sabato 30 novembre 2019

Midway- la nostra recensione del nuovo film di Roland Emmerich




La battaglia di Midway è uno dei più celebri eventi bellici del secolo scorso e nel tempo ha assunto l'alone di vera e propria leggenda. Le navi da guerra coinvolte hanno ispirato opere della fantascienza moderna come Starblazer (si parla dell'incrociatore giapponese Yamato) e Star Trek (per la celebre porta-aerei americana Enterprise), non si contano i libri, fumetti, film e videogame che ne fanno rivivere i momenti salienti (tra cui lo sparatutto 1942 di Capcom). I nomi di Richard "Dick" Best, Jimmy Doolittle, Isoroku Yamamoto e Chuichi Nagumo risuonano, insieme ai nomi di centinaia di altri eroi sui libri di storia. Come omaggiare al meglio l'evento, scegliendo una strada nuova di leggere gli eventi? Con qualcosa che sembra molto simile a una partita di football americano. 
Sembra una follia, forse è una follia, ma Emmerich imposta i 130 minuti di Midway come se fosse tutto un grande show sportivo. Ci sono i personaggi eroici, ci sono i discorsi motivazionali, le paure, i dubbi dei soldati, le lacrime delle mogli che lo attendono a casa e la struggente canzone di una vedette stile pin-up alla festa di ballo della marina. Non mancano le situazioni kafkiane come soldati a penzoloni tra due navi che affondano (roba che sarebbe stata benissimo in Dunkirk di Nolan), non mancano momenti di eroismo spiccio dell'eroe per caso (roba ripresa diretta da Pearl Harbour di Bay). 

Ma il fulcro della pellicola è la tattica e il "segnare il punto", non troppo diversamente da Ogni maledetta domenica di Stone. I caccia si buttano in picchiata contro gli incrociatori schivando selve di proiettili come gli X-Wing nella corsa alla Morte Nera di Star Wars (scena che già si ispirava proprio ai filmati storici di Midway girati in un documentario sul luogo dello scontro dallo stesso grande regista John Ford, interpretato qui da Geoffrey Blake). Una volta arrivati a tiro, i caccia devono sganciare le bombe e rimettersi dritti per non cadere in mare e scappare via più veloce possibile, mentre l'artigliere di coda cerca di liberarsi degli inseguitori, e questo momento Emmerich lo carica di una tensione quasi erotica. Il pilota spinge sulla cloche, soffre con lo sguardo carico di sudore e sgancia. Ogni tanto la bomba manca la nave nemica, ogni tanto la bomba non esplode o esplode tardi, con tutto il pubblico che fa un "noooooooo" come quando si sbaglia un rigore. Ma quando la bomba centra il bersaglio sono solo applausi, esplode tutto in modo liberatorio con l'aeroplanino che ricompare tra gli sbuffi di fumo e fiamme e schizza via fino al prossimo attacco. Nella fuga, da veri atleti, i piloti si esibiscono in giri della morte, repentine picchiate e manovre che fanno quasi galleggiare i biposto a pelo d'acqua e poi sulla pista di atterraggio, come fossero degli Skateboard. Essenziale, "divertente da guardare" e così stilizzato da non farti pensare a tutta la montagna di morti di questi scontri. Sul piano tattico del "gioco" il film imputa anche il fallimento della mentalità collettivista e conservatrice nipponica (disposta a seguire ordini folli perché impartiti da un vecchio generale che agiva di istinto samurai, seguendolo fino alla morte), con la vittoria a punti pieni dei self-Made-Men americani (che si rifiutano di seguire gli ordini di attacco che venivano dalla madrepatria perché viziati per questioni logiche). Ma ripeto, è un po' come criticare la tattica di Allegri per l'ultima partita della Juve alla fine, non si va più a fondo di così. Il vero problema del film è che tre ore non bastano per raccontare da tutta Pearl Harbour fino a Midway, anche solo se badiamo allo spostamento degli aeroplanini sul Risiko. Sul finale viene raccontato cosa fecero dopo Midway degli eroi, con annesso medagliere, di cui alla fine conosciamo dal film pochissimo e per cui, da semplici spettatori, ci importa poco. Non aiuta il recente talento di Emmerich nello scovare per i protagonisti principali attori un po' inespressivi. Se con Indipendence Day 2 ci aveva inflitto quel totano di Liam Hemsworth, qui ci infligge quel salmone di Ed Skrein, la cui unica cosa memorabile, per gli amanti delle parole zozze, è che qui interpreta un tizio soprannominato "Best Dick", quando in Malefica 2 interpreta un tizio di nome "Borra". Poi ovviamente, come sempre ci ha abituati Emmerich, il cast brilla di ottimi caratteristi in ruoli minori, da Harrelson a Eckhart, passando per Luke Wilson, Luke Evans, Dennis Quaid e, per premio simpatia, anche l'ex Jonas Brothers Nick Jonas! Con i baffi! A dire il vero quasi tutti con i baffi, peccato che durino sullo schermo pochi secondi l'uno. 
Non conoscendo troppo il football americano, non so quanto questa battaglia di Midway ad esso chiaramente ispirata possa toccare i cuori del pubblico statunitense, ma l'ho trovata pur nei limiti un'idea curiosa, di sicuro originale, per parlare di Storia. Una narrazione interessante che potrebbe portarci a cose tipo "Grecia - Troia 3 a 1", con Goal di Achille, Diomede e Ulisse per i vincitori. C'era pure quella azione dubbia di Menelao in fuorigioco, ma goal è "solo quando arbitro fischia". E questa è comunque Storia. 
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venerdì 29 novembre 2019

Countdown - la nostra recensione!



Justin Dec è un regista giovane e di belle speranze, che un giorno incontra i produttori di Escape plan 2 e di Come ammazzare il boss e tutti insieme decidono di realizzare un horrorino sui gggiovani che usano qualche nuova tecnologia modaiola (Le app del cellulare) e ci trovano dentro Satana. Siamo quindi in quella divertente cloaca narrativa dove trovano posto robe come BeDevil - Non installarla, Stay Alive!, Smiley. Strani incubi da peperonata in cui vediamo mostri con corna e zoccoli stare lì ad aprirsi il profilo di Instagram per condividere foto di torte e adescare qualche teenager americano. Avete presente?


Poi i gonzi cliccano "mi piace" e parte una maledizione biblica che li ammazza uno dopo l'altro fino all'arrivo della "final girl" che batterà il demone con coraggio, astuzia e buoni valori. La ricetta dello slasher anni ottanta con il plus della dignità persa del mostro classico, costretto ad aggiornarsi tecnologicamente come vostro zio che frequenta i "corsi dell'internet" della mezza età. Ma ve la ricordate la sanguinaria contessa Bathory costretta in Stay Alive! a programmarsi un videogame stile Resident Evil brutto per poi giocarci con i mocciosi dei primi anni 2000? Stesso senso di tenerezza che si prova in questo Countdown in cui un epigono cugino della morte disegna un'applicazione per cellulare esteticamente triste come l'applicazione "sveglia".


