martedì 30 novembre 2021

Trafficante di virus: la nostra recensione

Film in concorso al 39simo Torino Film Festival

Al cinema il 29, 30 novembre e 01 dicembre e in seguito su Amazon Prime

 


Irene Colli (Anna Foglietta) affronta i virus con dei reagenti per poi osservarli dibattersi al microscopio. Lavora in un laboratorio tecnologico quanto asettico, coperta integralmente da una tuta di massima protezione, che la fa quasi apparire come una cosmonauta di un film di fantascienza anni ‘70. Finito il combattimento si spoglia di tutto e si decontamina, rimanendo nuda sotto la doccia antibatterica come una gladiatrice sopravvissuta all’arena, almeno fino al nuovo duello. Ma la notte è lunga, tormentata e insonne. Il giorno dopo ha luogo un processo penale che la riguarda personalmente e potrebbe distruggerle la vita. La donna, secondo le fumose carte di un procedimento in sospeso da anni, avrebbe inviato a una casa farmaceutica americana dei virus isolati in provetta. Lo scopo sarebbe quello di produrre un vaccino per la variante nigeriana della viaria, ma le modalità del trasferimento del materiale biologico sono fosche e si parla nella sfilza di imputazioni anche di “tentata strage”. Un giornalista (Paolo Calabresi) è riuscito a far scoppiare la bomba mediatica proprio mentre la Colli era parlamentare, spingendola alle dimissioni e ora, alcuni mesi dopo, l’affare è giunto davanti al giudice delle indagini preliminari. La notte sarà per la donna un’occasione per rileggere tutte le carte e ripensare alla propria vita e ambizioni. Ripenserà a quando  più volte si era scontrata infruttuosamente con il suo dirigente amministrativo (Roberto Citran), per ottenere maggiore un maggiore standard di sicurezza, alla luce dei finanziamenti europei ottenuti dal riconoscimento dalle sue ricerche. Penserà a quando si era inimicata il mondo scientifico, mettendo su una piattaforma open source dei risultati che avrebbero fruttato ben di più con una pubblicazione ufficiale, per la sua “smania di salvare vite” durante una grave emergenza per un paese del terzo mondo. La vita lavorativa di Irene è stata una lotta continua, piena di rinunce e sacrifici, con gravi ricadute anche nell’ambito privato. Più storie fallite, rapporti tesi con la famiglia è una vita da cambiare più volte dal giorno alla notte. Ora la Colli si trova davanti al massimo giudizio, quello di una legge che per una volta sta mettendo lei davanti al suo microscopio. Riuscirà a chiudere occhio?


Ispirata liberamente  al libro “Io, trafficante di virus”, scritto dalla virologa Ilaria Capua e relativo a una vicenda giudiziaria che l'ha direttamente coinvolta, Trafficante di Virus vuole essere un film di denuncia, un film sulla dura professione di chi combatte in prima linea per la ricerca scientifica e un film sui classici mali dei nostro Belpaese. La sceneggiatura di Francesca Archibugi e di Costanza Quatriglio, che qui è anche regista, costruisce una ragnatela di vicende, pubbliche e private che si sviluppano nell’arco di vent’anni, a partire dalla costituzione post 11 settembre di un ente governativo americano incaricato di occuparsi della guerra batteriologica. Sono anni di grandi scoperte scientifiche in ambito pandemico, a cominciare dagli studi sulla viaria, ma sono anche anni in cui si vengono a scontrare interessi economici ed elitari con questioni inerenti la salute pubblica. Scienza, burocrazia e orgoglio di casta non vanno mai troppo a braccetto e così, in una scena chiave della pellicola, uno scienziato luminare definisce “veri parassiti” i ricercatori internazionali che si approfittano liberamente dei risultati di ricerche scientifiche “altrui”, anche se inseriti volontariamente su dei canali divulgativi gratuiti. 

La protagonista della vicenda  è interpretata da  Anna Foglietta come una donna forte, determinata quanto dal carattere rigido, poco incline al venire a patti con gli interessi e tempi delle autorità politiche e burocratiche sotto cui deve operare. Una donna che ha sacrificato forse troppo nei rapporti umani e che forse viene percepita troppo ambiziosa e in vista: una “diva”, come D.I.V.A. è l’acronimo del marker per la viaria da lei sviluppato. È una donna scomoda, che qualcuno continuamente non vede l’ora di controllare o distruggere, che si tratti dell’ambito scientifico, universitario o politico. Questo “qualcuno” è rappresentato dal classico “nemico invisibile” di molta cinematografia italiana che si occupa di vicende “ispirate ad eventi realmente accaduti”. Non lo vedi ma lo percepisci, come il Drago di Excalibur di John Boorman. Anche se il film è di Costanza Quatriglio e viene dichiarato che la protagonista si chiama Irene Colli e ci si ispira solo molto liberamente alle vicende che hanno riguardato Ilaria Capua, si avverte il classico timore tutto italiano a dare una voce e uno scopo preciso al “male”, anche nei casi in cui ci muoviamo nella pura finzione cinematografica. Forse il male ha il volto rigido del grigio dirigente Ferrari interpretato da Citran: uno che prima definisce la protagonista “la nostra gallina dalle uova d’oro” quando completa una ricerca importante, per poi metodicamente affossarla, con lo stesso sguardo, quando assume lui il ruolo di decisore politico. Ma forse il male ha pure il volto vacuo del giornalista impersonato da Paolo Calabresi: uno che prima osserva il vuoto morale in cui vive e poi non ci mette molto a distruggere una persona anche senza delle prove chiare, giusto per sudditanza a una misteriosa guida politica che gli ha dato l’imbeccata, per poi vedere la vittima in pezzi, senza cambiare espressione facciale. Il nemico non si svela mai apertamente. Vive nelle retrovie, non esprime mai il suo punto di vista, si muove su schermo senza mutare intenzioni e carattere, come fosse “lì per caso”, trincerandosi dietro a quel muro di gomma di cui parlava un celebre film del 1991 di Marco Risi. Il nemico trascende le più basilari regole della drammaturgia, in un realtà narrativa di fantasia in cui non gli sarebbe concesso di rimanere inespresso. A meno che non parliamo più di un film “ispirato alla realtà”, ma di un “horror” kafkiano. E con questa cronica mancanza di empatia o volontà di anonimato che il film diventa un sempre più confuso accumulo di “non detti”, che fanno oscillare lo spettatore dalla visione di un racconto quasi documentaristico alla percezione di una spy story, fin quasi a confondendolo del tutto tra le pieghe del thriller psicologico: insinuando e facendo intendere in questa ultima sfumatura che pure la percezione dei fatti della nostra protagonista, può non essere sempre cristallina. Facendocela giudicare per il suo modo scostante di vivere e agire, più che mostrandoci direttamente i fatti, la cui cura è lasciata invece a una interpretazione labirintica della realtà, in una scansione temporale che salta e riavvolge il tempo di continuo. Tutto questo incedere e nascondere viene giustamente percepito dallo spettatore come opprimente e ingiusto e alla fine della visione permane un grande senso di amaro in bocca. È possibile che il nostro cinema italiano “di denuncia” abbia così spesso e così tanta paura del “male”, da non poterlo palesare nemmeno all’interno di una finzione scenica “molto liberamente ispirata alla realtà”? Oppure il personaggio di finzione di Citran ha degli avvocati che possono intimorire la produzione più del personaggio di finzione interpretato dalla Foglietta? Non avendo la capacità di sbrogliare la matassa, ripenso al modo in cui Tarantino è solito rileggere anche la Storia con il potere della fantasia, propria del Cinema, e derubrico questa deriva kafkiana a “tratto caratteriale” del nostro cinema italiano.



Trafficante di virus è un film duro su un mondo scientifico quantomai complesso, eroico, ambiguo, spesso dimenticato quanto “bloccato” a più livelli da un mondo troppo complesso per rispondere abbastanza velocemente alle sue esigenze. È un film sull’invidia e l’ossessione del controllo. È un film dove chi urla troppo, anche se ha ragione, viene preso per pazzo. L’ho già scritto tra le righe di questo pezzo e lo ribadisco, questo non dovrebbe essere inteso come un film di denuncia quanto come un horror kafkiano. Ma spero che pellicole come questa inspirino qualcuno a cambiare le cose in futuro, tanto nell’ambito della cinematografia italiana che oltre. Molto brava la Foglietta nel descrivere una donna complessa, affascinante quanto combattiva, fragile quanto pronta a riconsiderare la sua vita e il rapporto con gli altri. Mai visto un Paolo Calabresi più luciferino, peccato che il personaggio diventi troppo defilato nel finale. Sempre appropriato Citran nel suo ruolo, ormai classico, di oscuro burocrate. 

