lunedì 30 aprile 2018

Venom - il primo trailer in italiano del nuovo film di Ruben Fleischer con Tom Hardy



Alla guida del progetto c'è il da noi amatissimo regista di Benvenuti a Zombieland (il cui sequel sembra vicino). La sceneggiatura è il parto curioso di un così variegato pool di un sacco di autori diversi che ci voglio spendere almeno due righe. Kelly Marcel, ha lavorato come scritp editor per Bronson, di fatto uno dei film più belli di Tom Hardy. Ha poi scritto  per Disney Saving Mr Banks ed è tuttora coinvolta anche in un loro futuro film, Crudelia, ha sceneggiato scontrandosi più volte con l'autrice del libro Cinquanta sfumature di grigio ed era dietro alla interessante ma sfortunata serie TV Terra Nova. Will Beall con il regista di Venom ha scritto il produttivamente complicato Gangster Squad (martoriato dai produttori) ma ha a curriculum anche Training Day, la serie TV Castle e ha scritto il prossimo Aquaman di James Wan. Scott Rosenberg mi ha sceneggiato quella perla di Alta fedeltà, era dietro ai copioni del noir Cosa fare a Denver quando sei morto, per la TV è dietro all'interessante thriller animalesco ZOO ed è recentemente pure sui testi dell'oggi lanciatissimo e di stra-successo Jumanji: welcome to the jungle, con sequel previsto per il 2019. Jeff Pinkner è uno dei ragazzi di J.J. Abrams e ha un curriculum TV lungo così, che annovera Ally McBeal, Alias, Lost, Fringe. Anche lui era dietro ai testi di ZOO e sulla barca del nuovo Jumanji, in ambito "supereroistico" è il più "in tema" di tutti, avendo scritto The Amazing Spiderman 2 (che nonostante Garfield, che non sopporto per spocchia e piattezza recitativa,  non era poi così male, anzi). Sembra inoltre al lavoro sull'adattamento live action della serie a cartoni anni '80 M.A.S.K., cosa che fino a tre minuti fa non sapevo e che ora attendo più del prossimo film degli Avengers (amavo la serie, speriamo venga un film favoloso, il regista è F.Gary Gray che dopo l'ultimo The Fate of The furious potrebbe di fatto farmi felice se per Mask facesse un film per lo meno simile... speriamo di riparlarne e bene). Dopo esserci domandati come potrebbero andare ad incastrarsi tutte queste persone ai testi, senza osare ipotizzare il numero di trattamenti a cui lo script si è nel corso sottoposto, torniamo sul pezzo, cioè sul trailer. 
Più o meno deduciamo quanto segue. La bionda Annie Weying (la sempre bellissima Michelle Williams) lavora per nel settore legale della Life Fundation, una società  di ricerca scientifica estrema con a capo il losco e megalomane dottor Carlton Drake (Riz Ahmed, il simpatico e "tragico" Bodhi Rook di Rogue One). La ragazza sospetta che Drake attui delle sperimentazioni poco chiare e pericolose su persone indigenti e decide di parlarne con il giornalista Eddie Brock (Tom Hardy) perché lui indaghi e denunci la cosa. Il nostro eroe con lo stile del muflone, va nella ditta con le telecamere accese e il microfono in pugno e assale  il dottor Drake, sperando in una reazione emotiva di pentimento. Forse doveva vestirsi prima da Capitan Ventosa, ma il risultato che ottiene è il medesimo: si fa buttare fuori dallo stabile attapirato. Mentre sfoga la sua frustrazione in un Lidl lì vicino, Eddie viene avvicinato da quella che pare una collaboratrice di Drake (mi pare l'attrice Jenny Slate), che gli permette di andare a sbirciare nei laboratori dove gli scienziati di Drake stanno lavorando con delle cavie umane alla cosiddetta evoluzione dell'uomo tramite creature chiamate simbionti. Sono alieni? Sono senzienti? Sono nano-macchine? Sono biodegradabili? Di fatto i simbionti sembrano gelatina nera della consistenza dello slime skifiltor dotati di intelligenza e fisicità proprie. Eddie "vede cose", Eddie viene in contatto con un simbionte e vi ci si fonde insieme. Seguono "possessioni demoniache", corse in moto e trasformazione in una action figure della McFarlane Toys. 


Non è che questo sia poi il trailer definitivo - definitivo, vediamolo come un "primo assaggio più sostanzioso" dopo i mini - trailer visti fino ad ora. Non compaiono ancora i personaggi di Woody Harrelson e Tom Holland, ma per lo meno il faccione di Venom, nero e cattivo, pieno di denti e iconica lingua lunga, finalmente lo vediamo. È viscido, ha il vocione e avvolge la testa di Broke come uno squalo che ne divora la testa. Questo casco nero e dentuto mantiene gli "occhioni" della versione a fumetti, che gli conferiscono l'aria di un power ranger e permettono un distacco tra Broke e il simbionte. Gli arti del nostro eroe si allungano in fighi agglomerati di muscoli neri intrecciati, si intravede il peso e la potenza fisica del mostro, ci sono anche delle protuberanze random che alla bisogna escono da tutto il corpo, ma la cui realizzazione per ora non convince troppo. È uno Spawn. La cosa può sembrare logica, visto il lavoro grafico di McFarlane sui fumetti di Venom, ma il "gusto visivo" sembra proprio per ora quello del film di Spawn e Venom pare per ora un film da supereroi anni '90 come Daredevil. A me piacciono i b-movie, soprattutto quelli pieni di mostri dentuti, e qui mi sembra di trovarmi in zona Specie Mortale 2 o 3 o del Faust di Bryan Yuzna, magari in zona Guyver con Hamill. La fotografia e il contesto mi ricorda Alien vs Predator Requiem. Tutta roba per lo più esagerata, imperfetta, amorevolmente artigianale e qualche volta "cattiva" che a me non dispiace, che in genere mi diverte,  ma che non gioca minimamente "in serie a". Sembra un fumettone cupo che noleggerei in un blockbuster di fine anni '90 insieme a un Maniac Cop per farmi una doppia visione con i popcorn. Mi immaginavo da questo Venom qualcosa di più collegato o similare al recente Life di Espinoza, qualcosa magari con le suggestioni dello Splice di Natali, magari qualcosa che riprendesse le suggestioni drammatiche dell'Hulk di Ang Lee. Sapevo che per le scelte editoriali / contrattuali di Sony, per il suo rapporto con Marvel Disney, i legami con Spiderman sarebbero stati complessi o assenti, ma mi immaginavo comunque qualcosa di diverso, da questo primo trailer. Certo è del tutto demenziale e pretestuoso dare un giudizio su un film da questi due minuti, confido nel regista di Zombieland e nelle ottime capacità di Hardy come attore, sono pronto a stupirmi e a cambiare idea ma questo, davvero, sembra un b-movie anni '90. Ha quel giusto gusto Horror, ha le atmosfere notturne, un anti-eroe (per una volta) e una "spalla", il simbionte, pieni di potenzialità (già mi immagino Spiderman con la sua "tuta parlante" che si "confronta" con Venom e la rispettiva controparte). Boh. Vedremo. Un po' però l'Hype me lo ha tirato su. Questo Venom mi piace concettualmente di più di quello del terzo film di Raimi. Se andrà bene, già mi vedo un bel cofanetto in home video, tra cinque anni, con Carnage, Toxin e Antivenom. Sarà finalmente giunto il momento dei simbionti al cinema ? 
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sabato 28 aprile 2018

