Gli anni
passano, i bambini cambiano e i giocattoli, come le tate, gli insegnanti e gli
educatori, sono pronti a nuove sfide. E la sfida più dura è quella di scoprire
che di loro non c'è più bisogno, che altri prenderanno il loro posto nella cura
del bambino. Come il piccolo Andy è cresciuto, anche Woody il cowboy è
diventato un giocattolo più consapevole del suo ruolo e del suo tempo. Nel
primo film negava che un nuovo giocattolo prendesse il suo posto nella
cameretta del bambino, nel secondo comprendeva la tristezza di essere un
giocattolo "vintage", un "oggetto" che poteva essere da
esposizione chiuso in una teca di vetro come un quadro. Nel terzo film
accettava di passare a una proprietaria più giovane, Bonnie. Nel quarto
dall'inizio sa che il ruolo di giocattolo prefetto, di sceriffo, è passato per
Bonnie a Jessie, la Cowgirl. E allora cosa fare, come essere ancora utile? Con
l'esperienza e con la comprensione più matura del suo ruolo di giocattolo,
tata, insegnante ed educatore. Mettersi al servizio della bambina in modo del
tutto disinteressato, sostenerla e spronarla anche se dietro le quinte, in modo
silenzioso. Così Woody segue di nascosto Bonnie nel suo primo giorno di asilo,
quando ancora sola e senza amici crea da un "forchetto", uno spago,
uno stecchino e qualche optional di Art Attack un pupazzetto.
"Forchi", doppiato molto bene da Luca Laurenti. Lei si affeziona a
Forchi, mentre questo nuovo giocattolo non ha ancora chiaro il suo posto nel
mondo, si considera "spazzatura" in quanto "fatto di spazzatura"
(per la sua particola creazione, che vi invito ad approfondire al cinema). Un
oggetto inutile come forse un po' inutile si sente ora Woody. Woody e Forchi si
trovano così protagonisti per una serie di circostanze in una avventura on the
road che li porterà nei pressi di un parco giochi e di uno strano negozio di
antiquario dove i giocattoli stanno dietro a una teca di vetro da troppi anni.
Sentire
Woody senza la voce di Fabrizio Frizzi è un dolore, nonostante il buon lavoro
svolto da Angelo Maggi. Così come fa commuovere rivedere su schermo i
giocattoli della Pixar, in storie che progressivamente si sono fatte sempre più
intime e forse tragiche. Il divertimento c'è sempre, ma la lacrimuccia è sempre
più insidiosa ad ogni film e questo Toy Story 4, dietro la patina colorata e
gioiosa di una animazione computerizzata sempre più calda e gentile, non manca
di scene davvero strazianti. È un film crepuscolare, sulla necessità di
reinventarsi la propria vita dopo che il vecchio lavoro è finito del tutto, senza
tradire quello che si è sempre ritenuto importante. Come chi "ha fatto il
suo corso", anche i giocattoli più amati vengono dimenticati, finiscono in
soffitta, al mercatino e se sono stati "persi" non vengono più
ritrovati o ricercati. Si chiude un capitolo con il bambino che si aiutava a
crescere, si fanno i conti su quello che si vuole ancora fare nella prospettiva
che un altro bambino da accudire non ci sia più. È doloroso, è realistico. Non
è una seconda occasione, che non arriverà più. È la necessità di una rinascita.
È attuale in modo drammatico, vista la velocità in cui negli ultimi tempi con
la crisi molte persone hanno dovuto reinventarsi un lavoro e cercare un nuovo
posto nel mondo. Toy Story arriva a parlare di giocattoli che per sapere come
affrontare il proprio futuro devono seguire o "avere" una loro "voce interiore" a guidarli. Su questo tema/metafora, non priva di
enormi implicazioni psicanalitiche, trovano fondamento suggestioni
narrative pirotecniche quanto universali, profonde quanto ridicole, buffe
quanto quasi horror (con una scena che non sarebbe sfigurata in Saw
l'enigmista). E Pixar, con la stoffa che da anni dimostra nel campo, palleggia
tutte queste suggestioni con la leggerezza di cui solo lei è capace, con la
cristallina semplicità che riesce a trasmettere anche quando vuole far
ragionare i bambini, quanto gli adulti, su temi anche molto complessi. Ne
risulta, ancora una volta, un film straordinario, unico, profondo e
godibilissimo. Una gemma che vi farà ridere e vi farà piangere. Per i bambini
uno spettacolo colorato che ricorderanno come una bella gita trascorsa in
famiglia. Per i genitori e adulti uno spettacolo che trasmetterà catarticamente
tutta la gioia e disperazione di poter essere bambini, ma solo per 90 minuti.
Con la consapevolezza che a volte il genitore è più simile per ruolo a quello
di un giocattolo che prima o poi sarà vecchio. Grazie ancora una volta, Pixar,
per le grandi emozioni, il grande spirito positivo che infondi nei tuoi
prodotti insieme alle troppe lacrime.
- Sinossi fatta male: Karen è una giovane, bellissima, ironica, un po'
depressa e sexy mamma single (Aubrey Plaza), con a carico un figlio, Andy, un
po' solo e un po' depresso pure lui (Gabriel Bateman), lavora come cassiera in
un centro commerciale e vive in un palazzo fatiscente in un quartiere
abbastanza povero. Come tutte le giovani ragazze bellissime, ironiche, un po'
depresse e sexy mamme single, pure Karen sta con un tizio stronzissimo, Henry (Tim Matheson), che la tratta come una pezza da piedi e odia il figlio. Oramai
Andy, quando sa che c'è Henry in casa, preferisce uscire dall'appartamento per
non vederlo urlare contro di lui o accoppiarsi con la madre davanti a lui. Chi
salverà Andy? Forse Chucky (in originale sempre doppiato storicamente da Mark
"Luke Skywalker" Hamill, doppiatore storico nei cartoni animati
americani anche del Joker di Batman, per capirci) una nuova bambola
ultra-tecnologica wi-fi, wire-less, chrome-cast, domotica deluxe, un po' Siri e
un po' Teddy Ruxpin e con qualcosa di "Emiglio è meglio". Insomma,
una specie di pupazzo semi-senziente, in grado di muoversi, forse pensare, con
una peculiarità in più rispetto a tutti i pupazzi come lui. Il costruttore
cinese sottopagato della catena di montaggio addetto a questo Chucky, con il
chiaro intento di fare un danno economico alla sua azienda irriconoscente, ha
deciso, prima di passare il pupazzo alla sezione confezionamento finale, di
"togliergli ogni limitatore" e "protezione da tre leggi dei
robot", per poi suicidarsi nei primi tre minuti della pellicola. Perché
sì, questa azienda cinese, ha in pratica creato dei Terminator nani senza
accorgersene. Così il nostro Chucky con coscienza, dopo varie traversie,
arriva ad Andy in anticipo di due settimane dal suo compleanno, con tutta
l'intenzione di diventare il suo "migliore amico". E Chucky impara.
Impara quello che gli insegna un ragazzino sui dodici anni per lo più
bullizzato dagli amici e maltrattato dall'amico di mamma. Impara che questo
ragazzino ride ed è felice quando vede un film come Non aprite quella porta,
dove le persone vengono uccise e fatte a pezzi. Chucky non ha filtri, assorbe
tutto e cercherà con tutte le forze di difendere Andy, magari facendolo ridere
e rendendolo così felice. Seguirà sangue e humor nero per 90 minuti di
pellicola.
