giovedì 29 dicembre 2022

Avatar - la via dell’acqua: la nostra recensione dell’attesissimo nuovo capitolo della saga cinematografica fantasy/sci-fi di James Cameron

 


Sinossi: tredici anni dopo le vicende della prima pellicola siano di nuovo sul pianeta Pandora, a seguire le vicende del popolo Na’vi contro gli invasioni del “popolo del cielo”. Dopo la cacciata degli invasori terresti da Pandora c’è stato un lungo periodo di pace, con l’avatar ex-Marine Jake Sully (Sam Worthington) e la na’vi Neytiri (Zoe Saldana) che hanno messo su famiglia e adottato anche una piccola nata dall’avatar della dottoressa Grace (Sigurney Weaver) e un misterioso ragazzino umano. Jake è ora a capo del suo popolo e cerca di conciliare come meglio gli riesce i compiti di leader militare e di genitore. Tra i due fratelli più grandi viene a instaurarsi un legame non dissimile da quello che legava Jake e il suo fratello gemello, con uno che si sente un po’ la pecora nera della famiglia. Il padre guida entrambi in un percorso di crescita, insegnandogli a cacciare e diventare adulti, mentre Naytiri ha un po’ dimesso gli abiti della guerriera per quelli della madre amorevole. Ma l’equilibrio si rompe con il ritorno del popolo del cielo, tra le cui fila milita anche il clone-Avatar del terribile colonnello Miles (Stephen Lang). La famiglia di Jake sembra presto essere il principale bersaglio di Miles e del suo esercito personale di Avatar-marines e Jake e i suoi saranno costretta a lasciare la foresta che è sempre stata la loro casa per fuggire altrove, magari trovando momentaneo rifugio presso i Na’vi del popolo dell’acqua: un popolo con cui finora non hanno avuto molti rapporti e in cui pure il corpo appare più simile a quello di esseri acquatici rispetto a quello di un primate. Tuttavia anche gli invasori sembrano interessati al popolo dell’acqua per via di una miracolosa sostanza che si può ricavare dalle creature, simili a balene e megattere, che vivono in quelle terre. Sarà forse l’inizio di una nuova guerra. 

 


La personale “Via dell’acqua” di Cameron:

C’era una volta James Cameron. Un tredicenne, figlio di un ingegnere, che dopo una lezione del liceo sui fondali sottomarini scrisse di getto una sceneggiatura, su degli scienziati che venivano in contatto con una civiltà extraterrestre che viveva in fondo al mare. Divenuto un quasi laureando di fisica, nutrendo all’epoca infinite passioni che spaziavano dalla fantascienza alla filosofia e ovviamente ricomprendevano ancora i mondi sommersi, un giovane Cameron del 1977, folgorato dalle Guerre Stellari di Lucas, sognò di diventare anche lui un regista cinematografico. Avrebbe fatto quello “da grande”, cioè da lì a un anno circa, realizzando i migliori film con gli effetti speciali possibili. Nel 1978 grazie solo alla sua fortissima convinzione, spinse un consorzio di dentisti californiani a produrgli un cortometraggio, scritto e diretto da lui, ambientato nello spazio e a base di alieni: Xenogenesis. Quel lavoro piacque molto a livello visivo al produttore Roger Corman, che volle Cameron agli effetti speciali prima nel 1980, per il divertente I magnifici sette nello spazio e poi nel 1981, per quella follia camp de Il pianeta del terrore. Ma Cameron piaceva molto pure a John Carpenter, che lo volle sempre nel 1981 sul set ad aiutarlo per il leggendario 1997: fuga da New York e sempre in quell’anno Cameron interessò tantissimo al cinema italiano, che lo avrebbe fatto debuttare alla regia con il b-movie Piranha Paura. Un film ambientato sott’acqua come lui aveva sempre sognato dal liceo. Solo che con Piranha Paura le cose non andarono benissimo e presto Cameron venne licenziato, si dice proprio per la poca dimestichezza con i set ambientati sott’acqua. Fu un duro colpo per quella carriera già partita in modo folgorante: “l’acqua lo aveva fregato”, ma Cameron non si arrese e giurò che da grande avrebbe fatto i migliori film con gli effetti speciali ambientati sott’acqua. Così, per fregio. Ma prima “della rivincita sull’acqua”, la leggenda dice che il grande regista ebbe una intossicazione alimentare (forse dovuta a una frittura di pesce? Era sempre la “maledizione dell’acqua”?) sul set di Piranha Paura, in seguito alla quale fu ricoverato in un ospedale dove, in una notte da incubo, sognò “il Terminator”. Una macchina-soldato invincibile proveniente dal futuro e che sarebbe diventata il soggetto della sua prima pellicola da regista, nel 1984. Sembra che per convincere i produttori a girare Terminator, Cameron abbia vestito/truccato da Terminator il suo amico e attore Lance Henricksen, facendolo irrompere nella casa di produzione durante la presentazione del progetto, armato di mitragliatori, occhiali neri e giubbotto in pelle, provocando svariati buffi infarti. Con un budget risicato ma ottimi effetti di trucco/visivi, una trama cupa quanto esaltante e una interprete eccezionale come Linda Hamilton, Terminator piacque, incassò, fece decollare la carriera di Arnold Schwarzenegger con buona pace dì Henricksen che non ebbe la parte, e spinse Cameron nel 1985 a puntare di nuovo sulla storia di un’altra macchina-soldato invincibile, scrivendo la sceneggiatura di Rambo 2 la vendetta. Lo scritto però non piacque a uno Stallone che sembra abbia riscritto tutto da capo da solo, di notte, trasformandolo nel razzie award per la peggiore sceneggiatura di quell’anno, che fu accreditato ovviamente pure a Cameron. Cameron era triste di nuovo ma di lì a poco, sempre in quel 1985, l’oceanografo Robert Ballard scoprì il relitto del Titanic e il regista iniziò ad appassionarsi a quella storia e ritornò all’idea di realizzare un maestoso film ambientato sott’acqua come in quel racconto che aveva realizzato ai tempi del liceo. Era il 1986 e un Cameron con “ancora addosso” il successo di Terminator come ottimo biglietto da visita, ci riprovava. Tornava alla regia con un film dal budget non troppo alto, ma che contava di meravigliosi effetti visivi, che parlava di alieni come il suo primo cortometraggio, quanto di macchine-soldato invincibili, sia in campo di supersoldati che di Terminator. Era il fantascientifico, orrorifico, bellico e satirico Aliens - Scontro Finale, seguito di Alien di Ridley Scott: un film subito cult che avrebbe “anticipato tematicamente e cinematograficamente” un adattamento del romanzo Fanteria dello Spazio del 1959 (quanto ispirato la serie di giochi di ruolo con soldatini Warhammer 40000), avrebbe avuto per protagonista una ottima interprete come Sigurney Weaver e avrebbe permesso all’amico Lance Henricksen di recitare più o meno in un ruolo da Terminator. A livello di fantascienza, oltre alle basi spaziali, gli alieni e i robot, c’erano nel film vari velivoli militari hi-tech e pure degli esoscheletri con braccia meccaniche simili a quelle dei sottomarini impiegati nell’esplorazione oceanica. Fu un clamoroso successo che spinse gli stessi produttori entusiasti della Fox, nel 1989, a commissionare a Cameron una nuova pellicola piena di tanti effetti speciali, veicoli strani e ambientazioni fantasiose, tutta ad ambientazione acquatico/fantascientifica: The Abyss. The Abyss, che riportava nel cast anche un attore-feticcio di Cameron come Michael Biehn, qui nell’inedito ruolo di “cattivo con i baffi”. Fu un autentico calvario produttivo. A partire dalla volontà di far fare il corso di sub a tutto il cast e maestranze per poi girarlo alle Cayman (prime prove tecniche di sonoro, poi cassate), poi cambiare idea e girarlo alle Bahamas (troppe tempeste), poi cambiare tutto e girarlo allagando una centrale nucleare in Carolina del sud. Ma a posteriori fu uno dei suoi film più amati e stimati. C’erano gli alieni, i militari, tanti sottomarini come quello di Ballard che aveva esplorato il Titanic e naturalmente mini-sottomarini con braccia meccaniche per espirazione oceanica e addirittura progettazioni di super-hi/tech-basi a più livelli e trivellatori sottomarini. Ma Cameron, senza contare gli enormi passi in avanti che fece fare alla computer grafica per la creazione da zero di alieni “liquidi”,  oltre a tutto questo arsenale di modellini verosimili di veicoli e strutture futuribili per Abyss, aveva pure immaginato una tecnologia semi-scientifica sperimentale per dotare i sommozzatori “dell’ossigeno liquido”, necessario per l’esplorazione delle fosse oceaniche per evitare l’esplosione delle bombole tradizionali per l’alta pressione. Cameron ci credeva sempre di più nello studio del mondo sommerso in tutte le sue componenti e non era più per lui solo fantascienza, pareva che volesse andarci di persona sott’acqua, nella fossa delle Marianne. Nel 1991 Cameron tornava al suo cyborg del cuore con Terminator 2, sviluppava la sua compagnia di effetti speciali cinematografici Digital Domain, ma non si allontanava troppo “dall’acqua” e scriveva e produceva lo stesso anno pure un film sui surfisti per la regia della sua nuova compagna Kathryn Bigelow: Point Break. Surfisti con il volto di Keanu Reeves e Patrick Swazie che per permettersi di vivere solcando le onde a più non posso erano rapinatori di banche, ma anche un po’ filosofi e un po’ santoni: degli hippie 2.0 per i quali l’incontro con le onde e in genere con la natura, attraverso gli “sport estremi”, era una esperienza mistica, fusionale e trascendente, simile a provare la ayahuasca. Una trascendenza che è alla base anche del successivo film della Bigelow: Strange Days, con Ralph Fiennes, Juliette Lewis e Angela Bassett. Un film anche questo realizzato in collaborazione con Cameron. Un film thriller sci-fi su una tecnologia virtuale che permetteva (attraverso una apparecchiatura che si connetteva con la corteccia cerebrale) di rivivere le esperienze di vita di un’altra persona. Il film si apriva con una scena (che verrà in qualche modo ripresa in Avatar) in cui un uomo sulla sedia a rotelle riusciva, proprio attraverso a questa tecnologia, a provare la sensazione di correre su una spiaggia con le proprie gambe. Un film in cui le “esperienze forti”, come quelle da sport estremo, si “vendevano”. Quella magia futuristica poteva far sentire chiunque come gli scavezzacollo di Point Break, bellissimi e atleticissimi, e concettualmente per Cameron poteva essere molto simile come esperienza al “futuro del cinema”, solo che all’epoca il cinema non era dotato di una tecnologia che permettesse una immersività nella scena e nei “panni dei protagonisti” di quella portata. Per questo, almeno per il momento, Cameron doveva saperne ancora di più sul concetto di “immersività“ e non c’era forse modo migliore che “immergersi di persona nel 3d oceanico”. Dopo i piranha, gli alieni sottomarini e i trivellatori hi-tech di Abyss, i surfisti filosofi di Point Break e i “viaggiatori spirituali” di Strange Days, era giunto per Cameron il momento di andare in mare direttamente lui. Nel 1997 sempre la Fox produceva per Cameron Titanic, uno dei film di maggiore successo della storia del cinema, premiato da pubblico e critica con centinaia di ore di repliche e mille riconoscimenti, nonché l’occasione d’oro per il cineasta di approfondire maniacalmente la tecnologia di Ballard che dal 1985 permetteva l’esplorazione del fantomatico relitto. Nel documentario Ghost of the Abyss del 2003 Cameron affrontava ancora più nello specifico la storia dell’affondamento del Titanic, senza tirare in ballo questa volta Leonardo di Caprio. Nel 2005 nel documentario Aliens of the deep, Cameron insieme a dei membri della NASA arrivava a esplorare una catena montuosa sottomarina con un sommergibile le cui specifiche sono state elaborate da idee di James Cameron stesso. Il ragazzino che al liceo aveva scritto un racconto sugli alieni che vivono in fondo al mare stava andando in cerca di creature rare negli abissi oceanici, su un sommergibile fatto da lui, dopo essere diventato uno dei registi cinematografici più influenti e pagati al mondo. Un po’ come Leonardo Da Vinci, per qualcuno. Quel mondo marino misterioso e in gran parte inesplorato ispirò nel 2009 il mondo di Pandora protagonista di Avatar. Un mondo che Cameron creò pezzo per pezzo, fin dal più piccolo dettaglio, insieme a un plotone di scienziati esperti di flora e fauna, dai muschi alle pietre fluttuanti. Un mondo alieno ma se vogliamo molto simile a una visione del nostro mondo, se vivessimo in maggiore armonia e equilibrio con la natura e gli effetti speciali. Un mondo dove dei grandi alberi fungono da “coscienza collettiva trascendente”, che collegano la dimensione dei vivi a quella dei morti. Un mondo in cui il legame tra umani e animali è suggellato a livello spirituale quanto fisico da collegamenti neurali. Un mondo che sembra l’America dei pellerossa al momento dell’invasione “ultra-tecnologica” dei cowboy. Un mondo al quale è possibile accedere solo attraverso dei “corpi” altrui, attraverso una tecnologia sci-fi, ma che al cinema più essere goduto al meglio per mezzo di una ulteriore e specifica tecnologia 3d, studiata sempre da Cameron con la creazione di macchine da prese ad hoc, che proprio da Avatar ha iniziato a farsi largo nelle sale (anche se dopo poco per costi e un livello tecnico non sempre pari ai lavori di Cameron è un po’ uscita di scena). Nel primo Avatar l’acqua non era la componente principale del film, ma in questo La via dell’acqua del 2022, 13 anni dopo il primo film, ci possiamo immergere in un nuovo mondo sottomarino alieno pieno di colori e stranezze. Godere di questa pellicola in una sala cinematografica dotata del meglio della tecnologia 3D e Audio è una esperienza unica che offre davvero un nuovo livello di interazione e coinvolgimento con lo schermo cinematografico. Non male per un regista licenziato al primo film perché non abbastanza bravo a dirigere un paio di scene sott’acqua in un horror low budget. 