L'amore secondo Isabelle (Un Beau soleil interieur): la nostra recensione



Nuda e sudaticcia, scivolosa e volenterosa, con il fiatone e le gambe che fanno male. Isabelle (Juliette Binoche) resiste titanica, scalando sulla massa adiposa come una focaccia di Recco di un brutto amante ciccione. E mentre lei prova, con tutta l'anima, a scopare con l'entusiasmo della ventenne che non è più da troppo tempo lui, ingrato, la tratta come una amante incapace, riempiendola di scherno. Isabelle cerca di godere comunque, tra il sudore che inizia a confondersi con le lacrime. Cerca con la testa di accettare che "va bene così", che questo brutto e deprimente sforzo ginnico "è comunque amore" e in fondo niente non è. Ma la testa non ce la fa più e parte la domanda seria, lapidaria: "Come ci è finita a cercare di far godere un ciccione ingrato?". Sarà vintage o, come diceva Corinne Clery in Yuppies del 1986, si  sente ormai "targata Cartagine", ma in fondo è ancora nel fisico una ragazzina nella testa di una donna matura e accondiscendente sui problemi della vita, partner sfigati compresi. Isabelle alla fine da sempre trovate dentro di sé "un bel sole interiore" (come era il titolo originale del film) che aggiusta un po' le cose.  Il problema vero è che è rimasta a 50 e più anni, una ragazzina romanticona, pronta a saltare di fiore in fiore alla ricerca di un uomo perfetto che non arriva mai. Un uomo che sappia comprenderla per il suo essere artista (pittrice "corporale" come la Julianne Moore de Il grande Lebowski), il suo essere madre (magari un po' distratta), il suo essere indipendente (perché in fondo vive del suo lavoro) e un po' bambina (perché no?). Solo che questo uomo non lo trova mai, perché forse non esiste, ed eccola che finisce a cavalcioni di una ingrata e poco performante focaccia di Recco. Vincent il banchiere (Xavier Beauvois) è oltre che una focaccia di Recco vivente un vero porco, che la palpeggia in pubblico trattandola alla stregua di una zoccola, ma forse potrebbe infine lasciare la moglie e sposarla e sembra l'ultima spiaggia per un futuro tranquillo, dopo aver detronizzato anzitempo il marito Francois (Laurent Grevill), mollandogli pure tutta a carico suo la figlia. Non è meglio come alternativa sentimentale l'attore pazzo (Nicholas Duvauchelle), così pieno di ego e complessi (soprattutto risentimento per il tradimento della propria moglie) che lei non riesce che chiamare "l'attore", folle anche negli atti più comuni come il "parlare", dissennato costruttore di paletti e limiti infiniti a una qualsivoglia empatia. Non parliamo proprio manco dell'artista (Paul Blain), che potrebbe essere forse un serial killer. Magari tra tanti uomini convenzionali da scartare, Isabelle potrebbe trovare il vero amore nell'anticonvenzionale e a lei diversissimo per età, cultura, razza ed estrazione Marc (Alex Descas). 
La regista Claire Denis e la sempre brava e affascinante Binoche ci portano per un'ora e mezza nello strano mondo di una donna esasperatamente bisognosa di affetto, ma che in amore è una perdente seriale. Isabelle è profondamente tragica ma buffa, non lesina a fare le pulci ai fenomeni da baraccone che sceglie come papabili love-interest ma alla fine è lei che rimane al palo, sola, con il rimpianto che "se ci avesse provato per davvero" magari l'amore sarebbe sbocciato. Di fatto è una donna troppo intelligente e troppo complessa per concedere davvero a qualche pirla di avvicinarla, e così il film se da un lato mette Isabelle su un piedistallo altissimo, riduce a macchietta gli ominidi che si susseguono alla consista del suo cuore. Spassosi ma forse troppo vuoti omuncoli archetipici ridotti anzitempo a "spalla comica" o tetri monoliti anaffettivi o imperscrutabili che siano, le figure maschili del film sono tutte da buttare nel cestino dell'umido e questo è un po' uno dei limiti della pellicola, che diventa presto un pur esilarante e godibilissimo film a episodi slegati. Una impalcatura che risulta carente di un finale che davvero raccordi e ordini tutto magari per scelta cosciente, magari per dare al tutto un'aria da sit-com rinnovabile per una nuova stagione. Del resto se Isabelle non riesce in tutta una vita a trovare l'uomo giusto, chi siamo noi a pretendere a tutti i costi un lieto fine? La Binoche è mattatrice assoluta e fustigatrice indipendente e ultra-tabagista di un po' tutti gli standard di uomo francese (fantastico lo sbotto contro i noiosi e tronfi omini che elogiano continuamente il verde e la calma della provincia francese). Per verve mi sono tornate alla mente le commedie con Meg Ryan e Billy Crystal, romantiche ma (anche più amabilmente) acide. Devo dire che il minutaggio è volato via, caricandomi di una gran voglia di saperne di più, di vedere nuovi incontri con nuovi sfigati. Peccato che finisca presto perché alla fine a quella pazza, un po' spocchiosa e un po' autodistruttiva di Isabelle mi sono davvero affezionato. 
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mercoledì 25 aprile 2018

Avengers Infinity War - avete già comprato qualche porcheria a tema?



Sta per arrivare il film di tutti i film di supereroi, l'evento degli eventi, il momento per cui siamo tutti pronti a tornare bambini per due ore in un cinema di provincia. E pensare che quando... ok, la pianto qui, ho pietà di voi. Negli ultimi giorni in rete sono esplose piogge di parole sulla "Storia dell'universo cinematografico Marvel/Disney da Iron Man 1 a Infinity War". Tutti, comprese le make-up artist, vi bombardano di riassunti - bigini su film i film già usciti per "orientarsi meglio in sala". Poi ci sono i rumors sui forum e Facebook sugli attori che torneranno o meno dopo questo Infinity War, che deve "per forza" essere, nelle confuse teste di molti fan, un cinefumetto adatto anche ai bambini (come tutti i cinefumetti Marvel) in cui però moriranno almeno trenta persone.  C'è così tanta ossessione su chi "deve morire" in Infinity War, che in rete hanno pubblicato la track-list di questa colonna sonora "finta" del film.


C'è così tanta paura che, come schegge impazzite, i fan su internet, rovinando la sorpresa a tutti, facciano spoiler sul film (magari visto ad anteprime riservate e recensito "full-spoiler" 24 secondi dopo), che i registi, i Fratelli Russo, hanno scritto questa lettera.


Prontamente re-interpretata dal famoso sito di scherzi Funny or Die


Di Infinity War se ne parla ovunque. E anche la corsa ai gadget è diventata oggetto di conversazione. Lo volete un Guanto dell'Infinito da mettere in soggiorno? Cioè il "guanto" è un po' il "simbolo supremo" del fatto che oggi andiamo al cinema a vedere i supereroi Marvel/Disney. Il guanto ha incastonate le "gemme dell'infinito", i potenti artefatti che legano insieme un po' tutti i film con un filo rosso "kieslowszjano". Lo so, andrò all'inferno dopo aver fatto questo paragone. Comunque "il guanto" è figo. E' dorato, è "possente", è potente. E può costare 930 dollari.


Certo, magari ad accontentarsi c'è anche la versione "spada nella roccia". Ideale per uno studio, sobrio e di grande arredo. Per poco meno di 400 dollari chiunque saprà quanto voi siete attenti e raffinati nell'espletare le vostre passioni più fanciullesche.


Se però siete in bolletta ma "lo dovete avere", c'è anche a 99.90 dollari. È meno affascinante ma al buio, in controluce, magari messo nell'armadio dietro al trofeo di karaté...


E se siete spiritosi e "minimal"... che ne pensate di un "guanto dell'infinito da forno"?


Certo, sarebbe bello che un po' come tutto il merchandising Marvel - Disney ci fosse anche una "tazza celebrativa" del Guanto dell'Infinito. C'è il modello a "pugno verso il basso"


C'è il modello a "pugno sul tavolo" dorato... in qualche modo "simpatico"...