- Oltre le aspettative: ero curioso, un po' scettico ma abbastanza
"tranquillo" su questo remake di Chucky. Amo la saga di Bambola
Assassina per la sua anarchica leggerezza e humor nero, trovando unico e
straordinario in primis proprio il pupazzo di Chucky. Anche se il remake avesse
stravolto le regole alla base del franchise (come di fatto fa), la bambola
sarebbe rimasta quella, con tutto il carisma e anima splatter che si porta
dietro dagli anni '80. Se cercavo come minimo sindacale un po' di gore, sapevo
di trovarlo anche in questa forma. In qualche modo ero rasserenato anche dal
marchio Midnight Factory, che ha portato negli ultimi anni in sala ed home
video dei prodotti nella stragrande maggioranza dei casi interessantissimi. Poi
la sorpresa. Questa nuova trama funziona benissimo e gli attori, Aubrey Plaza e
il piccolo Gabriel Bateman, sono davvero bravi. Perfino i comprimari, i giovani
Ty Consiglio e Beatrice Kitsos e il simpatico Brian Tyree Henry (in questo
periodo in sala anche con l'interessante "johnwickano" Hotel Artemis)
funzionano molto bene. Non avevo dubbi sulle capacità di Hamill di creare con
la sua voce una creatura inquietante, ma mi ha saputo davvero sorprendere.
Anche gli effetti e le location, anche il ritmo narrativo, funziona tutto e i
90 minuti della pellicola scorrono che è un piacere. Parlavamo giorni fa del
regista Lars Klevberg per Polaroid, un omaggio al cinema slasher anni '80 con i
suoi difetti ma anche con qualche idea gustosa. Il tiro qui è migliore e il risultato
finale decisamente convince. Una bella scommessa vinta rischiando su qualcosa
di nuovo.
- Chucky 2.0: Questo è un Chucky tutto nuovo. Non è, come nell'originale,
un serial killer sadico e sarcastico che per sopravvive a una sparatoria si
fondeva con una bambola e aveva di conseguenza la frustrazione di non avere più
il pisello (e per compensare la libido aumentava la sua voglia di uccidere). A
Chucky toccava spostarsi su target/vittime più a misura della sua attuale
altezza e il piccolo Andy e il suo mondo da bambino diventavano per lui
ostacoli non certo appaganti, ma che non poteva scegliere o cambiare. È invece,
questo nuovo Chucky, una creatura diversa. Una intelligenza artigianale magari
davvero "con buone intenzioni", a cui inculcano, senza dargli accesso
ad un sottotesto per comprendere al meglio le cose, che è "giusto"
comportarsi come un mostro come faccia di cuoio di Non aprite quella porta. La
citazione al capolavoro di Tobe Hooper (peraltro altro film ora nel catalogo
di Midnight Factory, in edizione extra lusso) è diretta e folgorante. Un
bambino trascurato e depresso come il protagonista, il "nuovo Andy",
osteggiato da un patrigno davvero crudele, vede insieme ai suoi amici e a
Chucky in TV Non Aprite quella porta. In questa scena, che è davvero il cuore
del film, Andy nella finzione cinematografica di Non aprite quella porta riesce
ad esorcizzare le violenza che subisce tutti i giorni dal patrigno e
ride, si diverte. Forse vorrebbe avere la forza di Faccia di cuoio per affrontare
il patrigno, ma è al contempo consapevole che quello è un film, che è tutta una
messa in scena in grado giusto di offrirgli uno sfogo. Il suo pupazzo, che non
distingue finzione da realtà, ma registra solo il fatto che il bambino è
felice, cerca di diventare come un mostro da film horror, per rendere contento
il suo Andy. Lo fa con tutta la spontaneità e ingenuità che gli consente il
fatto di non avere limitazioni e codici morali per via di quanto avviene nei
primi minuti del film. Lo fa perché pensa che sia un bene. E non viene
compreso, non gli viene detto dove "sbaglia". È un Chucky quasi
tragico, che passerà anche a un altro padrone-bambino, che lo tratterà pure con
disprezzo, ribattezzandolo "faccia di merda". È un Chucky che
cercherà di rimettere insieme la sua relazione con Andy sulla base del
linguaggio che ha pensato di condividere con lui, basato sulle suggestioni dei
film horror. Anche se forse fa un po' ridere attribuire una "tragicità
Shakespeariana" ad un pupazzo assassino nato e prosperato nel filone più
consapevolmente grossolano e "easy" dell'horror per appassionati,
questo Chucky è tragico. Con un nuovo capitolo di Bambola Assassina non si
voleva certo ambire a Shining, Rosmary's Baby, Hereditary, VVitch. Siamo
e restiamo in un filone più allineato a roba come Violent Cop, Critters,
Venerdì 13, ma questo è davvero uno spunto in più che rielabora, aggiorna ed
espande il concetto stesso della Bambola Assassina. L'originale Chucky era
pensato a metà tra un folletto e un babau. Frutto della fantasia di Don Mancini
(autore storico e anche regista dell'ultimo e fantastico trittico
cinematografico sulle avventure della Bambola Assassina Chucky: Il figlio di
Chucky, La maledizione di Chucky e Il culto di Chucky), Chucky è
idealmente un po' come il folletto che ruba il respiro ai bambini nel terzo
episodio de L'occhio del gatto di King (Klevberg in Polaroid citava anche un
po' il Fotocane di King). È un po' come i piccoli demoni di Non avere paura del
buio e in un certo senso è anche un po' come IT. Un mostro che se la prende con
i bambini e la loro innocenza, impossibile da vedere per il mondo degli adulti
e per questo affrontabile solo dai bambini (che peraltro possono batterlo).
Chucky come queste creature "ha un raggio d'azione limitato", ed in
più è un babau zoppo e impotente, che sopravvive e uccide giocando sul fatto di
essere percepito come un essere effimero e tutto sommato debole. Chucky è un
cattivo che deve "sopravvivere alla sua mission di assassino sfigato"
e usa un sarcasmo sfrenato, con cui facilmente riusciamo a empatizzare come
spettatori. Si può quasi parteggiare per lui, come per Freddy, ma non si può
dimenticare che è in fondo, come lo era Freddy, il classico e più
pericoloso "bulletto", verso cui la Società (famiglia, scuola, istituzioni varie) non prende alcun
provvedimento in quanto è percepito solo come spauracchio. In più, Chucky è un
giocattolo. Un prodotto commerciale, un ammasso di plastica e stoffa, pagato
dai genitori, per intrattenere i pupi. Se facesse altro, se risultasse ai
bambini in qualche misura "pericoloso", sarebbe probabilmente un
problema di "autosuggestione" dei ragazzini, probabilmente frutto
della loro fantasia fervida e sfrenata. Materia da psicologi infantili di
cui i genitori si lavano un po' le mani. Perché i giocattoli sono sempre per
gli adulti "roba da bambini e per bambini". E questo discorso può
valere (e questo è interessante perché Bambola Assassina è nato molto prima
della diffusione dei videogame espressamente pensati per adulti) oggi anche per
i videogame con in copertina "vietato ai minori di 18 anni", che
vengono acquistati con leggerezza da genitori incuranti delle possibili
conseguenze non educative del prodotto, unicamente perché il bambino lo
richiede. Che poi oggi è purtroppo automatico che un gioco (o videogioco) stia
per un certo tempo con il bambino in assenza della supervisione del genitore.
Comprando un gioco, il genitore si compra del tempo libero dal figlio,
facendoci pure una bella figura: "Te l'ho preso, ora ci giochi dopo i
compiti e non rompere!!". Dopo l'acquisto il genitore nel 95% dei casi ha
finito il suo rapporto diretto con il gioco che ha comprato per suo
figlio. Il giocattolo, che sia videogame come un peluche (che può pure
essere tossico per i materiali con cui è realizzato) è tragicamente una
bambinaia a ore, e Chucky è davvero il volto cattivo dei giocatoli di Toy
Story. Ed è significativo che questo remake e Toy Story in questo periodo siano
a due sale di distanza nello stesso multisala, con Annabelle 3 che a breve si
unirà alla comitiva. Questa estate al cinema i giocattoli saranno un argomento forte. Ma torniamo a Chucky. Lo spunto originale di questo mini-babau ha reso
grande la prima pellicola, diretta da Tom "Ammazzavampiri" Holland (peraltro sceneggiatore di Psycho 2 e del quasi culto Classe 1984 di Lester), ha
dato il giusto stimolo a Ronny Yu per reinterpretare, con una abbondante dose
di ironia e citazionismo, Chucky come novelli Frankenstein in chiave pop (La
sposa di Chucky) e ha permesso al bambolotto di sopravvivere nonostante due
film invero bruttini. La bambola assassina 2 e 3, che ricordo con affetto in
ragione comunque delle due rispettive ambientazioni (molto interessanti ma
poco sfruttate) della clinica- manicomio per bambini e dell'accademia militare,
sono davvero i 2 fast 2 furious del brand, con La sposa di Chucky
che da buon Fast'n'furious: Tokyo Drift ha rilanciato il brand (pure qui un regista asiatico dietro al rilancio, i casi della vita!).