Talk0

sabato 27 novembre 2021

Encanto: la nostra recensione del nuovo film di animazione Disney degli autori di Oceania

Mirabel è una giovane ragazza paffuta, occhialuta e con i ricci, dal carattere allegro ma con una forte determinazione, che fa parte di una famiglia molto speciale: i “Madrigal”. I Madrigal, guidati dalla saggia nonna, hanno tutti i superpoteri, da almeno 2 generazioni, da quando sono arrivati nel nuovo posto che hanno chiamato “casa”. C’è chi come la mamma di Marabel riesce a curare attraverso il cibo, la zia Pepa può influenzare il tempo secondo il suo umore, suo cugino Camilo può assumere l’aspetto di chiunque voglia, sua sorella Luisa maggiore è fortissima, sua sorella minore Isabela può far fiorire dal nulla ghirlande, c’è  la cugina Dolores che ha il superudito. Tutti hanno i superpoteri, pure “la casa stessa”, chiamata amorevolmente “casita”, che sa spostare e rimodellare ogni suo elemento come fosse fatta di lego. Tutti supereroi, tranne Mirabel. Il “talento”, che si risveglia durante una particolare celebrazione che segna il passaggio alla “età supereroistica”, in Mirabel non si è palesato e lei con questo fatto deve conviverci, da tanto tempo. Poi un giorno, durante il “passaggio a supereroe” del piccolo Antonio, Mirabel ha una visione. Una visione terribile in cui la casa di famiglia va in pezzi fin dalle fondamenta. La ragazza spaventata avverte tutti, ma la nonna vuole lasciare la cosa sottotraccia: “i Madrigal e il loro potere non sono in pericolo, l’encanto è forte!”. Qualcuno dei famigliari inizia a sospettare che Mirabel abbia acquisto il sinistro potere divinatorio dello scomparso zio Bruno e forse riuscire a trovare quest’ultimo sarà per la ragazza la chiave per comprendere appieno il suo “talento”.

La nuova pellicola dei realizzatori di Oceania è coloratissima, piena di personaggi buffi e interessanti e si sviluppa tra mille canzoni quasi come un giallo familiare. C’è un mistero da scoprire, una persona da trovare, dei conti con il passato da regolare e una “attività supereroistica familiare” da tirare avanti. C’è una protagonista che si sente un brutto anatroccolo, ma ha già capito il senso della vita quando nella prima scena dice: “La mia storia famigliare non è la mia autobiografia”. C’è la sorella Isabela rinchiusa in un corpo da principessa Disney quando vorrebbe essere la Poison Ivy di Batman. La zia Pepa meteoropatica che fa piovere per davvero, la super forte Luisa trattata alla stregua di un’intera impresa edile bergamasca nel corpo di una sola persona. C’è Camilo che si trasforma nella madre di un bimbo a cui deve fare da babysitter, c’è lo zio Bruno, scomparso ma sinistramente presente, ma “non si parla di Bruno!”, perché porta male. C’è una nonna silenziosa ma fin troppo autoritaria, c’è una “casita” che ti fa le feste spostando le piastrelle quando torni a casa. 


Sono moltissimi i momenti divertenti, pieni di battute e gag fisiche. Ci sono tante canzoni sullo stile dei classici animati della Disney, realizzate da un molto ispirato e divertito Lin-Manuel Miranda. C’è la dimensione fiabesca di questo "Encanto" che si trova isolato tra montagne invalicabili, ma pieno di una natura lussureggiante. Lo schermo è costantemente pieno di effetti speciali da film supereroistico, con gente che solleva e lancia cose, si trasforma, crea arbusti dal nulla, parla con gli animali e tutto questo viene amplificato nei numeri musicali, dove Luisa cita Hercules e Isa entra in “zona Frozen”. Tutto passa in un attimo, non ci sono tempi morti e il ritmo è sempre elevato, c’è sempre qualcosa che succede sulla scena. Lo spettacolo visivo è garantito da una magnifica animazione in computer grafica, la versione italiana ha un buon cast, quasi a livello della versione originale, che annovera le voci di Alvaro Soler, Nanni Baldini, Diana Del Bufalo, Luca Zingaretti, Angie Cepeda. La regia è di Byron Howard (Rapunzel) e Jared Bush (Oceania), già co-registi di Zootropolis, insieme a Charise Castro Smith (The haunting of Hill House). 


La sceneggiatura è  curata da Jared Bush, Charise Castro Smith e Lin-Manuel Miranda e per me è qualcosa per cui vale spendere un paio di parole in più. C’è stato un “tempo cinematografico recente” in cui  un supereroe era avvertito come qualcuno di speciale, unico, qualcuno che può far fronte ai problemi più “disparati e disperati” in ragione di capacità che le persone comuni non possiedono. Ma cosa succede quando nella narrazione “tutti sono supereroi”? Forse si può arrivare a pretendere da loro qualcosa “di più ancora”, perché si è arrivati a una nuova normalizzazione. Ma a forza di spostare l’asticella anche chi sposta le montagne si può sentire per una volta, di colpo, davvero debole. È interessante che Encanto parli di “talenti” prima ancora che di superpoteri, portando in scene, per parafrasare la più celebre frase di Stan Lee, "persone talentuose con con problemi legati alla gestione del loro talento”. Sono problemi che impattano sul piano interiore, sugli affetti, sull'aspettativa sociale, sulla scelta del “proprio ruolo nel mondo”. Problemi particolarmente strazianti quando il mondo non definisce o definisce troppo ciò che vorrebbe da ognuno. Problemi che possiamo capire anche noi che non abbiamo superpoteri ma che magari viviamo in un ambiente di lavoro che ci sfinisce, magari nel dubbio atroce che non stiamo comprendendo il nostro “vero talento” e magari stiamo vivendo una vita che ci hanno cucito addosso altri. È una scelta narrativa originale ulteriore il fatto che i superpoteri dei Madrigal non siano impiegati per battaglie cosmiche contro degli alieni, quanto vengano usati nella vita di tutti i giorni, per i problemi legati alla gestione della piccola comunità che ha “accolto” la famiglia dopo un recente passato fatto di discriminazioni. Encanto diventa così anche un film su chi “deve” essere super per potersi sentire accettato e non visto come uno “straniero”. Sono argomenti stimolanti che il film Disney riesce a trattare in modo non banale, senza mai dimenticarsi di essere un caleidoscopio colorato pieno di canzoni adatto a tutte le età. Arriva anche la lacrimuccia alla fine (vi sfido a resistere quando parte il brano e le immagini di “oruguitas innamorate”) ma non sarebbe un film Disney se non ci fosse. 

Encanto è una pellicola molto ben realizzata sul piano tecnico, divertente per i più piccoli e con molti spunti di trama interessanti anche per i più grandicelli. L’ennesima dimostrazione, dopo Frozen, che i “superpoteri” possono essere un buon carburante per le favole moderne. Talk0

martedì 23 novembre 2021

Ghostbusters: Legacy (Ghostbusters: Afterlife): la nostra recensione!

 


Ci troviamo nel presente, in un ameno e assolato paesino minerario della provincia americana, “alla Stephen King”, chiamato Summerville, dove il tempo sembra essere fermo agli anni ‘80. Nonostante la zona non si trovi su una faglia, da anni si susseguono misteriosamente dei mini-terremoti, ormai accettati di buon grado come qualcosa di normale. Nella villa più decadente e spettrale di Summerville ha preso casa un uomo eccentrico, dedito tutto il giorno a trafficare e scavare sul suo campo senza che però cresca alcunché da anni. Poi una notte, dopo un gran lampo, quell’uomo pazzo e solitario muore. Alcuni giorni dopo in quella casa spettrale arriva la giovane madre Callie (Carrie Coon), insieme ai suoi figli Trevor (Finn Wolfhard) e Phoebe (Mckenna Grace). Quell’uomo eccentrico era il padre di Callie, ma di fatto non aveva mai avuto alcun rapporto con lei, abbandonandola da piccola. L’idea sarebbe di andare via da quel posto il prima possibile, ma travolta dai debiti la famigliola si trova costretta momentaneamente a trasferirsi lì. La piccola Phoebe si becca la scuola estiva e le lezioni dell’eccentrico professor Grooberson (un Paul Rudd che come insegnare estivo fa vedere in classe in vhs Cujo, già per questo candidato a “miglior insegnante cinematografico del 2021”), dove fa amicizia con un coetaneo buffo e super esperto del paranormale che vuole essere chiamato “Podcast” (Logan Kim). Trevor trova invece lavoro nella tavola calda locale e forse riesce a conquistare il cuore della bella collega Lucky (Celeste O’Connor). Tutto sembra procedere normale e tranquillo, ruspante come in un film dei Goonies, fino a che strane luci iniziano a illuminare il cielo notturno e la misteriosa presenza ultraterrena che vive nella villa porta Phoebe in una stanza segreta, piena di attrezzature scientifiche e strumenti creati negli anni ‘80 per dare la caccia ai fantasmi.