E c'è la variante giallo - barbone molto kitch, per l'uomo grezzo che non deve chiedere mai.


Ma amare i supereroi è a volte qualcosa di intimo. Da identità segreta. Se siete dei fan "nascosti tra la gente comune", c'è anche un guanto più piccolo, nascosto agli occhi dei più su una tazza più comune, ma sempre pronto a sprigionare tutto il suo potere.


Alla fine anch'io non ho resistito. Mi sono concesso un guanto piccolo piccolo, tenuto stretto da un possente omino Funko Pop! di Thanos, con la testa a molla.


È il mio primo e finora unico Funko. Ho paura che non sarà l'ultimo. Ma da quando l'ho preso, l'omino viola mi fissa minaccioso. Mi giudica sarcastico. Non so se anche a sessant'anni starò dietro a queste fesserie di film sui supereroi, ma a quarant'anni suonati è riuscito ancora a prendermi. E dire che i Funko mi hanno sempre fatto cagare. Anche se me lo sono portato a casa con un mega sconto del 30%, Thanos ora è a casa mia e mi ride contro con la sua enorme testa a molla. L'effetto che mi sta facendo questo nuovo film degli Avengers, ancora prima di essere in sala, è questo: mi sta facendo tornare bambino senza che me ne renda conto, senza che di fatto ne abbia "bisogno". Ho voglia di andare a vedere i supereroi che si picchiano al cinema contro i mostri, pur consapevole che la cosa più bella di tutte è proprio questa "attesa" e probabilmente dopo la visione tutto sarà come prima senza che questo film mi abbia davvero cambiato la vita. Non è Apocalypse Now, non è Quarto Potere, non è Shining. Sono film che non riesco a vedere che un paio di volte, anche se sono molto ben fatti e confezionati, vari e in mano a professionisti assoluti. Mi divertono sempre (quasi sempre... e per me i fratelli Russo sono quelli che divertono di meno tra le altre cose), ma il bambino che è in me e che mi ha spinto senza un perché a prendermi un pupazzo viola con testa a molla vuole vederli a tutti i costi. E io quel bambino interiore sono più che disposto a portarlo con me in sala, a vederlo tutto esaltato per quelle sei o sette ore di durata del film (sembra durerà un botto...) e a comprargli la "coppa Alaska" a fine visione. Spero però che non voglia a tutti i costi che gli  compri i pop - corn. Spero che non inizi a parlare per tutto lo spettacolo chiedendo "quando arriva Hulk?" e non si metta a correre vicino allo schermo durate l'intervallo, come tutti i bambini del resto. Alla fine anche i bambini interiori mi rompono un po' le palle e questo mi ha già minacciato di riempirmi casa con tutti i pupazzetti Pop! dei supereroi.
Mentre scrivo quel pupazzo viola con testa a molla continua a ridere di me. Inizio a volere che Tony Stark gli spacchi la faccia...
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martedì 24 aprile 2018

Hostiles - la nostra recensione!



Anno 1892. Il selvaggio West per ordini dall'alto non deve essere percepito più come così "selvaggio". Urge una "operazione simpatia" per raffreddare gli animi e godere della nuova e più grande scoperta del secolo, la ferrovia che presto (giusto una quarantina d'anni) porterà tutta l'America a Disneyland. E poi chi se lo ricorda più il motivo per cui gli indiani si picchiavano a morte con i coloni, è storia vecchia, parola d'ordine: distensione. Con questo diabolico piano ordito dai pr del nuovo presidente eletto, un omone pacioso e con la faccia un po' da scemo va a Fort Berringer, nel New Mexico, dove i rapporti tra nuovi coloni e indiani sono ancora amabili come le relazioni umane descritte in film tipo Non aprite quella porta. L'ormone parla con chi comanda e sulla porta dell'ufficio del capo compare il Christian Bale più allucinato degli ultimi dieci anni, la versione incazzata del personaggio che interpretava ne L'uomo senza sonno. Si chiama Joseph Blocker ed è un eroe di guerra ora ritiratosi a vita più tranquilla. Fa il carceriere a Fort Berringer per la gioia di sputare tutti i giorni in faccia ai criminali indiani catturati, da lui stesso raccolti in raid che descrive ancora come spaventosi bagni di sangue modello Starship Troopers. La circolare della operazione simpatia un po' lo spiazza. Gli si chiede di accompagnare a casa il detenuto Falco Giallo (Wes Studi) capo dei Cheyenne del Nord, perché gravemente malato possa ricongiungersi con la sua famiglia nella Valle dell'Orso, in Montana. A piedi. Senza i treni che saranno pronti per portare a Disneyworld. Senza Google Maps o Tripadvisor ad aiutare, in quello che ufficialmente è ora il "molto più civilizzato West". La circolare dell'operazione simpatia intanto non deve essere arrivata nemmeno nelle zone limitrofe a Fort Bennings, dove una allegra e gioiosa madre di famiglia coloniale (Rosamund Pike) si vede sterminare, scalpare e stuprare il nucleo familiare da una masnada di indiani pazzi - assassini. Quando l'ancora più depresso Bale raggiunge quelli che sono i cocci della casetta felice della Pike, con Coso Giallo, la sua famiglia e un piccolo drappello armato male per farsi la traversata più assurda del mondo, la donna è già fuori di testa come la Samara di The Ring (e da Gone Girl in poi sappiamo quanto alla Pike riesca bene la parte della matta). Così la donna che, rimasta sola al mondo, continua ossessivamente a cullare il cadavere del suo bimbo più piccolo e presto svilupperà una passione morbosa per l'uso delle armi da fuoco pesanti, si unisce al simpatico corteo diretto alla Valle dell'Orso. Tra indiani cattivi cattivi pieni di scalpi e piume, tra proprietari terrieri già pronti a conservare libere le terre appena conquistate a colpi di fucile, tra soldati scoppiati come Rambo e reclute troppo zelanti ricoperti di sporco e piombo, tra indiani/scarcerati con famiglia a carico taciturni e fieri come vulcaniani muniti di pigiami e treccine, in compagnia di una donna attraente seppure evidentemente pazza, Blocker dovrà cercare di portare a casa la missione ingrata. Ma forse troverà un alleato proprio in Falco Giallo. Perché Wes Studi passano gli anni ma rimane un figo assoluto e il suo vecchio generale pelle rossa ammazza-cowboy forse non è così distante dall'onore e gli oneri che il povero Blocker deve portarsi dietro controvoglia. 
Seguiranno tante sparatorie, scene piuttosto cruente e non adatte a un pubblico di minori, arriverà a un certo punto Ben Foster in un ruolo niente male, a seguire molto dramma (esistenziale quanto relazionale)  e poco eroismo, nel perfetto western crepuscolare del 2018. 
Hostiles è crudo, è cattivo quasi al punto da sembrare un Horror, è "irrisolto" anche se non riesce ad essere in fondo del tutto cinico. È una bella prova di attori, le location scelte sono molto suggestive e magnificamente fotografate da Masanobu Takayanagi, le musiche di Max Richter sono evocative, ma lasciano ampio spazio ai desolanti e inquietanti, quasi mistici, rumori di una terra del passato crudele quanto e selvaggia. 
Il regista e sceneggiatore Scott Cooper, che ho amato tantissimo in Crazy Heart, riprende qua gran parte della ciurma del suo Il fuoco della vendetta (Out of furnace) e adatta un romanzo di Donald E.Stewart (che ha scritto sceneggiature per Caccia a Ottobre Rosso, Missing, Giochi di Potere) davvero "scomodo" e cattivo come un pugno nello stomaco. Tra le pianure e gli infiniti paesaggi del sogno americano, ma  più sinistri del solito "pacchetto fordiano", i personaggi si muovono con passo insicuro e un codice morale sempre più appannato e nichilista verso un epilogo autodistruttivo al quale arrivano nudi, spogliati dei sogni di un raggiante futuro, destinati a una segregazione intergenerazionale, privi di qualsiasi fiducia verso il prossimo. Per Scott, un piccolo omino cicciotto armato di fucile che spara a chiunque (amico o nemico) urlando "fuori dalla mia terra" (e ricorda tantissimo il Boss Hogg della serie Hazzard) diventerà  un po' il simbolo del modo in cui andrà a finire la grande guerra senza quartiere tra indiani e cowboy. Il "mostro di fine livello" più atipico di sempre nella storia di tutte le grandi epopee western. Non vi dico altro. Cercatelo e godetevelo. Preparatevi però un po' alla sua brutalità, perché non è decisamente un film per tutti. 
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lunedì 23 aprile 2018