 


Avatar secondo atto:

Avatar torna nelle sale con un comparto tecnico impressionante, offrendo una delle esperienze cinematografiche più interessanti e avvolgenti che una sala in 3d può oggi offrire, specie dopo il lungo periodo in cui tale tecnologia è sembrata cadere in disuso. È un film poderoso nelle sue oltre tre ore di durata, ma che riesce a ripagare il pubblico con una storia di ampio respiro, descrive uno sviluppo armonioso del legame tra uomo e natura, riesce a cogliere con particolare cura e leggerezza la natura sottile e speciale dei rapporti tra genitori e figli. L’atmosfera calda e rarefatta, unita alla brillantezza dei colori e all'armonia trascendente della partitura orchestrale della colonna sonora, avvicinano esteticamente La via dell’acqua a pellicole di Malick come La sottile linea rossa e L’albero della vita. Sul piano dell’azione La via dell’acqua omaggia in un fresco e originale modo fantasy, carico di ingegnose soluzioni visive, gli inseguimenti al treno e gli scontri tra indiani e cowboy del genere western, quanto le avventurose e tese cacce alla balena del più celebre romanzo di Melville. La cinematografia e lo stile di Cameron sono onnipresenti ed è molto facile seguire tracce di stile che ci portano tra gli esoscheletri e marines di Aliens Scontro Finale, come tra i “drogati dell’azione” di Point Break, tra le creature marine luminose di Abyss, in mezzo a enormi navi e “astro-navi” che colano a picco, rompendosi dall’interno e allagandosi come in Titanic. Nel personaggio di Stephen Lang, come nella prima pellicola, ci sono un po’ delle tracce del Terminator di Schwarzenegger, il Jake di Worthington ci ricorda  il Kyle Reese / il caporale Hicks di Michael Biehn e in Zoe Saldana scorre un po’ di Sarah Connor e Ripley. Cameron gioca narrativamente con gli archetipi (nel primo Avatar c’erano echi di Pocahontas, non a caso come ne Il nuovo mondo di Malick), scegliendo di partire da personaggi all’apparenza semplici per poi costruirli in modi anche piuttosto interessanti intorno a temi come la paternità, il ruolo sociale e la necessità di venire a contatto con persone che appaiono diverse per cultura quanto per “forma fisica”. Jake e Miles nello specifico vivono durante il film molte esperienze speculari che li rendono più interessanti e strutturati di quanto accadesse nel primo film. Ma ciò che alla pellicola riesce al meglio è di farci tuffare per tre ore in un mondo davvero unico e alieno, in un viaggio che è prima di tutto sensoriale piuttosto che narrativo, mettendoci a contatto con creature digitali fantasiose quanto internamente coerenti, immergendoci in fondali oceanici ricolmi di pesci colorati e fosforescenti e facendoci volare sulle ali di creature anfibie simili a pesci volanti. Seguendo una tavolozza visiva a tinte contrastate quanto abbagliante che ci rimanda alle tavole di Moebius quanto di Vicente Segrelles, quanto all'arte grafica digitale di Martin Edmondson per i Reflections. Un autentico spettacolo visivo.


Conclusioni: Avatar torna nelle sale con un film bello lungo ma pieno di azione, spunti, colori e atmosfera. Un film da assaporare se riuscite nella migliore sala possibile, magari con un impianto sonoro SDDS, con lo schermo avvolgente, con gli occhialini 3d, il pop corn, la bibita, la poltrona comoda. È un'esperienza sensoriale appagante e oggi al cinema quanto mai unica nel suo genere, una dimostrazione concreta dello spettacolo che un'ottima sala cinematografica può offrire per superare ancora i sempre più elevati standard della visione casalinga. Tre ore che ci portano in un altro mondo, a tutti gli effetti. Un po’ una piccola vacanza da noi stessi, a leggerla in un modo che piacerebbe a Philip K. Dick, ma in uno spettacolo che pur nelle semplificazioni piacerebbe magari anche a Frank Herbert. Cameron torna in sala dopo 13 anni e lo fa a modo suo, in grande stile, settando nuovi livelli per quello che dobbiamo aspettarci da qui in futuro per un film di fantascienza e azione. Tre ore a volte possono sembrare tante, le tematiche più prettamente spirituali e ambientaliste possono alle volte apparire toste, ma lo spettacolo è qui davvero gigantesco e La via dell’acqua sa offrire un'esperienza davvero da provare. 

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mercoledì 21 dicembre 2022

Il grande giorno : la nostra recensione della nuova commedia di Aldo Giovanni e Giacomo per la regia di Massimo Venier

