'indottrinamento mentale, della manipolazione delle informazioni, degli oscuri giochi di potere specchio di una società che tratta gli individui come burattini utili solo per dinamiche di potere. La Terra sta morendo ma forse gli alieni non c'entrano. Forse gli orfani non sono nati per essere degli eroi. Qualcuno trama nell'ombra. Alcuni orfani si solo ribellati, altri hanno giurato fedeltà a chi li aveva "creati". Le due fazioni si sono scontrate tra di loro ed è stata una carneficina. Nella seconda stagione della serie abbiamo seguito le gesta di uno di questi orfani, un sopravvissuto che è riuscito a togliersi il collare del padrone, uno che ha saputo girare pagina, diventare padre, anche se inizialmente non se ne era neanche accorto, sprecando gran parte della vita nell'alcol e nel rimpianto. Riluttante,  ha cercato a suo modo di crescere i suoi cuccioli , proteggerli in un mondo difficile, degradato e impoverito dai tempi in cui era giovane. Ai suoi eredi poteva trasmettere l'unica cosa che sapeva, l'arte di sopravvivere e combattere. Questa serie ha parlato di famiglia, ( di paternità nello specifico, un tema non molto utilizzato in genere) come di rivoluzione, di saper alzare la testa o tenerla bassa davanti a chi decide della nostra vita. Ha parlato, cosa rarissima per il nostro mercato, anche del nostro Belpaese. Abbiamo intrapreso un viaggio nell'Italia del futuro, triste specchio di quella del presente, in fuga da una società malata e morente, inseguendo quella che pare più di una metafora. La rassegnazione che un futuro vero non si può trovare nel nostro bel paese, che sia necessario arrivare all'estero, nel resto del mondo, se non nello spazio. E un padre deve essere severo e determinato, più duro di quanto vorrebbe, per dare la forza ai suoi figli per potersi muovere da soli, staccarsi da quella che chiamano casa, diventare grandi. Ora siamo alla terza stagione del fumetto di Recchioni, in un mondo nuovo, lontano dalla Terra e che offre al l'umanità una nuova casa. Ma è un mondo già abitato da strane creature e i nuovi coloni sono circondati da mille insidie come in un nuovo far west. La terra brulica di brutti insetti in grado di uscire dalle fottute pareti. Come in molta fantascienza di serie A, come in Alien, l'eroe diventa donna perché solo lei, come madre, è in grado di portare una nuova vita, far continuare la specie. Non mi sorprenderebbe, anche perché sarebbe perfetto, che nella quarta parte di Orfani si parlasse di eredità, per chiudere il cerchio, con protagonista delle storie il figlio di Rosa.
Ormai siamo al terzo anno di questo progetto, che siamo riusciti a seguire dall'inizio. 
Più il tempo passa più i "meh" dei primi numeri di sono diradati, la miniserie Bonelli ha saputo essere sempre nuova e intrigante. Ho aspettato a parlare di Nuovo Mondo anche perché il primo numero è stato tutta una botta di adrenalina, un'unica sequenza action a rotta di collo, esaltante ma che ancora non metteva a fuoco il carattere dei personaggi, anche perché non riusciva ancora a presentare la maggior parte di un cast che immagino ancora in espansione. L'impressione al termine della lettura del numero 2 è che questa terza stagione assomigli per ora a un survival horror in salsa sci-fi. 


Un gruppo di sopravvissuti dispersi in una giungla mutante aliena deve fare i conti con creature da incubo e robot nazistoidi potendo contare solo sul fatto di avere le palle quadrate e consci che si può sopravvivere in quel posto sono insieme, in un gruppo. Rosa la abbiamo vista bambina nella seconda serie, affettuosa, quanto ingenua. E' cresciuta con l'andare avanti dei numeri, diventando sempre più combattiva, sempre meno "cappuccetto rosso", come la chiamava Ringo. Rosa è riuscita a farsi largo in un futuro da incubo con la stoffa della final girl di un film horror, con la cazzimma di Ripley, di Katniss e di Ygritte. Ora la vediamo anche più determinata, con i capelli rossi un po' alla mohicana in seguito a una specie di auto-scalpo, un po' modaiolo ma che ci piace. Sguardo di ghiaccio e muscoli tesi a protezione del suo rotondo, dolce pancione coperto dalla maglietta blu, la culla per "sgorbietto"(così lei lo chiama), la nuova vita, il futuro, a cui dedica le pagine del suo diario, che leggiamo prima di ogni numero di questa stagione. Vogliamo sempre più bene a Rosa, la sentiamo sempre più vicina, con i suoi dubbi, l'estrema schiettezza, l'ostentazione da "bulla" forse non così bulla, tanta autocritica e ironia, mentre scrive che si lamenta del girino mutante che la scalcia dentro al pancione, ma a cui rivolge i suoi pensieri e apre il suo cuore, a cui dedica dei disegnini buffi a sfondo delle parole di un figlio a righe. Davvero una bella rinfrescata per l'anima questo suo diario, al posto dei tristi e sconfortanti proclami-testi di sociologia deviata della Juric, che nella scorsa stagione impegnavano lo stesso spazio dell'albo. Un intrigante parallelo, considerando che per funzione non solo narrativa tanto Rosa quanto la Juric sono delle "madri", anche se in modo non convenzionale. E forse questo status potrebbe con il tempo pure cambiare del tutto il carattere della Juric se non addirittura "rivelararlo". Starà all'estro di Recchioni farcelo scoprire. Siamo già con le orecchie tese, in ascolto. Ci sono anche altri personaggi interessanti in queste pagine, ma forse è ancora troppo presto per capirli a fondo. Quello che affiora di più e si impone è Cesar, eroe controvoglia, vigliacco e pure bastardo. Forse in cerca di redenzione, forse no. Mi piacerebbe scommettere su di lui. Impossibile non vederci l'anti eroe cosmico di Vin Diesel. Non Groot, quell'altro.