L’originale Ghostbusters, diretto da Ivan Reitman nel 1984, con la sceneggiatura di Dan Aykroyd e Harold Ramis, è diventato in breve tempo un autentico fenomeno di culto. Il film aveva per protagonisti attori comici sostanzialmente “nuovi” per il pubblico italiano, provenienti dal Saturnday Night Live, come Murray, Moranis e Aykroyd, ma che furono subito apprezzati. C’era poi Sigurney Weaver, bellissima come non mai e in un ruolo molto più femminile rispetto alla sua Ripley di Alien, che subito ha trovato una grande alchimia con Murray dando vita anche a una riuscita trama sentimentale. La colonna sonora sinfonica, epica e creepy, era ad opera del grande Elmer Bernstein, già famoso per il tema dei Magnifici Sette. La fotografia era del Laszlo Kovacs  di Easy Riders, gli effetti speciali furono supervisionati da Richard Edlund, ex boss della Industrial Light & Magic di George Lucas distintosi per il precedente lavoro su Poltergeist, un film con cui Ghostbusters condivide lo stesso mix di trucchi ottici e animatronici. L’art design dei fantasmi ad opera del talentuoso grafico Bernie Wrigthson (co-creatore per DC Comics di Swamp Thing) per la The Boss Film Studios (studio in cui all’epoca lavorava anche il nostro orgoglio italico Tanino “Ranxerox” Liberatore). E che dire della canzone “Ghostbusters” di Ray Parker Jr, una delle più grandi hit del 1984 e ancora oggi famosissima? 

Eppure il film nasceva sotto una cattiva stella. Sulla produzione aleggiava la recente scomparsa di John Belushi, amico fraterno di Aykroyd (insieme erano i Blues Brothers) e che avrebbe dovuto recitare un ruolo centrale. Ci sono state defezioni dell’ultimo minuto che hanno coinvolto John Candy e Eddie Murphy, anche loro appartenenti sempre alla ciurma del Saturnday night live. Lo sceneggiatore e regista Harold Ramis, che però ricordavamo già a fianco di Murray in Stripes e dirigerà in futuro sempre Murray in Ricomincio da capo, è diventato protagonista all’ultimo minuto. Gli effetti speciali tardarono a essere ultimati fino quasi all’uscita in sala, la sceneggiatura iniziale di Aykroyd, frutto della sua attiva passione per il paranormale e richiedente di un ben più alto budget, venne più volte tagliata, modificata e integrata da scene nate sul set con l’improvvisazione. Nacquero delle beghe legali per le somiglianze, a partire dallo “stesso nome”, con la serie tv Ghostbusters di Filmation. In generale casini produttivi di tutti i tipi e forme afflissero la pellicola di Reitman in ogni sua fase, ma il progetto resse a ogni urto e si riuscì quasi a fortificare di volta in volta, arrivando al successo internazionale. Merito per me di una idea di base che era forte, geniale quanto spiazzante, in grado di leggere al meglio quel periodo storico. Sul piano più squisitamente satirico, Ghostbusters affrontava di petto quegli anni '80 in cui il capitalismo era davvero sfrenato, con le multinazionali che si arricchivano a discapito dei più piccoli e del clima, immaginando la prospettiva “aziendalista” di fatturare anche sulla “pelle” dei fantasmi. Cacciare fantasmi non prevedeva medium, esorcisti o elaborazioni psicologiche di un trauma o di un lutto, quanto un rapido e indolore servizio di disinfestazione, pubblicizzato con la logica del marketing delle televendite, che permetteva di liberarsi del caro estinto (e forse qualche volta permettendo di “lavarsi la coscienza”, come in Ghostbusters 2 dove un giudice chiede l’intervento immediato spaventato dagli spiriti di due detenuti mandati erroneamente da lui sulla sedia elettrica) in modo sicuro e permanente, attraverso una sorta di moderni aspirapolvere. Aspirare fantasmi viene descritto in modo affascinante, ponendo enfasi sul fatto che i Ghostbusters sono degli straordinari scienziati che operano tra strumenti elettromagnetici, visori termo/ottici, lazzi protonici prodotti da acceleratori nucleari portatili e scatole di contenimento della materia ectoplasmica, ma alla fine rimane sempre un aspirare fantasmi per soldi. 

Se su questo piano narrativo “cinico/imprenditoriale” dava il meglio di sé un irresistibile attore sarcastico come Murray (con un personaggio che durante il film comunque acquista più sfumature), Ghostbusters trovava anche un’anima sognante, quasi favolistica, se non “epica”, attraverso i personaggi di Aykroyd e Ramis. Due autentici nerd, quando parlare di nerd non era ancora così figo,  curiosi ed entusiasti, maniaci della scienza e  dell’occulto, che vivevano tra testi antichi babilonesi e collezioni di spore e funghi, pronti a spalancare gli occhi come bambini al primo “moccio ectoplasmatico” con cui venivano a contatto. I fantasmi per loro due esistevano ed erano importanti, mentre il personaggio di Murray finiva “in ottica imprenditoriale” per attirare sulla loro attività il vero “altro cattivo” del film, un commissario della tutela ambientale che sospettava (a ragione) che il gruppo facesse uso di strumenti pericolosi per la salute. Se vogliamo un gustoso nemico della loro “libertà di impresa”, ma che era per esigenze di trama più piccolo e innocuo della enorme e spaventosa divinità sumerica, assolutamente “cattiva e  senza ambiguità” che aveva deciso di attaccare con un esercito di non-morti il centro di Manhattan (e che comunque non dovrebbe manifestarsi “dentro a dei frigoriferi di marca”, come sottolineava con una battuta fulminante di Murray). Contro il dio sumero i Ghostbusters del 1984 erano per il pubblico quasi a livello degli Avengers contro Thanos. C’era l’epica di scontrarsi con creature quasi bibliche, un Kaiju di Marshmallow, un tempio maledetto custodito da due cerberi spaventosi e un infinito sottobosco di scheletri, ectoplasmi, spiriti e spiritelli di seconda classe, spalmato su ogni fotogramma della seconda parte della pellicola. E c’era una divinità che chiedeva al personaggio di Aykroyd: “Sei tu un dio?”. Oggi qualcuno in sala risponderebbe: “Io sono Iron Man”, ma il cinema del 1984 non era ancora un campo da gioco per supereroi e nell’impresa eroica di affrontare un dio sumero c’era sullo stesso piano la difficoltà di doversi fare 32 piani di scale per incontrarlo. Questo non ha comunque impedito a questi irresistibili “anti-eroi” di affrontare in seguito, nella serie a cartoni animati, gente come licantropi, vampiri e persino l’uomo nero dell’armadio, alla maniera di Constantine ed Hellboy. Tutti i bambini del 1984 però sognavano di essere un Ghostbusters, per via delle tute grigie da combattimento, gli zaini protonici, i visori ottici spettrografici, i proto “K-II Meter”,l’ecto-contenitore, la straordinaria Cadillac Ecto-1 bianca e rossa con tutte le sue luci e sirene e mille armi nascoste. Armarsi (anche di coraggio) per affrontare le creature che popolano le camerette di ogni bambino quando si spengono le luci aveva molto più “”senso”” che temere un alieno viola con un guanto dorato. Se eri piccolo nel 1984 magari ti colpiva di Ghostbusters la parte comica e sentimentale, ti arrivava di meno la parte sulla satira “imprenditoriale”, ma la parte epico/paranormale, quella “paurosa”, arrivava al cuore come un missile. I Ghostbusters erano eroici anche nella misura in cui i fantasmi erano terribili e genuinamente spaventosi quanto i Freddy Krueger o Michael Meyers che animavano il ciclo horror dello zio Tibia. Al di là del buffo Slimer, Zuul, la bibliotecaria e cosa come lo scheletro-zombie-taxista (nel seguito anche Vigo o la bambinaia con il passeggino) mettevano davvero paura nel film di Reitman, perché sarebbero stati realizzati nello stesso modo in una pellicola horror “seria”. È grazie al grande reparto artistico specializzato in creature e suoni mostruosi messo in campo dalla produzione che Ghostbusters trova il plus-valore spiccatamente “pauroso” che permettono di avvicinarlo anche alle “commedia horror” di film come Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis o Chi è sepolto in quella casa di Steve Miner. 


