domenica 30 settembre 2018

The nun - la vocazione del male : la nostra recensione




Siamo negli anni '50, nell'est Europa più "draculesco", tra le mura di un imponente convento sperduto tra i boschi. È successo qualcosa di sinistro in quei luoghi, un contadino, un ragazzo di origine francese (Jonas Bloquet) addetto a rifornire periodicamente le suore dei beni di prima necessità, ha trovato una di loro impiccata davanti al portone principale. Il Vaticano sembra molto preoccupato dell'accaduto e invia a indagare uno dei suoi più risoluti preti esorcisti (Demian Bichir), raccomandandogli di portare con sé una particolare risorsa, una novizia (Tessa Farmiga) che dovrebbe essergli utile in quanto "avvezza a quei luoghi". I due si inoltreranno nel convento e avranno a che fare con una serie di misteri che nulla hanno di umano. 
Siamo idealmente al punto di arrivo perfetto per la poetica cinematografica di uno dei principali autori/produttori del new-Horror. James Wan, ovviamente di lui stiamo parlando,  punta da sempre, in un'epoca di found foutage "pseudo-realistici", alla riscoperta e al re-innesto dell'horror cinematografico più classico, quello di stampo Universal. È un processo ad ampio raggio, che riguarda tanto le tematiche quanto i meccanismi su cui si crea in sala la tensione. Se vogliamo è quasi un romantico recupero dell'horror tout-cour, quello nato per spaventare i nostri nonni con il poco splatter e la poca violenza ai tempi permessa. Un Horror di genere, ma quasi "gentile", lontano anni luce dal body-Horror e dalle pulsioni/urgenze tematiche più contemporanee. Un Horror prevalentemente fatto sulla ancestrale divisione di bene e male e intriso di morale che Wan riscopre dopo che il genere si è declinato in tutte le salse, fino a svuotarsi e rivelare i suoi schemi più intimi, fino a che del fantasma tutti hanno visto solo il lenzuolo vuoto mosso da un ventilatore.
The nun, scritto dall'autore dei (fino ad ora) due film di Annabelle, rappresenta a tutti gli effetti il "Dracula" della "waniana" saga cinematografica Horror ispirata alla famiglia "Warren della Warner". The conjuring, in attesa del capitolo tre, mescolava L'Esorcista (del 1973) con gli Horror della Hammer. Annabelle giocava con le sette in zona Polanski mescolando con il filone delle bambole maledette (una delle prime in Dead of night del 1945). E in un viaggio a ritroso nel tempo sempre più marcato, The nun è un Dracula classicissimo (come quello di Lugosi del 1931), con la sua aura epico-fantasy, ambientazioni gotiche e desolate, nebbie e tempeste a scatenarsi di continuo e un'eterna lotta tra bene e male, fede ed eresia. Un film che trasuda atmosfera prima che paura, che affascina e conquista a prescindere da un canovaccio sempre più risaputo ma gustoso. 
Dovrei forse metterci un cubico "per me" prima di esplicitare quanto sia bella e riuscita questa pellicola, diretta con buona mano e solidissimo cast tecnico e artistico da Corin Hardy. Il "per me" diviene forse d'obbligo in ragione di una trama un po' sghemba, che qualche volta gira su se stessa e si perde, ma anche in ragione di molte delle critiche piovute sul film, per lo più a mio giudizio da chi da questo si aspettava qualcosa di diverso o per lo meno "più moderno". The nun è un film sghembo che lascia molto/troppo spazio "all'onirico" per tappezzare la logica, non punta a spaventare ogni tre secondi con un jump-scare, non vuole neppure "sorprendere per sorprendere".  È una ricetta semplice, magari per qualcuno semplicistica. Manieri isolati ai confini del mondo moderno abitati da presenze solitarie e spettrali. Cacciatori di mostri, con la pancia piena di paura, che si aggirano al loro interno mentre "il male dorme", ma sono destinati a trascorrerci notti di terrore. Croci e preghiere che diventano "armi sacre", oggetti più potenti di bombe atomiche, anche se in mano a un non credente (come accade nell'ultra-citazionista Dal tramonto all'alba di Rodriguez/Tarantino). Un nemico ancestrale che si nasconde tra i mortali sotto sembianze umane da abbattere con la forza della fede. Bene contro male, dritto, senza fronzoli, come nel Dracula cinematografico delle origini, quando il vampiro era ancora un mostro con una credibilità. Puro Horror - fantasy, se vogliamo leggerlo oggi. Il demone "che si traveste da suora", che si muove silenzioso tra le consorelle che hanno fatto il voto della clausura e del silenzio, per annientare la loro fede, per corromperle, mutando d'aspetto, rovesciando gravità e crocifissi, un demone che vive nutrendosi di paura. È un'immagine di una potenza devastante, come un drago (Dracula etimologicamente discende da drago quanto da diavolo), immortale, da combattere all'ultimo sangue, con truppe infinite (in questo caso "suore combattenti" quanto gli esorcisti), in una lotta eterna, che si perpetra per generazioni, per impedire che esca dalla sua tana e distrugga il mondo. È quasi strano che la pellicola non sia in bianco e nero, è quasi spericolato che nel 2018, mentre le chiese sono sempre più disertate dai giovani, si parli in modo così cristallino della pura fede che distrugge il maligno. L'horror moderno sottolinea i nuovi pericoli di internet, nutre la sempre viva paura per il prossimo (sia straniero, sia diverso, sia alieno), ci fa sentire sempre più preda degli zombie (e zombie noi stessi) della sovrappopolazione mondiale. I film di The Conjuring, e questo in particolare modo, sono, pur divertentissimi e visivamente affascinanti, match tra preti e diavoli. Ci sono vittorie e sconfitte da ambo le fazioni, ma questo rimangono: forse il miglior invito, dai tempi dell'Esorcista, ad indossare una tonaca per combattere il male. Ma i giovani d'oggi la vedono ancora così? Non è che vedono piuttosto la questione esorcisti vs diavoli come una strana declinazione, per l'appunto, dell'intrattenimento fantasy e basta? Riesce davvero a "toccarli", a coinvolgerli, la storia di un demone che assedia un convento di suore? E finiti i jump scare e trovata l'ambientazione "risaputa", a monte di tonnellate di videogame Horror ambientati in castelli abbandonati, non è che vorranno subito a fine pellicola passare ad altro?  