Siamo nella splendida e sconfinata villa Kramer, sul lago di Como: la location perfetta per il matrimonio perfetto. Tre giorni di festa al top per lusso, comfort, ospiti, intrattenimento e ristorazione, perché si deve offrire solo il meglio del meglio, per il grande giorno che sancirà l’unione tra Elio (Giovanni Anzaldo) e Caterina (Margherita Mannino). Elio e Caterina sono rispettivamente i figli del preciso e pignolo Giacomo (Giacomo Poretti) e dell’istrionico e malinconico Giovanni (Giovanni Storti), da tempo immemore amici e soci in affari a capo della prestigiosa “Segrate mobili”, azienda con nel palmares anche “il divano dell’anno del 1988”, che per organizzare queste nozze non hanno davvero badato a spese. Il maitre (Pietro Ragusa) scelto per guidare un piccolo esercito di cuochi e camerieri è il Roberto Bolle dei maitre, con in curriculum i più importanti e sfarzosi matrimoni da rotocalco. Per cantare durante la celebrazione è stato ingaggiato nientemeno che Francesco Renga, la torta nuziale arriverà in un camion frigorifero da Vienna, realizzata apposta in una delle più prestigiose pasticcerie al mondo. Solo i vini più costosi, lo spettacolo pirotecnico più spettacolare, buffet a bordo piscina e per celebrare il rito con i migliori crismi nientemeno che un importante cardinale (Roberto Citran), che per essere ingaggiato ha richiesto la costruzione di un campo di calcio in Africa per la sua missione di bambini poveri. Tutto per l’amore dei propri figli nel loro giorno più importante, ma anche un buon volano per il mobilificio, con tutti i clienti invitati a partecipare alla festa e al banchetto che potrebbero pure apprezzare l’ampio spazio tematico espositivo sui “mobili del domani” a cui Giacomo tiene tantissimo. L’aria febbrile dei preparativi assorbe anche la giovane compagna di Giovanni, Valentina (Elena Lietti) e Lietta (Antonella Attili) moglie di Giacomo, intente a loro modo a supportare o calmare i rispettivi mariti dallo stress emotivo ma anche economico, tuttavia sull’evento grava un'incognita: l’arrivo di Margherita (Lucia Mascino), ex moglie di Giovanni e madre di Elio, che dal 2006 vive in nord Europa, dopo una brutta rottura della relazione. Margherita dovrebbe arrivare con un nuovo compagno e Giovanni è molto teso al riguardo, molto più malinconico del solito. Al punto che fa fatica a inserire delle foto della sua ex moglie nell’immancabile e già schedulato “filmino emozionale” che sarà proiettato la sera del secondo giorno di festa. Poi il primo grande giorno ha inizio e a fianco di Margherita presto compare uno strampalato, un po’ burino, troppo affettuoso e rumorosissimo massaggiatore di nome Aldo (Aldo Baglio). Aldo goffamente e in totale buona fede da inizio a una serie di sventure e imprevisti letali per la buona riuscita della festa, quando fin dai primi minuti dal suo arrivo fa accidentalmente precipitare in fondo al lago una partita di vini prestigiosissimi, che finiti in una fossa da 100 metri dovranno essere recuperati con l’intervento dei sommozzatori professionisti. Subito dopo il cardinale, accidentalmente coinvolto in un gioco di squadra organizzato sempre da Aldo, avrà un grosso problema di salute che lo farà finire in ospedale in elicottero e sarà necessaria quindi la sua sostituzione con un curato locale, che però essendo il prete di un paesino di montagna è  specializzato solo in funerali (Francesco Brandi). A cascata succederà un po’ di tutto e il budget per rimediare ai danni sarà sempre più cospicuo, aumentando le tensioni tra i due soci e Aldo e scombussolando la calma generale di tutti i partecipanti. Ma è davvero Aldo che sta rovinando maldestramente la festa o le sventure che pioveranno su Villa Kramer sono invece un segno del Karma? I due sposini si amano davvero o sono stati messi/spinti lì anzitempo per una specie di mega pubblicità aziendale, decidendo di sposarsi per non scontentare i genitori? Aldo è “il guastatore” o l’unico nella festa a cui importa ancora qualcosa delle relazioni umane tra le persone, in uno scenario umano pieno di vecchietti inaciditi in cui pure la damigella d’onore per rimorchiare qualcuno deve buttarsi sul prete?  Questo matrimonio “s’ha da fare?”. Sarà comunque un grande giorno? 


Massimo Venier, collaboratore storico dei “Mai dire” della Gialappa’s Band, torna a dirigere Aldo Giovanni e Giacomo, che ha seguito direttamente nel loro sketch in tv e accompagnato poi personalmente al cinema, fin dal loro esordio da protagonisti e per le loro successive quattro pellicole: da Tre uomini e una gamba (1997) passando per Così è la vita (1998), Chiedimi se sono felice (2000), La leggenda di Al, John e Jack (2002) e Tu la conosci Claudia? (2004). Poi c’è stata una pausa, è passata un po’ di acqua sotto i ponti, il trio è cambiato nella sua anagrafica come nelle sue meccaniche interne, sono arrivati nuovi spettacoli teatrali e  nuove esperienze cinematografiche, con risultati anche ondivaghi, fino al lunare Fuga da Reumapark. Ma nel 2020 Massimo Venier e Aldo Giovanni e Giacomo si sono cinematograficamente rincontrati, si sono “ri-piaciuti” e “reinventati”, portando in sala il divertente Odio l’estate. Un film che in qualche modo allargava ed estendeva l’interessante situazione alla base dell’episodio Milano Beach del film del 2008 Il cosmo sul comò, diretto per il trio da Marcello Cesena, aggiungendo un punto di vista nuovo. Odio l’estate era un film corale in cui il trio comico diventava solo una parte di un cast più esteso, ricco di comprimari di lusso, cameo di cantanti famosi e molti giovani attori, seguendo una formula narrativa vicina alla commedia francese sulla “famiglia allargata”, ben raccontata dalle opere di registi come Guillaume Canet nel suo Piccole bugie tra amici, Eric Toledano e  Olivier Nakache in C’est la vie, Philippe de Chauveron in Non spostate le mie figlie. Film generazionali in cui il trio interpretava il ruolo di capofamiglia di tre distinti nuclei familiari, alla ricerca di possibili o impossibili situazioni di convivenza forzata, come la circostanza di dover dividere per le vacanze uno stesso complesso residenziale a causa di un disguido burocratico. 


Questa formula è riuscita bene a integrarsi con la comicità del trio, trovando lo spazio di rievocare alcune delle loro gag più famose ma anche allargando i rapporti interpersonali tra i loro personaggi, proprio per il fatto di affiancargli una componente familiare più articolata, variegata e “fracassona” che ogni tanto fungeva loro da coro greco ma che spesso si muoveva in autonomia, giocava di contrappunto, scompigliava le carte. Odio l’estate era gustoso e sulla scia di quel successo Il grande giorno ne ripercorre una formula che non si discosta molto, dove alla base non si parla più di vacanze “forzate” ma pur sempre di matrimoni “forzati”. Oltre al trio ritornano nel cast in ruoli prettamente “spirituali” Alessandro Citran e Francesco Brandi, quest’ultimo anche con il ruolo di voce narrante ed è presente ancora un cameo “musicale”, che in questo caso non riguarda Massimo Ranieri, ma Francesco Renga. La vicenda si snoda “teatralmente” di nuovo in una unica grande location che presto diviene un personaggio a se stante, persino con una sua “identità segreta”. Uno scenario “classico” da commedia francese in cui però deus ex machina delle vicende è quasi il “fantasma” del celeberrimo personaggio gialappiano del Vomitino di Giacomo Poretti, che si introduce “evocato” nella partitura narrativa con una eleganza quasi mistica, da perfetto equilibrio cosmico, in un film che parla di passato quanto di presente, di matrimoni quanto di funerali. Nel 2022 Aldo Baglio riesce ancora a scatenarsi in esilaranti quanto atletiche gag fisiche (reali quanto dalla trama “millantate”), mentre Giovanni e Giacomo fanno tesoro della loro esperienza pluriennale nell’interpretare “i vecchietti” (specialità da sempre di Giacomo), ora che i loro personaggi “si sentono anagraficamente vecchietti per davvero”, anche se lo fanno ovviamente un po’ esagerando, alimentando a dismisura una malinconia per la quale si vedono ormai come i vecchietti dei Muppets. In quanto vecchietti vengono “celebrati” in un modo piuttosto esilarante in una scena/clou che riguarda un particolare regalo di nozze dei dipendenti, con richiami per me sinistri quanto vicini a un celebre sarcofago etrusco del VII sec. a.C. Siamo passati dall’arte moderna del “Garpez” di Tre uomini e una gamba del 1997 all'arte funeraria del 2022 e in genere la chiave del film risiede in questo: nel dubbio dei personaggi tra il sentirsi “ancora abbastanza giovani o troppo vecchi” per vivere a pieno la vita e le proprie passioni, spesso nascondendosi a se stessi per paura di non farcela. Questo porta a gag molto divertenti ma pure a riflessioni profonde che in genere coinvolgono le controparti femminili del trio, facendone al contempo figure buffe quanto tragiche. La brava Elena Lietti interpreta una compagna giovane ed energica per Giovanni, a tutti gli effetti un capo, ma che vive emotivamente nella impossibile competizione con la ex moglie, con il marito che non riesce in alcun modo a confortarla per il suo rivivere in continuazione il momento dell’abbandono e “i bei tempi andati”. Antonella Attili più che la moglie interpreta la crocerossina personale di Giacomo, intenta h24 a calmarlo e curarlo. Lucia Mascino è una Margherita che per tutta la vita è rifuggita da una relazione adulta e ora non è troppo convinta di aver scelto di conseguenza come compagno di vita un bambinone come Aldo, anche se la relazione la rende felice. Troppo adulti o ancora troppo bambini sono anche i figli, come l’Elio di Giovanni Anzaldo che è costretto ad accogliere i clienti e fornitori del mobilificio al suo matrimonio per questioni di pubblicità e la Caterina di Margherita Mannino, che da sempre prova nei confronti di Elio una forte amicizia dovuta al fatto di avere sempre vissuto insieme, ma non è poi troppo sicura se quello si chiami amore. Il Maitre di Pietro Ragusa e il resto della crew di camerieri e cuochi cinicamente scommettono un po’ come gli avvoltoi sull’esito positivo o fallimento del matrimonio. C’è chi dice che non arriveranno alla seconda portata del banchetto insieme, ma il Maitre punta forte sulla celebrazione “forzata”, in un ragionamento che evoca Nietzsche quanto Conrad, paragonando il matrimonio al fascino oscuro quanto irresistibile che suscita l’abisso, nel suo modo imporsi sulla vita e sulla morte. È in questo frangente che il nuovo film di Venier intercetta tematiche vicine al Casomai di Alessandro d’Alatri e fa riflettere, per mezzo del personaggio/narratore di Francesco Brandi, sul bisogno e paura di costruire oggi una famiglia, portando alla commedia una nota agrodolce ma che non stona e la rende anzi più interessante, in linea con quel senso di malinconia che era già presente nei primi film di Venier con il trio. 


Il grande giorno dopo Odio l’Estate è una piacevolissima conferma del nuovo modo di fare film di Aldo Giovanni e Giacomo. Film sempre divertenti e carichi di gag esilaranti che parlano di amore e amicizia, ma dall’animo più corale, con una costruzione narrativa più vicina alle commedie francesi e con più voci generazionali al loro interno. Un film in cui si può nominare “Vomitino” un po’ con affetto e un po’ con timore, per ridere e anche un po’ per commuoversi.