Ghost Stories - la nostra recensione




Philip Goodman (Andy Nyman) smaschera le truffe paranormali da tutta una vita. Non ci sta proprio a vedere delle persone per bene vittime di approfittatori che si arricchiscono giocando sulle loro debolezze e ricordi di cari estinti, ne ha fatto una missione e fino ad ora il suo lavoro lo ha portato a maturare una certezza assoluta: il paranormale non esiste. C'è però uno scienziato smaschera-imbroglioni come lui, un suo mito e modello che sembrava per la stampa essere morto da tempo, che di punto in bianco decide di contattarlo. Vuole che Philip torni a credere nel soprannaturale e di conseguenza gli sottopone tre casi che nemmeno lui è riuscito a smascherare. Tre storie "vere" che porteranno Philip a entrare in una zona oscura dalla quale il nostro eroe non riuscirà a scappare molto facilmente. 
Ghost Stories, basato su uno spettacolo teatrale di successo, è un film solido e disturbante. La struttura a episodi all'inizio appare frammentata e le tre storie in fondo, pur varie nelle tematiche e ricche di "spaventi", se prese singolarmente non sono da top ten dei migliori film horror a episodi come Creepshow, Body Bags, Ai confini della realtà, ABC of The death o V.H.S. La "promessa" del trailer, che stuzzicava con un approccio realistico - documentarista, con un passo procedurale e investigativo nell'affrontare e confutare il paranormale, ben presto cade, e sulle prime dispiace. Ma il film "monta" piano piano, saltano i nodi più convenzionali, cresce nel tempo un senso di disagio quanto di amalgama narrativo e alla fine tutto confluisce in qualcosa di diverso, di unico e a tratti geniale. Arrivando al finale interessante e spiazzante, forse non del tutto imprevedibile, ma carico di autentico terrore e che dimostra come nessun dettaglio sia stato messo in scena per caso dalla prima all'ultima scena. Per senso di straniamento mi ha ricordato un altro film horror a episodi a struttura simile, il recente  (e spesso sottovalutato) Southbound, ma Ghost Stories è ancora più solido. Da temi classici come la paura dell'ignoto, le premonizioni e l'incubo della vita familiare, il film arriva alla psicanalisi, al significato dell'esistenza, alla fede. Parte basso, ma viaggia alto. Parte da quelle che sembrano piccole urban legend, molto ludiche e se vogliamo schematiche, e arriva ad indagare sui motivi più profondi per cui c'è in molti l'esigenza di "credere nel paranormale". E la risposta a questa domanda è acida, caustica e umanamente tragica. Se l'Andy Nyman regista e sceneggiatore (fa tutto lui qui, insieme a Jeremy Dyson, che però non recita) ci è piaciuto per la (inaspettata) freschezza della formula narrativa e per il modo in cui ci stuzzica il nostro "bagaglio emozionale cinematografico" citando Lynch, Zemeckis, Cronenberg e Mangold (e c'è anche un bel rimando letterario a King), l' Andy Nyman attore, mattatore assoluto e cuore emotivo delle vicende, ha la facciona pacioccona giusta, la grande umanità, la sottile ironia e la corporalità bonaria simile ai migliori personaggi di Paul Giamatti. Ci ha subito conquistato il suo Philip, un inquieto, sensibile e imbranato indagatore del paranormale, ideale parente degli Specs e Tuker di Insidious. Tutto il cast funziona in genere bene, anche se Martin Freeman, su cui la struttura narrativa punta molto, forse non riesce a esprimersi al meglio. L'attore, in genere molto a suo agio nei ruoli di "uomo comune in situazioni non comuni", per i quali più volte è paragonabile a un gigante come William H. Macy, in questa pellicola appare per me troppo "ectoplasmatico" ed evanescente. Certo,  sono due aggettivi che possono pure essere utili in un film che parla fin dal titolo di fantasmi, ma purtroppo non è questo il caso.  Qui secondo copione (o secondo  come lo avrei letto io) Freeman doveva giocare dalle parti di Tim Curry, Anthony Hopkins, Gary Oldman o Jack Nicholson. Era la sua grande occasione di "fare il matto", reinventarsi e stupirci, ma Freeman tiene il freno tirato, nonostante provi comunque (ed è cosa apprezzabile) ad essere più "sopra le righe del solito". Peccato. Ma se togliamo questo "neo" (che magari ho visto solo io) Ghost Stories è una pellicola davvero piena di pregi e con pochi punti deboli, uno dei migliori thriller / Horror di questo periodo e la scelta ideale per una serata con qualche brivido. Lasciatevi trascinare dentro ai suoi incubi, non cercate di smontarlo e decostruirlo mentre lo state vedendo, fatevi sorprendere dall'ingranaggio finale e per me ve lo godrete al meglio. Ghost Stories non "spaventa facile" perché punta ad insinuarsi sotto la pelle e a terrorizzarvi piano piano. A me è piaciuto molto. Se ha colpito anche voi fatemelo sapere. Questa volta non ho voluto anticiparvi quasi nulla della trama, vi lascio tutte le sorprese. Ma state attenti al bambino con il cappuccio. 
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sabato 21 aprile 2018

Escobar - il fascino del male (Loving Pablo, Hating Escobar) - la nostra recensione