Forse questo è il limite più evidente di The nun. È una storia fantasy, priva delle "documentazioni ufficiali" che invece fanno acquisire alle altre opere cinematografiche basate sulle imprese dei Warren un'aura di "credibilità". E quello che rimane è una atmosfera da Horror classico che non riesce a toccare tutti gli spettatori. 
Se amate l'horror classico, quello fatto di lupi mannari e mostri della laguna, The nun diventa davvero Gardaland. Se non siete di quella scuola di pensiero, potreste trovare la muffa in ogni pertugio del convento tra i boschi di The nun. Che pur ci regala delle magnifiche scene oniriche, un'ambientazione maniacalmente precisa e affascinante, tanti spaventi, una fotografia magistrale e attori straordinari, prima tra tutti Tessa Farmiga, sorella della altrettanto brava Vera Farmiga, l'interprete di Lorainne Warren di The Conjuring. Ci sono scene così riuscite che personalmente non vedo l'ora di rivederle in home video, sopratutto quelle che riguardano la badessa e le suore del convento, ma anche il "mostro" non è affatto male e sicuramente può essere ulteriormente esplorato in nuove pellicole (se ne potrebbero fare due distinte, peraltro entrambe potenzialmente molto interessanti, solo espandendo due flashback presenti nella pellicola). 
Concludendo. Non è un capolavoro ma un film che pur nei limiti sa divertire e intrattenere molto. Chi cerca spaventi infiniti può rimanerne deluso, ma chi ama la claustrofobia di un luogo che sembra un livello del videogame Diablo (e che per un attimo lo diventa a tutti gli effetti) ne uscirà più che contento. Chi non apprezza il ruolo "fantasy" giocato dagli esorcisti e dalle loro armi sacre e vorrebbe un Horror che analizzi di più il rapporto/scontro tra uomo e società (o mancanze della stessa) non troverà qui ciò che cerca. In genere è un film che giudico "più figo che spaventoso". Scegliete voi se vederlo come un pregio o un difetto.  
Siamo comunque decisamente nella categoria del film di genere. Se vogliamo dell'ottimo film di genere, con un alto tasso di voglia di rivedere la pellicola più volte. The Conjuring gioca in un campionato più alto, me se avete apprezzato gli Annabelle qui vi divertirete comunque. Il livello qualitativo è sempre elevato e la confezione affascinante e ricercata. Di roba così ne vedrei a chili senza annoiarmi. La saga "espansa" dei Warren sta sempre più assumendo i contorni di un ottimo telefilm, come in casa Marvel Disney. Se volete però il film più terrorizzante del mondo, a questo giro vi è andata male. 
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giovedì 27 settembre 2018

Mission Impossible: fallout- la nostra recensione




Il mondo è di nuovo in pericolo e questa volta è "colpa" di Eathan Hunt (Tom Cruise), che per salvare il suo amicone del cuore Luther (Ving Rymes)  si fa scappare dalle mani tre bombe nucleari, prontamente finte nelle mani di pericolosi figuri del mercato nero. Per recuperarle dovrà fare i conti con una femme fatale che si vede troppo poco sullo schermo (Vanessa Kirby), sarà costretto a incontrare di nuovo uno sgradito figuro (Sean Harris) e dovrà sopportare di avere tra i piedi un brutale super agente baffuto (Henry Cavill). Questa volta la caccia al tesoro ci porta tra le strade di Parigi, sui tetti di Londra e da qualche parte nel medio oriente per l'ultimo atto. Riuscirà Tom Cruise tra acrobazie, maschere e inseguimenti a recuperare le bombe atomiche e salvare il mondo da un "fallout" che ci porterebbe dritti alla saga di Mad Max?
È bassino con il complesso di essere bassino, è sempre più asessuato,  quasi ascetico forse per motivi religiosi, è vecchierello ma con tanta palestra giornaliera, è per lo più sempre meno divertente, forse anche perché le battute gliele scrivono troppo in piccolo e lui è sempre più miope. È egocentrico anche  se con l'età si sente sempre più fuori luogo e avverte l'esigenza continua di scusarsi, perché si sente fuori posto, fuori tempo massimo. Ma non dimentica di avere uno dei sorrisi storti più affascinanti di sempre e sa quando sfoderarlo. Un giorno avrebbe voluto essere Dustin Hoffman ma oggi il suo modello di vita è Jackie Chan, pertanto accoglie con gioia la prospettiva di non avere stunt-man e di passare conseguentemente mesi in terapia riabilitativa per qualche salto finito male sul set, che magari può usare/riciclare per la versione moderna del gag-reel dei titoli di coda di Jackie Chan, le Instagram Stories. Ha un mare di difetti ma ammettiamolo, mettiamo Tom Cruise nella storia giusta, con il regista giusto, i comprimari giusti e le migliori scene d'azione che Hollywood riesce oggi a produrre  e lui, se è "in botta giusta", riesce ancora a sbancare il botteghino, facendo divertire il pubblico per un paio d'ore. E non ti fa nemmeno pensare che la maggior parte del budget investito da Paramount, di svariati miliardi, sia di fatto stato impiegato per farlo sembrare alto quanto quell'attore/merluzzo di Henry Cavill. 



La domanda giusta da fare è quindi: "A questo giro Tom è in botta? Gli piace il progetto?". Con La mummia non è che le cose fossero andate benissimo. Più che altro perché Tom non era in botta e quando un piccolo dittatore da set come Tom non è in botta l'intero film non può funzionare. Tom cambia i registi, riscrive le battute, cambia  il cast, rifà i costumi, i set, le musiche, pretende panini diversi per la pausa pranzo. Tom ai tempi de La mummia non ci stava al fatto che il film non si chiamasse Mission Impossible contro la mummia (con "contro la mummia" scritto in molto piccolo) e ha fatto di tutto per creare il film che voleva, che anche se era un'idea di merda era la "sua" idea. Oggi Tom torna a fare quello che sa fare meglio negli ultimi anni, cioè Mission Impossible. Con  lo stesso produttore (J. J. Abrams), ottimo regista/sceneggiature (Christipher McQuarrie) e ottimo cast (da Simon Pegg ad Alec Baldwin, passando per l'immancabile Ving Rhames)  del precedente fortunato capitolo del franchise. Al netto di un Jeremy Renner del tutto assente per non metterlo più in ombra. Al netto di qualsiasi figura femminile messa qui sempre più strategicamente in ombra, quasi a impedire che il pubblico anche solo per un istante pensi alla figa e non a lui (inutile dire quanto questo faccia incazzare, perché tra la Kirby e la Ferguson di gnocca ce ne è, ma "a questo giro" il Tom non vuole proprio farcela vedere). Tom sceglie Henry Cavill come altro "macho" su cui confrontarsi sul set, sicuro che il merluzzo ha già perso in partenza grazie a un personaggio che per motivi di sceneggiatura (voluta da Tom) si svilupperà in modo patetico e grottesco. Eliminato il "superfluo" dallo show, Tom si dedica anima e corpo a quello che gli riesce meglio: i suoi amati stunt girati rigorosamente senza controfigura. Questa volta il piatto forte prevede un salto nel vuoto in halo su Parigi, con contorno di incredibili e immancabili inseguimenti in auto e a piedi, nelle splendide location parigine/londinesi, e chiude con un finale a base di elicotteri, montagne e bombe in medio oriente. Nel mezzo intrighi funzionali alla trama a base delle solite maschere e doppi giochi, che si dimenticano immancabilmente mezz'ora dopo la visione, come regola ormai consolidata. A contorno una caratterizzazione di Ethan Hunt più matura/sclerotica, qualche volta autoironica, spesso piuttosto monocorde. È lo show di Tom e il giocattolo funziona. Anche se è meno bello del film precedente, a sua volta meno bello del film precedente, il livello di intrattenimento è così alto che non ci lamentiamo. Anche se forse molte delle idee passate sapientemente cestinate da Tom per non metterlo in ombra potevano dare qualcosa di più a un franchise che, oltre a Tom e al suo Ego, ha sempre meno da dire a tutti gli altri. Oggi non è ancora successo, ma presto, se non ci sarà una inversione di tendenza, di questi Mission Impossible ci romperemo un po' le palle. Fun fact: in sala ogni volta che Tom cadeva male, si feriva, prendeva pugni o veniva ribaltato da quel merluzzo gigante di Cavill, c'era il pubblico che esultava. Il pubblico era poi in delirio quando su schermo arrivava la famosa scena, ultra-reclamizzata, in cui sul set Tom di faceva male sul serio, al punto da sospendere per mesi le riprese. C'era in sala un perverso piacere a veder soffrire il perfettimo/ascetico/egocentrico/tappo agente segreto Ethan Hunt. Se vi sta antipatico Tom Cruise, in questo film lo vedete spesso prendere pugni più che tirarli. Non so quanto questo sia bello, ma Tom sembra scherzarci sopra e accarezza sempre più l'idea del sequel di Edge of Tomorrow, film in cui il suo personaggio per una sorta di "giorno della marmotta fantascientifico" muore in scena decine e decine di volte, spesso in modi buffi intrisi di black humor (peraltro film bellissimo). Anche questo è saper fare business. 
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domenica 23 settembre 2018