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sabato 17 dicembre 2022

Orlando : la nostra recensione del nuovo film con un Michele Placido “nonno a Bruxelles”

Italia, giorni nostri. Da qualche parte nel nord, tra le montagne, vive Orlando (Michele Placido). Orlando non è “furioso”, non è nemmeno “cattivo, incazzato e stanco”. Parla una lingua tutta sua che nella valle in pochi comprendono, si veste fuori dal tempo come Tomas Milian ai tempi del Monnezza, se qualcuno lo cerca può lasciare detto al bar, dove c’è anche un telefono. Orlando è semplicemente lì, da un tempo infinito, uguale a se stesso, aggrappato tenacemente alla sua casetta e all’orto, con la sola compagnia della fisarmonica e di troppi notti buie da trascorrere da solo, in silenzio, dopo aver per un secondo dato uno sguardo alla foto della moglie che non c’è più. Orlando ha chiuso ogni ponte con il passato, ma il passato non è d’accordo e gli si ripresenta, sotto forma di un foglio di carta appallottolato: con sopra scritto un numero e il messaggio “tuo figlio ha bisogno di te”. Occorre andare al bar per usare il telefono e scoprire che è un numero estero, di Bruxelles. Occorre cercare nella valle un pastore che, richiamando quel numero, possa capire che cosa dicono dall’altra parte. Il senso arriva ed è tragico: il figlio di Orlando sta male e Orlando dopo un tempo infinito deve sradicarsi da quel posto tra i monti e prendere un treno. L’arrivo a Bruxelles è confuso: un’agente di polizia lo scopre con i documenti scaduti, vuole mandarlo all’ambasciata e per comunicarglielo dal tedesco utilizza un cellulare che traduce in italiano, lingua che Orlando comunque non mastica molto. Tra strade, treni e qualcuno che riesce a indirizzarlo Orlando arriva a destinazione e trova il figlio già morto, pronto per un funerale a cui dovrà andare tenendo la mano di una bambina che non conosce, Lyse (Angelica Kazankova). È la mano di sua nipote e ora è suo compito non mollarla, aiutarla ad andare avanti. La madre per la legge di quel posto non è stata tenuta a riconoscerla e Lyse non sa dove sia. Il padre viveva con una ragazza asiatica cui è scaduto il visto, Lyse avrà 13 anni ed è sola ma è autonoma, spigliata, più grande della sua età. Orlando prova a portarla a casa sua tra i mondi del nord Italia ma Lyse non molla, fino a che lui decide di provare a stare con lei a Bruxelles, pagando di tasca propria affitto, scuola, corso di pattinaggio e ogni altra cosa che serve per sopravvivere. Fino a che i soldi finiscono e Orlando inizia a cercare lavoretti di ogni tipo, sottopagati e usuranti. Gli stessi lavoretti che faceva a Bruxelles suo figlio, dal cameriere allo spazzino all’addetto alle aiuole, spaccandosi la schiena pur di non tornare in Italia. Solo che Orlando è un uomo anziano e anche se assomiglia a Tomas Milian quella schiena può spaccarsela presto e gli assistenti sociali locali sono pronti a togliergli l’affidamento di Lyse, se non potrà dimostrare di riuscire a mantenerla.


Ha molti aspetti vicini al western urbano, questa crepuscolare pellicola scritta (insieme ad Andrea Cedrola) e diretta da Daniele Vicari, prodotta da Rai Cinema, Tarantula e Rosamont. La fotografia di Gherardo Gossi fa un grande uso di insoliti campi larghi/larghissimi che rendono Bruxelles più ampia del deserto del Nevada, il montaggio di Benni Atria è lento e meditabondo come una cavalcata anche se ci muoviamo su treni superveloci, la colonna sonora di Teho Teardo annulla i rumori del traffico usa tanti giri di chitarra dal suono caldo, con naturalmente qualche tocco di fisarmonica in onore di Orlando, ma anche in onore di quel western di Morricone e Leone. Michele Placido assomiglia con gli anni e con il trucco sempre più a come sarebbe oggi Tomas Millian (cogliete l’occasione e dateci un Nico Giraldi con lui, non perdiamo questa occasione!): ha un volto eastwoodiano affilato e quasi “intagliato dalle rughe”, un fisico ancora invidiabile e muscolarmente attivo, lo sguardo abbassato ma  profondo, malinconico e al contempo titanico, di chi non molla. La brava Angelica Kazankova, biondissima e dalla chiacchiera infinita, non interpreta una damigella da salvare, anche se nei primi momenti può apparire come una bambina indifesa. La sua Lyse ha una “sensibilità corazzata” e riesce bene a tirare fuori il carattere di una piccola donna di frontiera da far West, una in grado di cavarsela da sola, rispondere a tono, azzerare le lacrime e contrattaccare. Placido e la Kazankova si muovono in questo paesaggio “western middle europeo contemporaneo” che come “italiani all’estero” percepiscono caldo e accogliente come un blocco di ghiaccio. Un luogo formalmente modernissimo, ineccepibile nella pulizia, multietnico e inclusivo, pieno di possibilità lavorative, ma nel quale vivere/sopravvivere non è per nulla scontato: la giusta immagine reale, confermata “da chi ci è stato”, di una Europa del presente non edulcorata dalla propaganda. Placido e la Kazankova si incontrano e si scontrano, cercano un linguaggio comune e una volta che si scoprono controvoglia “famiglia” aprono la pellicola a nuovi orizzonti. Dalle “atmosfere western” il film di Vicari qui vira, prova a creare piccole e felici incursioni nel cinema sociale belga dei fratelli Dardenne, qualche volta si fa documentario, qualche volta neo-realista, schivando di poco la “mina”, vicinissima, che lo farebbe finire dalle parti di Zappatore con Merola. Vicari ha buoni interpreti e personaggi solidi e così riesce senza difficoltà a dare corpo a una storia che sappia badare più al futuro che al passato, per nulla consolatoria e “pro-attivamente problematica”, “irrisolutamente” vitale nella ricerca della costruzione di un “domani”. In un cinema italiano come quello odierno, per lo più incapace di dare posto a pellicole che guardino al futuro, una pellicola come Orlando diventa quasi un film di fantascienza sociale. Un piccolo film, ben realizzato, dedicato a “chi non molla” e decide di poter cambiare la sua vita anche in età avanzata, con il coraggio e la malinconia dei cowboy. 

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venerdì 16 dicembre 2022

Flamingo party: la nostra recensione del film basato sul libro della influencer Charlotte M. che tanto può aiutarci nel comprendere il modo di pensare di molti ragazzini d’oggi e forse ci apre a un nuovo modo, un po’ “destabilizzante”, di fare cinema

Premessa doverosa dedicata al pubblico più adulto: negli anni ‘80 oltre alla scuola esistevano per “parlare ai ragazzi” le trasmissioni del pomeriggio dedicate ai più piccoli che ogni giorno, dalle 16 alle 18 circa (ma non solo), trasmettevano cartoni animati e offrivano un intrattenimento leggero, a volte didattico. Erano i tempi in cui, nel picco massimo di questa cultura televisiva, la trasmissione di Rai 1 Solletico, condotta da Fabrizio Frizzi, coproduceva insieme alla associazione in difesa degli animali WWF, la versione in italiano di Nausicaa della Valle del Vento di Hayao Miyazaki, un film sulla società e sull’ecologia particolarmente vicino alla sensibilità di un pubblico di giovani spettatori, cui seguiva in studio un dibattito di approfondimento che coinvolgeva tanto giovanissimi che esperti. Sul lato “Fininvest”, Alessandra Valeri Manera era la mente dietro a quel Bim Bum Bam che aveva tra i vari cartoni animati un angolo della posta importante, in cui i ragazzini scrivevano a dei giovani conduttori, educati a comportarsi con loro come fratelli maggiori, di piccoli e grandi problemi. Era un momento prezioso di supporto e confronto, gestito con leggerezza e simpatia e che metteva i ragazzini al centro dell'attenzione, per una volta prima dei messaggi promozionali. La tv parlava ai ragazzi, almeno nella fascia dalle 16 alle 18, facendogli compagnia mentre facevano i compiti di scuola. Poi fu il diluvio, poi il nulla. La tv per ragazzi di Mediaset divenne sempre più interessata alla pubblicità, Alessandra Valeri Manera abdicò e il suo lavoro a favore dei più giovani spettatori scomparve in breve. Solletico scomparì di conseguenza, avendo “perso di senso” la battaglia con il Biscione. Si diede più spazio (pur lodevolmente) a una televisione per un pubblico di bambini molto più piccoli, con prodotti come la Melevisione e per tutelare maggiormente questo “pubblico più piccolo” arrivò una massiccia censura su tutti i cartoni animati non dedicati a un pubblico strettamente di cinque anni (specie la terza stagione di Lupin III che fu resa del tutto incomprensibile dai tagli): sostanzialmente dei ragazzi in età adolescenziale non si curò più nessuno. Si parlò del fatto che erano cambiati i tempi, che alle 16 del pomeriggio ora i bambini erano al doposcuola o a judo, che le madri ora lavoravano e non facevano più le casalinghe e alle 16 o il bambino era al doposcuola o si doveva pagare una tata o (al peggio) doveva esserci una tv “omogeneizzata per l’infanzia”. Nessuno si curò nel mondo dell’intrattenimento dei ragazzini, almeno fino a che arrivò nel 2000 qualcosina agli albori di internet e in tv si cercò la via controversa del “telegiornale per ragazzi/adulti” Lucignolo. Intorno al 2010 YouTube iniziò a sfornare un nuovo tipo di intrattenitori per bambini/ragazzi: gli influencer. Influencer che nella maggior parte dei casi erano ragazzini che si rivolgevano come pubblico ad altri ragazzini coetanei spesso improvvisando, parlando con loro un medesimo “linguaggio” che con il tempo sarebbe stato per gli adulti sempre più criptico, autoreferenziale e incomprensibile.  Perché fuor di metafora, non me ne voglia il metodo Montessori, pure i genitori più volenterosi non riescono oggi a guardare certi youtuber per ore pur di comprendere cosa piace al proprio bambino: manca il tempo e la forza. Ed ecco quindi che il cinema nel 2022 ci viene incontro in modo insperato e prodigioso, con una “riduzione a 80 minuti” del succo di migliaia di ore di uno “spettacolo unico” che passa dal tutorial per il trucco e ai giochi proibiti con la tavola OuiJa, dalle  feste di compleanno con sfide a suon di palloncini da scoppiare a improbabilissimi momenti da pseudo fotoromanzi moderni con al centro bambini e bambine ben pettinati che cantano in autotune per poi scambiarsi momenti di tenerezza. In un solo film tutto l’influencer-pensiero di una numero uno come Charlotte M che da anni intrattiene con successo, nei vari modi sopra descritti, distinti in separate tipologie di video, un vasto pubblico di minori. Questo film rappresenta un distillato purissimo dell’esperienza che i ragazzini fanno ogni giorno su YouTube, viene “recitato” in prima persona dalla stessa influencer e da alcuni giovani attori e offre la sintesi/manifesto esistenziale il succo del pluriennale impegno della “Charlotte youtuber”: avendo per base un libro da lei stessa scritto, che in genere viene autografato al fan durante gli imprescindibili incontri che lei tiene con il pubblico. Eccoci quindi a questo Flamingo Party, che dobbiamo imparare a guardare con gli occhi giusti e nel contesto giusto, comprendendo e non giudicando, consapevoli che, se le nuove generazioni passano ore e ore a intrattenersi in questo modo e in questo “mondo” davanti a un pc, potrebbero magari oggi volerlo fare in una sala cinematografica, di fatto adibendola a uno spettacolo “diverso dal solito”. Uno spettacolo frutto della indubbia capacità dell’influencer come intrattenitrice, quanto della colpa di noi adulti nel non riuscire a condividere con i giovani le loro passioni o ispirarli a passioni diverse. Quindi viva Charlotte M e viva questo Flamingo Party, che per componenti narrative e recitative appare invero più simile a un video di YouTube che a un film vero e proprio, e che pertanto considereremo alla stregua di un “docu-film”, come quelli su Totti. Un “docu-film” dall’animo leggero che descrive la quotidianità dei giovani secondo il linguaggio dei social, che è comunque un indispensabile strumento didattico per comprendere i più giovani e per “migliorarci come adulti”: per farci magari sopportare maggiormente da loro e forse farci ragionare sulla eventualità, non troppo impossibile, di passare più tempo insieme a loro, magari con l’aiuto di qualche Gormita. 

