lunedì 4 novembre 2019

The kill team - la nostra recensione




"Ridi e saluta". "Dai le caramelle ai bambini". "Tratta con riguardo il capovillaggio e ricordati che stai a casa loro". "Non fare il cretino con il fucile, tienilo basso". Con un superiore che impartisce solo questo tipo di ordini, i soldati di un piccolo commando americano operante tra il 2009 e il 2010 in Afganistan (vicenda tratta da una storia vera), si rompono un po' le palle, non si sentono adeguatamente impiegati e realizzati, scherzano sui tempi morti di una routine giornaliera con poche occasioni stimolanti. Poi il loro superiore salta su una mina, arriva un nuovo superiore con i baffi, il sergente Deeks (il bravo Alexander Skarsgard) e allora sì che i giochi cambiano. Questo è un vero "bro". Condivide con loro la PlayStation, conosce dove trovare la roba buona da fumare, compra le riviste porno per tutto il plotone e personalmente cucina per tutti le bistecche più succulente, con il proprio barbecue. Inoltre è "uno serio". Mentre con il precedente capo non si andava da nessuna parte, il nuovo ha un fiuto supremo e scova a getto armi e terroristi, bonificando territorio dopo territorio. Tutti lo amano, tutti vogliono la sua stima. Come Rayburn (Adam Long), che si butterebbe nel fuoco per lui. Come Briggman (Natt Wolf) che per diventare il capo - mezzo ha deciso di compiacere Deeks scontrandosi a botte con gli altri pretendenti ma che dopo i primi tempi si fa dei dubbi sulla necessità di questo eccesso di cameratismo. Soprattutto quando compare una sacca pesante e piena di armi russe sotto il letto di Deeks. Soprattutto dopo che Briggman stesso ha visto con i suoi occhi che quelle armi sono state buttate vicino a un presunto terrorista appena giustiziato. Il ragazzo presto sa che i ragazzi sanno. Non tanto che le azioni di Deeks siano poco limpide, quanto il fatto che Briggman non le accetti e potrebbe presto tradire il loro gruppo. 


Il regista Dan Krauss porta sullo schermo una storia vera, una pagina oscura dell'esercito americano a cui aveva già dedicato nel 2014 un documentario accolto con molto clamore dalla critica. È una storia che potremmo definire di "nonnismo", sulla mancanza dell'empatia, sulle ipocrisie che ogni conflitto racconta. In poche parole racconta come un gruppo coeso di militari costringe qualcuno "che non vuole fare parte del gruppo" (e quindi ha già ricevuto per loro una sorte di "morte sociale") a fare qualcosa che non vuole, arrivando a minacciarlo psicologicamente e fisicamente. Il gruppo segue una dinamica da branco e ovviamente inneggia e si sottomette felice al potere di un leader maschio alfa, da seguire a testa bassa anche quando ci sono di mezzo dei reati e la possibilità di una carriera finita dietro le sbarre. Il gruppo peraltro per difendersi trova una giustificazione morale contorta ma che per assurdo qualcuno potrebbe vedere come "accettabile", addirittura utile all'impegno bellico contingente, quasi eroico. Se il meccanismo è chiaro, il film vuole evidenziare fino a che punto il branco potrà spingersi per attaccare e difendersi, soprattutto quando a contrastarlo è un singolo, già debole e demotivato in partenza. La trama, lineare ma non banale, si sviluppa principalmente nella relazione tra il personaggio di Wolf, il "divergente" dal gruppo, sempre spaventato, isolato e a contatto telefonico costante con i genitori in America, e il personaggio "alfa" sicuro, seducente e terribile di Skarsgard, che ha nel gruppo (per lo più indistinto) dei militari la propria "emanazione". È una danza di seduzione e minaccia continua, non dissimile dall'odio/amore visto di recente per esempio in Dogman di Garrone. Non mancano ovviamente le scene di tensione, che spesso nascono ingenue, come presunti "scherzi" dietro una giocosità infantile che sembra palese, per poi estremizzarsi, farsi pesante, avvicinandosi quasi a situazioni da film horror. L'insediamento americano è dipinto come una prigione emotiva in cui tutti sono felici o imprigionati e costantemente osservati a seconda di come vengono vissute le relazioni interne. Il "nemico da combattere" è una figura vaga e indistinta, di cui non si comprende la lingua né si familiarizzano i costumi, un ottimo espediente narrativo che alimenta nello spettatore la confusione morale circa quello che sta vedendo (come la scena che rende "proficue" le azioni del branco, in quanto portano allo svelamento di armi vere) e rende meno "evidenti" le difficili scelte morali dei personaggi. 
Non è un film leggero né manifesta mai la volontà di esserlo. Posso fare la giusta ironia sul fatto che spesso un attore amato dal pubblico "diventa cattivo" perché si fa crescere dei baffi. Ma Skarsgard ha baffi molto professionali che lo immergono benissimo nel ruolo del villain. 
Davvero una pellicola interessante. 
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