Chi scarica questa cosa vede quanto gli manca esattamente da vivere e si fa una risata, sempre che non debba morire a breve. E qui il film si fa capzioso come una puntata di report sulla truffe assicurative. In pratica quando istalli sta roba tu firmi delle "condizioni d'uso", quella roba che in genere non legge nessuno e Belzebù è stato così precisino da inserire. In pratica tra le condizioni c'è che in caso di morte imminente non devi fare nulla per cambiare il tuo destino. 
Questo perché il demone che ha creato l'app è uno che ama vedere cagarsi sotto quelli che sanno di dover morire, ma si rompe i coglioni se questi cercano di scappare, perché poi i conti non tornano, deve spostare robe, fare casini gestionali, un bordello organizzativo tale che ti chiedi davvero quanto sia coglione il demone a ficcarsi in tutto questo casino per due spaventelli di terrore. Per di più quando uno cerca di sfuggire al suo destino una delle minacce più significative che può mandargli è una "notifica di inadempimento al regolamento", potendo andare a menare i trasgressori solo negli ultimissimi istanti di vita. E i trasgressori si organizzano, essendo un pelo più smart di lui. Contrattando dal punto di vista tecnologico (gabbando l'app) e metafisico (chiamando un prete).
Riuscirà il diavolone di turno a mietere vittime con la sua app? Dovrà tornare a infestare case e donne vergini sotto il ludibrio di colleghi e amici?
Mi sono divertito un botto con questo filmetto un po' stupidino ma ben girato, con alcuni effetti visivi mica male e con un ritmo nemmeno così scontato. Sulla locandina si citano robe come The Ring e Final Destination, ma a mio parere siamo più dalle parti di una variante di Death Note, con l'aggiunta di un paio di personaggio davvero divertenti (il prete nerd e il responsabile del negozio di cellulari) a buttarla tutta in commedia. Il demone ha un modus operandi tutto suo che prevede il comparire alla vittima successiva con le fattezze di una persona a lei cara prematuramente morta. Ha anche un "outfit biblico" che tira fuori per le occasioni speciali. Gli effetti di trucco non sono male. Per quanto riguarda gli "attacchi", è in grado di lanciare brutte allucinazioni e di spostare per aria, ma sono per un raggio d'azione ristretto. Il suo vero limite è che se non muore la persona, nell'esatto momento che predice l'applicazione, lei ci fa una figura del cacchio e scompare tutta incazzata annullando la maledizione (proprio perché basata su predizione errata). Alla fine è più facile da vedere che da capire. Quindi filmetto divertente, promosso per la simpatia generale con cui è realizzato, tra effetti carini, attori non così terribili e durata generale consona al genere. Per appassionati ma anche per curiosi, un modo per ammazzare il tempo tra un paio di brividi e un paio di risate. Gradevole come un toast freddo alle 11 di sera quando hai saltato la cena. 
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E al prossimo giro, i diavoli cuochi

giovedì 28 novembre 2019

Dylan Dog n.400 - "E ora, l'apocalisse! " - la nostra (non) recensione del fumetto scritto da Roberto Recchioni e illustrato da Angelo Stano e Corrado Roi




Prima che nelle edicole, che lo accarezzeranno verso Natale, il numero 400 ha fatto sfoggio di sé a Lucca 2019 e poi nelle librerie con un volume rilegato di ampio formato, impreziosito di interviste di approfondimento e di una copertina dai toni bianchi (che mi si è già sporcata per la mia sbadataggine) con una bella illustrazione, in rilievo, al centro, molto evocativa. 
Il numero quattrocento, come tutti i centenari, è un numero altamente celebrativo. Un lungo omaggio a Tiziano Sclavi e a tutto il mondo pop e letterario di cui sono da sempre imbevute le pagine delle avventure di Dylan Dog. Recchioni, autore del numero e attuale curatore della testata, sta compiendo a livello artistico quello che è per me un lungo viaggio di riconoscimento e valorizzazione della cultura pop, affiancandola e facendola dialogare con la cultura più classica e riconosciuta. L'intero mondo letterario, cinematografico, musicale, anche videoludico, che ormai è noto e "codificato patrimonio" di un ampio numero di appassionati come solo la rete internet riesce oggi a connettere (un tempo le citazioni dovevi saperle trovare, oggi sono un tesoro non più nascosto), diviene per Recchioni parte di un codice narrativo, un linguaggio che racconta storie nuove assemblando "elementi narrativi già sviluppati" in opere già note. Come in un collage, se serve una frase per descrivere una situazione specifica e un film o un libro presenta quella "frase perfetta" Recchioni la usa, anche e soprattutto perché è una frase la cui forza è già riconosciuta. È un unico processo di re-invenzione e omaggio del materiale originale, attraverso la certificazione diretta della fonte di ispirazione nelle note a fine libro (come accade nelle tesi universitarie, le fonti sono tutte riportate). Nel recente R.S.D.I.U.G. (Roma sarà distrutta in un giorno), scritto e disegnato da Recchioni ed edito per Feltrinelli, i brani del gruppo Il muro del canto strutturano narrativamente gran parte dei passaggi "emotivi" di un racconto che parla di un mostro Kaiju che attacca Roma e i suoi abitanti. Recchioni fa una playlist dei brani del Muro del canto che più lo colpiscono e crea su quello il linguaggio narrativo del libro, ci crea il resto intorno. Ha fatto qualcosa di simile ma al contrario il compianto Akab, quando dopo aver visto dei disegni di Squaz ha pensato di legarli e costruirci una storia intorno, dando origine a quel piccolo gioiello de La Soffitta, ora distribuito da Oscar Ink. Con E ora l'apocalisse Recchioni crea una storia che è puro citazionismo Pop, della stessa natura se vogliamo di Horror Paradise, il numero 48 della testata, uscito nel 1990. Giusto mettendo la formula "sotto steroidi". Ai tempi di Italia 90 non c'era internet, Sclavi con Dylan Dog faceva conoscere al lettore un mondo Pop nascosto, che poi si è tradotto in guide ai film horror allegati agli albi speciali annuali, per poi gloriosamente tradursi in un festival annuale come il Dylan Dog Horror Fest. Quando un numero di Dylan Dog citava un film, che eravamo sicuri di aver visto solo in sei anche se spesso non era vero, ci sentivamo come degli eletti. In volumi come Horror Paradise comparivano personaggi come Alien e Rambo (leggermente modificati), con Dylan che affrontava il secondo e chiosava caustico: "E dire che il primo film mi era anche piaciuto". Da ragazzino adoravo Sclavi per la conoscenza che infondeva a noi piccole merdine. 