Andiamo al succo.

In questo film Charlotte affronta il primo anno del liceo, sviluppa una particolare coscienza sulla necessità della preservazione della fauna, organizza un grande evento di beneficenza, scopre le difficoltà e gioie di una relazione con l’altro sesso e come questa può complicarsi in ragione di relazioni pre-esistenti e impegni lavorativi che giocoforza ne possono ridurre il tempo condiviso. Tutto questo accade in un mondo in cui i social sono pesantemente presenti. Prendete appunti sul modo in cui la nostra eroina vive queste situazioni, per sviluppare le strategie genitoriali più adeguate e aperte all’ascolto . 

Sinossi: Carlotta per il suo compleanno invita la sua amica del cuore Sofy nella casa dei nonni dove al centro del giardino c’è un Noce maledetto… no scusate, ho confuso influencer (ma temo che pure questo prima o poi me lo troverò in sala…). Nei pressi della casa dei nonni di Carlotta c’è un laghetto con i fenicotteri, che lei ama alla follia ma che non potranno più stare a lungo in quel posto a meno che non si trovino dei soldi per supportare un'associazione ambientalista. Carlotta subito dopo questa gita viene casualmente insignita dalla mitica Giulia, la studentessa dell’ultimo anno più in vista, come suo successore al ruolo di social media manager del prestigioso liceo Volta. È la prima volta che una “primina” come Carlotta ricopre questo incarico e lei lo ha ottenuto proprio per via di una foto che Carlotta ha postato che la ritrae insieme a Sofy e ai fenicotteri. Da qui l’idea del secolo per cogliere questo segno del destino: realizzare una festa per raccogliere i soldi per salvare i fenicotteri facendo buon uso del suo nuovo “super potere” di media manager, coinvolgendo tutto l’istituto Volta. Occorrerà trovare un dj, un luogo dove fare la festa, un luogo per organizzare scenografie e gadget, comprare spuntini e bibite e dei vestiti bellissimi per lei e Sofy da mettere in quella circostanza. Un piano ambizioso ma che sembra subito ingranare, con il dj più amato della scuola che si dimostra disponibile dopo le prime titubanze grazie a una estemporanea “sfida auto-tune” e la preside che subito supporta l’evento. Tuttavia sul “flamingo party” incombe l’antipatia per Carlotta di Sabrina, la arcigna star di atletica dell’istituto che avrebbe voluto essere lei la nuova media manager e farà di tutto per contrastare l’evento dei fenicotteri, dalla creazione di un canale social “hater” alla progettazione di una festa alternativa che dovrà tenersi lo stesso giorno del Flamingo Party. Presa da tante preoccupazioni e da un amore appena sbocciato, Carlotta inizia a diventare troppo rigida e scostante con chi la circonda. Riusciranno i fenicotteri a restare nel laghetto? 

 


Punti di interesse per uno spettatore adulto/genitore: in Flamingo Party va in scena tutta la gioiosa confusione del passaggio dall’infanzia all’adolescenza di Carlotta (o se preferite Charlotte), in una specie di Mean Girl/Mondo di Patty 2.0 aggiornato molto pesantemente all’era social. Ogni azione e sentimento per “esistere” in questo “mondo estremizzato” devono essere documentati su Instagram/Facebook/altro e le qualità di una persona vengono brutalmente misurate dal numero di followers al suo seguito e mooolto più raramente (ma nel film capita) dalla originalità dei contenuti che propone. La condivisione mediatica spinta annienta ogni confine tra pubblico e privato, dando vita a due tipologie di persone ben distinte. I “content creators/influencer/youtubers”, che diventano protagonisti assoluti sul palcoscenico della scuola e della vita, quelli che “fanno cose” in contrapposizione ai “followers”, che vivono di luce riflessa dei primi, lasciano come traccia di sé qualche buffo commento nei social e al più costituiscono un pubblico quasi muto e privo di autonoma volontà (però sorridente). L’amica di Charlotte, “super follower” di Sofy, ci tiene moltissimo al fatto che sui social l’amica pubblichi delle foto che la ritraggono insieme a lei e ai fenicotteri. Anche se questo apparentemente nel mondo reale non ha alcun senso nei termini della loro amicizia personale, che è molto profonda e cementata da anni di frequentazione, la pubblicazione nel film diventa qualcosa di molto “importante”, il motore stesso della trama. Allo stesso modo, l’amico follower del Dj vuole specularmente garantire a quest’ultimo che la sua fama venga ben capitalizzata, ragione per la quale decide, senza che gli sia richiesto, di comportarsi per lui come una specie di manager, permettendogli solo di “frequentare gli eventi giusti” e impedendogli di fatto di esprimersi creativamente e socialmente come meglio crede e dove si sente più ispirato per non perdere followers. Questi comportamenti di Sofy e dell’amico del dj sono un po’ estremi pur se magari vissuti da questi personaggi in assoluta buona fede, in quanto danno vita a delle meccaniche relazionali decisamente non troppo funzionali per una amicizia come la intenderemmo noi adulti “in modo vintage”. Meccaniche che saranno “premiate o stigmatizzate” dalla trama, ma che nel succo non appaiono troppo divergenti dalla relazione tossica “tradizionale” che riguarda il personaggio/follower di Zerbi che si mette a totale servizio della influencer Sabrina, compiendo di fatto atti di sabotaggio alla “fama altrui”, per garantirle un successo dal quale lui non trarrà alcun vantaggio nemmeno sul piano della sola riconoscenza. A Zerbi basta adorare Sabrina. Se tutto questo di base appare parecchio sconfortante, nella pellicola i follower “di rango ancora più basso” degli “amici elettivi/scudieri” sono creature non dissimili a zombie che non fanno che spostarsi in branco da una situazione all’altra, sotto le spinte spesso puramente emotive e umorali degli influencer. Ma torniamo proprio ai content creators, perché è qui che questa febbre da social “fa il giro”. I sentimenti/aspirazioni/passioni dei followers semplicemente non esistono e non fregano ai creators, se non come puro riflesso di una loro immagine di grandezza. Pertanto la comunicazione con loro può essere solo di facciata. Non c’è un singolo momento in cui nella pellicola si parli dell’importanza di salvare i fenicotteri spiegando perché sono a rischio, come possono essere salvati e quale sia la funzione della associazione che si cura di loro o come potrebbe la scuola attivamente fare parte del progetto. Charlotte vuole salvare i fenicotteri dietro la casa dei nonni e questo basta per muovere una rivoluzione. L’importante ai fini della trama rimane ingenuamente realizzare una campagna pubblicitaria con immagini di fenicotteri con foto in alta e non in bassa definizione e poi si finisce per porre al centro della festa “a favore dei fenicotteri” i problemi personali tra Sofy e Charlotte, Sabrina e il dj, imponendoli a tutti gli zombie-partecipanti senza alcuna priorità di scopo (senza cioè distinguere tra quella che “dovrebbe essere” una circostanza pubblica e quella che “dovrebbe essere” una circostanza privata), che tanto i followers seguiranno sempre e comunque qualsiasi cosa gli influencer facciano. Questa grandiosità di seguito fa credere ai creators che tutto ciò che fanno  o pensano sia “vitale, alla loro portata, sincero e importante”, facendo sviluppare in loro di riflesso un malcelato fastidio nei confronti di chi “oltre a sapersi vendere” qualcosa la sa fare (o almeno ci prova) come eccellere nello studio/lavoro o nello sport. Un esempio pratico di ciò avviene quando Charlotte prova per un istante a impegnarsi nella realizzazione della festa, decidendo a fine giornata di dedicare del tempo extra alla costruzione di una scenografia, dichiarando al resto del gruppo “io rimango qui ancora un po’ a lavorare”. Subito dopo interviene il dj, quel personaggio che crede a 14 che “non ci vuole nulla a studiare ingegneria aerospaziale” e si dichiara secchione anche se lo vediamo per lo più in moto, a cantare con l’autotune  e mai con in mano un libro. Il dj dice: “Per oggi basta così, abbiamo lavorato abbastanza, ci vediamo dopo”. Tempo un’ora scarsa e dopo più messaggi del tenore “Ma dove sei finita? Non dobbiamo uscire insieme dopo i lavori per la festa?”, la relazione tra il dj e Carlotta è già al capolinea, con Sofy “voce della coscienza/coro greco interiore/scudiero” che le dice: “Sei troppo cambiata Carlotta! Dedichi tutto il tuo tempo solo al lavoro e non agli altri! Cosa ti è successo??”. Allo stesso modo la rivalità tra Carlotta e Sabrina si palesa perché quest’ultima eccelle nello sport e decide di organizzare una festa per celebrare una possibile medaglia per una gara che si tiene nello stesso giorno della festa per i fenicotteri di Carlotta. La cosa che rimane sottotraccia “con fastidio” è che non ci sarebbe alcuna festa per la medaglia senza una medaglia, con Sabrina che di fatto si impegna nella corsa dei cento metri di atletica per vincerla. La circostanza che Sabrina vinca e ci sarà una festa è liquidata con un: “Ma tanto quella vince sempre, che volete che sia per lei vincere sempre??! Quella è perfetta, meglio le persone originali che quelle perfette! Ma quanto se la tira quella a vincere sempre??!”. Certo la trama ci tiene più volte a sottolineare come Sabrina sia una ragazza che vive di rancore e manipolazioni (volte anche a chiedere legittimamente sui social il motivo di una festa sui fenicotteri, ma tant’è…), ma qui il risultato sportivo per il liceo, che può dare un senso alla celebrazione di una festa, ha un senso logico, un senso che non è stato altrettanto chiaramente esposto da Carlotta nel proporre la sua festa sui fenicotteri all’istituto. Dietro a questa “paura della perfezione” si nascondono timori e insicurezze (oltre al “fantasma” della cugina di successo Matilde che perseguita dal primo all’ultimo minuto Carlotta) che potrebbero avvicinare emotivamente Carlotta a Sabrina, ma la pellicola non vuole o non può vedere ancora quel “passo”, perché possono essere ragionamenti che realisticamente un'adolescente magari non ha ancora maturato fino in fondo. Pertanto si procede a passetti, errori e timori, alimentanti dall’età ma anche da questa invasiva visione social del mondo che “tutto travolge”. 