La profezia dell'armadillo - la nostra (quasi) recensione del film tratto dal fumetto di Zerocalcare




Premessa: questa non è la nostra classica recensioncina, ma più una lettera aperta al buon Michele Rech, in arte "Zerocalcare", fumettista romano dal cui omonimo fumetto è tratto questo film di Emanuele Scaringi, presentato in anteprima a Venezia e ora nelle sale. Il lessico che verrà utilizzato qui di seguito rispecchia lo slang metropolitano creato/elaborato/amato da Rech per i suoi fumetti, contaminato dalla particolare cifra espressiva e immaginifica che emerge dal territorio in cui vive e dalle sue passioni. Per il miglior adattamento possibile di questo  "rebibbiano calcarese" mi sono fatto guidare da una persona che per questioni di privacy vuole essere menzionato come un ragno petomane.
Letterina. 
Intestazione: Caro Calcare, ma porcoddue!
Svolgimento: Calca', perdoname se te entro così in contropiede co 'sta pippa, quando poi nun te scrivo mai du righe per dà almeno l'impressione che me cago i lavoretti tuoi. È 'na mancanza brutta che nun se po' attribuì ad averce accolli e 'npicci vari e stai sicuro che a promuove la roba tua me ce dedicherò su questo blogghino quanto prima. Non perché "te sei t, ma pecche' c'hai per me un valore, t'empegni pe'facce ride come pe'facce ragiona' ( anche se co' Kobane t'empegni deppiu' pe'facce du palle), tieni er core in mano e se ce sta o spirito ggiusto nun te se po'vole' male, nun te se po'di' machittesencula. I ragazzetti poi te amano ed è cosa bona e giusta, come direbbe Gesù Cristo, che i ragazzetti vengano a te alle fiere, incagliandose in code 'nfinite pe' un disegnetto tuo. Te lo ripeto guardandote nelle palle dell'occhi, serio: Calca', c'hai un valore. Sai interpreta'la voce loro, di questi pischelletti 'n coda. È 'na voce che ancora nun sa' bene quello che vole e deve di' ar mondo, 'na voce che per cultura, come direbbe er grande Vin Diesel, c'ha solo i fumetti e i videogggiochi. 'Na voce che oggi in Italia, popo pecche' dei ggiovani, nun se incula nessuno. Ma 'na voce che accatta' il coraggio giusto attraverso i disegnetti tuoi, po riconoscerse in quarche cosa, po ispirasse. E non parlo de "potenziale futuro", de quando "conterei come Gipi". Parlo de quello che ce sta già dentro le piccole storie tue de vita vissuta, in attesa / sospesi come chi sta a Rebibbia, dentro e fuori. Ce hai fatto vede' i vicoletti invasi dagli zombie, ce hai fatto conosce i vicini rompicojoni, c'hai raccontato di quella bella ragazza che conoscevi da ragazzino, ce hai istituti sulla passione der Secco per lo spray ar pepe. Hai fanno "senti' a casa" pure quelli che a Rebibbia manco ci sono mai stati. Ormai tutti la sanno, la storia der Mammuth....È patrimonio genetico ed è er punto tuo,  alla voce "cultura", che lasci alle prossime generazioni, insieme alla voja de esse un po'dei bravi pischelli come te, come "er calcare". Che sei uno di cui ce se po'fida' lo si capisce da subito, quanno nei tuoi fumetti nun te rappresenti come Batman ma te disegni come uno regolare, "uno che puoi esse tu" sembri sta a dire. Uno curvo, un po'  'ncazzato, un po' depresso, un po' coi casini. Anzi così nei casini che a quelli je da un nome e ce combatte quasi, come i Warren coi fantasmi in The Conjuring. Ma comunque, pure coi casini, sei  uno ( o almeno "er tuo personaggio disegnato") che fa pe il suo territorio molto deppiu' del cojone vestito da pipistrello. Uno che crede nell'amicizia e nell'essere gentile coll'artri sempre, anche quanno per l'altri nun ne vale la pena. Uno che non se la tira in un mondo in cui se la tirano tutti. Uno che nei disegnetti, tra tante storielle divertenti, te piazza dentro il valore della Storia dei nonni, te parla di chi oggi sta in guerra, del bisogno de dare voce ai più deboli, perfino di quella roba enorme del "senso della vita.  Te lo ridico guardandoti nelle palle dell'occhi, senza alcun intento omosessuale: Zero, c'hai un valore. E lo Zero delle tue storie sei te. Anche se te schermi su sto fatto. Semplificato, edulcorato, "ispirato a fatti diversi", ma sei sempre te, più passano gli anni con sempre meno capelli disegnati sulla testa. Pure il disegnetto invecchia con te. Nel caso tuo nun se po' manco dire che i fumetti sono come i figli tuoi,  pecche' sei tu, te stesso, Michele Rech stesso, l'ometto protagonista di tutte le tue storie. 