- Conclusioni: Il nuovo Chucky, che a quanto ho capito non sostituirà
l'originale bambola maledetta (la vecchia versione dovrebbe godere di una
serie TV sceneggiata da Don Mancini), ma aprirà un nuovo filone, aggiorna in
tutto e per tutto il brand, sostituendo la plastica e stoffa della bambola originale
con ingranaggi e chip dell'era degli smartphone e delle
"mini-intelligenze artificiali" come Siri. È una bella svolta
narrativa che sposta il messaggio di queste opere dalla necessità di
"ascoltare i bambini", alla necessità di far comprendere e metabolizzare
la violenza ai bambini. La violenza non va negata, ma affrontata, insieme agli
adulti, oppure diviene una spirale in cui non è troppo difficile cadere senza
sapere bene come uscire, desiderando vendette virtuali che possono tradursi in
drammi reali. Il delizioso humor nero di questa nuova e un po' malinconica
Bambola Assassina ci porta da queste parti. Una sorpresa inaspettata sotto
l'ombrellone per divertirsi, spaventarsi e un po' riflettere.
Ve li
ricordate? Io me lo ricordo come fosse ieri, il momento in cui queste
mefistofeliche creature di un supposto "show per bambini" entrarono
nella mia spaventata immaginazione di "quattrenne/cinquenne"
abbandonato incautamente davanti alla tv. C'era questa specie di
videoclip/sigla, che una volta entrata in testa con suoni e immagini non ti
usciva mai più...
Io ci ho sempre fatto gli incubi, forse per via di
tutta quella strana ossessione/paura dei pupazzi che colpisce i bambini
piccoli. Pure mia sorella mi ricordo che aveva paura ad andare sul trenino di
Gardaland perché spaventata senza un chiaro motivo dalla "caverna del
Drago Prezzemolo". Avete presente?
Negli anni '80 i pupazzi in effetti erano più
inquietanti... ma torniamo ai Banana Split, perché pare che ad avere gli incubi
non sono stato solo io, ma anche gente di Hollywood. Ecco perché oggi esce
questo trailer
I più giovincelli probabilmente invocheranno una mezza
paraculata. Un film su pupazzi che diventano "malvagi" che viene
fatto perché, nel frattempo, non riesce ad uscire il film tratto dal videogame
di Five Nights at Freddy's, soprattutto dopo che l'autore, con già il contratto
di Blumhouse firmato, lo sta scrivendo e riscrivendo da mesi nella convinzione
di fare IT. Certo, probabilmente si vuole cavalcare l'onda, ma quei pupazzi
pelosi anni '70, diavolo, facevano davvero paura prima ancora che ti dicessero
che potevano essere dei mostri psicopatici in un film o un videogame. E in
Giappone c'è ormai tutto un filone di opere che sottolinea il connubio tra
"pupazzoso e cattivo/inquietante", tra i vari Danganrompa, Gleipnir,
Dolly Kill Kill ecc. ecc. Prezzemolo!! A questo punto voglio un film su
Prezzemolo di Soavi, con effetti di Stivaletti e le musiche dei Goblin! Ma
sicuro ci arriveremo a questo punto, il vostro pelouche presto farà più paura
dei pagliacci del circo, probabilmente
A produrre è Syfy, che suona di fatto come Asylum e
"tornadi squaleschi" e quindi "non sorprende" per la voglia
di anticipare il trend proprio di Five Nights, di Blumhouse. Insomma, siamo
davvero un po' dalle parti di Atlantic Rim, presentato in
concomitanza di Pacific Rim. Questo non è di sicuro un buon punto
di partenza in effetti, ma quei pupazzi del Banana Split Show trasudano ancora
oggi carisma e inquietudine.
La regia è di Danishka Esterhazy (che ha diretto solo
cose che non ho mai visto), il film sarà un "film Tv" e l'idea di
Syfy è cavalcare magari un altro Sharknado mediatico. La sceneggiatura è in
mano di tizi che hanno fatto uno Scooby Doo o roba così, il cast è
probabilmente composto da dei vicini di casa di qualcuno. Insomma, devono
sorprenderci forte a questo giro, dispiace manchi in cartellone un "nome
di grido del passato disperso" come Ian Ziering (Sharknado) o Steve
Guttenberg (Lavantula). Il carisma di questi pupazzi però non è male, e io sto
già tremando...
Non credete ai pupazzi e state attenti se vi seguono di
notte per strada con i loro go-kart maledetti. Sotto il pelo c'è probabilmente
un Terminator. Speriamo che questo film sia una bella sorpresa come l'ultimo
Chucky.
-
Micro-sinossi: Madison Russell (Milly Bobby Brown) è una ragazzina americana
che metaforicamente potrebbe essere una sorta di Greta Thunberg. I suoi
genitori metaforici sarebbero gli "adulti dei giorni nostri"
che hanno forse deciso di affrontare, dopo mille tentennamenti, il tema del
cambiamento climatico. Certo i cambiamenti climatici al cinema hanno avuto
metaforicamente forma di glaciazioni improvvise (The Day after tomorrow),
tornadi squaleschi (Sharknado), alluvioni da rapina (Pioggia Infernale),
terremoti più forti di The Rock (San Andreas), vulcani decolorati (Dante's
Peak). Ma quale metaforone del cambiamento climatico può essere
cinematograficamente più forte e convincente dei mostroni giganteschi? Mostroni
che vivevano nel sottosuolo terrestre e ora, dopo che abbiamo inquinato,
deforestato, depauperato e trivellato la loro casa, sono venuti in superficie
per distruggerci e ripristinare lo status quo. Con le loro manone, code
acuminate e raggi laser, i mostroni sono pronti a farci diventare una
"civiltà perduta" come Atlantide, Agartha, Mur e altra roba più o
meno storica o fanta-storica. E c'è pure nel film una spiegazione razionale di
stampo "immunologico" a questo fenomeno. Gli "umani
germi-inquinatori" hanno ammalato madre terra che ora scarica su di loro i
suoi "mostri giganti-anticorpi". E cosa può fare l'uomo, in senso
lato la famiglia di Madison? Seguendo l'idea del padre Mark (Kyle
Chandler), forse è possibile convivere con i mostri emersi in superficie, controllarne
i movimenti e forse comunicare con loro come si fa con le balene, per evitare
che si dirigano dove gli umani sono più indifesi. L'uomo, conoscendo sempre più
i mostri, diventerà umile e più rispettoso dell'ambiente. Era
metaforicamente in prospettiva climatica l'idea di Al Gore di
"inquinare meno e vivere responsabili". Seguendo invece l'idea della
madre Emma (Vera Farmiga), bisogna che tutti i mostri siano lasciati liberi di
compiere il loro lavoro di ultracorpi. Ridare loro in mano in mondo, nascondendo magari la razza umana all'interno dei molti bunker segreti,
già scavati dalla associazione Monarch in sessant'anni di attività, sotto la
superficie terrestre. Quando e se gli umani riemergeranno, il mondo sarà un
paradiso nuovo, mondato e privo dell'inquinamento che ora lo affligge. E questa
metaforicamente è l'idea che apprezzerebbero alcuni noti supercattivi come
Magneto, il Samuel Jackson cattivo di Kingsman, metà dei villain dei libri di
Dan Brown. E Madison/Greta è lì, nel mezzo, tra una scelta sensata e una da
fumetto, senza avere ancora chiare le ricette dei rispettivi genitori per
affrontare i mostri/ambiente che loro stanno elaborando in modo confuso. E
ognuno dei suoi "genitori/metafora" le chiede di schierarsi dalla sua
parte. Cerchiamo di non inquinare e migliorare la nostra convivenza con
la natura o non combattiamo più, consegniamo il mondo alla
natura e sia quello che sia? Questa seconda azione, in un film con al
centro dei mostri giganti, da situazione di inerzia (o da idea di attacco
atomico /batteriologico ammazzatutti in chiave "fumettistica") può diventare, e diventa, un'azione provocata specifica, l'incipit
narrativo. Il (non troppo) famoso Liberate il Kraken, oggetto di (poco vendute) t-shirt ai tempi di Scontro tra titani. Un Liberate i
kraken, al plurale, per essere precisi. I mostri che da anni studia
e ritrova l'organizzazione Monarch in giro per il mondo (come già ci
hanno raccontato il precedente Godzilla e Kong Skull Island) sono tantissimi,
ormai quasi una ventina. Sono tutti sorvegliati in basi/crateri sotterranei
stile il geo front di Evangelion (questa citazione è ovviamente rivolta agli
appassionati di cartoni animati giapponesi). Da una organizzazione comandata
dal grande attore Charles Dance, di cui forse sì forse no fa parte la madre di
Madison, i mostri vengono spinti a uscire dalle loro tane sorvegliate, a suon
di esplosivi e smitragliate varie, a scopo "apocalisse Royale
rumble".