Se era una commedia con elementi di satira, un film sentimentale, un film fantastico pieno di tecnologie strane, un film d’azione e un horror, come si attualizza oggi Ghostbusters, per il grande pubblico? 

Non è facile. 

Il Ghostbusters “al femminile” del 2016 per me mancava dello sguardo sognante e timoroso verso il paranormale della pellicola del 1984. C’era l’umorismo sempre preso dalle stesse fucine del Saturnday Night Live, c’era la prospettiva di un cast tutto al femminile con attrici brave come Kristen Wiig, Leslie Jones e Melissa McCarthy (ma c’era anche Kate McKinnon la peggiore e più sopravvalutata attrice americana degli ultimi 30 anni). C’era un bravo e divertente Chris Hemsworth e anche il villain non era male sulla carta. C’erano delle interessanti soluzioni visive e un buon uso degli effetti speciali. Mancava il lato sentimentale. Ma il vero grosso peccato originale era che i fantasmi non erano più fantasmi quanto “oggetti colorati da abbattere” con dei pur bellissimi giocattoli hi-tech. Nel 1984 i fantasmi si “aspiravano” ma finivano in una specie di fantastica dimensione ultra-terrena dentro all’ecto-contenitore (che diventava un autentico luogo da girone dantesco in alcuni episodi della serie animata), con la possibilità di essere rilasciati nel mondo ancora integri (come sul finale del primo Ghostbusters). Nel 2016 i fantasmi vengono invece distrutti dai raggi protonici, fatti a pezzi da delle cacciatrici che verso di loro non provano nulla, come fossero davvero solo “cose colorate”. Nemmeno si spaventano davanti a loro, perché il lato “spirituale” di queste creature diventava qualcosa di posticcio, scontato, ridondante, magari fuori moda, già riproposto in mille videogiochi (videogiochi già affrontarti come “oggetti con un'anima”, nell’imperfetto approccio “vintage” di  Pixels con Adam Sandler… dove guarda caso compariva nel cast  Aykroyd). È un po’ il nuovo male del secolo, per me, il fatto che le nuove generazioni guardino al cinema o alla letteratura, specie nell’ambito horror, “solo” con le lenti di un videogioco. Un film che pure asseconda questa prospettiva, anche se “specchio dei tempi”, rimane per me un brutto film. Insomma, se non ci credevano manco le Ghostbusters nei fantasmi, non ci potevo credere io da spettatore. Erano in fondo troppo aziendaliste e poco sognatrici, come il personaggio di Bill Murray all’inizio della pellicola del 1984. Era difficile tifare per loro.


La pellicola del 2021 si muove con premesse differenti e nuove, tanto sull'interpretazione della figura del fantasma che dell’ambientazione. Anche perché il mondo oggi è popolato di “nuovi e vecchi” fantasmi. Ci sono in sala con grande seguito di pubblico le case stregate e i demonologi di James Wan, che si rifanno squisitamente all’horror anni ‘60 della Hammer cercando di attualizzarlo (anche se una bambola maledetta come Annabelle che si scopre troppo simile ad una specie di dispositivo wi-fi soprannaturale non è sempre una bella attualizzazione). Ci sono i “fantasmi del passato”, con una serie di opere, da Stranger Things a IT, che puntano nostalgicamente e continuamente a farci rivivere i “fantasmatici e mitici anni ‘80”. Ha preso sempre più forma quello che definirei felicemente come il “cinema degli ectoplasmi”, che annovera pellicole interessanti come The Innkepers, Personal shopper e A ghost story, dove il fantasma è visto nella sua malinconica e impossibile vicinanza al mondo reale, dove l’incomunicabilità con i propri cari diventa la vera condanna. Si può inoltre parlare, come metafora della crisi economica attuale, anche di “nuovi luoghi fantasma”, come la miniera abbandonata di questa Summmerville che in qualche modo ricorda la miniera abbandonata per la crisi economica di Nomadland di  Chloe Zhao. 

Infine, per la scelta di fare di questa pellicola un sequel del film del 1984 (a differenza del reboot del 2016), ci sono i “fantasmi personali del pubblico”, legati magari ai ricordi dei fan di Ghostbusters: perché qualcuno potrebbe aver visto nel 1984 la pellicola di Reitman al fianco di un genitore, un amico o un parente che dopo quasi 40 anni non c’è più. “Tutti questi fantasmi” confluiscono in Ghostbusters Legacy nel suo sapore di film per ragazzi anni ‘80, che cita l’originale ma anche I Goonies, anche Gremlins. Gli eventi si collocano  in una provincia americana senza tempo (come la Derry di IT o la Hawkins di Stranger Things) e non nella frenetica New York, proprio perché può sembrare un luogo ancora fisso sugli anni ‘80, VHS nelle scuole comprese. Ci sono ancora gli spiritelli buffi e gli “indemoniati”, ma c’è come omaggio al “cinema ectoplasmatico” anche uno spirito buono che si trova “sul confine”, che cerca di comunicare con i propri cari quando in passato non era riuscito a comunicare abbastanza, fisicamente, come padre. Ci sono di nuovo protagonisti i nerd, come lo furono nell’84 i personaggi di Aykroyd e Ramis. C’è la piccola Phoebe di McKenna Grace, dagli occhiali enormi, la passione per tutto quanto è scientifico e la difficoltà nelle relazioni interpersonali. C’è Podcast (Logan Kim), il fanatico di X-files e misteri locali che parla troppo anche se teme che non lo ascolti nessuno. C’è il professor Grooberson di Paul Rudd, un “nerd cresciuto” nel mito degli acchiappa fantasmi, fanatico di Stephen King e che sogna di fare qualcosa di più che il professore in un corso estivo, ma ha quasi paura di rivelare al mondo le sue ricerche scientifiche. Il mondo dei Ghostbusters “originali” si svela sotto i loro occhi in modo lento e progressivo, a partire dalla scoperta di un K2, poi di una trappola, poi di uno zaino protonico, poi della Ecto-1 (magica e “proibita ai bambini” quando la macchina della polizia nel bellissimo Cop Car di Jon Watts). È una fascinazione per il mito simile a una danza avvolgente, che parte dai “simboli” più piccoli fini ad arrivare ai più grandi. I fan di vecchia data troveranno questo processo affascinante, rispettoso e seducente, ma credo sia possibile che gli spettatori più giovani potrebbero trovare su questo lato la pellicola un po’ lenta e autocelebrativa. Bisogna considerane che sono tantissimi i giocattoli, cartoni animati, figurine, modellini e videogame che hanno contribuito ad alimentare per anni il fascino di Ghostbusters. Come bisogna considerare quanto tutto questo materiale e devozione non possano essere condivisi nell’immaginario di un pubblico più giovane, nato in un periodo in cui le opere horror e fantasy sono molto più diffuse di un tempo, anche grazie a “precedenti” come Ghostbusters. Se oggi viene giudicato ridondante e ingenuo X-Files ho un po’ paura nell’immaginare come venga considerato Ghostbusters Legacy, che vedo particolarmente centrato sul pubblico di vecchi fan, di cui io stesso faccio parte. A prescindere dal fatto di quanto la pellicola sia davvero ben realizzata, diventando un ottimo e riuscitissimo esponente del “cinema ectoplasmatico”, il film non sposta troppo in avanti la palla, non inventa un nuovo scenario per rilanciare il franchise.  Anche i villain  sono principalmente riferiti al film dell’84 e in questo si vede la chiara volontà del regista Jason Reitman, figlio di Ivan Reitman, di “duettare” con i temi e luoghi de film del padre, quasi a farne un viaggio multi-generazionale unico, un po’ come sta accadendo con la nuova serie di Halloween (che pure lui non viene apprezzato misteriosamente dal pubblico più giovane). Trovare similitudini e differenze tra le due pellicole diventa un gioco sempre più stimolante, che diventa apoteosi nel finale. Non è un caso che alla sceneggiatura, opera di Jason Reitman e di Gil Kenan (sceneggiatore non a caso del remake di Poltergeist quanto del bellissimo cartone animato horror Monster House) abbia contribuito Aykroyd stesso. Gustosissimi gli effetti speciali che “rinnovano” l’immaginario di riferimento senza stravolgerlo. Molto carini e spontanei i giovani protagonisti e quasi simpatico Paul Rudd (attore che generalmente non mi fa impazzire). Davvero commovente, da lacrime che sgorgano all’infinito, tutta l’ultima parte del film (ma anche qui posso immaginare che tali effluvi siano più cospicui sulle gote dei fan di più vecchio corso).