E allora come fai a "vendere te stesso" ad un produttore de cinema? Come fai a di': "Lascio ad artri (magari che nun ce capiscono quanto te, perché nun c'erano) interpretare la mia storia"? Questo sei te! Te che vai ar cinema come fosse er film de Ghandi, porcoddue!! Come fai a dire: "Lascio ad altri, ognuno ha il mestiere suo"? Poi te vedo, girando su internet, che provi a fa i primi esperimenti di animazione delle tue storie e me girano... Ma se c'hai un'idea de animazione 'n testa, che domani te farà cresce l'attributi per realizza' un film tutto tuo come Gesù Cristo comanda, (con tanti animatori italiani che aspettano la pagnotta e sono in attesa della grande occasione della vita... il che dovrebbe ricredesti qualcosa mi pare...)..., che te l'ha prescritto er medico de affida' a du' sconosciuti, adesso, un film su de te e sul tuo fumetto più famoso? 
A conoscerte pe' le tue fisime e scleri, ampiamente documentati in tutte le opere tue, nun te ce vedo proprio ad anna' ar mercato a vennete 'n fijo. T'encazzi se te toccano 'o spazzolino da denti e dai a uno conosciuto in strada La profezia dell'armadillo dicendoje: "toh, facce er cazzo che te pare che io so superiore e rispetto la libera interpretazione altrui delle mie opere in modo totalmente democratico". Zero,  è troppo!! Manco San Francesco era tanto altruista e autolesionista ( e per me nella storia vera, che ce tengono nascosta i potenti, San Francesco finiva sbranato dar lupo... te lo dico così in confidenza, che c'ho un amico umbro che da generazioni indaga sulla cosa..). Dovevi staje cor fiato sur collo fin dalla preproduzione, magari provando poi a scoraggiare pure quella scoreggia di costume di armadillo che pare uscito dar film  dal vivo de Dragon Ball. Dovevi magari avere voce in capitolo sul casting, magari evitando per il tuo ruolo un pischello che più che te pare er bullo che te picchiava a scola (a Secco invece ja detto bene). Dovevi ricordaje che nun se po'parla' al cinema a macchinetta ultraveloce come nei dialoghi dei fumetti tuoi, che poi la gente nun capisce un cazzo (a meno che sei Oreste Lionello), se perde le battute e se irrita (er fumetto ha tempi de lettura diversi dal parlato comune e te lo sai). So stati bravi a inquadra' Rebibbia in 4K, do merito, ma è l'unica cosa imbroccata (insieme ar Secco). La storia non ingrana mai, non si ride quando si dovrebbe ridere, non si viene coinvolti emotivamente quanto invece te riesci a fare tutto con du' disegnetti stilizzati. Non so i casini produttivi dietro a 'sto lavoro, in rete ne ho lette di ogni. Nun ce vedo malafede ma mano maldestra si', ce vedo l'incapacità concreta di arriva' a tradurre bene in immagini il fumetto tuo. È un peccato che forse se ce stavi tu, come consulente/guida/cagacazzo der progetto, forse nun veniva fuori così. Ma forse non potevi fa' altrimenti. Te sei sentito timido de dire la tua (che è comunque un aspetto del carattere tuo, sempre stando ai fumetti tuoi), c'avevi altri accolli a cui pensare, magari eri nella situazione materiale di non poter decidere niente. Ad ogni modo 'sto film poteva essere diverso e io me lo sognavo come il Roger Rabbit italiano. Magari sarà per la prossima volta. T'ho scritto 'sto papiro perché la recensione solita nun te dava giustizia, nun faceva vede' perché Zero è per me patrimonio Unesco da tutelare insieme alla sua Rebibbia. Questo ti dovevo. Stamme beve e nun te scoraggia'. Al prossimo giro però cerca di esserce. Con affetto e i saluti der ragno petomane.

Il film in due parole: il film parla di Zero, un adolescente di Rebibbia che cerca il suo posto nel mondo. Ha per amico immaginario un armadillo parlante che spesso funge da voce della sua coscienza (in realtà è più complesso ma il film lo spiega), ha un amico un po' fuso, ha una storia triste alle spalle, davanti alla quale è tuttora impotente. Tra la vita di quartiere e le passioni di ogni adolescente nerd (ogni libro/film/disco citato è un invito alla fruizione da non perdere), tra una lezione di ripetizione per raccattare due spicci e le molte incertezze lavorative, qualche escursione nella "Roma fighetta" e un cumulo di divertenti/drammatiche paranoie, Zero forse troverà cosa fare da grande. 
C'è dell'impegno dietro la pellicola, ma il risultato non è all'altezza delle aspettative. La storia è slegata e sfilacciata perché sceglie di tradurre in modo "integrato" la struttura episodica del fumetto senza riuscirci (e in effetti era difficile da tradurre pari pari senza esserne l'autore). L'umorismo e il ritmo generale delle battute non rende e si fa fatica a seguire il tutto (e in effetti era difficile da tradurre pari pari senza esserne l'autore). Gli attori non rendono bene la "cifra caricaturale" dei disegni e non sono aiutati in tale senso dalla regia  (e in effetti era difficile da tradurre pari pari senza esserne l'autore). Non è che dovessero "per forza" essere caricaturali, ma uno stile vicino a Ovosodo di Virzì avrebbe avvicinato la pellicola maggiormente alla sua controparte stampata, aspetto che qui si avverte e sente poco. La profezia dell'armadillo è un manifesto devastante del "lost in translation". Mi verrebbe da citare quasi lo Spirit cinematografico di Frank Miller, ma quella è una pellicolaccia che amo per una perversione tutta mia, una guily pleasure che questo film non è e non vuole essere. C'è critica sociale, c'è divertimento, c'è spiritualmente (e ironicamente) nell'aria  l'Odio di Kassovitz come manifesto programmatico di una generazione di quartiere. Possiamo vedere una magnifica Rebibbia in 4K, ma  nonostante un interessante e ricercato stupore cromatico della stessa, nonostante i buoni spunti e il valore anche "sentimentale" che lega i fan all'opera originale, tutto questo non riesce a battere la Rebibbia caricaturale e ultra citazionista dei fumetti di Zero. Peccato. 
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martedì 18 settembre 2018

I fiori della guerra, di Zhang Yimou



1937, Nanchino. Siamo nel pieno dell'invasione giapponese quando in una chiesa cattolica compare un uomo misterioso di nome John Miller (Christian Bale), che dice di essere un prete ma non ne ha nessuno dei modi. Nella chiesa sono presenti alcune studentesse e presto si uniranno al gruppo anche delle ragazze del quartiere a luci rosse, tra cui la bella Yu Mo (Ni Ni). La guerra all'esterno continua a mietere vittime per le strade, mentre i pochi scampoli dell'esercito cinese ancora in vita, tra cui il maggiore Li ( Tong Dawei) fanno di tutto per salvare i civili. A seguito di un brutale attacco alla chiesa, la situazione sembra trovare un momento di pace, quando il colonnello Hasegawa (Atsuro Watabe) decide di voler assistere all'esibizione di canto delle collegiali. 
I fiori della guerra è un film sulla guerra, un film sulla società e un film sul contrasto tra realtà e apparenza. Tutti temi che in molti momenti della pellicola coincidono e si sovrappongono in modo originale, a volte "eroici", a volte inaspettati. L'abito che i protagonisti indossano come preti, come soldati, come studentesse e prostitute, rappresenta al tempo stesso una corazza e un limite alla definizione del loro mondo interiore. In una trama che si dipana in modo preciso quanto geometrico ogni personaggio segue un processo di ridefinizione del proprio ruolo sociale, cambiando d'abito quanto di stato d'animo.
Il regista Zhang Yimou negli ultimi anni ha in larga parte abbandonato il suo forte cinema di lanterne rosse e temi sociali, vissuto per lo più al fianco della sua musa Gong Li, contribuendo invece alla ridefinizione e valorizzazione dei film di cappa e spada, anche sul piano "intellettuale", che tra pugnali volanti e città proibite si è posto con un volto rinnovato e più attraente per i palati occidentali. Insomma, i tempi di Keep Cool sono finiti e come John Woo e Ang Lee prima di lui, anche il nostro benemerito Zhang flirta sempre più con Hollywood, facendosi al contempo ambasciatore culturale del suo paese e fautore di "operazioni amicizia" come il recente The Great Wall. Pace. Rimane inconfondibile il suo tocco, l'eleganza visiva e sonora, la straordinaria capacità di dirigere attori, non mancano graffianti e straordinari colpi da maestro (la sua Città proibita è per me puro teatro tragico shakespeariano nonché lo scenario di uno tra i più notevoli, spettacolari e giganteschi combattimenti wuxia di sempre) ma il "volemose bene" ha quasi preso il sopravvento. Qui invece accade meno in effetti. Yimou torna a parlarci di caste, di onore, di melodramma, torna a parlarci del mondo femminile con la ricchezza e sfaccettature che lo contraddistinguono, sempre alla ricerca del punto di contatto ideale per definirle tra "forza e bellezza". 