Andiamo ora un po' sul tecnico.


Il numero 1, intitolato "L'aliena". Soggetto e sceneggiatura di Recchioni e Vanzella, per una storia che procede veloce come un Rollercoaster, cita Pitch Black, Elysium, ci mette a contatto di mostri strani come sulla Pandora di Avatar. Un mix divertente, con tanta azione e l'arco futuristico del pistolero, che ritorna glorioso, con i suoi proiettili ad attivazione vocale che ci fa arrapare come il Legislatore del Giudice Dredd. I disegni di Cavenago in una storia con tanta azione fanno la parte da leoni. Sono sempre precisi, chiari e dinamici, la sua Rosa è strepitosa, sexy e cazzuta, i robottoni ridicoli quanto basta e richiamano in sgraziate movenze i robot paperini della federazione dei mercanti della trilogia prequel di Star Wars. Belli i colori della Leone, mi sono piaciuti particolarmente nelle sequenze subacque e oniriche, nelle scene in notturna. Ottime matite che riportano alla mente proprio i colori di Avatar, una natura lussureggiante, viva e accogliente ma pronta a castigati in un istante. Bello.

Il secondo numero, "Madri Guerriere", è scritto da Recchioni e Monteleone e racconta del tentativo di Rosa di soccorrere i sopravvissuti dell'astronave schiantata su cui era arrivata sul Nuovo Mondo, se non addirittura riuscire a creare con loro una piccola carovana con cui uscire dalla giungla aliena. Anche qui l'azione è predominante e scaturisce da una caccia ai sopravvissuti senza tregua da parte tanto dei robot che di animali grossi e brutti quanto desiderosi di carne fresca. Rosa spicca sul suo "branco" per leadership e forza, anche se sarcasticamente è chiamata Principessa Rosa, e dovrà scontrarsi con un'altra autorità "matriarcale", una regina insettoide degna di Alien, che si pone a difesa anch'essa del suo branco, del suo nido. La stupenda copertina di De Longis racchiude perfettamente questa dicotomia. Uno scontro tra donne alfa. Lo svolgimento dell'azione, sempre in ottica di survival horror, si espande e non faremo in tempo a ricordarci il nome di qualche personaggio che già ce lo troveremo decapitato dagli insettoni o crivellato dai colpi dei robot. Stiamo come citazioni dalle parti di Alien quanto di Starship Troopers. C'è una vera chicca, poi. Al centro della vicenda due pagine oniriche pazzesco (pag 63-64 il cui effetto non so se attribuire agli autori dei testi o ai realizzatori, diciamo bravi tutti!) che fanno tornare in mente, per suggestione, colorazione e impostazione di tavola il celebre "frammento" di Watchmen di Alan Moore, "I racconti del vascello nero". E' in questo numero che conosciamo qualcosa di più su Cesar e assistiamo alla partenza della Juric per il nuovo mondo. La storia è veloce e si legge che è un piacere. I disegni sono di Maconi per i colori della Aquaro. Le tavole sono anche qui un susseguirsi di azioni spericolate e inseguimenti frenetici, che spesso coinvolgono in gran numero di personaggi in ambientazioni sontuose e dettagliate. La Rosa di Maconi è un ottimo equilibrio di forza e dolcezza, anche grazie al modo in cui viene dinamicamente nascosto o svelato il suo pancione. Molto bello il monster design e le tavole più bucoliche, come pagina 68. C'è un po' di splatter che ci piace sempre tanto e le tavole riportano una ricca e vivida vegetazione in cui spesso l'acqua diventa il principale elemento scenico. L'ambientazione serale è quella che preferisco. Tavole molto belle su cui risaltano sfumature blu notte alternate ai rossi accesi dei falò come delle bocche di fuoco dei mitragliatori. Bello il giallo acceso misto a verde acido delle uova aliene che fa anche da illuminazione della grotta della regina. Mi ha ricordato Specie Mortale. Anche questo un ottimo numero. 
Orfani non molla e si conferma una piacevolissima lettura nel panorama del fumetto italiano
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