Ghostbusters Legacy mi è piaciuto molto. Mi ha commosso e mi ha divertito. Il primo Ghostbusters l’avevo visto al cinema con mio padre e una volta a casa lui aveva costruito per me uno zaino protonico ricavato da un fustino del detersivo e un tubo di un aspirapolvere rotto. Sono sempre stato un bambino pauroso, ma le avventure dei Ghostbusters mi davano forza e mi hanno insegnato a confrontarmi con le mie paure, fino a farmi apprezzare i molti stimoli e riflessioni di cui è pregna la pur bistrattata cinematografia che tratta di mostri e fantasmi. Questi nuovo film ha riacceso i miei ricordi, al punto che oggi in sala sono per un attimo tornato un bambino di 8 anni. Ho apprezzato tantissimo il dialogo invisibile tra la piccola Phoebe e  la “presenza spiritica” che aleggia nella casa stregata.  

Mi sono commosso a rivedere dei “volti noti”. Ho trovato meravigliosa la fotografia di Eric Steelberg, con quella Ecto-1 che sfreccia su un campo di girando in una assolata giornata d’estate. Ho apprezzato il modo garbato con cui la colonna sonora di Rob Simonsen fa emergere a più riprese la colonna sonora originale. Sono un fan di Ghostbusters e questo è il film che da fan volevo vedere, un film che potrebbe saziarmi anche se non fosse in produzione una nuova pellicola. Lo vedo come un film di commiato (come lo era Star Trek VI - Rotta Verso l’Ignoto) e molto più timidamente come un film per un rilancio, anche se magari da questo Legacy qualcosa di nuovo potrebbe felicemente generarsi.


I “successori spirituali”  degli acchiappa fantasmi per me sono stati in anni più recenti Specs e Tucker di Insidious. Mi piacerebbe una svolta “più horror” del franchise di Ramis e Aykroyd, qualcosa che sappia anche solo interpretare sul grande schermo alcune delle più belle puntate del cartone animato. Vorrei davvero vedere al cinema la trasposizione della puntata sul Babau o quella del villaggio condiviso tra licantropi e vampiri. In un mondo in cui le storie di fantasmi sono diventate tanto di moda, gli acchiappa fantasmi possono avere ancora tanto da dire, magari con la “giusta idea” che li porti oltre all’ottica (pur apprezzatissima) del revival, magari a partire da un cast anagraficamente più giovane. Per oggi mi sento comunque soddisfatto e invito tutti i possessori di un acceleratore protonico non registrato a fiondarsi nel cinema più vicino. 

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lunedì 22 novembre 2021

Querido Fidel: la nostra recensione

 


Emidio Tagliavini (Gianfelice Imparato) da piccolo era a Cuba, durante la rivoluzione, insieme a suo padre. Poi è tornato a Napoli mentre il genitore ha continuato a combattere, fino a morire sul campo. Fidel Castro, molto amico del padre, ha da quel momento iniziato con Emidio una corrispondenza affettuosa e assidua. Sono gli anni ‘80 ed Emidio, ancora amico di penna di Castro, rimane fedele agli ideali del socialismo reale e al sogno della rivoluzione cubana. Veste solo con l’uniforme miliare color cachi, svolge una vita rigorosa senza lussi e sprechi, salvo concedersi qualche volta un buon sigaro. Si preoccupa dell’equità dei prezzi del mercato rionale, cosparge tutta Napoli di volantini sull’arrivo imminente di Castro. Lo chiamano “il comandante” e come lavoro a tempo pieno fa il militante, con il sostegno “clandestino” dell’amico Tommaso (Antonio Bruschetta) responsabile della sede napoletana del PCI. Quando si toglie gli anfibi e affonda i piedi nudi tra la sabbia bagnata dal mare di Napoli, Emidio sogna e ritorna Cuba, felice e ancora bambino. Emidio è sposato da anni con Elena (Alessandra Borgia), ha un figlio adulto di nome Ernesto (Marco Mario de Notaris) ed è già nonno, per la piccola Celia (Sonia Scarfato). Come padre e guida morale “un po’ intransigente” impone le sue idee e il suo stile di vita alla sua famiglia, arrivando a gestire le derrate alimentari su una lavagna e obbligando tutti a una vita parca e misurata, quasi militare. Sembra che nei casi di “ammutinamento familiare” abbia qualche volta usato persino il gas esilarante per redarguirli. Si scorna sempre più spesso con Ernesto, tacciato di essere troppo filo-americano, mentre è riuscito a trasformare Celia in una perfetta mini-rivoluzionaria. Il tempo passa e i compagni di Emidio arrivano a scordarsi perfino del giorno di compleanno di Che Guevara, mentre misteriosamente ricordano con precisione quello di Maradona. Arriva Gorbacev. Arriva il governo Berlusconi. Il mondo è cambiato e la sede del PCI ha lasciato i locali al Partito Democratico. Emidio è sempre lo stesso ma le sue azioni da militante più “estreme” vengono in qualche modo sminuite da un documento psichiatrico che lo definisce “pazzo”, voluto fortemente anche dalla moglie per tutelarlo. La nipote che lo aiutava a preparare a mano i disegni dei volantini è diventa grande (Marcella Spina), studia ed è combattiva, forse un giorno farà grandi cose. Poi un giorno la corrispondenza con Fidel si interrompe, di colpo. Ed è l’inizio di una nuova fase della vita del “piccolo” rivoluzionario napoletano. 


Viviana Calò scrive e dirige un film premiato per al Bari International Film Festival come migliore regia e come miglior attore protagonista. È un film sulla struggente e malinconica ricerca di radici politiche “perdute”, dalle quali un tempo si pensava potesse rinascere più forti, come una “quercia”. È un film in cui il turbo-liberismo moderno dei negozi online trova un precedente storico sarcastico tra le pagine di Postalmarket. È un film sulla pazzia come unico passaporto legale per sentirsi liberi di pensare e sognare. È un film su un uomo così ancorato e arroccato ai suoi sogni da non riuscire a vedere e godere della vita che gli passa accanto, quasi in punta di piedi, cercando solo di amarlo. Querido Fidel è  infine e soprattutto una pellicola sulla “capacità di amare le persone distratte”, leggera quanto malinconica. Ogni tanto riprende la costruzione del teatro di De Filippo, che si ritrova nel personaggio della vicina di casa Agnese, interpretata da Antonella Stefanicci. Ogni tanto punta a divertire con l’ingenuità delle azioni “sovversive” di Celio e Tommaso. Ma il cuore narrativo risiede nel personaggio di Elena e poi in Celia. Entrambe in costante cerca di uno sguardo di approvazione da parte del buffo ma tragico Emidio. 

Querido Fidel diverte, qualche volta commuove e si dimostra un’opera molto ben recitata e realizzata sia sul piano narrativo che visivo. 

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giovedì 18 novembre 2021

My hero Academia World Heroes Mission: la nostra recensione

 


In un mondo in cui l’80% della popolazione dispone di un superpotere definito “quirk”, una setta di fanatici chiamata Humarise programma una serie di attentati con armi biologiche destinate a colpire i soli “super”. Tutti i supereroi “professionisti” del mondo, compresi i ragazzi tirocinanti della Accademia del preside All Mighty sono in prima linea per sventare questi attacchi e la soluzione finale al problema potrebbe arrivare dal contenuto di una misteriosa valigetta, di cui si è impossessato un ladruncolo di nome Rody. Presto Midoriya, Bakugo e Todoroki si imbattono nel ragazzo, ma per salvare il mondo dovranno affrontare un esercito di adepti di Humarise, tra le cui fila militano anche dei terribili villain, possessori di superpoteri che si sono votati al crimine. 