Ma come si può sentire a "citare" un autore di Dylan Dog adesso, nel 2019, quando quella conoscenza magica ce la offre già internet e comunque "Sclavi era Dio e voi non valete nemmeno la metà" scritto in ogni bagno virtuale della rete? E arriviamo al punto di questo 400, che di fatto prende più che di petto questo tema del "successore non all'altezza del mito", se vogliamo il vero filo narrativo nascosto a tutta la gestione Recchioni del personaggio. Il vero motivo dei cloni spaziali di Dylan, dei Bloch pensionati e trasferiti, dei matrimoni ambigui ma politically correct da pubblicizzare con cover misteriose, dei mille cross-over con altri eroi Bonelli gothic-classic-action (mancava solo il crossover con Il comandante Mark) e della dannata, gigantesca meteora. Recchioni è nudo davanti alle aspettative del pubblico che dopo un anno di countdown, Giuda Ballerino, si aspetta davvero l'apocalisse. Per difendersi l'autore si corazza di cultura pop come Kevin Smith che snocciola frasi leggendarie da Star Wars, perché sa che quelle per chiarezza e carisma sono il massimo e lui non vuole offrirci meno del massimo. Parte con un "Sapete? Apocalisse come Apocalypse Now?" e non finisce più, arrivando a citare Bennato (perché per la cultura pop quelle non sono parole da Peter Pan ma la colonna sonora dello scenario cartonato dello spot dei cellulari con Gaia Bermani Amaral). In un gigantesco collage narrativo e visivo di "mattoni pregiati uniti in nuove forme" (i più bravi non avranno grossi problemi a scoprire le fonti citate dallo stesso Recchioni a fine volume, siano esse di cultura alta o più pop), prende così vita il numero 400, una roboante storia intima sull'essere e dover essere del personaggio dei fumetti per il suo lettore. Un argomento già accarezzato dal sempre più bello, lettura dopo lettura, In fondo al male, il numero 351 scritto da Ratigher. Un argomento per molti lettori scomodo, perché li espone, "li scruta dentro" in un dialogo che non tutti possono o vogliono affrontare perché il fumetto deve essere "mondo a parte", escapismo. 
In molti sentono sulla pelle un brivido, un deja-vu di quando Gualdoni citava Elio e le storie tese. Più ci avviciniamo alla fine, più si avverano i presagi ampiamente palesati fin dalle prime pagine, quando ancora si pensava che fosse "solo" un omaggio a Horror Paradise
Non vi voglio dire altro perché "la botta" voglio vi arrivi dritta in faccia, facendovi sbarellare, sorprendere, magari gridare al genio o decidere di imbracciare il forcone, le torce e andare insieme a occupare il civico 38 di via Buonarroti a Milano. Se il nuovo corso di Dylan Dog si proponeva di far parlare di più del personaggio, l'obiettivo è centrato. La tecnica per innovare le storie è forse poco ortodossa ma decisamente efficace e nel bene o nel male comunque memorabile. Il 400 si ricorderà comunque. 
Quando si era pensionato Bloch con il numero 338 ero rimasto un po' sconvolto dai "modi" in cui era avvenuto quel cambiamento. Nel 400 avviene un cambiamento che trovo intrinsecamente più onesto. Anche se disperato, anche se ha il sapore di una "resa" del meccanismo narrativo tradizionale, anche se è l'ennesima dimostrazione che anche gli autori più gettonati, come Brian Michael Bandis e Mark Millar, non trovino terreno per costruire del nuovo senza per forza distruggere un vecchio corso ritenuto troppo "invadente", "già saturo". Ma dietro il pop citazionista spinto, dietro questo "complesso dell'impostore" che Recchioni si cuce con una umiltà profonda nascondendosi da Rock star trasgressiva, c'è vero amore. Amore che può essere distruttivo come quando Bendis come autore si confessava al pubblico, che lo criticava per come aveva strapazzato la vita sentimentale del vigilante Marvel, rispondendo: "Io amo Daredevil e far soffrire Matt è l'unico modo autentico che conosco per fare in modo che anche voi lo amiate". Ma comunque amore, qualcosa che può tenerci lontani dalla recchioniana Mater Morbi, che ci vuole distrutti e corrotti dall'interno. Il numero 400 non poteva non dare un piccolo spazio anche a lei, come non poteva chiudere tutto. 
Ci sarà un 401, 402, 403 ecc. la storia continua ed è pronta a sorprendere ancora. 
Cambiando argomento, i disegni. Roi e Stano sono da paura qui sul 400. I disegni sono bellissimi e profumano di Corto Maltese (dire di Pratt pareva meno elegante per questioni onomatopeiche), di Breccia, di Crepax, ogni tanto pure di Miller e ed Eduardo Risso. La peculiare struttura narrativa a "gabbie infrante" permette ai disegnatori di sperimentare cose assurde e fuori dagli schemi, con personaggi che quasi finiscono per cadere sul bordo di una pagina. Il formato da libreria è una scelta vincente per queste tavole straordinarie, ricche di dettagli, dotate di una spazialità ariosa e spesso spassose, dinamiche, strabordanti di sorprese visive. 
Godetevelo questo 400, lasciate che si distilli in voi per una ventina di minuti dopo la lettura, "state al suo gioco" . Io ci ho visto dietro un estremo e crudele atto d'amore. Ma pur sempre un atto d'amore. Talk0

mercoledì 27 novembre 2019

Brittany non si ferma più: la nostra recensione del nuovo film di Amazon Prime



Brittany (Jillian Bell) è una ragazzona un po' sovrappeso e depressa, ottima per fare bisboccia ma puntualmente sbronza e abbandonata il giorno dopo. Bisogna fare un taglio netto. Contenere la frequentazione tossica dalla amica festaiola Gretchen (Alice Lee) e seguendo l'invito della vicina di casa Catherine (Michaela Watkins), che la vuole facente parte di un gruppo podistico locale, aspirante alla maratona di New York. Un passo dopo l'altro, con l'amicizia di Catherine, il supporto emotivo del nuovo amico Seth (Micah Stock) e le coccole del suo nuovo quasi-ragazzo (Utkarsh Ambudkar), Brittany inizierà a macinare chilometri e quasi a rientrare nel suo peso forma. Solo che la vita le sembrerà meno sfavillante del previsto, portandola ad essere cinica e spesso intrattabile.


Il peso, croce e delizia del panzoni buontemponi (per dirla con i Simpson). Una lunga e faticosa scalata per disfarsi dei chili di troppo che separano da una condizione fisica socialmente accettabile e la scoperta dolorosa che oltre alla trippa c'è altro da fare per piacere prima di tutto a se stessi. Il gruppo podistico che diventa il motore intorno a cui ruota la pellicola, funge da ottimo laboratorio relazionale dove prendere dal gruppo la forza per affrontare le dolorose sfide della vita, la semplice metafora è il "correre insieme", lo "stare insieme per un obiettivo comune". La maratona di New York diviene quindi l'attestato di una prova superata, ma costituisce solo una tappa delle tante sfide di una vita che invita a correre sempre, uniti, verso la nuova meta. Dopo la visione di questa storia tratta da un'esperienza personale mi sento quasi di avere il fiatone, di aver corso pure io tra Brooklyn e Manhattan insieme a Brittany, un personaggio che se nelle prime battute sembra buffo e un po' sgraziato come i soliti di Melissa McCarthy, si dimostra col tempo davvero sfaccettato, indolente, realistico. La sua vita va a rotoli come può andarlo la vita di tutti per via di un periodo storto. Si mette in gioco tutto quello che si crede di essere e non essere, ci si arrabbia con chi ci vuole bene e si guarda il soffitto sopra il letto volendo prendere a pugni il mondo. Poi questa energia viene incanalata dai muscoli e il peso che si ha in testa si scioglie nella corsa come la trippa sulla pancia, in un progetto di non definibile guarigione ma di sicuro miglioramento costante di se stessi. Brittany non si ferma più vale quanto un buon libro di aiuto motivazionale. Spinge a raggiungere il primo Planet Sport o Decathlon o simile che c'è in zona, prendere una tuta comoda e un paio di scarpe da trekking e iniziare a frequentare quella zona nei parchi vicino a casa. Possibilmente quella senza brutte compagnie in agguato. Più che un film, nella seconda parte diventa quasi un documentario sulla maratona di New York, fa davvero venire la voglia di essere lì in quella specie di mondo colorato in marcia, contenti pure di arrivare 10.000 e passa. 
È un film colorato, molto carino, recitato in modo non banale e con un messaggio di fondo positivo. 
È una pellicola che fa stare bene, da guardare con una bella tisana calda in un pomeriggio di pioggia. Poi magari se domani smette di piovere si può cercare qualcuno con cui correre insieme.
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martedì 26 novembre 2019