Solo che
il piano non funziona come si vorrebbe, perché proprio il primo mostro che si
sceglie di svegliare non è un "anticorpo della terra", ma un essere
alieno, un parassita xenomorfo. Un incredibile colpo di scena che muta la
metafora mostri/natura/grande corpo umano? No, solo una variazione del genere
disaster movie, dove al posto di un vulcano la minaccia è costituita da un
meteorite (come in Armageddon, Deep Impact ecc.). Si sveglia così Ghidorah.
Una creatura/meteorite ben più forte dei "titani/anticorpo standard",
imprevedibile, enorme, quasi immortale, di cui nei testi antichi si avevano
vaghissime ma documentatissime conoscenze (si parla della mitologica Idra, ma anche del drago dell'apocalisse di San Giovanni), che ora,
vuoi per la sfiga, vuoi per il karma non cercherà
davvero di sanare un pianeta inquinato quanto di limitarne drasticamente i
giorni. Una creatura/metafora/meteorite/drago dorato a tre teste che, anzi,
forse ha già distrutto il mondo in passato e ora sta chiamando a raccolta tutti
gli altri mostri/titani per combatterli (nello stress test di resistenza della
terra come organismo) ed essere alla fine libero di distruggere tutto. Siamo
spacciati? Probabile. Ma chissà che pure Godzilla, da anni scomparso, non torni
a combattere per dimostrare a quell'alieno chi è il vero re dei mostri/
l'anticorpo del mese del pianeta Terra. Chissà che gli umani della
G-force, alla guida del loro probabilmente inquinantissimo jet gigate
grande come uno stadio da calcio, possano assistere Godzilla nella lotta contro
il drago dorato e tutti gli altri mostri risvegliati.
Così,
per un gioco del destino tra macro e micro cosmo (argomento sempre forte al
cinema) la famiglia di Madison si divide in due fazioni di super soldati
G-force/Monarch (Capitanate da Ken Watanabe) e Anti-Monarch (Capitanate da
Charles Dance) e inizia a viaggiare per il mondo, per lo più tra basi segrete e
questi mega aerei giganti stile giocattoloni dei G.I.JOE. Nel frattempo lo
spunto/metaforone è bello che finito e i mostri iniziano a menarsi distruggendo
palazzi e soldatini a profusione per la restante durata del film, con Madison
che sarà però ostinatamente e parossisticamente centrale nella vicenda, in un
modo che è giustificabile solo metaforicamente. Chi si salverà? Da che parte si
schiererà la giovane protagonista/ ambientalista?
- Poco
metaforicamente parlando, il problema di gestire al cinema dei pupazzoni:
se la traccia di massima può essere in qualche modo resa più accessibile da un approccio metaforico di
questo tipo, la sceneggiatura di questa pellicola non gode certo di troppa
raffinatezza e gli attori, tutti comunque molto bravi, devono veramente fare i
salti mortali per dare credibilità drammaturgica a questa materia. Il regista,
il bravo Michael Dougherty (andate a recuperare il suo Krampus, del 2015, una
vera bomba se amate i film di Natale oscuri e pieni di mostriciattolo come
Gremlins) riesce a conferire al tutto un ritmo indiavolato. È di sicuro un
esperto di "coolness" nel gestire i mostri, aerei, carrarmatini e
creature digitali in genere. Spesso si arriva a situazioni piuttosto epiche, di
quell'epico-militare che fa tanto la cifra stilistica dei film di Michael Bay e
che in parte anche Edwards nel primo film di Godzilla ricercava. C'è
purtroppo un grosso e ulteriore problema concettuale di cui è Dougherty a farsi
carico: i mostri. La fedeltà totale dei mostri oggi al cinema agli
originali pupazzoni dei film giapponesi storici è di sicuro una scelta netta e
per molti versi davvero encomiabile per rispetto assoluto della fonte. Ma si
può oggi portare in sala, sprecando male la computer grafica, dei mostri che
palesemente ricalcano dei costumi di cartapesta pensati per roba tipo i cattivi
di Megaloman oltre 40 e passa anni fa? Di sicuro serve una precisa strategia
per non "cadere nel goffo", per lo più involontario. Gareth
Edwards, regista della precedente pellicola su Godzilla, del 2014, aveva
centrato appieno la natura dei mostri come "titani", visualizzandolo
come vere e proprie emanazioni del pianeta terra. Vedevi i mostri pochissimo,
ma appena si muovevano partivano maremoti, terremoti, fulmini. L'effetto del
loro passaggio era "la natura" e la figura de mostro in sé era tenuta
coperta, nascosta nell'ombra, per lo più "staticamente fissa e
minacciosa". Una chiave visiva di pensare ai mostri che Edwards
aveva già fatto sua nella sua pellicola precedente, del 2010, Monsters.
Anche Edwards aveva scelto, o gli avevano imposto la fedeltà totale al mostro
classico creato dalla giapponese Toho. Certo in quei pochi secondi di pellicola
in cui il mostro lo dovevi vedere per davvero, Edwards sperava di coprirlo con
il buio, la pioggia, inquadrature controcampo e artifizi vari. L'alternativa
era rivelare la sua origine "pupazzoide". Un pupazzone che male
nasconde il tizio in calzamaglia coperto da un brutto costume di cartone. Apro
parentesi: il Godzilla classico è iconico, straordinario come concetto e
pioneristico per tutti i mostri cinematografici che sarebbero a lui seguiti. Ma
spogliato dell'aura mitica è un coso con dei piedoni ridicolissimi stile
elefante, una testolina piccola, una panza immensa e delle braccine buffe.
Negli anni hanno fatto dei veri e propri miracoli tra inquadrature, luci,
effetti sonori e musica per renderlo un minimo credibile. Hanno puntato sui
suoi "pezzi forti" come la coda, le scaglie e il raggio fotonico, per distrarci da tutto il resto. Anche Edwards ha fatto di tutto per
tenere il lucertolone nascosto o fermo e inquadrato dal basso.
Fuggendo giustamente (anche se un po' vigliaccamente) dalla prospettiva di
rappresentare a pieno schermo e piena luce uno scontro tra mostri giganti di
cartapesta (invero un po' bruttini) sulla scenografia di un modellino di una
città fatta di cartapesta, con i canoni del telefilm medio dei Power Rangers.