La brillante e seguitissima serie manga a tema “supereroistica” My Hero Academia, scritta e disegnata da Kohei Horikoshi dal 2014 e nel 2016 diventata anche una serie anime prodotta da Bones, con World Heroes Mission arriva al suo terzo film animato destinato al grande schermo. Un’occasione ghiotta per ammirare su schermo gigante uno spettacolo pirotecnico sullo stile delle pellicole Marvel, pieno di inseguimenti, eroismo, esplosioni, umorismo ed effetti speciali. Anche se a dire il vero My Hero Academy ha da sempre prediletto un approccio narrativo quasi intimista, dove “i botti e le botte” arrivano, ma solo a corollario di un racconto di amicizia, inclusione, spirito di sacrificio. World Heroes Mission parte “enorme”, con tutto il mondo sotto attacco e i super impegnati ad accorrere in ogni dove per soccorrere i civili in una infinita corsa contro il tempo. Le scene d’azione sono succulente, piene di inquadrature dinamiche e coloratissime, con Midoriya che volteggia tra i palazzi come Spider-Man, Bakugo che distrugge tutto con le sue esplosioni e Todoroki che surfa come l’uomo ghiaccio. Anche se in piccole apparizioni di pochi secondi compare quasi tutto il cast di eroi di My Hero Academia (molti rimangono però un po’ ingiustamente in panchina a fare da spettatori) e vederli interagire tutti insieme è davvero fico, emozionante. Si segnala una villain con il potere di lanciare frecce intelligenti, che diventa il motore di sequenze davvero spettacolari. Poi però il racconto vira su Rody e Midoriya, diventa quasi un road movie, tornano centrali temi classici della serie come la diffidenza verso chi ha i super poteri, la difficoltà di fidarsi degli altri, le fragilità insite in un contesto familiare spesso complicato. Molti più superproblemi che supereroi, per citare Stan Lee, in una formula che comunque piace al pubblico di riferimento. Anche se qualche volta si vorrebbe che i riflettori passassero da un eroe empatico e super positivo come Midoriya a quel matto nichilista di Bakugo o sul più riflessivo e “tormentato” Todoroki. Per “esigenze di trama”, anche perché i film vanno ad incastrarsi nella continuity della serie a fumetti (in questo caso siamo nell’arco narrativo in cui Midoriya lavora sotto il padre di Todoroki), anche in questa terza pellicola mancano alcuni “pesi massimi”, come i villain più famosi in favore di personaggi nuovi, è il lungometraggio è sostanzialmente “autoconclusivo”. Il “cattivone” della nuova pellicola non risulta forse molto a fuoco e tutta la storia della “setta pro umani” poteva essere più articolata, la parte drammatica più contenuta. In due scene c’è Bakugo che letteralmente manda la trama “avanti veloce”, sospendendo le lungaggini  verso le scene d’azione e noi da spettatori siamo con lui al 100%. 

Colorato e divertente, il nuovo film di My Hero Academia non scontenterà i fan della serie, anche se in qualche parte appare un po’ stiracchiato sul lato narrativo. Davvero ottime alcune scene d’azione. 

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martedì 16 novembre 2021

Chi è senza peccato: la nostra recensione del nuovo thriller con Eric Bana

 


«Il corpo nella radura era il più fresco. Le mosche impiegarono più tempo per scoprire i due cadaveri in casa, anche se la porta mossa dal vento sembrava un invito. Quelle che si avventuravano oltre l'offerta iniziale erano premiate con un altro cadavere in camera da letto. Più piccolo, ma anche meno assediato dalla concorrenza». 

È con queste parole che la scrittrice Jane Harper descrive il momento-chiave del libro “Chi è senza peccato” (secondo la traduzione italiana di Lorenzo Matteoli, della bella edizione italiana a cura di Bompiani). Con poche pennellate si pongono le basi del “mistery” che guida la trama, attraverso la strana disposizione di quei corpi tanto lontani quanto vicini”. Si avverte la desolazione dell’outback australiano, un luogo arido e silenzioso percorso solo dalla “puzza” che svela il delitto, guida gli insetti e solo dopo, molto dopo, porta verso il luogo del delitto gli isolati cittadini di una cittadina persa nella sabbia e nel nulla come Kiewarra. Uomini aridi in quanto figli di una terra arida (il titolo originale “The dry”, richiama proprio alla secchezza), non bagnata e benedetta dalla pioggia da troppo tempo.  


L’acqua c’è stata un tempo, in passato, prima che la cittadina fosse colpita da una specie di maledizione che prese corpo nella morte di una giovane ragazza, Ellie Decon (BeBe Bettencourt nel film). Forse vittima di omicidio, forse suicida, forse incorsa in un incidente mortale, fu ritrovata sul letto di un fiume che ormai, da allora, si è rinsecchito insieme a tutti i campi un tempo coltivati della zona. Da allora il fiume si è prosciugato e con lui si sono prosciugati anche i rapporti tra uomini diventati sempre più guardinghi, sospettosi, sfuggenti, “sommersi dai debiti” a causa di una natura matrigna. Il nuovo delitto che colpisce quelle terre sfortunate può essere davvero “l’atto di chiunque”, perché l’odio si è radicato in modo profondo in Kiewarra. Ma la cittadina preferisce non riflettere su se stessa e sulle sue “colpe” e parte per la classica “caccia alle streghe”. Quando da Melbourne il detective Aaron Falk (Eric Bana) torna a casa, nella provincia in cui è nato, la città ha già deciso che il colpevole del nuovo fatto di sangue è un suo amico di infanzia, Luke, che in un attimo di follia avrebbe ucciso sua moglie e i suoi stessi figli, prima di suicidarsi, lontano dal casa, sul letto secco del fiume. Lo stesso punto in in cui era stata trovata Ellie, del cui delitto in passato era stato incolpato, senza trovare però prove concrete, proprio un giovane Luke (Sam Corlett). La “malerba” ha colpito ancora. 


Jane Harper cavalca il folk-horror e descrive le terre desolate dell’Australia in un modo non dissimile dei paesaggi brulli e sterrati scelti da Nic Pizzolatto come scenario per la prima serie di True Detective. Il regista Robert Connolly traduce al meglio il lavoro della Harper in un film diretto, spietato quanto concitato, dal ritmo travolgente. 

Il paesaggio “parla”, con la sua polvere, il caldo soffocante, l’acqua che non esce dalle docce, la calura delle verande e il sudore che avvolge ogni personaggio. I volti dei personaggi sono scolpiti nelle rughe come nel legno, rendendo ancora più spigolosi i personaggi interpretati da  Matt Nable, William Zappa, Eddie Baroo. Autentici volti da “western” tra cui il personaggio di  Eric Bana si muove come un pesce fuor d’acqua, insicuro su ogni suo passo nell’indagine, sballottato tra passato e presente. Dire troppo fa male a un thriller, anche per non dare troppe suggestioni al piccolo investigatore che vive dentro a ogni spettatore, ma la trama riesce a giocare bene con un alto numero di “piste” e trovare la soluzione della matassa sarà qualcosa di sfidante quanto appagante. Molto divertente il personaggio di Raco, il poliziotto locale interpretato da Kier O’Donnell. Sfaccettato e malinconico il personaggio di Gretchen, interpretato con grazia da Genevieve O’Reilly.

Chi è senza peccato è un thriller solido che sa tenere gli appassionati con il fiato sospeso dal primo minuto, giocando su diversi piani narrativi e su di un articolato ventaglio di personaggi, spesso molto ben caratterizzati. La “provincia” australiana diventa sullo schermo un luogo spoglio e sinistro, quasi un paesaggio da western crepuscolare moderno come lo fu a suo modo, sempre in Australia, il Mad Max di George Miller. Una buona occasione per gli amanti nel giallo per una serata al cinema e magari per recuperare in libreria il libro omonimo. 

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domenica 14 novembre 2021

The French Dispatch: la nostra recensione del nuovo film di Wes Anderson

 


In una ridente cittadina francese, abbarbicato sulla cima di un palazzo panoramico del centro, ha sede un piccolo ma battagliero quotidiano locale. Quel posto incantevole ed eccentrico è la culla di tanti piccoli scrittori il cui “ruolo di cronista” esonda, sta “troppo stretto”. 

Il biondo e tranquillissimo ragazzone che si occupa della pagina di costume (Owen Wilson) di questo soleggiato, tranquillissimo, incantevole e ordinatissimo paesino sul mare, dovrebbe  scrivere articoli sulla “festa patronale”, i luoghi tipici, gli eventi locali.