Tanto le interpreti delle studentesse che delle prostitute sono straordinarie, nessuna esclusa. Tutte diverse, tutte uniche, con una Ni Ni che svetta per eleganza e fascino diventando in breve il motore emotivo dell'intera pellicola (a qualcuno ricorderà Meggie Cheung di In The mood of love di Wong Kar-Wei, per il particolare modo in cui è inquadrata, abbigliata e per il suo modo di camminare). Personaggi che "il mondo maschile" non può che proteggere e ammirare, perché in difetto non può che mostrare il suo volto più mostruoso. La carica rivoluzionaria e femminista dell'autore non si è spenta quindi ed è rinata nella contemplazione di questi fiori della guerra. Come da sempre il cinema cinese ci racconta, non esiste alcuna pietà né onore per i soldati giapponesi responsabili dell'invasione. Mostri sporchi e crudeli, barbari nei modi e nelle forme, malvagi e senza Dio che personalmente faccio sempre fatica a sovrapporre con i soldatini ordinati, leali e immacolati dipinti dal cinema (e tanti fumetti) giapponesi. Fanno una dannata paura. Ma anche questo è un dato interessante nello scoprire le varie declinazioni geografiche del cinema. Bravo Christian Bale, che accoglie con tutta la sua intensità e capacità il ruolo del gaijin sulle orme già tracciate da Richard Gere per Kurosawa. Rivedendolo qui in un contesto orientale a cavallo della seconda guerra mondiale non si può che ricordarlo ai tempi de L'impero del sole, anche se la geografia/regia/età/contesto è differente. 
I fiori della guerra è una perla preziosa da recuperare in home video. Sa essere spettacolare e crudele nelle scene di guerra, sa essere intensa e profonda, senza cadere mai nel facile melodramma, nella rappresentazione del mondo interiore dei protagonisti, concedendo a ogni interprete il giusto spazio per esprimersi al meglio. Quest'anno Yimou è alla Mostra del Cinema di Venezia con Ying, un wuxia tratto dal celebre Il romanzo dei tre regni (se vogliamo Hero sempre di Yimou era già "sul pezzo" e riusciva a rendere Jet Li quasi un attore drammatico), presentato fuori concorso. Mi pare non sarà lontano da Kagemusha, sarà sicuramente spettacolare e probabilmente sarà meno "sociale" ma voglio già vederlo. Mi dispiace un po' che non concorra direttamente, ma non vedo l'ora. 
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venerdì 14 settembre 2018

Ant-Man and the Wasp: la nostra recensione



Sinossi fatta male: Dopo gli eventi di Civil War, Scott Lang, il piccolo Ant-Man interpretato da Paul Rudd (sempre bravo, quasi meglio del solito quando interpreta il personaggio di Michelle Pfeifer), è agli arresti domiciliari, passa il tempo davanti alla televisione, suona la batteria e crea mini-parchi-giochi in cartone lungo le scale e pareti domestiche per allietare la figlia Cassie (Abby Ryder Fortson). Il buffo poliziotto Randall (il buffo Jimmy Woo già visto in The interview di Rogen e Franco nel ruolo più assurdo di sempre) è l'agente addetto a far rispettare a Scott la misura di sicurezza, non sembra cattivo ma non perde mai di vista il segnalatore legato alla cavigliera del nostro eroe, aspettando ossessivamente solo l'occasione giusta per trovarlo fuori casa, allungargli la pena e fare carriera. Il vecchio Dottor Pym (Michael Douglas, sempre più mistico e ascetico, anche quando è fatto un computer grafica ringiovanente) e la figlia Hope (la bellissima, ma forse troppo perfettina, Evangeline Lilly) non vedono più Scott, né vogliamo più saperne di lui, per aver agito a loro insaputa per supportare Captain America, perso la tuta e in genere essersi comportato da fesso. Lo scienziato sta cercando un modo per recuperare dal mondo quantico la moglie Janet (Michelle Pfeifer, ancora travolgente, anche se impersonata in qualche scena dalla computer grafica ringiovanente e da Paul Rudd), sembra particolarmente vicino a una soluzione, ma gli manca della tecnologia per compiere l'impresa. Hope ha iniziato a indossare la super tuta di Wasp  e a frequentare brutti ceffi (Walton Goggins, ormai specializzato in ruoli da brutto ceffo, qui con una dose di impotenza e sbadataggine in più stile Willy Coyote) al fine di recuperare la tecnologia di cui sopra. Il simpatico Luis (Michael Pena, sempre più logorroico, mitragliante e protagonista) e il resto del vecchio gruppo di ladruncoli di Scott (i sempre spassosi T.I. e David Dastmalchian) si sta riciclando come società addetta alla sicurezza, con scarso successo e molti debiti, la ex moglie di Scott (Judy Greer), insieme alla figlia e Bobby Cannavale (sembra averne uno in casa) sembrano contenti, uniti e speranzosi per la fine della detenzione casalinga di Scott, prevista a una settimana scarsa. Ma c'è una nuova tizia mascherata in città, il Fantasma (la sensuale, disperata è pericolosa Hannah John-Kamen), che cercherà in ogni modo di rovinare a tutti i piani. 