Aposimz: la nostra recensione del numero 1 del nuovo manga di Tsutomu Nihei




In un mondo futuristico incasinato e deprimente diviso in mega-strutture labirintiche in cui sono o quasi tutti morti o zombificati o diventati degli strani pupazzi coreografici, dei tizi sfigati cercano di sopravvivere ad altri tizi bene armati e forse altolocati, vampiri o nazi o roba così. Ci stanno le robottine pieghevoli gnocche che si trasformano in cavallette parlanti, c'è un'arma che può trasformare il protagonista (dal nome che non mi ricordo come si scrive e non ho capito come si pronuncia) come Ultraman per pochi minuti (riducendolo però il resto del tempo della sua vita in una specie di zombie orribile), almeno finché ha in corpo placenta o Giauss che può ricaricare bevendo l'urina della sua personale robottina pieghevole gnocca di nome Titania (unico nome che mi ricordo). Il che fa sorgere un po' di schifo nel nostro eroe, che preferisce alimentarsi di vermoni fallici stile Tremors di cui questo schifo di mondo è pieno, ma la robottina poi lo convince: "Guarda che è tutta roba naturale, è filtrata e piena di idroliti e poi io sono un robot, pensami come un distributore di Coca Cola". Al che tutto ok, urina di robottina tutta la vita, se non che per diventare più forte e sconfiggere vampiri o nazi, o quello che sono questi cattivi, il nostro eroe deve sconfiggere i più deboli, incamerarne l'energia schiacciandoli come acini d'uva da cui fuoriesce però vomito, sangue e piscio e poi bersi il tutto. A un certo punto il nostro eroe vomita e non è che noi lettori stiamo meglio. 
Sono tornato a leggere Nihei, non lo facevo dai tempi di Abara e non lo facevo con continuità dai tempi di Blame!. Ho saltato Knight of Sidonia per dare una botta di allegria alle mie letture, ma con questo Aposimz è tornata la curiosità. Ho provato ad abbandonarlo in fumetteria, poi ci ho ripensato, era finito, l'ho cercato in altre fumetterie, mi è scattato qualcosa. Se era bravo a livello visivo in Blame!, qui è quasi mostruoso, nel senso migliore del termine. Dai disegni carichissimi di nero e contrasti di retino, qui è tutto lattescente, quasi scolpito a precise e sintetiche pennellate. È qualcosa da vedere, difficile da descrivere. I suoi personaggi poi sono sempre un po' quelli, una specie di manichini deformi pieni di armi e cartucciere, spade e armature medioevali, tizi che gli è appena morto il gatto. Gli scenari sono sempre tubi, cunicoli, fogne e quanto di più claustrofobico immaginabile, ma amabilmente ariosi e organici grazie alla scelta visiva lattescente, da affrontare in pagine e pagine di trekking muto, fino a che l'autore ogni venti pagine decide che possa succedere qualcosa, tipo l'urina di robottina. Ma visivamente è tutto fighissimo, gli scontri sono apocalittici, la tensione è a pacchi, muoiono decine di protagonisti senza che ci si ricordi il nome di tutti (anche perché Nihei sceglie nomi impronunciabile "perché sì"), ci sono un sacco di robe cyber-punk altisonanti che rendono apparentemente profonda la narrazione, tra città meccaniche e imperi pseudo-religiosi, cavalieri-frame centenari e proiettili che possono perforare le macro-strutture del mondo. Alla fine è lo stesso mondo di Blame! colorato diverso, ma il numero mi ha preso dalla prima all'ultima pagina, monopolizzandomi per una trentina di minuti che mi sono goduto uno dopo l'altro. Planet Manga confeziona un prodotto eccellente di cui aspetto fin da ora il seguito, gioioso di potermi tornare a deprimere come al bei tempi di Blame! Ora scusatemi per quest'ultima vena felice, del tutto fuori luogo considerato questo manga.
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lunedì 25 novembre 2019

Mad chimera world: la recensione del numero 1



In un mondo futuristico strano e bizzarro ogni cosa ha le tette. Case con le tette, rocce con le tette, mostri con le tette, cieli a tette, dichiarazioni dei redditi a tette. Pure le zanzare hanno le tette!! È quindi anche un po' tutto un fumetto con le tette, se voleste coprirle una a una con un bikini a penna ci mettereste più tempo che a completare il settimanale del Sudoku. La gente in questo fumetto è strana. Sono tutti mezzi polpi o mezzi insetti, ci stanno i cyborg così a caso, ci sono mostri grandi e mostri piccoli. Tutti con le tette. Ci sono in giro anche i maschietti comunque, solo che le donne hanno il controllo e il potere assoluto, cacciano i maschi, si riproducono con loro e poi li accoppano come fanno le mantidi religiose. Di contro i maschi, che da questo punto di vista sono totalmente atei (assaporare la battuta...) si nascondono. Anzi, non potendo sottostare alla libido cercano di uscire dal buio fulminei, trombarsi queste pericolosissime donne nude, spesso mutanti e pericolosissime, mentre sono distratte per poi scappare e mimetizzarsi di nuovo. Solo che prima dell'attacco vengono sgamati, perché anche se si mimetizzano in una pianta all'avvicinarsi di una donna si rigonfiano le parti basse del tronco. E allora il manga diventa la festa del rigonfiamento, accompagnato dai volti tristi di chi è in questo stato, perché significa che stanno per morire inevitabilmente per mano di una donna. Questo manga l'ho letto "tetto" di un fiato, vergognandomi un po' come un maledetto, perché la sessualità c'è (noooooo, non lo avevo immaginato!!!), ma è usata per delle gag cretine a ripetizione, un po' come il classico Porompompin di quel pazzo di Makoto Kobayashi. Solo che l'autore è quel pazzo di Seishi Kishimoto, autore di 666 Satan, che si diverte a creare un ibrido strano ficcando in contesto un po' fantasy un po' futuristico e tutto scemo, scontri senza senso alla Berserk e una storia di amicizia tra un uomo e una donna. Con l'uomo che si traveste da donna per non essere ucciso e per aumentare l'assurdo si esprime in continue pose sexy da lolita "con sorpresa". Con la donna che è una amazzone mezza bionica che per combattere si deve staccare un braccio, trasformarlo in spada e menarci qualsiasi creatura con tette che avverte la presenza dell'uomo, vuole farselo e poi ucciderlo. Come comprimari, a turno, dei cosi buffi e creepy con la testona superdeformed e il pacco perennemente gonfio. Saranno 4 numeri, questo è il primo, non immagino degli sviluppi ma voglio lasciarmi sorprendere. È disegnato incredibilmente bene, c'è un'ottima composizione della scena tanto sui lati umoristici che in quelli action, esasperati fino all'eccesso con favolose splash-page. Non è adatto ai minori (noooooooo!!! Ma dai??? Davvero???) ma se volete farvi un paio di sane risate e godere di un contesto così esagerato e senza un perché dovete provare a leggerlo.
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giovedì 21 novembre 2019

Frozen II visto da B-Gis



Potrei raccontarvi la trama, che all'inizio sembra riciclata da Pocahontas. Poi sembra ripescata da Koda fratello orso. Poi si autocelebra. Poi Elsa fa Elsa (cioè sbrocca senza un motivo apparente) e Anna fa Anna (cioè va in giro ad urlare “Elsaaaa, Elsaaaa”). C’è magia e mistero. C’è la natura. Ci sono più sottotrame amorose.

Ma preferisco darvi 10 buone ragioni per vederlo:

1. Perché Anna ed Elsa piccoline sono adorabili
2. Perché Olaf è il migliore al gioco dei mimi
3. Perché Olaf, nell’eventualità che qualcuno non abbia visto il primo film, fa il riassunto dell’episodio precedente 
4. Perché Olaf è glitterato
5. Perché i vestiti di Sven e Anna sono troppo realistici
6. Perché Elsa ha un Pokemon
7. Perché la canzone “Nell’ignoto” cantata da Giuliano Sangiorgi è bellissima, seconda solo al Cerchio della vita (va bene tutto, ma non toccatemi Spagna e Il Re Leone)
8. Perché Frozen II celebra Frozen I
9. Perché ci sono Big Hero 6 e Dumbo
10. Perché Sven è, a seconda dell’età della spettatrice, un Duran Duran, un Take That, un Backstreet Boys o un One Direction

Ed una ragione per non vederlo

1. Perché la nuova pettinatura di Elsa non le rende giustizia
Mi raccomando di non uscire prima della fine dei titoli di coda

N.B. Se volete vi scrivo anche la recensione del primo:
Un’ingenuotta ragazza del nord si innamora di un bel principe del sud... poi c’è la povera sorella sfigata (ma bellissima!) che ghiaccia tutto. Infine Olaf, il pupazzo di neve che ama i caldi abbracci!!!!