Ma preferisce scrivere di immaginari bassifondi da detective story, abitati da blatte e saprofagi, di chierichetti che sono in realtà criminali incalliti, di occulti complotti di potere. Una navigata giornalista di inchiesta dovrebbe occuparsi della pagina di cronaca (Frances McDormand), ma  quando viene “inviata sul campo” nel mezzo di una dura manifestazione studentesca si scopre (inconsciamente!!) a raccontare dei bollori adolescenziali, finendo prima nel letto di un piccolo e inesperto Che Guevara (Timothee Chalamet) e poi a correggere di suo pugno i suoi sgrammaticati e inconcludenti manifesti politici per “dargli un tono”. C’è l’esperta d’arte (Tilda Swinton) che finisce per scrivere un pezzo sull’amore “astratto e materico” tra un detenuto che si scopre pittore (Benicio del Toro) e la sua secondina (Lea Seidoux) e di come questo venga brutalmente mercificato e sovradimensionato da un esperto d’arte cinico e arrivista. C’è il critico gastronomico (Jeffrey Wright) che al posto di intervistare uno chef scrive un intero, intricato e avvincente racconto poliziesco “basato su fatti reali”, tra rapimenti, piccoli detective e boss del crimine, che vede lo chef marginalmente coinvolto.  


C’è nel lavoro di tutti i giornalisti del French Dispatch un’eccedenza da “fuori tema”, un “di più” narrativo che per qualcuno magari può suonare facilmente come sviante, eccessivo, un “troppo”. Ma senza questo “di più” forse loro, come autori, non sentirebbero di esistere, non si sentirebbero di aver fatto un lavoro completo. Ed ecco che il capo-redattore (Bill Murray) interviene. Aggiusta il tiro degli articoli, un po’ li riduce, chiede ai giornalisti delle informazioni aggiuntive per aiutarli a trovare il “cuore” di quello che volevano narrare. 

Ogni tanto riesce a mediare “piegando il media”. Perché in fondo chi l’ha detto che un “articolo di gastronomia” debba essere solo un articolo sulla “materiale” gastronomia o che io debba pubblicare “unicamente” un articolo di gastronomia “canonico”? Se il giornale è mio, ci faccio quello che mi pare e pubblico un articolo di “Gastronomia e cronaca nera insieme”!! 

Anche grazie a questo tipo di mentalità è davvero un posto squinternato quanto magico il The french Dispatch. Peccato che il suo ultimo numero debba aprirsi con un necrologio. Proprio quello del suo capo-redattore. A causa di ciò, dopo questa ultima edizione, il French Dispatch potrebbe non vedere mai più un nuovo numero.

Wes Anderson confeziona un film a episodi strutturati come rappresentativi di alcuni articoli giornalistici di un quotidiano locale, legati da una cornice che funge un po’ da “dietro le quinte” (ma non solo) dell'attività redazionale. È un film antologico e ogni “articolo” ha sui specifici colori, modalità narrative, gusto per la composizione scenica. Il regista non si trattiene e gioiosamente fa esplodere in tutte le direzioni il suo modo di intendere il cinema, anche se le formule visive, le modalità narrative come le scelte del cast rimangono “Wes Anderson puro”, riconoscibilissime fin nei minimi dettagli. Le scenografie “geometricamente ordinate” e i costumi “vintage” come ne I Tenenbaum, con colori e composizioni che richiamano la “linea chiara” delle graphic novel europee. Ogni tanto, come ne Le avventure acquatiche di Steve Zissou, un’immagine che inquadra un ampio scenario “si ferma” mentre al suo interno i personaggi la “percorrono” come un labirinto di una rivista di cruciverba, in tutti i lati e direzioni, spesso usando scale, carrucole, comparendo e scomparendo dietro alle porte. Qualche volta come in Budapest Hotel il formato stesso dell’immagine cinematografica cambia, da 16/9 a 4/3 a bianco e nero. Qualche volta come ne L’Isola dei cani la scena viene raccontata facendo uso dell’animazione tradizione a cartoni animati. Il racconto “giornalistico” che veicola la trama è una diretta evoluzione del racconto “epistolare” di moltissime opere di Wes Anderson, dove l’io narrante tende a imporsi quasi del tutto sulla scena, sopra i dialoghi e l’azione, definendo un tono “intimo e sarcastico” alle vicende. 


Lo sconfinato e gioioso amore del regista per “l’arte del raccontare” trabocca da ogni fotogramma, ma tra tanto “chiasso” ci può portare magari a empatizzare, per “dissonanza”, con il personaggio crepuscolare di Bill Murray. Un Murray capo redattore “in ascolto”, che recita per sottrazione e piccoli contrappunti, che guida e non giudica, che permette che qualche giornalista bazzichi per il giornale senza mai aver scritto nulla, perché lì “si sente bene”. Se letto sotto questa luce The French Dispatch si smarca dalla sua natura episodica e trova una particolare “sintesi” unitaria quanto simbolica e diventa quasi un film sul ruolo del padre. Un film sulla capacità di un padre di accogliere, comprendere e dare ai propri figli tutto lo spazio possibile di esprimersi, fornendogli solo quando serve una giusta direzione da intraprendere. Un film che proprio per questo riesce a essere originale, in quanto una pellicola che sappia rappresentare lo “stare in ascolto”, è materia assai rara e preziosa di questi tempi. 

Molto bravi gli attori, da Murray a Del Toro, alla McDormand, alla Swinton. Ma l’elenco dei bravi attori coinvolti, anche solo in piccole parti, è davvero gigantesco, quasi enciclopedico. Segnalo per l’incredibile bellezza, umanità e spirito di sacrificio in una parte decisamente “eccentrica” Lea Seidoux, che dà corpo a un personaggio davvero indimenticabile, quasi felliniano. 

La pellicola è carica e qualche volta sovraccarica di intuizioni, luoghi e personaggi, ma non perde mai il suo ritmo interno e risulta molto godibile per tutta la durata. Molto bella la colonna sonora, impreziosita anche da Morricone . 

I fan di Anderson lo adoreranno, alcuni spettatori si sentiranno magari un po’ spaesati nella struttura episodica, chi saprà o vorrà farsi trascinare fin nel cuore narrativo dello spettacolo troverà in The French Dispatch qualcosa di bello e inaspettato. 

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giovedì 11 novembre 2021

Un anno con Salinger (My Salinger year): la nostra recensione del nuovo film di Philippe Farardeau