Può essere che avremo sviluppi su questi temi in una pellicola successiva, con Carlotta che raggiungerà un'età più matura che la porterà a una consapevolezza diversa, ma per ora questo mondo degli adolescenti ci appare un perfetto scenario da film horror. Un horror dove l’ossessione per i social fa davvero tanto male alle relazioni umane.

 


Ricapitolando: il film va guardato come un docu-film, meglio se insieme a un'adolescente fan di Carlotta, cercando di accedere senza pregiudizi a un mondo che si camuffa un po’ tra “guerre tra feste”, dichiarazioni di amicizia eterna scritte a mano e sfide sonore nel segno dell’autotune, ma che rivela anche molti aspetti di vita reali, qualcuno anche sinistro. Aspetti sui quali da adulti poi parlare insieme con i ragazzi, per trovare insieme un senso a questi argomenti con animo aperto, ascoltando e comprendendo, magari “tranquillizzando” ma non giudicando. I ragazzini più piccoli oggi potrebbero avere un rapporto con i social che li pone davvero davanti a situazione scolastiche e di vita simili, magari non così estreme ma comunque vicine a quelle trattate da questa pellicola. Circostanze che li possono porre in zone confuse o scomode come quelle che vive Carlotta, che comunque riesce alla fine a barcamenarsi cercando un suo equilibrio, magari iniziando a vivere il suo rapporto con i social in modo più “diluito”, realizzando contenuti multimediali più corti” e scegliendo al contempo di dedicare maggiore attenzione a chi ha intorno e alla propria famiglia . Almeno fino al nuovo film, in cui magari la nostra protagonista potrà riuscire a comprendere anche il mondo di Sabrina o prenderà una strada del tutto diversa, diventando come Paola Marella. 

Flamingo party è un docu-film sull’adolescenza, con al centro influencer adolescenti che provano teneramente a recitare, ma alla fine finiscono per replicare quanto fanno su YouTube. Può essere per un adulto un docu-film un po’ spiazzante, costruito come è su dei registri narrativi tanto più vicini ai gruppi social che alle regole comuni del cinema. Per il pubblico di riferimento, ossia i fan di Carlotta, recitazione e qualità della storia in questo specifico caso sono aspetti del tutto soggettivi, in quanto il film è legato a tripla mandata agli show social della influencer che qui vengono ripercorsi in ogni loro aspetto estetico e comunicativo da una trama e personaggi che non fanno nulla per stravolgerne la formula. Risulta quindi propedeutico per i non addetti ai lavori almeno vedere qualche video social di Carlotta, giusto per avere una idea preliminare di quanto si affronterà in sala, con la consapevolezza che il film è rivolto ad un target molto specifico che è già affezionato e apprezza lo stile della influencer. Flamingo Party punta a trasformare lo show di Carlotta in uno spettacolo non dissimile da una puntata di Il mondo di Patty, ma alla fine risulta una visione più vicina a una puntata del Ferragnez, non che la cosa per forza rappresenti un bene o un male. È che la recitazione e la drammaturgia sono davvero in un campionato diverso rispetto a un film tradizionale, laddove il modo di questi influencer di rivolgersi al pubblico ricorda proprio quello stile da tv per i ragazzi anni ‘80 di Bim Bum Bam, Kiss me Licia e in parte della Melevisione che, ingiustamente espulso dalla tv generalista, quasi qui ritorna, rigurgita e reclama un suo posto e podio nel mondo della comunicazione di massa, sebbene mancante di guide spirituali come Alessandra Valeri Manera. Diciamo che se un film tradizionale è simile a un ascensore, questo è più simile a un frigorifero: sono prodotti decisamente “diversi”. Può essere che nel futuro le sale saranno piene di film realizzati da influencer, con centinaia di critici cinematografici “classici” che decideranno per protesta di darsi fuoco davanti a Cinecittà, ma restiamo sul prodotto e i suoi meriti. Il prodotto è esteticamente ben confezionato, con una fotografia colorata, scenografie calde, musiche simpatiche e un comparto tecnico di buon livello, un ritmo narrativo non sconvolgente ma accettabile e rimane per peculiarità intrinseche un prodotto destinato ai soli fan. Tuttavia per chi non è fan Flamingo Party apparirà per più aspetti magari straniante, ma può rappresentare una esperienza che ben metabolizzata insieme a dei giovanissimi può portare anche ad alcune riflessioni interessanti. Gli influencer stanno per conquistare il cinema e come direbbe la la magnanima mente-alveare di un cubo Borg di Star Trek: “la resistenza è inutile”. 

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sabato 10 dicembre 2022

Improvvisamente Natale: la nostra recensione del film con Diego Abatantuono e Sara Ciocca da dicembre su Amazon Prime

Estate dei giorni nostri, notte di San Lorenzo, in una località di villeggiatura tra le Dolomiti. L’albergatore Lorenzo (Diego Abatantuono) a causa di alcuni problemi finanziari è sul punto di vendere il suo chalet  davanti al lago a dei compratori cinesi, quando all’improvviso vengono a trovarlo la sua nipotina Chiara (Sara Ciocca) insieme alla figlia Alberta (Violante Placido) e al genero Giacomo (Lodo Guenzi). In genere Lorenzo incontra la sua famiglia a Natale, ma questa volta Alberta e Giacomo sono lì da lui per una questione urgente: sono sul punto di separarsi. Alberta ormai vive solo per lo studio legale in cui lavora, Giacomo continua a cercare senza successo di fare l’attore, i due non riescono più a comunicare e non fanno che arrabbiarsi tra loro, stanno diventando come degli estranei. Non avendo il coraggio di comunicare a Chiara la loro decisione, la copia chiede l’aiuto del nonno, e Lorenzo, molto deluso dalla situazione, accetta a malincuore di parlare della questione con la nipote dopo cena. Ma quella sera, prima che il nonno riesca a parlare con Chiara dei problemi dei suoi genitori, ecco che dal cielo compare una stella cadente. Lorenzo chiede alla nipote di esprimere un desiderio, perché porta bene, ma Chiara risponde che ha al momento in testa solo una cosa un po’ strampalata. Lorenzo insiste e Chiara racconta di quanto sia stato strano trovarsi dal nonno in questo periodo diverso dalle vacanze di Natale. In quel ferragosto i suoi genitori le sono apparsi tanto strani e pure nonno Lorenzo oggi le sembra strano, triste. Perfino i suoi amici della montagna sono diversi dal solito, con il suo fidanzatino Walter, che ha incontrato nel pomeriggio, che per le vacanze estive se la spassa con una ragazzina diversa da lei. Chiara vedendo quella stella cadente ha desiderato che al posto di ferragosto fosse subito Natale, come se tutte le cose potessero tornare al loro posto in quel mondo. Lorenzo ascolta, sorride un po’ sornione e accoglie con gioia il desiderio della nipote, disponendo che proprio ora, da quella notte stellata di agosto “ci sarà il Natale”. Già la mattina seguente l’albergatore si fa aiutare dal suo buffo e strampalato cameriere/consierge/cuoco/tuttofare Otto (il Mago Forrest, Michele Foresta) a riempire tutto l’albergo di addobbi, ghirlande e pupazzi giganti di Babbo Natale. Fa preparare un menù delle feste e ordina un panettone, manda i figli a comprare dei regali. Attirato da luminarie così insolite e per qualcuno “blasfeme in pieno agosto”, arriva nello chalet anche don Michele (Nino Frassica), un amico di vecchia data di Lorenzo che si autodefinisce “don Attak”, per la sua fama di celebrare solo matrimoni dai quali le persone non si separano, rimanendo per sempre “felici e incollate” a vita le une alle altre. Dopo  aver spiegato il desiderio della nipote, i due decidono una sorta di strategia a tenaglia per spingere Antonia e Giacomo a riavvicinarsi, in cui sarà coinvolto un po’ tutto il paese. Ad aiutare nell’impresa accorrono anche i genitori di Giacomo, l’imprenditore Mario (Antonio Catania) e la maestra appena arrivata alla pensione Rosa (Anna Galiena). Ma a insaputa di Mario in albergo c’è Claudia (Gloria Guida), fascinosa donna single con la quale ha avuto una piccola tresca mai rivelata a Rosa, dalla quale sarà opportuno nascondersi. Nel frattempo Chiara escogita a suo modo, insieme ai suoi amici della montagna, un piano per liberarsi di quegli strani investitori cinesi che “per come ha capito lei” starebbero ricattando il nonno: li farà spaventare a morte facendogli credere che l’albergo è stregato grazie ai suoi amici della montagna e a tanti effetti speciali. Riuscirà la magia di questo Natale in pieno agosto ad aggiustare la famiglia di Lorenzo?