B-Gis in foto vintage con Olaf


B-Gis

mercoledì 20 novembre 2019

Gli uomini d'oro: la nostra recensione




- Sinossi fatta male: Se pensi che una cosa è impossibile, la rendi impossibile. Lo spiantato ma positivo playboy Meroni (Giampaolo Morelli) guida insieme al collega Zago (Fabio de Luigi), uomo depresso e incattivito dalla vita, la camionetta portavalori delle poste, ripetendo ogni giorno il solito monotono tragitto, con oltre quattro milioni di euro raccolti dentro delle sacche solo a pochi centimetri da loro. La voglia di fregarli è tanta, un piano concreto è peraltro possibile, grazie a una minima organizzazione. Una svolta la cerca anche il "Lupo" (Edoardo Leo), ex pugile e ora gestore di un bar, ma la cosa non è indifferente nemmeno a un sarto che arrotonda come strozzino (Gian Marco Tognazzi). Riusciranno a fare un colpo da maestri, diventare ricchi e spassarsela in Giamaica?

- Fabio de Luigi come Walter White o meglio "il Valter" White: c'è un amore viscerale e sbandierato, omaggiato in più scene per il cinema di Tarantino in questo film scritto e diretto Vincenzo Alfieri. Ci sono i poster "nerd" di Bruce Lee e Grosso guaio a Chinatown, locali isolati tra i campi che all'esterno pare il  Titty Twister e all'interno Texas Chili Parlor, con lap dance annessa, c'è la storia divisa in capitoli che si incrociano, la tensione che si dilata, l'azione e l'umorismo. Come solo fa chi sa fare bene, Alfieri prende questi elementi e li interpreta, ricombina e innesta nella nostra realtà italiana vintage, nella Torino "di frontiera" dei tempi di Juve-Toro 5-0 del 1995, fatta di palazzoni grigi e casette ancora freezate nel mobilio e colori ai tempi del Cuore, fatta di baretti fumosi dove si gioca il biliardo. Così il calcio è una vera e autentica droga, distillata per fuggire dagli squallori del mondo, per riunire famiglie come per dare una ragione di incazzarsi abbassando i freni inibitori. Così la tensione tra "stereotipi" del nord e sud diviene un comodo modo per formarsi dei preconcetti e allungare le distanze. Ricetta ideale per lo spaghetti-pulp, graziato da un'idea di messa in scena geniale, che per l'Italia è quasi sovversiva. Si prendono attori generalmente legati ai film comici o alla commedia sentimentale come Di Leo e De Luigi e li si "incupisce", li si fa recitare come pericolosi, borderline e disperati bad guy scorsesiani. L'esito è davvero sorprendente, inatteso. Fabio De Luigi dà voce e corpo a un personaggio duro come la roccia e dagli occhi di ghiaccio, Di Leo si trasforma in un picchiatore ingenuo, manipolabile quanto pericoloso. Morelli e Giuseppe Ragone interpretano personaggi tragici ma anche molto simpatici, Tognazzi gioca amabilmente sopra le righe un po' da cattivo dei fumetti, ma Di Leo e De Luigi si mangiano la scena, la squassano come due leoni incattiviti. Al centro della storia c'è una rapina e i giorni che la precedono e seguono. La rapina è tesissima e angosciante, girata davvero molto bene, ma anche il "contorno" non è da meno, il film riesce a calamitare dall'inizio alla fine. Ogni capitolo in cui è divisa la pellicola presenta il diverso punto di vista di ogni personaggi, arricchisce la narrazione e regala più di un colpo di scena. 
La pellicola pecca ogni tanto di schematicità e il ritmo narrativo serrato forse non consente di esplorare al meglio i personaggi, ma alla fine il viaggio è divertente e pur non ambendo a diventare un capolavoro dimostra che la passione e l'impegno ci sono e Vincenzo Alfieri è un nome da segnarsi a penna sul taccuino. Meno citazionismo, meno velocità narrativa e ci siamo. Il senso dell'azione e la direzione degli attori è già formidabile. 
Gli uomini d'oro è una scommessa vinta, un film godibile, divertente e sincopato che permette ad attori di consolidata fama di improvvisarsi in ruoli inediti. De Luigi davvero straordinario, sogno fin da ora di vederlo in un thriller con Servillo, magari qualcosa stile Insomnia di Nolan, ambientato tra Trentino e Veneto.  
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martedì 19 novembre 2019

Le ragazze di Wall Street (Hustlers ) - la nostra recensione del nuovo film della straordinaria Jennifer Lopez




- Premessa: C'era una volta, in una Galassia lontana lontana, la Wall Street di Gordon Gekko, di Randolph e Mortimer Duke. Un luogo di sogno dove i soldi si moltiplicavano dal nulla, in genere a svantaggio di qualche poveraccio senza nome, e dove i broker, i signori con i vestiti firmati che gestivano questo sistema, erano dei ragazzotti su di giri, perennemente allupati come squali, in cerca costante di cocaina, donne e altri soldi. Questa che ho descritto è una generalizzazione e forse una parodia dello yuppismo più sfrenato, sia chiaro, ma ormai storie che dipingono un mondo simile si accumulano e anche questa pellicola, tratta da una storia vera come anche Wolf of Wall Street di Scorsese, continuano a confermare più che smentire la gravità del quadro. 
Comunque, cosa facevano questi nuovi ricchi dopo aver guadagnato l'ennesima montagna di soldi? Tutti agli "strip-club deluxe", a riempire di banconote da cento dollari i micro-tanga delle "lapdancer - hostess deluxe" (il titolo originale del film è Hustlers, che significa truffatrici ma allude foneticamente anche a "hostess", accompagnatrici) per poi portarsele nei privé, affezionarsi, farle diventare amanti e magari comprarle casa. La "lapdancer deluxe" nonostante l'avvenenza e gli strusciamenti contrattualmente previsti, non era una prostituta. Al punto che, come racconta il film, chi comprava loro casa a volte nemmeno le aveva mai sfilato le mutande. Erano per questo simili alle Hostess di certi club privè giapponesi (quelli che si vedono anche nei videogame della serie Yakuza), dove i salaryman che lavorano per 18 ore al giorno vanno per trascorrere due ore con una ventenne carina, fare conversazione, leggere, sentirsi confortati, ubriacarsi, addormentarsi su delle cosce morbide (coperte da tovagliolini igienizzanti) per poi svegliarsi, passare a fare la colazione e via, già pronti a lavorare girato l'angolo. L'alternativa è prendere un treno per due ore, tornare a casa alle 2 di mattina dalle mogli incazzate nere che vomitano loro contro i problemi del mutuo, la suocera, il corso di judo del figlio da pagare che poi lui non ci va, la nuova tassa sulla spazzatura. Due palle così per poi addormentarsi cadendo con la testa nella tazza dei ramen, svegliarsi di botto e prendere il treno per tornare in ufficio, sul quale si spera di tornare a dormire. Il "potere conciliatorio dei soldi". Le hostess guadagnano tanto ma fanno una vita frenetica e spesso quelle che non trovano il principe azzurro finiscono in brutti giri. Le hostess sono una realtà giapponese così peculiare che ne parlano non sono le opere di intrattenimento (film, libri, videogame) giapponesi, ma addirittura dei documentari che ogni tanto si trovano su Focus e su Cielo. Cielo la sera diventa un po' il paradiso dei documentari zozzi e delle repliche di show tipo Sex Theraphy con protagonista quella sexy sessuologa vestita come Dana Scully, la leggendaria Barbara Florezzano. Tra lei e Cristina Parodi in vestitini da casalinga americana anni '50 con i tacchi a spillo e il rossetto di Biancaneve... scusate sto andando fuori tema... A Wall Street, dicevamo, facevano più o meno lo stesso che fanno oggi i giapponesi  ricchi a Tokyo. Ed essendo i broker americani privi di fascino reale come i giapponesi ricchi, inondavano di soldi le "stripper deluxe" solo per parlarci un paio di ore prima di cadere vittime della sbornia. Montagne di soldi che le ragazze ricambiavano con corpi da urlo perfettamente in forma, abilità seduttive avanzate, capacità di conversazione non scontate e capacità empatiche degne di un mentalista. Amanti perfette che con il cliente gusto fatturavano regolarmente, pagandoci pure le tasse (era ed è attività lecita da quelle parti), 5000 dollari a notte. Soldi che non faticavano per nulla a richiedere e probabilmente erano frutto di una speculazione che aveva mandato sul lastrico della povera gente. Alcune erano delle vere e proprie Robin Hood in tanga, che rimettevano in circolo quella enormità di soldi guadagnati anche a favore di altre persone. Purtroppo nel 2008 arrivava la nota crisi dei mutui e i soldi finivano. Era l'epilogo della Grande scommessa raccontata al cinema da Adam McKay. I locali hot deluxe si svuotavano o regredivano a postriboli di bassa lega, le "lapdancer deluxe" dovevano chiudere baracca e trovarsi un marito che le mantenesse a vita o diventavano commesse di McDonald's o finivano nei peggio posti. Serviva un atto di vendetta per ridare "dignità" a queste ragazze e il film alla fine è di questo che racconta.