Pablo Escobar (Javier Bardem) era potente, era spietato, era il signore dei narcos. C'era però qualcuno che lo vedeva come una specie di Robin Hood e che in fondo era disposto a chiudere un occhio sul suo regno del terrore, se di fatto Escobar si impegnava concretamente a costruire case per persone non abbienti e in genere non era schivo a elargire parte dei suoi ricavi illeciti per opere di bene. Escobar così era temuto, ma anche amato. A sostenerlo si era spinta anche la giornalista Virginia Vallejo (Penelope Cruz), una barbaradurso (marchio registrato) colombiana. Questa barbaradurso (marchio registrato) era il suo migliore sponsor e, carica di sorrisi e occhioni adoranti come era, presto iniziò a far battere il cuore di Escobar fin troppo, fino a diventare la sua amante. Quello che segue è poi la sintesi della stagione 1, 2 e parte della futura 3 del telefilm "Narcos", solo che raccontato dal punto di vista tutto femminile di Virginia Vallejo, in quanto tratto dal libro autobiografico della stessa, condito con una buona dose di umorismo e spettacolarità. Ci sono aerei che atterrano sulle autostrade, ci sono feste per criminale vip stile Scorsese e un medesimo amore per i Bad guys, ci sono scenette in cui il personaggio di Bardem  invita il figlio a non drogarsi e seguire il consiglio di Nancy Reagan (una pubblicità-progresso usata in una campagna contro la droga che era rivolta a contrastare il business di Escobar stesso). Ci sono due interpreti da urlo come Bardem (enorme, complicato e shakespeariano, "mediterraneo" nelle passioni) e la Cruz (combattiva, disincantata ma al contempo fragile), che non per niente sono stati candidati entrambi come migliori attori ai premi Goya, c'è una ricostruzione storica meticolosa bei costumi e scenografie, c'è una colonna sonora vintage avvolgente. Il film di Fernando Leon de Aranoa è fresco e veloce, pieno di ritmo e con almeno un paio di scene epiche nella rappresentazione "larger then life" di Escobar. C'è un momento in cui Bardem è circondato dagli elicotteri mentre si trova nel suo covo a fare sesso con una minorenne. Si sentono le pale dei rotori in avvicinamento e lui è pronto, fieramente nudo nonostante una evidente pancetta, a contrastarli, faccia incazzata e pipino al vento, imbracciando una enorme mitragliatrice. Ma poi preferisce la ritirata, guadando il laghetto nelle vicinanze, sempre nudo e armato, con una convinzione tragica simile al miglior Godzilla di Honda che lentamente scompare tra le acque. E poi c'è lo spaccato di vita della Vallejo, che ha vissuto i lussi della vita di amante ma ancor di più le pene, in un paese in cui essere fedifraga è quasi peggio che essere innamorata di un narcotrafficante. "Escobar - il fascino del male " ci è piaciuto, sa essere divertente quanto tragico e spinge a saperne di più su quello strano e controverso periodo della storia colombiana. Come solo le buone pellicole riescono a fare. 
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venerdì 20 aprile 2018

La fine della ragione : Roberto Recchioni si sperimenta sul genere epico intimista



È difficile stare dietro alle attività di Roberto Recchioni, tanto nell'ambito dei fumetti, che del cinema, che dei romanzi. Ti svegli e scopri che il nostro "RRobe" oltre a curare mensilmente Dylan Dog e Orfani per Bonelli, oltre a stare dirigendo sempre per Bonelli i lavori per 4Hoods e Chambara, oltre a supervisionare e a essere "bollino di garanzia" di Caput Mundi per la Cosmo, oltre ad essere intento nella realizzazione delle nuove storie del Corvo di O'Barr per la IDW publishing in collaborazione con BD edizioni, oltre a essere sempre attivo come recensore per Il sito di cinema ScreenWeek, oltre a essere uscito a tempo record in libreria con il secondo volume della fantasy Ya! per Mondadori (che dice che ama scrivere tipo alle cinque di mattina nel dormiveglia), oltre a... prendo un attimo una pausa... oltre a tutto questo ti esce, in gamba tesa, con questo La fine della ragione, edito per la nuova etichetta Feltrinelli Comics, di cui scopro l'esistenza perché l'8 febbraio 2018, ero nel luogo della presentazione al pubblico, a Milano presso la Ricordi/Feltrinelli di Galleria Vittorio Emanuele, per puro caso. E poi scopro, dalla sua voce, che sta ultimamente sempre più in giro con la moto, che sta iniziando a esplorare confini della provincia italica per molti ancora misteriosi, che sta scoprendo l'Oriente "andandoci"... 
Constatato che è evidente che nel nuovo appartamento del RRobe c'è una stanza dello spirito del tempo come in Dragonball, affrontiamo questo "quadernaccio" scritto e anche disegnato da un Recchioni ultra-underground, sparato su carta con una tale urgenza punk che... non vi dico. RRobe piglia il suo stile "da Asso" e lo riempie di estrogeni, incide la tavola con un tratto energico/aggressivo veloce, espressivo, quasi nagaiano (più Violence Jack che Devilman) e che in qualcosa sta pure dalle parti di Jeff Lemire (di sicuro pure nelle scelte cromatiche, sempre curate dal RRobe, graffianti), e se sei poetico ci vedi pure qualcosa di semplificato ispirato agli ukiyo-e di Kawanabe Kyosai... oppure ci vedi solo una paraculata molto, molto stilosa ma decisamente ispirata, con tavole a volte tirate via e a volte così sbalorditive che non riesci a volergli male, anzi! E poi arrivano i testi, giganteschi nelle dimensione, scritti con il pennarello grosso. Muri di parole che riempiono intere splash-page, scritte a mano, potenti e rabbiosamente buttate in trincea oplitica su fogli ingialliti dalla sfumatura marroncina (fogli immarronciniti?). Fogli  fatti a righe come i quaderni delle elementari o le moleskine, che da dire fa più figo, per essere poi stampati su carta porosa, esattamente come alle elementari, con le immagini editate / scansionate facendoci le foto, giusto per rendere più difficile i ritocchi e dichiarare al mondo: Qquesto è, e questo non lo cambio più". Muri di parole nere con molte, moltissime sottolineature con un pennarello di un rosso sangue, bello, violento e vitale come la penna della maestra che ti mette 3 in inglese. A guardare questa pop-art da writer glottologi sembra di accedere un po' alla Smemoranda arrabbiata di un bassista liceale. E i bassisti liceali, lo sappiamo, sanno essere spesso carismatici e alla fine sono pure quelli che rimorchiano, lasciate fare. 


Ma che c'è scritto e disegnato in questo volumetto da 16 euro con copertina traslucida Feltrinelli che da lontano lo fa quasi sembrare vagamente per scelte cromatiche della copertina un manuale di Shiatzu? È una storia di epica intimista, come è stato definito dallo stesso Recchioni. C'è uno sguardo autobiografico e intimo, quasi dalle parti di Gipi, sposato arditamente a una rabbia nagaiana estrema. C'è la volontà di delineare un racconto distopico futurista, forse troppo, inquietantemente troppo, vicino al presente, ma c'è lo stile aggressivo di vomitare tutta la narrazione in faccia al lettore, come un pugno sul grugno, semplificando e scarnendo ogni concetto, snocciolando ogni prassi di comunicazione. Anche l'autore è in scena, come narratore, ma al centro del racconto c'è la "madre", un'entità che "sputa in faccia al destino", perché "lei è vento", "lei è tempesta" e "sfortunati quelli che si metteranno davanti a lei nel suo cammino, perché ci passerà attraverso". La madre è in missione, il mondo è impazzito nella barbarie dall'oggi al domani e la tappa del suo viaggio è un luogo lontano e nascosto, dove è andata a finire la "ragione". Seguiranno ipocrisie, distruzione e cavalieri dell'apocalisse con tutto il trambusto in cui un uragano può manifestarsi all'interno di un bicchiere. Ma come il mondo è impazzito? Chi riuscirà a salvarlo e consolarlo? RRobe scrive e narra veloce, le pagine girano veloci, il messaggio di fondo potrebbe essere sintetizzato da una canzone rock. Però funziona, gira bene e arrivato in fondo vuoi ripartire. Forse avrei voluto starci più tempo da queste parti, esplorare il futuro medioevale che ho intravisto, ma mentalmente vedo che mi riaffiorano i paesaggi italici di Orfani:Ringo (altra opera di Recchioni), pronti a fare da supplenti e arricchire il quadro generale. Ma chi non è fan del RRobe e Orfani: Ringo (presente in bei cartonati da Bao Publishing) non me lo vuole recuperare? Ricordo la mappa del mondo fantasy di Ya!, ricordo l'emozione di quando tra valli e città ho riconosciuto per la prima volta Campocarne e la testa è partita, ieri come oggi, a uno dei luoghi più famosi di Orfani. Pensando alla Madre di questo fumetto, automaticamente e antiteticamente torno alla figura femminile di Monolih. Il RRobe è sempre il RRobe, e questo mi sento di dirlo perché un po' nei suoi mondi immaginari ci sono caduto e sono contento di essermici perso. Ha sempre grinta, sa come scrivere dialoghi cool e come esprimere un concetto chiaro come un missile che ti arriva in testa, sa come provocare e rendere reattivo il lettore. Ma quest'opera forse si appoggia un po' troppo a cose già dette, anche  se nel cuore è interessante, più nella forma che nella sostanza un piccolo Violence Jack sociale, molto meno cattivo di quello che si sarebbe voluto, un po' spaventato e in cerca di conforto sul futuro, in tutto questo amabilmente e fallibilmente "umano". Sono sicuro che a rileggerlo ci piacerà anche di più. Una prova molto interessante di decostruzione del media-fumetto, un modo un po' diverso di assemblare le tavole e veicolare la narrazione, infine un modo intelligente e diretto per condannare le ipocrisie e gli imbarbarimenti dell'epoca moderna che spesso si nascondono dietro a una richiesta di affetto e conforto. Bella prova RRobe, continua così. Poi se ti avanzano cinque minuti liberi nel mentre che aspetti il caffè al bar, potresti pure fare un fumetto sulla rivoluzione russa, io già te lo compro...
  