Questo perché Godzilla è invecchiato male per l'era della alta definizione e
dell'effetto speciale "credibile". Jurassic Park ha alzato di
tantissimo l'asticella in tema di costruzione cinematografica di dinosauri et
similia, al punto che anche Anno, che è un genio ma di solito anche un
integralista, nel più recente Godzilla cinematografico Giapponese, ha dovuto
cedere al conservatorismo e ha stravolto quasi del tutto la fisionomia e fisica
del celebre lucertolone (in un modo che dire esaltante quanto artigianale è
poco). Il primo Godzilla americano, quello del film del 1998, disegnato
da Patrick Tatopoulos su spunto di Emmerich, sulla scia di Jurassic Park
era più simile a un incrocio tra un alien e un velociraptor che a un
tizio in calzamaglia. Aveva, tanto per dire, le zampe di un rettile e non una
specie di moonboots stile elefante. Ma non era piaciuto ai giapponesi,
fondamentalmente perché era "troppo mobile". I maligni ritengono che
un Godzilla come quello del film del 1998, da subito ribattezzato dai guappi
con disprezzo "Gino" (Godzilla in name only, l'acronimo di Gino), non
sarebbe mai stato possibile replicarlo con il budget nipponico che in genere
dedicano ai film di Godzilla prodotti dalla Toho. Era meglio disprezzarlo. Gli
americani al nuovo giro del 2014, secondo i complottisti, sarebbero stati così
obbligati contrattualmente a riprodurre fedelmente i mostri nella loro
forma più pura di costumi di cartapesta degli anni '60. Il risultato per
Edwards era di totale sottrazione dell'immagine ed è per Dougherty di
inevitabile azione impacciata. Se Edwards se la cavava con un paio di scontri
al buio, Dougherty doveva rappresentare battaglie con più mostri coinvolti in
un mondo che sembrasse per lo più "credibile" e "fluido".
Il problema è che un bambino di 6 anni, che gioca sul tappeto con i pupazzetti
di plastica di questi mostri replicandone con la bocca i versi, può mettere in
scena facilmente delle azioni di lotta più adrenaliniche. Almeno, questo è il
mio giudizio personale sulla gestione delle animazioni di lotta dei mostri in
questi film. Godzilla con le sue "manine" che cercano di
"placcare" il drago a tre teste è ridicolissimo, perché è un'azione,
pur famosa (e magari amata) nella storia del "Godzilla
tradizionale", del tutto goffa e insensata per la struttura
corporale "credibile" di una creatura fatta al computer nel 2019.
Mette tanta tenerezza. Quello che un costume di pezza poteva far
perdonare, la computer grafica svela come un televisore in alta definizione fa
sfigurare gli effetti visivi dei film anni '80 come Ghostbusters (che
all'epoca su pellicola non digitale sembravano pure belli!!!). Non è un caso
che nel Godzilla di Anno le braccine del lucertolone siano solo
"vestigiali", come protuberanze inerti simili alle piccole braccia di
un tirannosauro che "per stringerti" usava direttamente la grossa bocca
carica di denti. I giapponesi stessi hanno superato i limiti strutturali dei
loro mostri classici, ma (sempre per i complottisti) hanno imposto agli
occidentali i loro modelli storici. I mostri e relativi combattimenti di Skull
Island, pellicola legata al franchise di Godzilla anche in virtù de film
dell'anno prossimo, Godzilla vs Kong, sono tutta un'altra cosa, anche perché
Kong, nato non come un "costume" ma come "creatura di
plastilina", era già all'origine una creatura con molta più mobilità e
coerenza fisica. I movimenti di Kong sono più dinamici, sono appaganti da
scorgere nei dettagli. Possono essere alla luce del sole e come coreografie di
lotta non si limitano al lancio di raggi colorati (e a fare tutte le altre
azioni in modo goffo). Quando "stanno fermi", magari in minacciose
pose plastiche, i mostri di Godzilla King of the Monsters invece funzionano
alla grande, come li inquadrava Edwards, sono davvero evocativi. Ma questo era
ovviamente più facile da fare e Dougherty non poteva farlo sempre. Quindi sta
un po' a voi, valutare come questa volontà di essere aderenti alle
raffigurazioni classiche possa piacere o meno. Io onestamente non riesco a essere troppo critico, ma nemmeno troppo indulgente, su questa scelta. Avrei
preferito vedere mosti più mobili e meno "ingessati", un po' alla
maniera di Pacific Rim. Ma mai come in questo caso sono convinto che siamo
ampiamente nel territorio dei "gusti personali".
- Tanta
voglia di soldatini: Moooolto fico, invece, tutto ciò che concerne Monarch e
G-Force. Nel film di Edwards sapevamo che Monarch era una organizzazione
potente, con le mani in pasta e grossi fondi, ma di cui abbiamo visto
pochissimo. In Skull Island, Monarch era ancora solo una azienda governativa
alla sue origini, aveva zero soldati operativi ma era già dotata di basi
segrete e un ricco staff di scienziati. In King of the Monsters vediamo davvero
e per la prima volta la Monarch in tutto il suo potenziale espresso. Ed è
davvero immensa, piena di basi segrete in tutto il mondo, truppe e scienziati,
alleanze internazionali, aerei, sommergibili, super-armi. L'aereo-fortezza
della G-force, la parte combattente di Monarch, avessi 9 anni, lo
chiederei a Babbo Natale. È un colosso del cielo tipo il mega aereo finale di
Conan il ragazzo del futuro di Miyazaki. Pieno di torrette, ponti di lancio di
aerei più piccoli, un ricco equipaggio. È grande quanto Rodan e forse potrebbe
tenergli testa per un po'. Sarebbe un sogno bagnato da nerd troppo vecchio, ma
nel prossimo Godzilla vs Kong mi piacerebbe vedere una delle più iconiche e
colossali unità della G-force, il Mecha-Godzilla. Certo fa strano che di colpo
si parli della Monarch come di un esercito parallelo, ma a livello visivo tutti
questi omini in uniforme e veicoli speciali funzionano. Anche se stridono
un po' alcune scelte "militari" rivolte alla presentazione" della piccola Madison. Sono sequenza che abbassano un po'
il livello di credibilità generale del film. Ma forse parlare di credibilità,
di questo ambito, comprendo possa apparire azzardato.
- Il
grande attore si vede anche nei luoghi più inaspettati: Ken Watanabe, Vera
Farmiga, Charles Dance. Wow. Questo trio da solo si sobbarca un peso titanico,
davvero titanico, sull'economia generale del film. Le loro parti sono
assolutamente ingrate, scritte male, troppo abbozzate. Loro ci mettono
"l'anima" e danno un cuore a dei personaggini da due soldi. È un vero
atto d'amore alla professione di attore, la loro interpretazione. Un cesello di
sguardi e pose, quasi Shakespeariane, che va disperatamene a completare e
nobilitare quanto sulla carta non c'è scritto. Lo spirito di sacrificio,
l'orgoglio, il tormento per il senso di colpa, impotenza di essere un buon
genitore. Tutte emozioni che, più che dalle parole, trasudano e risuonano dai
corpi di questi straordinari attori. Emozioni gentilmente sottolineate da una
colonna sonora che non si dimentica tra tanta potenza visiva e sonora
"necessaria" di citare Debussy.
- La
farfalla: Mothra, che suona come "Mother", come "madre
natura", è fin dal primo trailer la creatura più bella e sognante
dell'intera pellicola. Sembra in lei raggiunta la leggerezza spettacolare e il
senso di stupore metafisico di creature come gli alieni di Incontri ravvicinati
del terzo tipo. Pura poesia che traghetta l'opera verso la sua anima più
favolistica e bonariamente ingenua. Dougherty quando "tratta" Mothra
diventa davvero Spielberg. Cita nelle sue scene non sono Incontri ravvicinati
ma anche i templi e l'estasi mistica de I predatori dell'arca perduta, la
dolcezza di E.T., perfino nell'uso delle inquadrature, alcune suggestioni sulla
poesia del volo riprese da L'impero del sole. Mothra è un film a sé e fa
sfigurare il più "sanguigno" e prevedibile Rodan, rende meno
interessante il luciferino Ghidorah, addirittura annienta con il suo carisma un
Godzilla che davvero "non ce la fa".