- Sinossi fatta male: Destiny (Constance Wu) è la nuova ragazza di un night club dalle parti di Wall Street, un uccellino spennacchiato asiatico che vive con la nonna, sogna di tornare a studiare ma non è ancora molto brava con le mance. Ramona (Jennifer Lopez) è una lapdancer esperta, dalla bellezza travolgente e dal cuore d'oro. Le due si incontrano e si ritrovavano quasi sorelle, ognuna impara qualcosa dall'altra. Ramona ha carisma, Destiny capacità imprenditoriale e presto insieme danno vita a una specie di società di intrattenitrici di lusso, rivolta ad un pubblico super-iper-vip. Come riusciranno le due a far fronte alla crisi del 2008 e all'endemico svuotamento dei club? Di sicuro hanno fatto qualcosa di estremo, perché Destiny sta rilasciando una intervista (a una bella giornalista interpretata da Julia Stiles) in merito a quello che è stato un vero e proprio scandalo. Come avranno attirato all'amo dei clienti scomparsi nel nulla? 
- Senza troppi sensi di colpa, guardiamo anche noi Jennifer Loperz praticamente nuda su un palo: Ci sarebbe da approfondire tutto il discorso della trama, dello sviluppo dei personaggi, del messaggio ambiguo ma condivisibilissimo di odiare chi "uccide ogni giorno la vita di innocenti giocando in borsa" (e altre declinazioni più o meno apocalittiche o più o meno bonarie dello stesso concetto), ma il film prima di tutto ti vende una cosa, ed è qualcosa davvero da infarto secco, fuori scala. Parlo del corpo che la leggendaria Jennifer Lopez esibisce con un orgoglio latino, felino e felliniano, una grinta da guerriera e la capacità tecnica di una ginnasta e ballerina professionista. La sua Ramona "va in guerra", ogni sera, per soddisfare i clienti, non troppo diversi dagli animali con cui voleva lavorare da piccola come veterinaria, coperta da poco più di un filo interdentale come le amazzoni disegnate da Frazetta. Trasforma la sua eccessiva pelliccia bianca in ali di aquila, pronte ad assaltare in picchiata verso i money,  come a trasformarsi in coperta per accogliere nel suo grembo i cuccioli, le hostess più sole che vanno sul tetto dello stripclub a piangere. Indossa scomodissimi tacchi a spillo con tacco trasparente con la fierezza di una corona, uno status symbol di potere e non di sottomissione ad oggetto erotico. Ramona è una creatura dalla pelle abbronzata e lucente, forte e dolce. In grado di strangolare come di confortare, stregare e uccidere solo a parole, ipnotizzare con lo sguardo. La Lopez mette in Ramona tutta la sua "Jenny from the block", vissuta con grinta, furbizia e tenacia nei quartieri di periferia, materna e incrollabile per la sua famiglia, spietata con chi se lo merita. È una Lopez che dopo le ultime pellicole dove abbandonava la commedia per tematiche più sociali, come Lila & Eve e Ricomincio da me, scoprendosi anche un'ottima caratterista, decide di riconnettersi, da donna matura, con quella fisicità per cui da giovane era così famosa e fiera da arrivare ad assicurare il suo fondoschiena. La scommessa è per me vinta e stravinta, la Lopez trasuda fascino e carisma come e forse di più di vent'anni fa e qui, nel 2019, dovrebbe essere l'ora giusta che il cinema di serie a, quello degli Scorsese, Anderson e Tarantino, iniziasse ad accorgersi di lei e a proporle qualcosa di più delle commediole come Amore a 5 stelle o le puttanate come Gigli - amore estremo. Spero per lei che dopo questa performance il telefono inizi a squillare per ruoli come Monster, Erin Brockovich, Viale del tramonto, Il Laureato


- Le ragazzacce di Wall Street: dato a Cesare quel che è di Cesare, considerando che la Lopez da sola vale tutti i soldi del biglietto, il film diverte e fa riflettere, un po' come i documentari "zozzi e bellissimi" che passa in seconda serata il canale TV Cielo. Davanti alla brava Constance Wu che snocciola con naturalezza i modi più criminali per spennare i broker brutti e cattivi, dapprima facciamo le facce strane come la giornalista di Julia Stiles (molto carina e buffa qui), poi ci convinciamo che le hostess hanno fatto bene, poi constatiamo che forse hanno esagerato ma che comunque hanno avuto "i loro motivi". Il film punta tantissimo nel farci empatizzare con le ragazze. Prima ce le mette a nudo con i problemi del "copricapezzoli dorato perduto", ce le fa sfilare oliate come al mercato degli schiavi del Gladiatore di Ridley Scott. Poi ci fa vedere come destreggiarsi su un palo non sia per nulla qualcosa di facile (e infatti è una disciplina sportiva vera e seria), come sedurre e mantenere al contempo le distanze sia un'arte di comando e non di sottomissione. Poi il film scava, scava dentro di loro e ci connette con quanto va oltre il loro lavoro, tocca i loro sentimenti in modo genuino (grazie a ottime attrici come Wai Ching Ho, vero cuore emotivo del film ) e ci travolge per farci loro "complici" verso la seconda parte della pellicola. Una seconda parte che è matta da legare, grida Breaking Bad per determinazione quando per ironia. Allora le situazioni più assurde si sommano. Compare gente così "sfatta" che viene trascinata senza che tocchi terra, un forno da cucina si trasforma in laboratorio improvvisato, la povera Annabelle di Lili Reinhart che ha attacchi di vomito quando è sotto tensione diventa una specie di meme, c'è un chihuahua carinissimo e spaesatissimo trascinato nei luoghi più improbabili e uomini nudi che si buttano dal tetto e mancando la piscina di spiaccicano come Willy Coyote. Con le follie aumenta anche il dramma, in un crescendo scorsesiano che non ci fa mollare per un attimo lo schermo fino al finale.
- Finale: Le ragazze di Wall Street è un crime-movie divertente, pieno di ritmo e con ottime interpreti. La sensualità delle attrici è uno dei suoi punti di forza, la nudità è alla fine davvero minima ma i micro-bikini sfoggiati sono davvero armi letali. I "maschietti" fanno una pessima figura in questo contesto, ma sono (quasi tutti) dei "cattivi" verso i quali siamo contenti di non provare alcuna pietà. La prima parte del film colpisce per le sfaccettature con cui è descritto il mondo dello strip-club, la seconda parte travolge per una escalation di cose matte, lo spettacolo finale non è affatto male. A chiudere il quadro una bella colonna sonora e una fotografia che sa essere molto vivace e patinata per il "parco giochi" di Wall Street, quanto plumbea e realistica nel descrivere le periferie di New York. Davvero una bella pellicola. 
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lunedì 18 novembre 2019