Inaspettatamente, Ant-Man and the Wasp è un buon film: Vi confesso che del piccolo Ant-Man non ne avevo proprio più voglia dopo tutto il concentrato assurdo di supereroi, alieni, stregoni, mutanti, Battle -Royale  stile wrestling, battutone e battutine, pathos, roba colorata, effetti speciali e botti vari che è stato Avengers: Infinity War. Era un po' quei quasi due chili di peperonata della nonna, "che se non la mangi lei ci rimane male", che ti arriva nel piatto mentre sei ancora in bagno a vomitare il resto del cenone di capodanno più devastante dei cenoni di capodanno. Però alla fine quella peperonata la mangi, e in fondo sei contento di mangiarla, perché la peperonata della nonna ha sempre il suo perché. E se questo valeva per il primo Ant-Man, capita anche per questo sequel. Anche il primo Ant-Man capitava quando nessuno aveva davvero voglia di vederlo, dopo un'abbuffata chiamata Avengers: Age of Ultron, e sapeva conquistare con elementi semplici e genuini come la peperonata della nonna. La chiave vincente è sempre presentare un supereroe dotato di una abbondante dose di umorismo e autoironia, che vive tra le trame più spensierate della commedia per ragazzi anni '80 e suoi dintorni. Un po' di Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi, un po' di Salto nel buio, un tocco vintage da Viaggio allucinante (qui nel seguito ampiamente ripreso, anche visivamente, nella seconda parte), un po' di Ant-Bully che piace ai bambini, tutto condito con grandi dosi di humor e una spruzzata finale di psichedelia drogata anni '60, accompagnato da una spruzzata di old-fashion style di marca Michael Douglas. Un Michael Pena armato di battute surreali, una banda di tizi stralunati e irresistibili per creare atmosfere da heist-movie irresistibile, un cattivo da b-movie  di quelli che ci piace odiare ma così sfigato che fa simpatia, un cattivo che non è un cattivo, Evangeline Lilly che è sempre tanta roba. Nel secondo film è tutto raddoppiato come la formula vuole e tutto funziona meno bene come il botteghino prevede, ma ci si diverte. Sopra tutto e tutti svetta Paul Rudd, attore a cui non avrei mai dato una lira fino a che non ho visto il primo Ant-Man, che riesce a inventarsi un eroe non banale, non retorico, particolarmente scemo ma amabilmente umano. Evangeline Lilly come co-protagonista affascina, ha uno sguardo che ti stende, ma non riesce a definirsi abbastanza bene come personaggio. Ingiustificabile il fatto di nascondere il suo fisico da urlo dentro una tuta da supereroe amorfa e acarismatica, uno scafandro brutto come del resto quello che svilisce la Vedova Nera di Scarlett Johansson (forse una scelta di design necessaria per vendere i cine-fumetti anche nei paesi più perbenisti e bigotti, ma che annienta tutta la travolgente carica erotica delle eroine di carta Marvel). Ancora più ingiustificabile il fatto che il suo carattere non ci viene mai davvero presentato, relegando il suo ruolo al solo, pur lodevolissimo, menare le mani e fare acrobazie in modo figo. Michael Douglas e la Pfeifer ad ogni modo quando sono in scena si mangiano tutti, irradiando puro carisma. Sempre elegante ma un po' in disparte Laurence Fishbourne, criminalmente sottosfruttato il grande Bobby Cannavale, Michael Pena spiritoso ma forse troppo "carico". Come brutta tradizione Marvel, i cattivi non funzionano molto. Anche qui si intuisce il potenziale e l'impegno degli interpreti dei villain, ma è quasi se la cinepresa sia tarata per tenerli fuori dall'inquadratura il più possibile, concedendogli al più una scena di pathos e molte di troppe scene macchiettistiche.  Ma ormai è questa la formula Marvel e il film, come del resto gli altri dello stesso filone, comunque riesce al meglio nell'impresa di divertire e far passare un paio d'ore spensierate. Tra sparatorie, inseguimenti, formiche giganti e uomini formiche e tanto Michael Douglas, si riesce anche a ridere un po'. E non è una cosa brutta. 
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martedì 11 settembre 2018

Origin di Dan Brown - la nostra recensione



Il professor Robert Langdon (che nella mia testa non assomiglia per niente a Tom Hanks con un brutto parrucchino in testa, ma piuttosto a un Lima Neeson cazzuto primi anni 2000) è di nuovo in circolazione, insieme al suo inseparabile orologio da polso di Topolino, in giro per il mondo a fare turismo action, a metà strada tra 007 e Piero Angela (che è molto più action del figlio Alberto, raccomandato e antipatico). La meta della nuova avventura è il museo di arte moderna Guggenheim di Bilbao, dove un suo ex studente, un genio dell'informatica più figo, ricco e famoso di Steve Jobs, lo ha invitato per un evento esclusivo in cui riferirà al mondo di una sua epocale, straordinaria rivelazione scientifica, qualcosa in grado di cambiare per sempre la percezione della storia passata, presente e moderna,  rispondendo a domande secolari che attanagliano l'uomo, nelle millenarie notti più insonni, come "da dove veniamo?" e "dove andiamo?". Il genietto è uno che non scherza, uno che fa i soldi, capisce di spread ed economia, conosce la Tailandia e legge probabilmente Martin Mystere. È uno che conosce tutto ed è esperto di tutto, uno le cui previsioni sul futuro dell'umanità si sono sempre rivelate vere (anche se Dan Brown non ci spiega cosa abbia mai rivelato di particolarmente eclatante per l'umanità). Uno insomma che, per tutto quanto sopra esposto, risulta da subito al lettore medio così antipatico e spocchioso che quando muore malissimo, dopo le prime pagine del romanzo, a causa di un misterioso attentato, provvidenzialmente orchestrato prima della fantomatica rivelazione al mondo, alla fine non ci frega nulla. Ma a Robert Langdon, il nostro amato turista/action che nell'ultimo libro ci ha convinto che è tipico nella mattina del 2015 a Firenze intrattenersi con lampredotto e caffè, frega. Certo come sempre "frega quanto basta", perché nella sua caccia alla verità nascosta dell'amico sulle strade di mezza Spagna si perderà come suo solito a contemplare la bellezza di ogni chiesa/quadro/scultura/piastrella che incontrerà lungo il suo cammino, soffermandosi soprattutto su roba che non serve a una minchia per la storia. Storia di stampo prettamente internettiano/gossipparo/social/proto-fantascientifico che alla fine dei conti Dan Brown affronta con la verve e agilità di un ottantenne che scopre nel 2018 l'esistenza di internet. Non mancano comunque spunti interessanti e ribaltamenti di trama che alla fine, bisogna dargli merito, rendono la storiella nemmeno così banale. Ci si diverte nella lettura? Un po', ma per lo più ci si rompe le palle. Tutto l'intreccio si focalizza sul recuperare e divulgare il fantomatico "annuncio rivoluzionario per la storia dell'umanità", con continue situazioni create ad hoc per ritardarne lo svelamento che nella maggior parte dei casi paiono artificiali e forzate fino al ridicolo. E mentre il lettore si irrita sempre di più davanti alla pochezza con cui la matassa è gestita, Brown senza pietà infarcisce di descrizioni pittoriche, citazioni letterarie, aneddoti divertenti sul simbolismo e sulla vita dei professori di Harvard. Inutile anticipare, pur non rivelando alcunché, che infine saremo anche noi a conoscenza della "straordinaria scoperta scientifica definitiva sulla storia dell'umanità", ricavata dallo scrittore sulla scorta di autorevoli studi scientifici reali e bla bla bla, che arriverà al lettore tra le ultime pagine di un tomo infinito. Pur non aspettandoci chissà cosa, il libro su questo ruota, un po' di curiosità sale e l'astio per Dan Brown si paleserà inevitabile quando la rivelazione si mostrerà come la più strabiliante e banale cagatina immaginabile. Ed è qui che Dan Brown ha un colpo da maestro e sposta in Focus narrativo su un nuovo punto di vista che riesce incredibilmente a salvare il salvabile e chiudere dignitosamente il volume.
Dan Brown è lettura da ombrellone e riesce in pieno anche in questo volume, forse non il suo più riuscito, a intrattenere tra inseguimenti e chicche sul mondo dell'arte. Come per altri sui libri, fa venir voglia di andare a vedere di persona le opere d'arte che Langdon incontra durante le sue avventure, assaporare i profumi dei luoghi e immergersi tra il brusio della folla. Anche per chi non può permettersi di viaggiare e di è fatto l'estate a casa, i libri di Dan Brown sono un interessante palliativo e riescono in qualche modo a trasmettere la sensazione di trovarsi in gita per il mondo, seguendo insieme al solito gruppo di immancabili giapponesi una guida simpatica e affascinante, in grado di tenerci svegli con qualche fuoco d'artificio. Oltre non si va, ma se vi siete divertiti con gli altri libri di Dan Brown questo sarà sicuramente capace di intrattenervi.
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mercoledì 5 settembre 2018