Francesco Patierno scrive (insieme a Neri Parenti, Federico Baccomo e Gianluca Bomprezzi) e dirige una favola di “Natale anticipato,” dotata di buoni sentimenti e qualche “altro elemento magico”, con un particolare occhio di riguardo a un pubblico di giovanissimi più che agli abitué del cinepanettone. Patierno aveva già diretto Abatantuono da protagonista in un satirico film ugualmente “magico”, Cose dell’altro mondo (2011), dove un imprenditore esprimeva in una trasmissione tv il desiderio, un po’ cinico, che tutti gli stranieri lascassero l’Italia e tornassero nel loro paese di provenienza, con le conseguenza che questi “sparivano davvero”. Dopo una notte di tempesta non se ne trovava in giro più nessuno, con l’imprenditore, un po’ come nel classico di Natale Mamma ho perso l’aereo, che tornava presto sui suoi passi, pentendosi di quel desiderio e cercando di trovare una soluzione. Ma Patierno ha anche diretto un Abatantuono del tutto diverso e meno favolistico in La gente che sta bene (film del 2014), nel ruolo ruolo dell’antagonista crudele di un Claudio Bisio in un ruolo per una volta drammatico, in una storia a tinte noir quanto la sua serie tv Donne assassine (del 2008). Oggi Abatantuono torna a ricoprire per Patierno un ruolo più tranquillo, quasi ecumenico, “da nonno”. Lorenzo è un uomo saggio ma bonario, malinconico ma ancora arzillo, pronto a “passare  di testimone” alle nuove generazioni. Simile per molti versi al personaggio di  Abatantuono in Una notte da dottore, che lo vedeva al fianco di Frank Matano, ma questa volta a rappresentare la nuova generazione non abbiamo un comico, ma una giovanissima e bravissima interprete come Sara Ciocca, attrice poliedrica ora al cinema anche con l’ottimo Io sono l’abisso, scritto e diretto da Donato Carrisi. La Ciocca è oggi per talento un po’ la “nostra” Dakota Fanning e sa instaurare sullo schermo, sia con Abatantuono che con il cast di attori più giovani, una intesa davvero unica. Riesce a trovare anche i giusti tempi comici, sfruttando al meglio, e con una certa autoironia,  il fatto di sembrare una ragazza molto più grande della sua età. È l’interprete ideale, in un ruolo di “adulta-bambina”, in una storia in cui gli adulti si rivelano per lo più bambini-adulti, buffi quanto sconclusionati. Gli adulti litigano sempre, fanno le cose di nascosto, e spesso male, e una volta scoperti si tirano l’insalata russa in faccia. Fanno di tutto per “tenere il broncio”, sono bravissimi con Super Mario Kart della Nintendo, anche quando gli tocca lavorare procedono a tentativi per improvvisazione. I bambini sono rispettosi della eco-sostenibilità ambientale, risolvono i loro diverbi e dispute amorose con pragmatismo, cercano di “salvare la baracca” (cioè lo chalet del nonno) e cercano di terrorizzare i cinesi con competenza e organizzazione: tra effetti speciali, trucco e tanta suggestione, portando in scena dei momenti da vero film horror. Momenti gustosi quanto sapientemente e ironicamente incorniciati anche dalle belle musiche di Pino Donaggio, in grado fin dall’inizio a mixare i campanellini da canzoncina natalizia con le note dello Shining di Kubrick.


È quindi un mondo un po’ al contrario quello di Improvvisamente Natale, ma che regge e diverte, per la trama ma anche per la presenza di molti mattatori. Come il Mago Forrest / Michele Foresta, nel ruolo di Otto, il tuttofare dell‘albergo che si esprime tra sagaci battute alla Groucho Marx e in mille gag fisiche alla Buster Keaton. Come il don Michele di Frassica costretto a fare l’investigatore maldestro o l’agricoltore stralunato di Paolo Hendel. Ha una incredibile faccia da cartone animato il personaggio dell’imprenditore Long di John Kennedy Ben Gomas, che dà il meglio di se nelle scene a “”tinte horror”” con i bambini . Bambini che risultano divertenti e simpatici; anche i due ragazzini che si contendono il cuore di Chiara, il “dinamitardo” Nicolò di Christian Dei e lo “sciupa femmine” Walter di Luca Charles Brucini. Un po’ sacrificata forse per motivi di “targettizzazione” del film verso il pubblico dei più piccoli, tutta la storia del triangolo sentimentale tra Antonio Catania, Anna Galiena e una sempre radiosa Gloria Guida: ci vengono raccontate delle cose interessanti sull’abitudine del personaggio di Catania di travestirsi da donna davanti alla sua amante, che a sua volta si vestirebbe da uomo, ma a questa cosa di fatto non assistiamo mai su schermo e un po’ ci dispiace. Simpatica ma non troppo amalgamata la coppia formata da Violante Placido e Lodo Guenzi. La Placido deve un po’ sobbarcarsi il ruolo “antipatico” della madre rigida, poco divertente e troppo assorbita dal lavoro. Guenzi sarebbe un papà buffo e scombinato ma l’attore, pur con tutta la buona volontà e una divertente espressività, non riesce troppo ad emergere nei dialoghi e viene relegato per lo più a gag fisiche che lo vedono “spostato e fatto cadere” più volte nel laghetto dello chalet, per circostanze sempre più strane. 

Improvvisamente Natale è una pellicola ben confezionata e adattissima per un pomeriggio in famiglia in questo mese di dicembre. È un film garbato sui buoni sentimenti, dedicato ai più piccoli, forse non sempre a tratti non troppo scoppiettante ma genuino, girato in posti da sogno tra le Dolomiti e con un’aria natalizia diversa dal solito ma frizzantina. Forse anche il fatto di ambientarlo ad agosto ha aiutato. Bravo e quasi commovente Abatantuono, specie nelle scene con la Ciocca dove tira fuori molto del suo lato paterno, anche se vorremmo vederlo nuovamente al di fuori dei panni del nonno, magari un Attila Anziano, non ci lamentiamo. La Ciocca sappiamo che conquisterà Hollywood e non vediamo l’ora di seguirla nei suoi prossimi passi e siamo contenti di conoscerla qui un po’ di più, scoprendo maggiormente le sue capacità comiche e autoironia. Ci manca un po’ il fatto di non vedere Catania che balla con Gloria Guida vestito da donna, ma è forse qualcosa che appartiene a un altro spazio e un altro tempo. O magari a un sequel. 

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venerdì 9 dicembre 2022

Pinocchio di Guillermo del Toro: la nuova pellicola di Netflix, dal 4 dicembre nelle sale, ispirata al celebre personaggio di Collodi e (forse) alla Stop Motion di Will Vinton

 


C’era una volta, in un paesino di montagna dell’Italia dell’inizio del ‘900, un bambino di nome Carlo, figlio di un falegname vedovo di nome Geppetto (in originale con la voce di Adam Bradley). Carlo voleva seguire la strada del padre e lo aiutava nella creazione di un crocifisso in legno nella chiesetta locale, quando degli aerei da combattimento a corto di carburante, per “alleggerirsi” e arrivare fino alla base, decisero di liberarsi della loro bombe. Carlo aveva ancora in mano la pigna che aveva deciso di piantare per creare il suo personale “albero per fare i giocattoli”, quando la piccola chiesa esplose e Geppetto rimase solo. Il falegname piantò la pigna di Carlo in alta montagna e iniziò a perdere ogni interesse per il suo futuro, incominciando a bere. Anni dopo un grillo istruito e girovago (in originale con la voce di Ewan McGregor, che sarà anche il narratore di tutta la vicenda) cercava una casa in cui soggiornare e la trovò all’interno dell’albero di Carlo, ma subito dopo, in una notte piena di fulmini, Geppetto in preda a rabbia e disperazione decise di abbatterlo. Il falegname portò a casa il tronco e colpendolo con forza, tritandolo, sminuzzandolo, levigandolo e fissandolo a martellate con dei chiodi che ne facessero uno scheletro, diede così forma a un burattino che chiamò “Pinocchio”. Sfinito ma soddisfatto, andrò a coricarsi. Quella notte la signora dei boschi (in originale con voce di Tilda Swinton), una creatura che viveva tra il mondo dei vivi e quello dei morti e aveva particolarmente a cuore Geppetto, non volendo più vedere l’uomo in quello stato decise di dare vita a quel burattino. Perché diventasse una persona per bene, in grado di discernere il bene dal male, la signora chiese all’istruito grillo di stargli vicino, come maestro personale. Il giorno dopo Geppetto, sorpreso e un po’ spaventato alla vista di quella creatura di legno che lo chiamava “padre” (con la voce in originale del giovane attore Gregory Mann), si muoveva da sola sinistramente come un ragno e non faceva che distruggere la sua bottega con azioni inconsulte, decise di rinchiuderla in casa. Fino a che Pinocchio non riuscì a scappare e riapparire davanti a Geppetto in chiesa, durante la funzione, tra i fedeli che terrorizzati lo guardavano come un demone e il podestà (Ron Perlman) che invece lo osservava con interesse: come una strana e potente arma magica da presentare a Mussolini. Nei giorni che seguirono Geppetto cercò più volte di farlo “rigare dritto”, offrirgli una istruzione e considerare sempre più Pinocchio come un bambino vero, pari a suo amato figlio Carlo, ma il compito gli risultò particolarmente gravoso. Fino a che Pinocchio, per aiutare economicamente il padre, divenne la star dello spettacolo itinerante di marionette del losco Barone Volpe (Christoph Waltz) e della sua scimmia “Spazzatura”. Presto Pinocchio, seguito da Geppetto e dal Grillo di paese in paese senza che i due riescano a raggiungerlo, avrebbe incontrato anche Mussolini e forse il suo destino. Riuscirà Pinocchio a riabbracciare Geppetto e a farsi amare da lui come un bambino vero e non sono come “rimpiazzo” di Carlo? 