Doctor Sleep - la nostra recensione del nuovo film di Mike Flanagan




Sono passati 40 anni dai misteriosi fatti di sangue che hanno travolto la famiglia del custode invernale dell'Overlook Hotel, una lussuosa località per le vacanze del Colorado. Il piccolo sopravvissuto Daniel Torrence (Ewan McGregor) è cresciuto insieme al suo strano potere, chiamato "luccicanza" (lo "shining" in lingua originale), ma è diventato adulto nel modo più problematico e disfunzionale possibile. Alcolista come il padre, incapace di trovare un lavoro stabile e forse colpevole di una grave omissione di soccorso, Dan prende un pullman e scappa in capo al mondo, riuscendo a trovare il suo posto in un hospice, dove il suo particolare potere lo aiuta ad alleviare il dolore dei malati terminali negli ultimi momenti di vita. Lo chiamano "dottor sleep". Lontano da lui, dall'altra parte dell'America, c'è Ambra (Kyliegh Curran), una bambina che come lui possiede la luccicanza e la usa per contattarlo con la mente a centinaia di miglia di distanza, trovando in Dan un amico e forse una guida. Solo che Dan e Ambra non sono soli a percepire lo shining. Nascosti tra i boschi, forse da millenni, c'è un clan di gitani immortali che come vampiri si nutre di chi ha la luccicanza, li caccia o li corrompe. Creature che possono corrompere la mente, mimetizzarsi e volare con il pensiero dentro la testa delle persone comuni. Dei mostri spietati che ora si sono accorti di Ambra e faranno di tutto per trovarla ed ucciderla. A capo dei gitani c'è una bellissima e misteriosa donna con il cappello (Rebecca Ferguson). 


Mike Flanagan è un regista di thriller soprannaturali molto interessante, che dà il meglio di sé quando è libero di realizzare i progetti più personali come Somnia, Oculus, Hush, ma sa anche dare lustro a progetto già avviati, come nel caso di Annabelle 2 - creation. Ha anche realizzato per Netfix un adattamento del Gioco di Gerald, anche questo come Dottor Sleep tratto da un romanzo di Stephen King, ma in quel caso la dimensione ridotta del libro ha fatto sì che Flanagan non mutasse troppo il suo stile di regia. Dottor Sleep è un librone enorme e il progetto è supervisionato direttamente da uno Stephen King che ancora non ha superato l'adattamento di Shining ad opera di Stanley Kubrick. L'idea di questo film, malata in partenza, era innestare retroattivamente nel capolavoro con Jack Nicholson i temi del libro originale e del sequel (appunto "Doctor Sleep"), attraverso questo film. Come se non fosse bastata la tristissima serie TV tratta da Shining di qualche anno fa, la vendetta di King continua ad aleggiare sull'Overlook Hotel. Se Shining per far spaventare il pubblico giocava sul mistero più totale, tagliava pagine e personaggi dal libro, offriva una interpretazione ambigua anche del "superpotere dello Shining", King, che si impossessa della direzione di quest'opera mettendo in un angolo Flanagan, ci tiene a mettere tutti i puntini sulle "i". King rivela per i "non lettori di King" che Shining era di fatto un antenato non riconosciuto di Insidious di Wan, ora che dopo quattro Insidious la cosa fa decisamente meno scalpore (ci stanno pure i mostri nelle casse come in Insidious 4). King, dopo il fallimento del cinematografico La torre nera, prova a rilanciare un mondo che strizza l'occhio alla Torre Nera e all'Ombra dello Scorpione, ma con pochissimo convincimento, abbracciando la moda del momento dei personaggi femminili invincibili alla Captain Marvel, che rendono ogni intreccio narrativo una merda. King infine decide di usare l'immaginario del Shining di Kubrick allo stesso modo in cui lo fa Ready Player One, allestendo un plasticoso e depotenziato tunnel degli orrori finale che oltre ad uno showcase di pupazzi noti non sperimenta davvero nulla e infine non serve nemmeno a nulla. Cosa rimane? Un film godibile nella prima parte, incentrata sulla storia di Dan, carino nella seconda, quella della "caccia al vampiro" e del tutto dimenticabile nella terza, di fatto una mega-marchettona al brand di Shining dove mancano solo le magliette a tema e i Pops. Sembra davvero di guadare Don Matteo in TV quando c'è il momento della pubblicità interna alla puntata dello sponsor come Caffè Borbone e Mele della Verdellina. 
Insomma, ci si diverte moderatamente come quando in TV passa uno sceneggiato su un libro di King "medio". Ti cascano le braccia quando vedi che il Randall Flagg della situazione e il suo mini-esercito sono una minaccia risibile di fronte alla super-bambina. Ti chiedi il perché della parte finale, quando risulta evidente che la super-bambina poteva ottenere un risultato migliore con lo zero dello sforzo, perché "la" Randall Flag di turno l'aveva già cucinata e tritata al minuto venti, con un attacco a distanza mentre era in bagno a lavarsi i denti. Poi comunque gli sforzi si apprezzano, intendiamoci! Ewan McGregor è molto bravo e convincente nella parte di un ragazzo tormentato ma in fondo eroico, Rebecca Ferguson dà vita a un personaggio non banale, con una sua morale, istinto quasi materno e una "cattiveria" che deriva unicamente da "necessità alimentari". La bambina è inquietante quanto basta e in genere tutta la parte on the road convince. Ne avessero tratto una miniserie pur nei limiti avrei gradito di più, perché in quasi due ore e venti le cose che capitano sono pure troppe e troppo compresse. 
Quello che risulta alla fine è un filmetto carino ma innocuo. Lo dico? Come carino e innocuo alla fine è anche l'ultimo It. Ok l'ho detto. Sono dei fantasy anni '80, per certi versi curati, per altri un po' tirati via, che mi sento di apprezzare, come l'ultimo Terminator, più per ragioni di Amarcord che altro. Con l'aggravante che Shining di Kubrick dopo una visione di Doctor Sleep "nella stessa serata" sembra meno bello. Non ci siamo.
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venerdì 15 novembre 2019

Dragonero - il ribelle: la nostra recensione del numero 1 della nuova collana dedicata all'eroe fantasy creato da Vietti ed Enoch




- Quando una volta qui facevamo le recensioni di Dragonero: Era un mondo più bello e gentile, quello in cui Bonelli si apprestava a dare i natali al suo cavaliere biondo di nome Ian Aranill. Ai tempi il fantasy mi faceva lo stesso ribrezzo che mi fa ora, ma alla ciurma di Dragonero era difficile volere male. Un uomo e un orco, Ian e Gmor, che si amano senza pregiudizi, nel villino al mare, con il biondo coinvolto in una infinita puntata di Tempation Island. L'Elfa figlia adottiva che i due tenevano a vivere sotto una pianta in giardino, alla faccia dei servizi sociali dell'Erondar. Mostri e donne armate di frustino che sembravano uscire da una dimensione dove risiedevano i veri album Crime of Century e The very best 2 dei Supertramp, storie strampalate con pirati del cielo che volano come la casetta di Up della Pixar, creature silvestri che vogliono ciulare giovani donne in quanto ispirate non a caso ai miti di Chtulhu. Su questo blog ne abbiamo parlato per anni e  regalandovi questo link con tutte le nostre prime recensioni pensiamo che potrebbe essere interessante far conoscere il mondo di Dragonero ai nuovi temerari che decideranno di salire a bordo con questo nuovo numero uno della testata, primo atto di un nuovo ed emozionante corso delle vicende (clicca QUI )
Cosa era successo alle recensioni? Perché si erano interrotte con grande dispiacere di tutti gli appassionati che le seguivano? Qual era il segreto che rendeva Gmor la migliore massaia dell'Erondar? 
Quesiti che forse rimarranno senza risposta, come la scelta di nominare i capitoli dei volumi di Dragonero - Senzanima senza numerarli ma usando titoli come "Fame", "Buio", "Oscurità parziale rischio neve", "Denti" "La placca", "Giungla" e"Ibiza". 
Come le storie del "piccolo Dragonero da colorare", che nella mia edicola le prendeva solo un mio amico sessantenne, in quattro copie, giurando fossero per il nipotino. 
Ma oggi Dragonero torna sulle pagine de Leconseguenzedeltroppotempolibero, spariamo per un bel po'.