A quiet place di John Krasinski: la nostra recensione del nuovo fenomeno horror prodotto dalla Platinum Dunes di Michael Bay



Siamo in un futuro quasi - apocalittico prossimo venturo, siamo nella campagna americana più rigogliosa e abbagliante, ma non c'è nell'aria nessun rumore, tutti zitti. Manca la presenza umana e tutto sembra distrutto, devastato e lasciato di nuovo nelle mani della natura, che ricopre ogni cosa di prati. All'improvviso zampettano a piedi nudi verso un supermarket desolato, ma ben fornito, i membri di una piccola famigliola di homo sapiens. Si muovono di soppiatto, cercando di evitare anche il più minimo rumore, comunicando con il linguaggio dei segni. Presi medicinali e provviste sono già fuori, in silenzio, lungo i binari di un ponte ferroviario immerso nel verde, quando ecco che il più piccino del branco accende un giocattolo che fa buffi suoni. La famiglia allibisce e il capo branco si lancia verso il cucciolo più piccolo che ha appena destato il predatore, il nuovo eletto al vertice della catena alimentare terrestre, una creatura mostruosa, corazzata, veloce e implacabile. Un essere forse cieco, che caccia e uccide richiamato anche dal più piccolo dei rumori. E ce ne sono tanti in giro, hanno sterminato quasi tutti gli umani, e sono sempre in ascolto, in agguato. La famigliola prosegue in silenzio, dopo non essere riuscita a fare niente per il suo membro più piccolo, diretta alla loro bella e desolata abitazione tra il verde. Aspettando il nuovo giorno cercando nuovi modi per sopravvivere. Con la figlia maggiore che si sente sempre più arrabbiata, impotente e sola, con il figlio sempre più impaurito, pietrificato. Con un padre che in cantina, tra mille carte e attrezzature, cerca risposte a come riuscire a combattere, mentre la madre già teme che il figlio che nascerà da lì a pochi giorni non potrà fare altro che aprire gli occhi piangendo. In quel momento i predatori si accorgeranno di loro e arriveranno in branco a ucciderli senza pietà in pochi istanti.


Ci sono pochi film che giocano con la tensione come A quiet place. È un film praticamente muto, accompagnato in sottofondo da bisbigli e rumori ambientali che presagiscono esplosivi sonore dolorose e terrorizzanti. È un film intelligente, che affida ai suoi personaggi, per sopravvivere in questo mondo dove loro sono prede, dei codici comunicativi e comportamentali unici, credibili ed efficaci. È un film sulla famiglia e sul senso di sacrificio, che indaga sul significato profondo dell'essere genitori seguendo il mantra: "A cosa serviamo noi, se non possiamo proteggere i nostri figli?". 
A quiet place è una piccola bomba, un istant classic che muove dal film di genere, quasi un home invasion molto tipico degli Horror moderni, per andare più in alto, in cerca di nuove aree semantiche ed espressive con cui arricchire un'esperienza cinematografica. Qualcosa di nuovo e al contempo così "primitivo", viscerale, da coinvolgere subito lo spettatore, da stregarlo fino quasi ad obbligarlo, come i protagonisti della pellicola, a stare recluso nel silenzio assordante di una sala cinematografica piena di gente. Tutti partecipi, tutti a orecchie tese nel carpire i rumori prodotti per caso dall'incedere di creature che si muovono guardinghe, a muscoli tesi e zanne implacabili, nel buio o nascoste nella vegetazione. Che siano nati i "Silent movie"?
Visto il successo planetario della pellicola, la produzione, nel dubbio, ne ha già prenotato un seguito, tenendosi stretta nella produzione il suo principale artefice, il bravo John Krasinki, attore, sceneggiatore e regista nonché marito reale di Emily Blunt, splendida e intensa co-protagonista di questa pellicola. E non sono da meno i piccoli Noah Jupe, Millicent Simmonds e Cade Woodward, che interpretano il resto della allegra famigliola. Senza jumpscare, niente risvolti di trama forzati, niente esagerazioni, A quiet place è una costruzione perfetta e oliata, bilanciata in ogni sua parte e dalla quale si riesce a fatica a staccarsi. Un piccolo gioiello che gioca, con regole sue, in un immaginario filmico che potremmo accostare a Monsters di Edwards, a 10Cloverfiel lane di Trachtenberg, The mist di King/ Darabont, Signs di Shyamalan. Tutti film carichi di thriller ma in qualche modo incentrati sui rapporti umani, che diventano il fondamento e la ragion d'essere delle pellicole. Mentre se amate i videogame non potrete che sentirvi durante la visione dalle parti post apocalittiche di un Metro o di Last of Us
Vi consiglio una interessante doppia visione per una serata, A quiet place e The Witch. Sono film diversissimi ma quasi complementari, lo specchio/opposto l'uno dell'altro come lo Yin e lo Yang. Entrambi film incentrati su piccole famiglie inchiodate a piccoli mondi rurali strani e pericolosi. Famiglie che agiscono e pensano in modo diverso, che vivono dinamiche relazionali forti, ma che stanno entrambe li, sul confine, tra le mura di una casetta e il resto del mondo, con dei cuccioli indifesi da salvare da mostri (il mondo) che si annidano nel buio come tra le dolci spighe di un campo di grano. Due film su come può agire la natura umana quando viene spinta verso i pericoli più estremi. Due pesi massimi del genere thriller entrambi da recuperare. Poi fatemi sapere a fine visione se l'idea vi ha stuzzicato. 
Buona visione. 
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lunedì 3 settembre 2018

Skyscraper - la nostra recensione di un film davvero troppo "rockesco"