Paolo "Talk0"

mercoledì 18 aprile 2018

Una festa esagerata: la nostra recensione della nuova "farsetta" di Vincenzo Salemme




"La vuoi vedere?" Con questa frase, un sorriso invitante e un fisico da far invidia a una trentenne, Teresa (la sempre bellissima Tosca d'Aquino), moglie di un piccolo ma onesto imprenditore edile napoletano, sembra suggerire al consorte, Gennaro Parascandolo (Vincenzo Salemme), future e strepitose evoluzioni erotiche. In realtà quella che vorrebbe fargli vedere è una gigantesca fontana in marmo (arrivata nel loro appartamento non si sa come), la "bomboniera" che vorrebbe dare in dono al futuro suocero, l'assessore Cardellino (Francesco Paolantoni), per ringraziarlo della partecipazione al grandioso compleanno da 150 invitati che sta organizzando per la figlia Mirea (Mirea Flavia Stellato) sul terrazzo del condominio dove vivono. Questo evento da "un paio di pizzette in terrazzo con due amici" sta decisamente diventando qualcosa di ingestibile e il povero Parasole sta "uscendo pazzo". Già il fatto che la figlia frequenti quel fesso di Bebè Cardellino (Andrea di Maria) non gli piace, perché da imprenditore onesto non vuole far pensare a nessuno che diventi un arricchito e trovi lavori per via delle raccomandazioni del potente genitore. Ma la moglie Teresa ormai si sente parte della alta società bene e non vuole sentire ragioni: la festa dei diciotto anni di Mirea sarà l'ingresso dei Parascandolo nel circolo di quelli che contano. E per fare parte del club che cosa sarà mai regalare all'assessore una fontana in marmo? Cosa costerà mai chiamare a cantare tanti auguri il mitico James Senese (interpretato da James Senese stesso!! Il mito!!)? Cosa costerà ingaggiare dei cuochi professionisti? Un abito per la padrona di casa da festa degli Oscar? Bloccare un palazzo e un parcheggio? Troppo, ecco cosa costerà tutto questo compleanno. Troppo. E la fontana - bomboniera sembra il meno. Anche dovere interagire per coordinare i lavori con il "secondo portiere" dello stabile, Lello (Massimiliano Gallo), un bravo ragazzo non troppo sveglio, diventa per Parascandolo un problema che non fa che sommarsi ad altri problemi, ma ecco che arriva a bloccare tutto "il problema dei problemi". Don Giovanni Scamardella (Nando Paone), il coinquilino del piano di sotto nonché padre della isterica del palazzo, Lucia (Iaia Forte), di colpo muore. È lo stesso Parascandolo a scoprirlo per caso prima che arrivino ambulanza, pompe funebri e tutto il resto. L'assessore per una cosa scaramantica sua non presenzia a eventi che si tengono in posti dove ci sono dei morti e non deve assolutamente sapere nulla. Il prete locale (Giovanni Cacioppo), famoso per imbucarsi alle feste ore prima per spazzolare tutte le pizzette, è d'accordo per far figurare solo a festa avvenuta che nel palazzo c'è un morto. Lucia terrebbe la bocca chiusa, ma solo se Parascandolo, di cui da sempre è segretamente innamorata, si concedesse a lei. Andrà in porto questa "festa esagerata"?
Tratto, come molte delle sue regie, da un suo spettacolo teatrale, l'ultimo film scritto, diretto e interpretato da Vincenzo Salemme è una divertente farsetta degli equivoci, leggera leggera, ideale per passare un'oretta e poco più in totale spensieratezza. La trama è semplice e geometrica quanto basta, anche se presenta un risvolto finale che per me funzionerebbe meglio a teatro che al cinema, tutto passa leggero e tranquillo. Gli interpreti sono spiritosi e molto reattivi ai meccanismi comici, perché del resto sono in gran parte "ciurma" con cui è solito lavorare il regista napoletano. Tosca d'Aquino, di cui ricordo con affetto una parte ultra-sexy a inizio carriera, in Kinski Paganini con Klaus Kinski, non ha perso un grammo di una sensualità esplosiva per troppo, troppo tempo nascosta e mortificata in ruoli comici da "personaggio logorroico e rompialle" (come spesso sotto Pieraccioni), che davvero non le hanno reso giustizia. Salemme ha sempre visto invece questo potenziale, fin dallo strip tease in cui la fa esplodere nel romantico Volesse il cielo! e anche in questa ultima pellicola, che arriva 16 anni dopo, Tosca è ancora ultra sexy. Salemme la contiene, così anche se le forme di Tosca tendono sempre ad esplodere dagli abiti (dimostrando un fisico ancora invidiabile) le mille allusioni con cui si esprime il personaggio di Teresa alla fine cadono nel nulla (come l'invito all'assessore di "fare tutto quello che vuole nella sua camera da letto"), ma si ridà un po' di giustizia a quello che è uno dei più clamorosi casi di attrice sexy mancata. Anche laia Forte, che ricordo bene ai tempi del tenero I buchi neri di Pappi Corsicato e nel dolcissimo Luna e l'altra di Maurizio Nichetti (regista che se non fossimo in Italia sarebbe venerato quanto e più di Guillermo del Toro) si ritrova qui ancora molto sexy, in una parte da psicopatica dark/vicina di casa surreale, estrema e quasi inquietante. Massimiliano Gallo e Salemme funzionano molto bene come coppia comica, si rifanno ai meccanismi più tipici e risaputi della farsa ma lo spettacolo è sempre divertente. La regia pecca del solito problema che affligge il Salemme regista cinematografico: la troppa aderenza al Salemme regista di teatro. I due linguaggi si sovrappongono, ma i due media hanno un respiro e ritmo diverso che il regista napoletano non sempre azzecca. Ma è comunque un peccato veniale su cui i suoi fan possono tranquillamente chiudere un occhio.
Una festa esagerata è un film divertente per chi apprezza la comicità di Francesco Salemme ed è contento di andarlo a vedere al cinema. Salemme coccola i suoi fan mettendo in scena la sua classica farsa ben oliata, garbata e tutto sommato innocua. Non si eccede in volgarità, non si eccede in satira di costume, non si eccede in introspezione. Ci si diverte senza pensieri, cosa che come punta a fare ogni "farsetta", come il Natale da Chef di Massimo Boldi. La farsa è una messa cantata, simile a se stessa da secoli ma in grado di divertire chi vuole divertirsi con i suoi meccanismi semplici, ben noti e reiterati. Gli equivoci nel rapporto di coppia o in quello padri/figli, le piccole truffe a fin di bene, le "corna" paventate o ricercate, i piccoli giochi di potere con la fascinazione per le figure politiche, l'idealizzazione (più che la pratica) della sessualità, i buoni sentimenti che alla fine prevalgono su tutto . 
Non aspettatevi quindi rivoluzioni registiche o temi scottanti al di là del solito "pacchetto completo". La Napoli di Salemme è un bel posto dove splende il sole, popolata di persone per bene e di qualche mariuolo per lo più innocuo. Sentitevi "a casa", rilassatevi e divertitevi. Se il teatro e il cinema di Salemme non incontra i vostri gusti per struttura, temi e humor, che forse ritenete troppo "classici", quest'opera di certo non vi farà cambiare idea; ma passa veloce e qualche risata (magari controvoglia) saprà comunque tirarvela fuori. 
Talk0

lunedì 16 aprile 2018

Ci ha lasciato a 74 anni R.Lee Ermey, l'indimenticabile sergente Hartman di Full Metal Jacket