- Si,
per me Godzilla "non ce la fa": spoglialo dei fulmini, maremoti e
tempeste notturne e vedrai un lucertolone cicciottone con lo sguardo da gattino
e una scarsa convinzione nei movimenti. Una creatura incatenata alla sua forma visiva più classica, che inevitabilmente la schiaccia. Pure in
versione "potenziata", la sua natura buffa non scompare, anche se
tutto il cast continua a urlare frasi che sottolineano quanto il mostro stia compiendo
azioni clamorose ed eroiche, quanta potenza di fuoco stia sprigionando. Il
Godzilla di Anno mutava pelle, esplodeva di ossa e sangue, vomitava fuoco
alterando la forma del suo collo e del suo volto, lanciava raggi da una coda
enorme simile alla punta di uno scorpione, si appoggiava ai palazzi e li
schiacciava con il suo peso, aveva una pelle che evidenziava venature di lava
su tutto il corpo. Soprattutto, il Godzilla di Anno metteva una paura fottuta.
Questo, opinione mia personale se volete, è una specie di gattone-ciccione, un
coccodrillo trippone con i piedoni e le manine che fa una fatica del diavolo a
mettere insieme un paio di passi dritti. Mentre è in acqua ce lo spacciano per
la creatura veloce che non può essere e che infatti per il resto del film non
è. È buffo, e lo dico con tutta la mestizia che ho un cuore. Io lo trovo
inesorabilmente e irrimediabilmente buffo. E rimpiango il Godzilla
"Shin" di Anno, ma anche il povero e incompreso "Gino" di Emmerich, i Kaiju di Pacific Rim e il T-Rex a spasso per la
città di Jurassic Park 2. Spero di ricredermi a una seconda visione, ma davvero
mi ha convinto di meno di questa pellicola, gradevole pur con molti difetti,
proprio il protagonista.
- Tirando
le somme: Il nuovo film di Godzilla sfrutta in modo un po' confuso un'idea di
fondo interessante ad uno di un intrattenimento alla fine gradevole. Si fa
lustro di un cast di attori di tutto rispetto e di un'azione sempre costante e
che sicuramente piacerà a molti. La decisione di mettere sul campo a menarsi
quanti più pupazzetti colorati possibili paga, anche se gli scontri sono alla
fine meno belli di quanto si auspicava, magari proprio per la fisica dei mostri
coinvolti. Il film diverte, corre veloce, non è scritto per niente bene ma
piacerà di sicuro agli amanti dei kaiju movie, che già pregusteranno la
prossima portata. Forse un ammodernamento di alcuni mostri mi sarebbe piaciuto
e avrebbe evitato la classica sfilata di tizi in calzamaglia coperti da costumi
colorati di mostri di cartapesta, pur mitigata dalla realizzazione in computer
grafica. Aspetto una seconda visione, magari in home-video, per tornare a
parlarvi di questo film. Forse mi è mancata la giusta prospettiva per leggerlo.
A tutti quelli che vivono senza paranoie come me, un'occasione d'oro per andare
al cinema. I mostri giganti vanno gustati su schermo gigante.
La
fortuna è cieca, ma la sfiga vede benissimo e chirurgicamente attacca, colpisce
e distrugge ogni speranza di due amici romani (Ricky Memphis e Giorgio
Tirabassi) con il sogno di fare il "grande salto di qualità", la
svolta della vita. Certo il loro campo lavorativo, gli esperti della rapina,
ultimamente non offre le soddisfazioni di un tempo. Se punti una banca o un
ufficio postale, oggi può essere che qualcuno li svaligi prima di te o che
quella sede sia in ristrutturazione o che la banca sia proprio fallita e non ci
sia contante. E questa è la norma, forse. Solo che sui nostri eroi c'è
nell'aria una sorta di accanimento crudele da parte del fato, qualcosa dalle
parti del Pessimismo Cosmico leopardiano o del Titanismo Tragico fantozziano. E
anche se i nostri sono dei determinatissimi e irriducibili Expendables del
crimine, quando certe forze cosmiche sono in azione c'è poco da fare se non
imparare a incassare, incassare e basta. A meno di decidere davvero di cambiare
vita, leggendo tutta la negatività lavorativa che li circonda come
un messaggio preciso del Karma. In quanto, in fondo, il crimine non è poi un
mestiere da brave persone. Cosa faranno i nostri eroi?
C'è una
colpa precisa alla base dei dolori umani. Se per Fantozzi era l'essere
rinchiusi in un lavoro mediocre che si insiste a perseguire, per i criminali
di Memphis e Tirabassi la colpa è la stessa. Non ci sono ribellioni o moti di
orgoglio che tengano, non ci sono afflati eroici o tragici che commuovano. La
sconfitta di questi eroi è ineluttabile, tanto quanto le risate, amarissime,
degli spettatori. Perché quasi tutti siamo un po' come loro, ostinati nello
sbagliare strada o compagnie. La risata diviene qui una forma di esorcismo dove
in realtà, noi spettatori, ridiamo di noi stessi e della società che ci
ingabbia. Cosa non facile da fare al cinema. Cosa che appunto riusciva a Paolo
Villaggio, a Risi e i suoi "Mostri", a Stanlio e Olio, Mel Brooks, ai
Monty Python e a tutti quanti hanno storicamente legato la risata al dolore
umano. E Tirabassi, alla sua prima prova dietro la macchina da presa, ce la fa.
Ce la fa, al fianco del sodale amico Memphis con cui dimostra di avere una
chimica strepitosa e con cui veicola il più bel messaggio del film: il potere
della "amicizia titanica" nell'affrontare, pur senza mai vincere, il
dolore umano. Ce la fa grazie a una schiera di attori romani noti in brevi e
folgoranti scenette per lo più satiriche e avvolte da uno humour
spesso nero sulfureo (il richiamo ai "Mostri" si sente). Ce la fa
con uno stile di regia senza tempo, elegante quanto vintage, che ricorda
il primo Verdone quanto i film più cattivi di Sordi, Gassman, Tognazzi e,
ovviamente, Villaggio. Ce la fa con la giusta colonna sonora, ce la fa con una
folgorante sceneggiatura con al centro una scena, che separa il primo e il
secondo atto, di una potenza devastante quanto il "piede di Dio" del
Monty Python che compare dal cielo, abbattendosi sulla terra, schiacciando noi misere
formiche umane. Altro che Thanos.
Il
grande salto è un film crudele quanto malinconico, profondamente tragico quanto
satirico. Per questa somma di elementi, uno dei migliori film comici del
periodo, quello che più di "meritiamo" per leggere il tragico periodo
storico che stiamo vivendo ed "esorcizzarci insieme". Con
l'unica pecca di spegnersi un po' negli ultimi minuti, a dispetto di un ritmo
generale sostenuto e molto ben gestito, il Tirabassi regista è una
bellissima sorpresa che rischia di passare sotto traccia in una stagione
cinematografica scandita da un numero sostenuto di grosse produzioni. Andate a
scovarlo e preparate a ridere amaramente di gusto.
È
interessante come di nuovo sia un corto cinematografico a dare il là a un
film che ne estenda la trama e personaggi. Di recente lo abbiamo visto con
Mama, lo abbiamo visto con Lights Out, lo abbiamo visto con Turbo Kid e ce ne
sono un sacco! Io tipo punto che prima o poi mi diventi un film lungo questo
corto qui sotto
Vai Jester che ce la fai!! Già ti vedo i pupazzetti e
le comparsate in Mortal Kombat, ma torniamo in tema, torniamo a Polaroid. Nel
nostro caso il corto era questo:
Non è che sia tutto questo manifesto dell'innovazione.