Sinossi fatta male: The Rock interpreta uno dei più fighi super-poliziotti FBI al mondo, ma anche il peggior negoziatore di ostaggi al mondo. Cercando di convincere il suo migliore amico a non suicidarsi, The Rock fallisce e quello, imbottito di tritolo, disintegra il quartiere. Con gente morta e sfigurata male per tre quartieri, The Rock, che è quello che se se la cava meglio di tutti, perde parte del polpaccio, tibia, perone. Come extra di fortuna, il nostro incontra in sala operatoria come medico Neve Campbell, che diventa la donna della sua vita e con cui figlia pure. Passano degli anni, uno dei colleghi di The Rock rimasto non morto ma comunque sfigurato male da quell'incidente gli propone un posto da responsabile alla sicurezza di un palazzone futuristico creato da un eccentrico e misterioso architetto miliardario (Chin Han, il Togusa del live action di Ghost in The Shell). Il palazzo si chiama "La perla", come il 70% delle pizzerie, perché in cima alla costruzione ci sta una specie di palla gigante. Nome laido a parte, La perla è un palazzo bio-sostenibile, ultra cool, fashion, hi-tech, c'ha dentro i centri commerciali, hotel, sale meeting, saune, piscine e, per non farsi davvero mancare nulla, una cacchio di cascata gigante interna stile Niagara, con rocce, strapiombi e acqua Perrier. Dettaglio, sta ad Hong Kong. Così Rock e famigliola, con la moglie che mastica bene l'hongkongese perché è una super dottoressa / soldato poliglotta internazionale, genio, patrimonio Unesco e bla bla bla... si trasferiscono nel palazzone. Prima dell'apertura dei piani alti della struttura, secondo il commilitone sfregiato, The Rock, come responsabile della sicurezza infrastrutturale del calibro dei più grandi geni della architettura moderna, dovrà osservare e garantire che tutto vada bene, analizzare roba complessa e in parte mai vista per tecnologia dal resto del genere umano e infine firmare le classiche carte "è tutta colpa mia" nel caso succedano casini e l'assicurazione debba prendersela con qualcuno. Mezz'ora dopo la firma del rapporto, quando The Rock certifica che secondo i suoi standard "tutto va bene", il palazzo si riempie di terroristi dell'est Europa e inizia a scoppiare tutto. La famigliola è nello stabile e in pericolo, The Rock è a piede libero, credono sia il responsabile e cercherà di arrivare ai piani alti del palazzone tra inseguimenti, sparatorie, intrighi e una scalata di mezzo chilometro appeso all'esterno di una gru che farebbe soffrire di vertigini Donkey Kong.


- Dizionario alla voce "rockesco". Dopo il "petaloso" di qualche tempo fa è ora che un nuovo importante neologismo venga accolto nei dizionari di lingua italiana: "rockesco". Nel senso di "azione che farebbe solo l'attore Dwayne Johnson, in arte The Rock", oppure nell'accezione di "roboante stronzata che sorprende, ma subito irrita alla visione e fa sperare per la giusta morte di chi prova ad intraprenderla, per giustizia divina". The Rock è "oltre". A livello fisico, a livello psicologico, a livello intellettivo e comportamentale l'ex wrestler di Samoa è il "troppo incarnato". La mia sospensione dell'immaginazione lo sa. In genere, quando sono seduto al cinema o sul divano e il nostro si inizia a esprimere in modo "rockesco", lei prende e va in bagno. Una volta ero a casa di amici a vedere un film di The Rock e la mia sospensione dell'immaginazioni ha chiesto al padrone di casa dove si trovava il bagno, ha ringraziato dell'informazione e si è diretta lì senza che io me ne accorgessi. Con questo film del palazzone è però sbottata, perché anche a lei piace vedere un film e in questo caso è dovuta stare in bagno dall'inizio alla fine. Superman è realistico, Freddy Kruger è realistico, Peppa Pig è un documentario sulla vita dei suini, ma The Rock in questo film no, The Rock è l'eroe di film che si proietterebbe nella realtà parallela ultra - esagerata del film Last Action Hero con Schwarzenegger, e lo Schwarzenegger stesso di quella realtà parallela ultra-esagerata considererebbe questo The Rock troppo esagerato. È indistruttibile, con un arto artificiale dal quale, alla faccia degli invalidi veri, da un momento all'altro immagineremmo che possa fuoriuscire un lanciamissili cybernetico. In ogni azione è poi più melodrammatico di Mario Merola e il fatto che il suo personaggio non canti è un'idea che prima o poi si sfrutterà di sicuro. È solo contro tutti ma il mondo è con lui, nessuno che si confronti davvero con lui al punto che sembrava quasi che il resto del cast sia in scena, seduto pure lui come noi al cinema, a guardare il One man show del Samoano. E dire nei suoi precedenti film The Rock, quando era lì lì sul baratro, tra l'altamente improbabile e l'assurdo, poteva pure convincere, anche solo con una alzata di sopracciglio. E dire che in Jumanji mi aveva convinto e mi aveva quasi commosso, interpretando un ragazzino nel corpo di un gigante. E dire che poteva vincere (e doveva vincere per me) un Oscar come migliore attore... in un film di Michael Bay!!!! Qui no. Di conseguenza questo film del palazzone, girato da un regista che non ho voglia di ricordare, è sullo stesso piano o quasi di quel bruttarello Rampage, con un The Rock che "fa cose" nel modo più esagerato e inumano possibile, sfoggiando conoscenze e curricula tanto fantasiosi quanto improbabili, mentre lo spettatore assiste alla messa in scena di un videogioco, invero noiosetto e ridondante,  con un protagonista che, per contratto, non può perdere, mai. A tratti la nostra memoria filmica va dalle parti di Inferno di Cristallo e Trappola di Cristallo, perché questo "film del palazzone" da ambo le pellicole pesca copiosamente e disordinatamente. Ma siamo lontani tanto dalle lamiere e fuoco del disaster movie, che dai piedi infilzati di schegge di vetro e gli hippy ya ye del miglior film di Natale di sempre. Il palazzone c'è ed è ben realizzato ma "non incombe", non "pesa" sullo spettatore come dovrebbe, non trasmette la cattiveria e ineluttabilità ancestrale della torre di Babilonia pronta al crollo che evidentemente volevano dargli fin dalla prima bozza. È alla fine un palazzone vuoto, un palazzone finto, un palazzone che per garbugli di sceneggiatura poco ispirati e sensati entra a far parte di un intrigo confuso e poco attraente. La confezione in qualche modo salva la resa finale, molte scene d'azione sono carine. Il cast, per lo più di Hong Kong, svolge al meglio i compiti e anche Neve Campbell e "il bambino" sono personaggi meno scontati del prevedibile. Ci si può divertire in sala, sia chiaro. Ma come spettatori potreste non sentirvi davvero lì, sulla scena, al fianco dell'eroe, perché tanto, ormai sappiamo, vincerà tutto e tutti anche senza il nostro tifo. L'umanità del mitico Sansone sembra fosse legata a un taglio di capelli. Forse è tempo che The Rock cambi look passando da Cesare Ragazzi. 


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