Nel 1984 è stato l'iconico sergente istruttore Hartman nel capolavoro di Kubrick, facendo piangere e impazzire il soldato "Palla di lardo" di Vincent D'Onofrio, ma era già un elicotterista in Apocalypse Now di Coppola. Era il sergente dei soldatini di plastica Verdi di Toy Story di John Lasseter, era sempre un sergente, ma fantasma, in Sospesi nel Tempo di Peter Jackson. Un'altra divisa ha consolidato la sua fama negli anni, quella dello sceriffo Hoyt di Non aprite quella porta. Ha interpretato anche altri ruoli, tra cui il padre del Dottor House di Hugh Laurie, ma l'uniforme gli stava sempre bene, unita al carattere spesso brusco e scorbutico (se non addirittura maligno) che caratterizzava i suoi personaggi. Perché nell'esercito, nei Marines, insieme a uniformi e a personaggi dal carattere brusco, scorbutico (se non addirittura maligno) ci era sempre vissuto e questo raccontava nella sua arte.  Eroe di guerra in Vietnam e ad Okinawa, spesso rivestendo proprio il ruolo di Sergente Istruttore, in congedo da 1972 per motivi medici, nel 2002 i Marines lo promuovono come riconoscenza al servizio svolto negli anni,  a Gunnery Sergeant. R.Lee Ermey era un cinematografico sergente istruttore cattivo più vero del vero, in grado di terrorizzare con la sua determinazione da Marines anche più generazioni di spettatori debosciati e senza palle tanto in film di guerra che in pellicole Horror. Chi lo conosceva sapeva che in realtà, sotto una scorza  d'acciaio, che però sapeva spesso affievolire con l'autoironia, Lee era sorridente, aveva un animo generoso e spesso aperto a iniziative di solidarietà. Oggi ci ha lasciato, a solo 74 anni, a causa di una polmonite. E già ci manca un po' la sua grinta e il suo modo di guardare la vita dritta negli occhi con tutta la determinazione di un Marines.

Ma cosa sarebbe successo  se invece di diventare un sergente istruttore dei Marines fosse diventato un bibliotecario?


Ciao Lee. Grazie per averci ispirati e terrorizzati in tutti i questi anni. 
Talk0

venerdì 13 aprile 2018

Rampage - Furia animale: la nostra recensione del nuovo film di Brad Peyton con Dwayne "The Rock" Johnson



Non molto tempo fa diedero in mano a Brad Peyton un disaster movie su un elicottero che cercava di salvare la sua famiglia (e sporadicamente il resto della popolazione) dal drammatico distaccamento di una nota faglia che riguarda il continente americano. Il film si chiamava San Andreas e deluse molto chi si aspettava per un attimo di vedere al cinema la trasposizione di un noto capitolo della saga videoludica del Gran Ladro d'auto della Rockstar Games. Poi però ebbe un incredibile successo. Perché Peyton aveva una grande idea alla base del progetto: prendere un action-hero dal corpo gigantesco come The Rock e infilarlo in un piccolo elicotterino per quasi tutta la durata del film. La gente era incuriosita su come effettivamente potesse The Rock muoversi su un sedile piccolo piccolo che lo faceva sembrare un adulto a cavalcioni di una giostra per bambini.


L'idea comunque piacque molto, così per un nuovo disaster movie in uscita per il prossimo luglio, Meg, che da noi arriverà con l'originale titolo di Shark - il primo squalo (perché il titolo originale probabilmente avrebbe deluso chi si aspettava in sala una biografia di Meg Ryan), anche il nerboruto Jason Statham sarà per molto tempo alla guida di cockpit molto piccoli (di elicotteri, mini-sottomarini e roba varia).


Ma dietro al ruolo dell'elicotterista in San Andreas c'era molto di più che "spazi ristretti per muscoli troppo grandi". C'era un idea forte: far percorrere a The Rock il cammino cinematografico dell'eroe impegnato che anni prima aveva già percorso Steven Seagal con Inferno Sepolto: impersonare un eroe che per vivere svolge un lavoro improbabile per un action hero.


Così dopo il mitico burocrate - eroe di Seagal, Jack Taggart dell'EPA, l'agenzia per la protezione dell'ambiente, Dwayne Johnson è pronto a vestire i panni di Davis Oyoke, un "primatologo". Cioè un tizio che studia il comportamento delle scimmie tipo Sigurney Weaver in Gorilla nella nebbia. Solo che mooooooooooooooolto più credibile. Il nostro Rock preferito sarà così alle prese con un Gorilla Albino di nome George, impersonato con il motion capture di lusso Weta (Signore degli anelli, King Kong, l'ultima trilogia del pianeta delle scimmie) da Jason Liles, che ha già interpretato digitalmente il corpo di Ryuk (la "voce" era di Dafoe) nel Death Note di Netflix (che non ho ancora visto non avendo Netflix, ma di cui mi dicono tutti un gran male, e spero non per colpa di Liles). Quindi The Rock gira Gorilla nella nebbia, dramma sulla comprensione uomo-animale girato in qualche amena oasi WWF protetta? Più o meno, anche se Rampage richiama di più l'atmosfera della WWF del Wrestling, mettendo in scena scontri finti tra colossi che si picchiano tra di loro. Solo che detti colossi sono mostri giganti (tra cui lo scimmione albino George, mutato e reso enorme da spietati esperimenti governativi illegali su cui The Rock indagherà) che si picchiano nel centro di una città americana perfettamente ricostruita per essere perfettamente distrutta, seguendo grosso modo il "canovaccio" di un per lo più dimenticato videogame della defunta Midway Games del 1986, che per l'appunto si chiamava Rampage. Se con San Andreas Brad Payton andava per un attimo a illudere i fan di Gran Ladro D'auto, con Rampage arriva proprio a far incazzare lo storico regista di filmacci Owe Boll, che più di recente del 1986 aveva girato già tre film con il nome branderizzato di Rampage (che in fondo significa in inglese "furia", andando bene anche come titolo per un film con Vincenzo Salemme... tipo "Rampaaagne!!"mi immagino). Boll è incazzatissimo come sempre e già mi immagino che parta presto per proporre a Peyton di volerlo sfidare in un incontro di pugilato, come è solito fare per sconfiggere i suoi nemici più spietati (i critici cinematografici). Ma alla fine cos'era 'sto Rampage della Midway del 1986? Questa roba qua...