Tra i miei lettori chi da detto "il foto-cane" di Quattro dopo
mezzanotte di King, o Project Zero o Shutter? O Ring? O altre sessanta
pellicole, game e libri diversi con macchine fotografiche possedute? Ma
il punto non è questo, quanto la natura più sorprendente e sexy dei corti
cinematografici horror. Sai che in tre minuti o poco più ti vogliono
spaventare, tu stai al gioco ma un po' stai "vigile", alla fine salti
sulla sedia e se funziona bene hai il tuo brividino. E Polaroid, di un regista
dal lontano nord Europa, Lars Klevberg, funziona. Ha i tempi giusti, spaventa.
Spaventa così bene che Klevberg ne ha diretto una versione lunga e tipo
"dopodomani" lo troverete ancora al cinema perché ha già avuto luce
verde per un progetto più ambizioso, il remake di Bambola Assassina. Un'altra
bella storia?
Insomma.
Partiamo
dalla trama "espansa". Una ragazzina, con un brutto trascorso passato
alle spalle, vive serena nel suo contesto scolastico nel freddo paesino nord
Americano in cui abita. È appassionata di fotografia e si imbatte in un modello
storico di Polaroid mentre lavora all'antiquario locale. La macchina è
ovviamente maledetta e chi viene fotografato è destinato a morire male. Prima
appare sulla stampa alle sue spalle un'ombra minacciosa, poi nelle ore
successive 'sto sfigato incontra un brutto mostro in bermuda, fisico
bruciacchiato e mani con coltello retrattile. Ovviamente finirà male. La nostra
protagonista porta a una festa questa macchina vintage, con cui tutti si fanno
dei selfie vintage, per poi finire tutti in una spirale di morte per le
mani-coltello di un mostro vintage pure lui. Perché è un mostro molto anni
ottanta, calato perfettamente in uno slasher movie pure lui fortemente anni '80.
È tutto un vintage quindi. Un plauso al momento della "creazione del
mostro", una roba che Andy Kauffman della Troma avrebbe applaudito, tra
fulmini, fuochi, pallottole e tanto lattice prostetico. Forse pure a
Tsukamoto con le sue fusioni/ossessioni uomo-macchina potrebbe apprezzare
questa variante in mutandoni e meno verve di Krueger/Sadako. 'Sto mostro
risponde a sue regole ultraterrene poco chiare, ha naturalmente un passato
"umano" che il gruppo dei protagonisti-vittime deve indagare, ha il
compito di mettere un po' di verve a una pellicola che è davvero troppo,
troppo derivativa. Le giovani vittime sono il classico cast da teen- horror e
rispondono al 100% alla ritualità che questo genere comporta, in un modo che
direi piuttosto "onesto". Gli scenari sono quelli rituali, tra la
scuola, la stazione di polizia e la biblioteca di ogni paesino standard degli
slasher anni '80. Allo stesso modo i colpi di scena arrivano con una certa
prevedibilità, ma non è nemmeno questo il punto, questo genere non ha mai
brillato per inventiva. Ciò che non va è lo "Slash", ed è piuttosto
grave. Lo Slash è "l'omicidio" e in qualche modo diventa la firma
del mostro. La vittima viene fotografata, la Polaroid fa il suo
particolare rumore di ingranaggi prima di lasciare la stampa, che subito viene
sventolata, con il suo rumore di plastica caratteristico, per asciugare
l'immagine. Chi conosce le Polaroid può pure immaginare / ricordare
l'odore della foto. E poi appare il mostro la prima volta, alle spalle di chi è
fotografato. È un rituale semplice e veloce, inesorabile, quanto un corto
cinematografico horror. Solo che il mostro, che in qualche modo è il
"proiettile" di questa "inconsapevole pistola" non è
altrettanto bravo. Si sente il suo respiro, in genere mentre la vittima si
aggira per scenari bui, e poi l'azione finisce in un attimo senza che si abbia
il tempo di capire dinamica e senso. Forse perché un ibrido Kruger/Sadako non
lo puoi concettualmente fare. È questo il grosso limite della pellicola, che
spegne gli entusiasmi per un prodotto tutto sommato discreto, adeguatamente
presentato e diretto, benché chiaramente diretto a una platea
amante del genere. Il mostro, che pure può essere buffo quanto interessante
visivamente, ha poca personalità. Non ha l'incredibile presenza scenica e
l'occhio vitreo e giudicante di Sadako, non ha la verve dialettica quanto la
teatralità di Kruger. Si presenta in azione per lo più in ragione delle sue
mani allungate e bruciate che si avvolgono al collo della vittima e poco
altro. Sembra una "cosa", un essere troppo veicolato dalle regole che
ne spiegano le azioni al punto che le "morti e il modo di evitarle"
sembrano più seguire logiche da Final Destination. È un orco
deludente e monocromatico. Non ha nemmeno un'imponenza tale da permettergli di
essere un convincente bruto come Jason, Micheal o Faccia di Cuoio.
Un vero peccato che poi la trama non cerchi in nessun caso di bypassare questo
suo status, magari dandogli qualche battuta o un background più interessante. E
quindi tutto lo spettacolo si riduce al solito "banchetto di
adolescenti" dello slasher anni ottanta, alimentato come tratto
sociologico dalla nuova ondata edonista del popolo dei selfie (e l'edonismo
anni '80 è stato di fatto un importante precedente). Troppo poco. Può essere
comunque divertente per un'ora e mezza e tanti pop corn. La cornice è quella
giusta, per farcelo piacere dovrete magari attingere dalla vostra memoria
storica di qualche notte Horror su Italia 1.
Temibile mostro in bermuda, più bello però dell'Uomo senza sonno di Bale.
Scena standard di agguato del mostro. Buio. Due mani da mostro di gomma. Urla. FIne. Total: 2,37 secondi di agguato in media
Federica
Angeli è una giornalista che ha avuto il coraggio e la pazzia di denunciare la
criminalità che stava sempre più prendendo possesso delle vie di Ostia, proprio
nel quartiere in cui era nata e cresciuta. Come capita a tutti gli eroi, ha
pagato un carissimo prezzo per questo gesto, tanto a livello professionale che
umano. Ha sofferto le malelingue di chi l'ha accusata di aver peggiorato la
situazione, ha patito la "reclusione forzata" di essere sotto scorta
per 1700 giorni. Qualcuno l'ha sostenuta e la giustizia forse ha iniziato a
fare il suo corso, ma non se l'è passata bene. Questo film di Claudio
Bonivento ha l'indubbio merito sociale di parlarci di Francesca Angeli, ed è
caldamente consigliato per un approfondimento anche il bellissimo libro da cui
la vicenda è tratta, edito da Baldini e Castoldi e scritto dalla stessa
Federica Angeli.
Certo c'è una componente narrativa che "rivisita e
sintetizza i fatti", che si impegna a "coprire i nomi", in
quanto le inchieste sono ancora in atto. Gli eventi, il coraggio e il dramma
umano vogliono comunque essere genuini e la prova della Gerini non è affatto
male. La confezione finale del "prodotto film" di questo A mano
disarmata però è decisamente curiosa, e non tanto per una chiara
indicazione d'uso di stampo televisivo.