Tra le mani di Guillermo del Toro e i maghi della stop motion rinasce a nuova forma il Pinocchio di Collodi, simile nella sostanza ma differente nel contesto. Abbiamo ancora negli occhi il cupo e “anticato” Pinocchio di un Garrone ancora attaccato a Il racconto dei racconti, già lontanissimo dal Pinocchio disneyano di Zemeckis del 2022 (il primo con un Geppetto “vedovo”), ma il burattino dell’opera originale negli anni (e secoli) si è declinato e aggiornato più volte. Ci sono stati autori che hanno smontato e rimontato il contenuto del romanzo di Collodi, attualizzandolo o espandendolo o rendendolo qualcosa di nuovo. Chi abbracciandone le suggestioni più satirico/sociali, come il fumettista Vincent Paronnaud. Chi privilegiandone gli aspetti più favolistici dell’opera come Disney ma anche Dreamworks. C’è stato chi si è avventurato nella fantascienza portando l’elemento umano nella macchina, laddove “c’è del Pinocchio” in Astroboy di Osamu Tezuka quanto nel David di A.I. di Spielberg, ma anche “estremizzando” in Roy Batty di Blade Runner, nel Ranxerox di Tamuburini/Liberatore e nel Tadashi di Galaxy Express di Matsumoto. In quanto alla “forma” abbiamo avuto dei Pinocchio disegnati “fatti di carne” (Ausonia), Pinocchio interpretati su schermo da attori adulti (come Benigni), dei Pinocchio realizzati con effetti speciali pratico/manuali (celebre quello di Rambaldi) o computer grafica (con il Pinocchio di Shrek), abbiamo avuto un “Burattino senza fili” alla scoperta delle pulsioni adolescenziali protagonista di una celebre canzone di Elio e le storie tese. Ora siamo arrivati a questo nuovo e sfolgorante film in stop-motion fortemente voluto, da anni, da Guillermo del Toro. È un Pinocchio che seguendo la particolare poetica del regista messicano non poteva che  prendere vita in un modo sanguigno, rumoroso, cruento e spaventoso: quasi “prometeico” nelle meccaniche di fulmini e viti che lo accomunano dalla creatura di Frankenstein di Mary Shelley. È un Pinocchio che vive come la piccola protagonista de Il labirinto del fauno all’interno di un cupo e tumultuoso periodo bellico, più fatto di incubo che magia, in cui può per qualcuno essere visto come un’arma, uno strumento inumano rinato dopo un sacrificio di sangue come il Kyashan della Tatsunoko. È un Pinocchio a stretto contatto spirituale con il culto dei defunti dei paesi latini, con rimandi alla stop motion de Il Libro della vita (prodotto da Del Toro) e La sposa cadavere, abituato a parlare con una “fata turchina” che è a tutti gli effetti una raffigurazione della Morte nemmeno troppo dissimile da come sempre Del Toro la rappresentava in Hellboy: The Golden Army. Il pescecane, seguendo l’amore di Del Toro per Lovecraft non poteva che essere una creatura tentacolare alla Chtulhu, il grillo non poteva che  avere dei rumori sinistri simili alla creatura di Mimic


Ma soprattutto per Del Toro doveva essere un Pinocchio “reale”, realizzato nel 2022 ancora in legno, con una tecnica antica che permette di scolpirne i sentimenti a mano, da veri “Geppetti”. Pinocchio in piena era digitale sceglie di rinasce “vintage”, come pura “marionetta cinematografica”, creatura in stop-motion che viene realizzata affettuosamente, come si faceva 50 anni fa, per lo scrivente  in diretto omaggio a uno dei più noti “Geppetti“ della clay-Animation, Will Vinton. A partire dal pupazzo in stop motion di Geppetto, che dal volto e movenze caricaturali ma estremamente umane richiama visivamente il protagonista di Le avventure di Mark Twain, la sfortunata opera di Vinton del 1985 realizzata all’apice della sua arte. Altri personaggi richiamano invece pupazzi animati della versione odierna di quelli che furono i Vinton Studios, la società Laika (nata a cavallo della realizzazione de La sposa cadavere di Tim Burton per volere della “famiglia Nike”), come il Conte Volpe, che per struttura, colori e movenze sembra uscito dritto da Boxtrolls, e come il dinamico Spazzatura, che riprende moltissime movenze e dettagli della scimmia di Kubo

La scelta della stop motion non è quindi casuale ed è interessante, laddove così sullo schermo, con la magia del cinema, prendono vita davvero ”marionette senza fili”. Le immagini in stop motion ci appaiono da spettatori in rapida successione, “vive”, ma in realtà richiedono agli animatori un lavoro di costruzione di giorni e giorni, continua rimodellazione e riposizionamento di personaggi e set, con ogni singolo movimento ed emozione scolpita per dare corpo a 60 fotografie di pellicola al secondo, con precisione e amore infinito. Per una tale magia era necessario che molto dello “spirito artigianale” di Vinton albergasse tra gli animatori di questo nuovo Pinocchio, che non a caso sono stati scelti tra i geniali autori del dissacrante tv show Robot Chicken, lo studio americano ShadowMachine, quanto tra gli inglesissimi maestri del Jim Henson Studios dei Muppets e The dark Crystal. Studi di esperti che si sono gettati a capofitto contemporaneamente nel progetto (per dimezzare i tempi) già da diversi anni, in quello che a tutti gli effetti, per gli alti costi della stop-motion è stato considerato un “Production hell”, fino a che Pathé e Netflix sono entrati nella partita, insieme anche a nomi come Daniel Radcliffe, che si è avvicinato all’opera prima come attore e poi come produttore. Un ulteriore tocco “alla Del Toro” è arrivato dalle musiche del compositore di La forma dell’acqua Alexandre Desplat, ma il regista messicano ha saputo anche distanziarsi dal suo mood malinconico e donare all’opera un tocco di “vivacità e freschezza”, affidandosi per i testi all’estro del canadese Patrick McHale, uno degli autori-chiave del fenomeno Adventure Time. Il risultato dell’unione di tutte queste suggestioni e artisti ha dato vita a qualcosa di davvero unico e sorprendente, originale quanto fortemente attuale, vitale quanto crepuscolare. Un’opera diversa nello sviluppo dei personaggi ma affine nello spirito con il testo di Collodi. Il burbero Mangiafuoco viene mixato con la scaltrezza della Volpe, dando vita a un “Conte Volpe” particolarmente seduttivo quanto cinico, più esperto di propaganda che di marionette. Il paese dei balocchi diviene il “paese della guerra”, dove i bambini sono spinti da sogno di grandezza e eroismo a diventare non asini ma carne da cannone. La cultura cattolica e la Storia entrano in dialettica con la favola quasi “collidendo contro Collodi”,  in forme che Collodi stesso ai tempi ha sapientemente schivato (con la metafora, trasformando i personaggi di potere in creature dai contorni zoomorfi) e che oggi invece è interessante e attuale affrontare. Mette un certo brivido ascoltare il personaggio di Mussolini, pur reso buffo e caricaturale dall’animazione, che a un certo punto dice: “Mi sono sempre piaciuti i pupazzi”. È un Pinocchio che apre a molte riflessioni su cosa comporti, ieri come oggi, essere considerati da qualcuno come un burattino: “una testa di legno” da manovrare più che ascoltare nelle sue reali inclinazioni come un libero essere umano. Per chi segue e insegue il burattino “ribelle” c’è in ballo sempre un “tornaconto”, che può essere emotivo come nel caso di Geppetto, quanto prettamente politico, socialmente o economicamente desiderabile. Nella costruzione di queste dinamiche narrative giocano molto bene in lingua originale, come performer vocali, Bradley ma anche Perlman e Waltz, senza dimenticare il ruolo fortemente ascetico di Tilda Swinton (dovessero girare dei film su Ghandi o il Dalai Lama oggi segnerebbero per interprete principale la Swinton). Poi ad alleggerire il carico arriva Patrick McHale e il suo umorismo (il pescatore sembra uscito dritto da Adventure Time), ci sono le sequenze più improntate sull’azione e la meravigliosa chimica che si sviluppa tra il piccolo e “squillante” Pinocchio di Mann e l’affannato Geppetto Bradley, c’è lo “spaesamento operoso” del divertente Grillo di McGregor. 


Una nota anche sulla poderosa e accurata ricostruzione del periodo storico, con un numero incredibile di dettagli realizzati con pignoleria, dalle architetture ai manifesti dell’epoca, dai veicoli ai vestiti. Un lavoro davvero immane quanto visivamente appagante che coinvolge ogni minimo fotogramma di girato. 

Il nuovo Pinocchio di Del Toro è denso di contenuti e amore per l’opera originale, pur reinventandosi in un contesto del tutto diverso. È realizzato con cura nei più minimi dettagli, dalla storia ai pupazzi e scenari, vantando un cast tecnico e artistico di alto livello e per molti versi è una lettera d’amore all’Italia. Come molti dei lavori di Del Toro può apparire come una favola gotica, un racconto dark che forse potrebbe spaventare i più piccini, ma in fondo anche il Pinocchio di Collodi era pieno di tocchi dark (ma ovviamente “non solo”). La maggior parte delle fiabe non ritoccate nel 1900 sono dark, ma in effetti per i suoi contenuti l’opera di Del Toro  per i più piccoli necessita di una visione guidata. L’invito è comunque di vedere il film magari in compagnia di un adulto, meglio se un genitore o insegnante che aiuti per lo meno a contestualizzare il periodo storico in cui è ambientata la vicenda. 

Questo Pinocchio profondo quanto divertente, malinconico quanto estremamente dinamico è la più brillante dimostrazione di quanto il burattino di Collodi sia ancora un personaggio attuale e importate per “l’arricchimento umano” delle nuove (e vecchie) generazioni. Del Toro con questo film firma una nuova meravigliosa lettera d’amore per il personaggio. 

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