Dopo tre minuti di mostri che abbattono palazzi e mangiano omini vi assicuro che diventa una palla assurda. Ma che altri giochi erano usciti nel 1986? Era questo il top del gaming? Beh, il 1986 era in fondo l'anno di Out Run, di Zelda, di Castlevania, di Arkanoid, di Bubble Bobble, di Defenders of The Crown, Wonder Boy, Ikari Warriors, Dragon Quest... in sala giochi iniziavano a farsi le code dietro a dei capolavori assoluti dell'intrattenimento videoludico del domani e a casa (per lo più dei giappi, ma pure Commodore e Spectrum avevano le loro carte da giocare) iniziava a girare roba da paura.
Rampage no. Rampage nei posti che bazzicavo era sempre senza fila, dimenticato in un angolo impolverato a fianco di Dragon's Lair (che costava un botto e per lo più era "spiato" da lontano). Era un po' una poverata senza storia e senza futuro. Sceglievi un mostro tra un uomo lupo, un lucertolone o un Gorilla e facevi punti tirando giù palazzi e soldatini. E basta. Forse è l'idea stessa di impersonare un mostro gigante, lento e ultra-distruttivo a non aver mai suscitato su di me e su tutte le persone che ho incontrato nella mia vita un particolare fascino. Se sei enorme in un videogame tutto il resto è grande quanto zanzare e le zanzare non le ho mai trovate troppo divertenti. Nel gioco non fai che schiacciare zanzare e poco altro il divertimento non mi hai conquistato troppo anche se il chara design era carino, anche se gli omini erano buffi. Comunque Rampage di Midway ha prosperato per anni e anni, reinventandosi a dire il vero molto poco di titolo in titolo, ma piacendo a un sacco di gente, gente che non conosco, fino a che qualcuno ha deciso di farci un film. Questo film, cavalcando l'onda dei film sui mostri giganti che tanto piacciono in questi tempi. San Andreas di Peyton era divertente, fracassone, indovinava due o tre scene pur essendo abbastanza, drammaticamente, "stupidino". Qui mi attendevo la stessa solfa in fondo, e non sono arrivato troppo lontano alla fine. Però come tamarrata è una tamarrata che si lascia vedere. Tanto assurda quanto divertente, un c-movie stile Syfy channel, ma ultra pompato e irresistibile nel suo essere seriosamente auto-ridicolo. Un fumettone (nel senso più buono, indulgente e ingenuo del termine) davvero divertente. Puro trash, adatto solo se amate / sopportate il genere al punto da non sentirvi truffati dopo la visione per due ore di un film su uno squalo a sei teste. Roba da apprezzare se ubriachi, roba genuinamente sgangherata.


Lasciate da parte il nuovo King Kong, Godzilla, Pacific Rim e state con i pieni ben piantati per terra in una ipotetica seconda serata su "Cielo" per il ciclo "Mostri e catastrofi". C'è qui tutto il pacchetto del "film di merda low budget". Attori anche interessanti e bravi che compaiono in due scene per poi sparire (Joe Manganiello, Breanne Hill). Personaggi ultra - sopra le righe e senza senso (Jeffery Dean Morgan che per tutto il film va in giro con cinturone da cowboy con pistola argentata senza un perché). Dei cattivi che vogliono conquistare il mondo scemissimi a capo di un "palazzo dei cattivi" di 80 piani rigorosamente vuoto (la risolutissima e fumettistica Malin Akerman e un tizio che fa il suo fratellino scemo). Un love interest per il protagonista dal passato non sviluppato e competente "in roba tecnologico / scientifica" varia (Naomi Harris). E poi ci sono le scene con i mostri, che per quanto gradevolissimi e quasi ben realizzati (oggettivamente l'unico selling point per l'home video) si muovono in ambienti amorevolmente posticci e fasulli senza dare mai l'impressione di esistere davvero per un minutaggio rigorosamente ridotto e per una spettacolarità depotenziata del 70%. E poi i militari "generici", che in ogni film di merda sui mostri a basso budget non possono mancare mai, sempre con la fissa di sparare per primi, di tirare bombe e di far volare in cielo il solito aereo fatto a trapezio che sgancia le atomiche. E infine la nota sensazione che in tutto il mondo ci siamo solo sei persone che interagiscono tra di loro e che alcuni recitano più ruoli vestendo vestiti diversi. Ma lo ripeto, questa è tutta roba che il film vuole fare con determinazione, rigore e un rispetto dei topoi classico/orribili quasi maniacale. Anche perché gli effetti speciali, la fotografia e la confezione non è libera quanto un film sul barracuda volante qualsiasi. E poi c'è The Rock che vuole fare il suo Gorilla nella nebbia. Per me è il punto più riuscito di tutto il pacchetto in fondo.
The Rock interpreta il primatologo medio: un tizio che sa pilotate elicotteri d'assalto, ha un file da agente blackops impegnato in questioni internazionali, è esperto di sopravvivenza, scalata estrema, uso di armi pesanti in zone di guerriglia, diplomazia e tattica, con un paio di esami dal dottorato in fisica neuro-biologica e medicina impossibile. In più parla con i Gorilla attraverso un linguaggio dei segni fluidissimo che rasenta il contatto diretto neurale per velocità di comprensione. Questo trasforma il film in alcuni momenti quasi in Figli di un Dio minore. Avete presente?


Immaginate in locandina The Rock che arruffa i capelli di una scimmia gigante
Il rapporto tra il nerboruto personaggio di The Rock con la scimmia albina George ha radici profonde che ci vengono narrate in molto più tempo di quello che desidereremmo assistendo a una pellicola sui mostri giganti. I due scherzano, riflettono sul loro posto nella comunità e nel mondo, gestiscono fraternamente i conflitti inter/specie, scherzano come due liceali un po' scemi. E credetemi è bellissimo, perché The Rock ha una naturalezza e ingenuità fanciullesca incredibile nel parlare con quello che è in fondo un tizio in calzamaglia che grugnisce.
E il tizio a quattro zampe è bravo da sembrare una scimmia albina gigante vera, con buona pace del dinosauro e del lupo, che sono forse troppo abbozzati. George e The Rock sono un team e sono amici che si danno il pugnetto dopo aver detto una battuta divertente, che sottolineano nei gesti i concetti di "famiglia", "amici", "tu mi hai salvato non io", con una veemenza a cui era arrivata solo la Disney in Lilo e Stich. Si vogliono bene e noi gli vogliamo bene, così che patiamo un po' il momento in cui George per via di uno strampalato artificio di sceneggiatura deve diventare cattivo e può salvarsi solo se assume una speciale variante di un antidolorifico da banco famoso in compresse ricoperte di gelatina rossa. Ci piacciono The Rock e George anche perché il loro è un rapporto paritario. Non è che l'action hero samoano usi il suo amico per spostarsi o per affrontare gli altri mostri (risvolto narrativo davvero inaspettato). Ognuno fa il suo. George con stazza e pugni. The Rock con elicotteri, jeep, pistole e granate che trova lungo la strada come in un videogame. Fratelli. Se vivessimo nel mondo dominato dalle scimmie del pianeta medesimo, Rampage sarebbe il blockbuster estivo e avrebbe sessanta seguiti. Cesare avrebbe approvato.


E chi sono io per non dare a Cesare quanto è suo? In sintesi. Rampage è un interessante film c-movie ad alto budget fatto con tutti i crismi dei film brutti per vocazione. È divertente, sganascione, assolutamente innocuo e non sovversivo per andare bene pure a un pubblico di scuola primaria e fila via senza sosta accumulando scene senza senso e buchi di sceneggiatura "voluti". In una scena clou Rock deve salire un palazzo di ottanta piani, ha un elicottero che potrebbe atterrarci sopra ma lo parcheggia al piano terra per fare tutto a piedi. E di scene così il film è pieno. Il film trolla sapendo di trollare. A chi giova tutto ciò? A me che sono riuscito a divertirmi. Ma voi sarete altrettanto coraggiosi? Riuscirete a sospendere la vostra incredulità come una motosega riesce a dividere in due uno squalo volante? 
Talk0
Giudizio sintetico: una stronzata così tamarra da risultare quasi simpatica, ma comunque una stronzata.