Così mi
trovo un po' nell'imbarazzo di quando ero nell'estate del 1994 al cinema
estivo a guardare Il giudice ragazzino di Placido, per cercare di
lumare una mia compagna di classe (spoiler: non ci sono mai riuscito). Quella
sera ero riuscito a sedermi di fianco a lei con alle spalle (giuro!!!!) sua
madre (ri-spoiler: certo, con premesse di questo tipo... nella seconda uscita
cinematografica la situazione è pure peggiorata, in sala tra me e lei c'era tutto
il gruppo scout di cui faceva parte... non prendete appuntamenti al cinema,
mai). Ora, Il Giudice Ragazzino è un film ugualmente importante per il fatto
di raccontare la coraggiosa e sfortunata vita del giudice Livatino e la visione
di queste pellicole ha un po' la funzione di un rito, una celebrazione di etica
che è anche mistica se vogliamo. È proprio il far rivivere gli eventi davanti
al fuoco con la tua collettività, ti verrebbe voglia di partecipare a una
fiaccolata dopo la visione, prendere una chitarra e cantare La Libertà di
Gaber. Insomma, il cinema può essere "anche questo" ed è importate
anche "per questo". Solo che questa ritualità, che ci mette se
vogliamo direttamente in contatto con la Storia, con la "S maiuscola", si scontra per forma anche sul modo in cui la storia con la "s
minuscola" è rappresentata. O almeno questo vale per
me. Così nell'estate del 1994, a fine visione de Il giudice ragazzino di
Placido, ancora al buio prima dei titoli di coda, con tutta la sala che subito
dopo tra qualche lacrima partiva con un applauso spontaneo a celebrazione
della vita del giudice Livatino, io con la mia voce da ragazzino parlo. È un
commento breve e lapidario: "Certo, che questo film è una vera
cagata". È stato come se fossi entrato in chiesa durante il presepe
vivente lamentandomi che il bambino che faceva Gesù stava giocando con il
pallone da calcio. Il film di Placido, che ho rivisto di recente in parte
rivalutandolo almeno per la "sobrietà", era un compitino svogliato e
frettoloso (come quasi tutta la cinematografia di Placido, per me), di cui
però se parlavi male ti prendevi da tutti, e a ragione, dello stronzo. Perché
il rito collettivo non prevede un giudizio sulla rappresentazione della Storia,
la Storia rivive da sola a prescindere se il bambino che fa Gesù nel presepe
vivente ha otto anni e con il pallone ha appena colpito le palle del corista
pastorello che ha imprecato. Capite quindi qual e' il mio cruccio?
Certo Federica Angeli è per me molto più bella della
Gerini. È un po' l'effetto Erin Brockovich, dove Julia Roberts non
poteva minimamente competere con la persona reale che interpretava a cinema.
La Gerini ci mette impegno, ma a interpretare i
"criminali cattivi" ci mettono questi tizi.
Un Rodolfo Laganà che dire luciferino è poco. Ma
soprattutto lui, Mirko Frezza
Io da oggi sono fan a vita di Mirko Frezza. Ha lo
sguardo da matto e il fisico enorme di un Gerald Butler, con tutta la
"possenza" di un Kane Hodder. Il buon Frezza gira la sua parte a
questo livello di convinzione...
E stiamo davvero a un passo da Non aprite quella porta.
Urla, occhi di fuoco, violenze sui minori con tutta la convinzione dell'uomo
nero. Gli manca la motosega ma il gliela darei sulla fiducia. Perché Dario
Argento non sta lavorando con Frezza a un nuovo film slasher??
Poi però
ti rendi conto che i "cattivi" sono solo quei tre, che si limitano a
guardarti male e scappare in due sullo stesso (piccolo) Booster mentre
inveiscono contro la protagonista frasi uscite da Squadra
anitifurto. Fanno un po' tristezza. Ma si poteva scegliere un registro un
minimo più sottile? Certo, non si può pretendere sempre un approfondimento sul
fascino del male stile Scorsese, magari. Ma ve lo vedete Frezza che gira per
Ostia conciato e motivato come un Urukai con tutti che se la fanno sotto e lui
che guarda storto tutti? Ma può essere credibile questo approccio per
rappresentare il modo sotterraneo e crepuscolare in cui in genere si
radica il crimine negli ambienti sociali più apparentemente tranquilli?
E poi
c'è Pannofino a interpretare il caporedattore del giornale per cui lavora la
protagonista.
Che io amo Pannofino, ma dopo Boris non ce la faccio
davvero a vedermelo in un ruolo serio. Anche il suo Nero Wolfe è buffo, perché
lui hai il "corpaccione" e ogni tanto le faccette buffe te le tira
fuori spontanee, come sudore. Così, dopo aver visto i "cattivi" di
Non aprite quella porta aggirarsi con il Booster per le vie di Ostia, Pannofino
è un'altra (pur amabilissima!!) macchietta che rende ancora più strana
la pellicola. E non aiuta certo all'intreccio il presepio dei coprotagonisti.
C'è il ristoratore, l'edicolante, la signora delle
pasterelle, l'addetto alle deposizioni dei carabinieri. La protagonista
"visita" questo piccolo presepe, con gli omini montati all'interno
dello specifico scenario, periodicamente. Ma non interagisce mai
davvero con loro al punto che quando per un puro caso uno di loro compare al di
fuori dal suo "diorama" ci si sorprende e quasi ci si tranquillizza
che scompaia di nuovo dopo aver detto una singola battuta.
Ma la vera sciagura è Francesco Venditti, nel ruolo del
marito della protagonista.
C'è una rocambolesca e disordinatamente dolce scena di
sesso nei primi minuti del film. Poi si spegne, per sempre. Per il resto del
film, ogni volta che la moglie gli rivolge la parola, lui la tratta come se si
fosse fatta un amante e stia tradendo il suo nido domestico. La giornalista può
parlare delle minacce che subisce come giornalista, può parlare delle nuove
grate alle porte o può spiegare ai bambini il perché ora è sotto scorta (lo fa
in un modo molto tenero di "occultare la realtà" che mi ha ricordato
La vita è bella). Il marito fa la faccia dell'uomo cornuto, sempre, e minaccia
di tornare da sua madre. Anche qui è l'assenza di sfumature a lasciare confusi.
Si poteva fare di più, forse, per gestire la dinamica della coppia, come per
rappresentare i criminali, come per rappresentare il "presepe
popolare". Avrei voluto vedere di più Ostia, magari con tutta la calma e
poesia di "altre Roma". Come quella in viaggio sulla vespa di Moretti
(Caro Diario) o con il passo veloce e mattutino di Giulio Base (Cartoline di
Roma), senza per forza scomodare Fellini. La storia della Angeli parla anche di
un "mare rubato" e io su quel mare (presente in un'unica bella
sequenza, sottolineata bene dalla colonna sonora di Mirkoeilcane, ma come
avrebbe potuto indugiare ed esplorare quel "mare a sbarre" un regista
come Edoardo De Angelis?) e su quelle sbarre che lo contengono ci avrei
indugiato di più, come sulle sbarre della sempre più fortificata casa della
giornalista, che le impediscono di vedere "sua figlia che gioca in
giardino". La storia che all'epoca la scorta non era stata concessa
al marito e ai figli poteva essere esplorata di più, poteva essere un film a
sé migliore del marito che si sente "tradito dal lavoro della
moglie". Certo i cattivi fanno paura, almeno prima di vederli
impennare su quel motorino che fa fatica a tenerli in sella. C'è una scena
molto bella e molto potente, nel contesto di una aggressione
notturna, che richiama magnificamente lo "stordimento dell'omertà"
rappresentato anche in film come La casa dalle finestre che
ridono.
Questo
film di Bonivento sceglie troppo spesso le inquadrature strette degli
sceneggiati Rai. Sente troppo forte il bisogno di spiegare le situazioni senza
dare il giusto peso all'assordante silenzio che emana questa materia. Si dà troppa briga nel dissipare dubbi e sfumature, nel dividere nettamente buoni da
cattivi. Forse funziona meglio per il pubblico televisivo classico, magari un
po' "vintage", della nostra vecchia TV italiana. A me ha fatto
di sicuro uno strano effetto. E secondo molto di quanto ho già letto in giro
per la rete, mi sento di nuovo al cinema estivo nel 1994.
La
Storia di Federica Angeli è però straordinaria ed è importante che sia ricordata.
Dopo la visione magari buttatevi sul libro omonimo pubblicato della
Baldini-Castoldi. Ne vale la pena. Per salutarvi da questa recensione mi è poi
venuto in mente questo pezzo di Silvestri, per me qui cade davvero a
pennello.