- E quindi? Come è questa storia?: la saga di Dragonero è arrivata a un punto in cui l'orco Gmor, sempre più nei panni di una signora del castello, si è presa una colf di origine elfica che parla raffinata, ha i modi giusti e fa tanto Downton Abbey. Gmor in vestaglia minaccia di iniziare un racconto lungo quanto il Trono di Spade e un Vietti pietoso di noi decide di fiondarci nel centro dell'azione, anche per raccontarci di quanto gli sia piaciuto l'ultimo film di Robin Hood con Taron Egerton. Gli è piaciuto? Credo di sì perché in pratica lo cita per una sequenza di 24 pagine. Assistiamo in pratica a dei soldatini cattivi cattivi in procinto di giustiziare un contadino in quanto "Ribbbelle" dell'impero, quando i "Ribbbelli arrivano per davvero", con tanto di maschera e sventolante bandiera distintiva figa (con cui branderizzarci poi le magliette da vendere ai punti di sosta cavalli insieme alla birra, al Camogli e l'erbapipa con sopra la confezione i soliti messaggi tipo "l'erbapipa procura impotenza" e simili). Tra i ribelli c'è Ian, anche lui mascherato, che irrompe insieme a tutti lanciando frecce e urlando al mondo "Il Robin Hood di Taron Egerton è più bello del suo film su Elthon John", sbaragliando le truppe, salvando il contadino e facendo venire un attacco di cuore a due crudeli e spietati critici cinematografici. Nel gruppo, eterogeneo e agguerrito, ritroviamo la figlioccia di Ian e Gmor, Sera, nel pieno di una fase ribelle adolescenziale che per la razza elfica può durare tre secoli. Vola nei cieli a cavallo di un uccello enorme, che rimembra per me lettore la donna tatuata con uccello enorme che Ian, all'insaputa di Gmor, tacchina in uno dei primi numeri della serie "classica" di Dragonero (che detto così fa davvero molto Star Wars). Complesso di Electra sotto acido? Non lo sappiamo per ora. Mentre le splash page che descrivono gli scenari dell'Erondar si sprecano e sono tutte fighissime (un plauso a Pagliarani, Olivares e Babich che hanno fatto per questo numero un lavoro visivo a dir poco egregio) guardiamo un imperatore pensoso fare il cosplay del Re Lich di Wacraft 3. Ormai è lui il pezzo grosso, il "villain" verso cui la ribellione guidata da Ian combatte. Il re non se la passa bene, anche perché Ian gli manca, i nuovi accordi con i religiosi della Dea delle Lacrime sono una palla senza fine, i suoi generali non conquistano più una cippa e sono contenti di dire cose tipo: "Non abbiamo più una cippa, ma cacchio volevi? Siamo arrivati alla fine della mappa fantasy di Dragonero!!! Se fosse stato un videogame si poteva aggiungere un altro isolotto come DLC a pagamento, ma questo è un fumetto, datti pace, o mio re!! Ciò che rimane da conquistare sono quei territori del cavolo come Frondascura, la zona dei barbari e in genere quelle sacche che per conquistarle perdiamo un sacco di omini e ci menano duro". Il re sente e giù muto, Ian aveva dei bellissimi boccoli. E così mentre la corte si deprime e qualcuno inizia a pensare a qualcosa di diverso, tipo un programma culturale con ospite Pupo, i ribelli, nascosti in punti misteriosi della mappa, prosperano. Quel luresindo di Alban ha una gatta da pelare seria, Ian sta giù di testa depresso pure lui. È lì che ti fissa la sua armatura da ammazzadraghi, la spada "Tagliatrice crudele" e sembra dire, più che ad Alban, a Vietti ed Enoch: "Ma non si poteva fare che questo era il numero 71 e basta? Ma questo succede perché "Le avventure del giovane Dragonero" le comprava solo quel tizio sessantenne in triplice copia? Ma "Senzanima Ibiza" è già uscito a Belluno?". E così, parlando di passato e indugiando sul futuro, questo numero è la perfetta introduzione all'opera per i nuovi lettori e come un interminabile Amarcord per gli amici che da 70 e passa numeri, pur tirando un Khame ogni tanto, seguono le avventure del biondo eroe. 


È un bel numero introduttivo. Le nuove copertine di Pagliarani, cariche di effetti grafici che fanno risaltare in modo accattivante metallo e ruggine delle armature sono strepitose (noi vorremo sempre bene eterno anche a Matteoni comunque, aspettando i suoi nuovi lavori). Pagliarani, Olivares e Babich, come sopra già anticipato, realizzano un lavoro visivo sontuoso, pieno di tavole in cui precipitare letteralmente dentro. Tutta la sequenza iniziale, che parte da un castello, si inerpica tra inseguimenti nei boschi e culmina con l'arrivo di Sera, con l'azione che si sviluppa in verticale, verso il cielo, è da urlo per l'accelerazione vertiginosa. La seconda parte è piuttosto statica nell'azione, ma l'apparizione della Dea Alata che si muove nelle città diffondendo il morbo è forte, trasmette quella primordiale paura degli "angeli piangenti" del Doctor Who. La terza parte dell'albo affresca i momenti salienti della storia di oltre 70 numeri della testata, offendo un compendio dei fatti veloce ma gradevole, che invita a tornare alla lettura dei passati numeri e fa lustro degli "oggetti di scena" più noti e amati del fandom. Alle volte sembra quasi un Planet Hollywood Dragoneriano a cui mancano solo le magliette e i Funko Pop!, con Ian che prende e tira fuori davanti ad Alban dicendo una roba tipo: "E te la ricordi questa bandiera originale autografata del mio vecchio gruppo dei Senzanima?? Ma lo sai che si illumina pure al buio?!". Però vedere quegli oggetti e quei fatti salienti in un così bel concentrato grafico mi è piaciuto, mi ha fatto sentire a casa.
Dal punto di vista narrativo il buon Vietti confeziona per i lettori appassionati un ottimo episodio Amarcord che si prende tutti i tempi giusti per spiegare le vicende passate e fare ponte con quelle future. È allo stesso modo per i nuovi arrivati un ottimo Starting Point per la lettura. Magari l'azione è un po' tutta concentrata nella prima parte, magari vorremmo vedere interagire di più i personaggi piuttosto che sentirgli esporre una serie di eventi (Ian parla e Alban sta socraticamente in ascolto dicendo "Eh si", "Vabbeh", "Anche tu c'hai ragione" e poco altro), ma la natura dell'albo è quella sopra esposta, non poteva essere troppo diversamente e la prima parte è davvero divertente, veloce, ben costruita. 
L'antipasto ci è piaciuto, che i Khame veglino sui prossimi numeri e a risentirci.
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