Siamo a New York nella seconda metà degli anni novanta, prima che i social invadessero il mondo. La nostra protagonista ha gli occhi azzurrissimi e sognanti e il sorriso enorme, ingenuo e con i dentoni, dell’attrice Margaret Qualley, figlia di Andie McDowell. la chiamano tutti “Jo”, come la protagonista di Piccole Donne che da grande vuole fare la scrittrice. È giovane, intelligente, laureata in lettere a Londra e già autrice di poesie, pubblicate su una piccola rivista di settore. Jo ha così deciso di “essere straordinaria”, diventare poetessa a tempo pieno. Primi obiettivi: affittare un appartamentino a New York in un quartiere tranquillo e vivere lì, come quegli scrittori bohémien che stanno tutto il giorno a comporre seduti in un bar. Arrivata nel quartiere “giusto”, Jo inizia a bazzicare il Panama Cafè, dove la sera si esibiscono i “poeti off“ e alla fine trova casa insieme a uno scrittore giovane, proletario e maledetto di nome  Don (Douglas Booth). Ora basta solo mandare curriculum e aspettare che bussi alla sua porta la “grande occasione”. La sua grande occasione non tarda ad arrivare, si chiama Margaret e ha il volto da “tipa tosta” di Sigurney Weaver. Margaret è un'importate agente letteraria a cui serve un’assistente e questa sembra subito per Jo l’occasione per entrare nel mondo dell’editoria newyorkese, ma ciò che la aspetterà è un incarico un po' speciale. Tra i clienti di Margaret c’è anche lo scrittore J.D.Salinger (Tim Post) e Jo dovrà occuparsi principalmente della sua corrispondenza. La procedura è in tre fasi: leggere una lettera, rispondere selezionando una delle “risposte-standard-preconfezionata” adattandola un minimo, imbustare, inviare al fan, distruggere la missiva in un trita documenti. Spesso per tutto il giorno, perché Salinger, soprattutto  da quando ha scritto Il giovane Holden, riceve da anni centinaia e centinaia di lettere di ammiratori, ai quali non risponde mai direttamente un po’ per timidezza, un po’ per paura, un po’ perché non può uscire tutti i giorni a pranzo con loro. Un po’ perché una volta gli si stava bruciando la casa e non sapendo cosa fare aveva chiamato prima dei pompieri la redazione ed essendo le tre di notte la casa è finita in cenere. Insomma, il grande autore è un po’ eccentrico, motivo per cui Margaret si occupa di lui con particolare cura e apprensione e vuole che tutto “fili liscio” e senza intoppi. L’incarico di Jo prevede che si occupi della corrispondenza ma subito si allarga a anche al “rispondere al telefono ”a Salinger”, in linea diretta dedicata. Sono mansioni delicate, ma se verranno eseguite alla perfezione consentiranno alla ragazza di accedere allo step successivo: la fantomatica “pila per il macero”. In questo luogo mistico si raccolgono le opere prime dei nuovi scrittori mai pubblicati e “scegliere quello giusto” dal mucchio può essere un trampolino per diventare a tutti gli effetti una editor della casa. Certo il lavoro per Margaret sembra allontanare Jo un bel po’ dal suo sogno originale di fare full-time la poetessa, anche perché nella casa editrice vive lo strano dictat che “gli impiegati non sono scrittori”, ma il ruolo le risulta da subito stimolante e presto si lascia davvero travolgere dalle mille lettere dei fan di Salinger. Ogni lettera racconta una storia personale, condivide passioni e dolori, invoca e prega per un incontro con il grande artista. Un incontro con il proprio “scrittore preferito che potrebbe anche essere il tuo migliore amico” che in qualche misura era evocato dallo stesso giovane Holden nei primi capitoli del libro (nello specifico “per noi Italiani” a pagina 23 in alto della edizione Super ET del 2014, tradotta da Matteo Colombo), ma che di fatto non avverrà mai. Così un giorno Jo sente che le risposte standard, al netto dei “grazie, ma l’autore è impegnato” conditi in varie salse, le stanno strette. Cosi Jo si mette a rispondere direttamente alle lettere degli ammiratori, iniziando a escogitate modi per cui alcune missive, le più “sentite”, potessero per davvero arrivare nelle mani di Salinger. Questa condotta della ragazza potrebbe forse essere un problema per l’editore e per la privacy del suo primo scrittore, ma potrebbe anche aiutare Jo a capire davvero cosa vuole fare realmente lei, “da grande”. 

Il primo vero passo di questa “scoperta di se stessa” sarà proprio leggere Il giovane Holden, libro che paradossalmente non aveva mai letto pur rispondendo già da mesi alle lettere dei fan. 


Il regista Philippe Farardeau ci raccontava in The bleeder, la sua precedente pellicola uscita nel 2016, la storia vera e poco favolistica di Chuck Wepner, interpretato su schermo dal bravo Liev Schreiber. Conosciuto come il “pugile sanguinante per la sua attitudine a incassare e non mollare, di estrazione popolare e poca fortuna negli incontri, il buon Wepner si distinse in un incontro incrociando i guantoni con Mohamed Ali in un match storico da “occasione della vita” nato per intuizione del super impresario Don King. Questa storia avrebbe ispirato Sylvester Stallone nella creazione del personaggio di Rocky Balboa e Wepner da allora viene chiamato “il vero Rocky”; spesso attribuendogli il modo bislacco e buffo di esprimersi proprio di quel personaggio. Oggi Farardeau ci parla di nuovo del confine tra mito e realtà usando la leggendaria figura di Salinger, padre della letteratura americana moderna, per lo più nascondendocela sullo sfondo, facendone quasi un deus ex machina ultraterreno. Una specie di Papà Gambalunga che risponde al telefono della nostra protagonista mentre da dietro una finestra osserva nel suo giardino un pavone dalle piume calate. Salinger “esiste”, ma per una intuizione registica non ne vediamo mai il volto. Per  i suoi fan lui è spesso “Holden” o almeno c’è la convinzione che moltissimo dell’autore sia “dentro Holden”. Holden è divertente, sfortunato, “autentico” e se leggete il libro nell’adattamento italiano, magari immaginandolo con la voce di Ferruccio Amendola, ha lo stesso modo, un po’ bislacco e buffo, del Rocky di Stallone. Holden-Salinger diventa per molti lettori un amico immaginario che li ha accompagnati, divertiti, commossi e ispirati parlandogli senza fronzoli, magari scorbutico, di vita reale. Questi fan scrivono nelle lettere: “Penso a Holden quando mi sento sopraffatto dalle mie emozioni” perché si riconoscono in lui. È qualcosa di decisamente “potente” questo amore enorme e incondizionato, al punto che nel film i fan vengono evocati, nella loro “urgenza di una risposta”, come dei fantasmi che letteralmente si impossessano della scena della piccola redazione dove lavora Jo, quasi perseguitandola. Redazione dove in sottofondo si sente il rumore delle lettere frullate in pezzi nel trita rifiuti, mentre quasi assaporiamo l’odore della carta ingiallita della stanza dove si trova la terribile pila del macero. Solo che il personaggio di Salinger, in questa strana epoca pre-social-digitale fatta di carta tritata e ingiallita in cui è ambientato il film, non è e non può essere Holden. È una persona riservata, schiva, un po’ con il momentaneo blocco dello scrittore, un po’ fissata sul passato più che sul futuro e non parla come Rocky. È un uomo anziano e forse anche un mentore per il personaggio di Jo, ma non può che apparire per i suoi fan sideralmente lontano. È una persona “molto umana”, che non può rispondere a tutti i fans h24 o non farebbe altro nella vita. 


Il film di Falardeau potrebbe prendere in ogni momento la strada de Il diavolo veste Prada o meglio di Una Donna in carriera, replicando così per Sigurney Weaver un ruolo che l’ha già resa celebre. L’ambiente letterario si presenta subito affascinate, ricco di glamour e strane regole di interazione, di artisti eccentrici e del feticcio della scelta delle copertine e rilegature, lo scenario ideale per un confronto tra due donne che rappresentano idealmente un “prima” e “dopo”.  Ma non lo fa. La pellicola ci tiene ad immergerci invece quanto più possibile proprio nella “strana magia” che scaturisce dall’atto creativo di “scrivere”. Perché la magia risiede “in quanto è scritto”, non necessariamente nella vita quotidiana degli artisti. Scrivere è “un dono”, un’ispirazione. Chi è in grado di scrivere (ci racconta Salinger) deve onorare e difendere questa attività “come un santuario interiore”, almeno dedicandole 15 minuti al giorno. Quando un testo ultimato arriva al lettore, l’opera diventa di quest’ultimo a pieno titolo, con la piena autorizzazione a ritrovare se stesso dentro quel romanzo o quella poesia, anche nell’interpretarlo in un modo del tutto diverso da quanto pensato dall’autore. Nel mezzo, tra pubblico e autore, ci sono gli editor, ossia quelli che stanno nella posizione più scomoda di tutte. Devono tutelare l’autore e la sua privacy, devono valutare la vendibilità di un’opera, devono dire tanti “no”, saper ascoltare i lettori e sobbarcarsi il peso di mille giudizi errati su tutto il processo. È un ruolo ingrato quando complesso, che il personaggio della Weaver riesce a esprimere al meglio, dando corpo a una donna molto complessa quanto affascinante, quasi tragica, che svela la sua intimità solo a frammenti. Il personaggio della Qualley, con tutta la sua energia giovanile, sta invece in bilico tra il sentirsi autrice ed editor. Si rimprovera alla sua Jo, in una scena-chiave, che come autrice deve saper amare di più  gli “autori in vita”, più che ricordarci il suo eterno amore per Gustave Flaubert. In un’altra scena, la ragazza si scopre poi spronata a vivere la propria vita in modo nuovo, proprio dalla lettura di Franny e Zooey di Salinger. È un film che parla dell’amore per i libri, della reale possibilità di “dialogare” con loro, dell’istinto innato di voler diventare scrittori e di quanto serba invece per noi la “realtà”. Oggi nel 2020 la comunicazione editoriale e il rapporto tra autori, case editrici e fan sono diversi, forse più immediati quanto “ruvidi”. Per raccontare con ironia questo passaggio epocale, già nel 1997 fittizio del film appare sinistro, nella redazione della tecnofobica Margaret, un primo personal computer collegato alla rete. Nero e oscuro come un monolite, pronto sicuramene a fare danni “con tutte le diavolerie che contiene”. Un nemico da affrontare analogicamente, trascrivendo rigorosamente, a macchina da scrivere, ogni suo contenuto riguardante gli autori patrocinati. In questa ossessione per la carta battuta a macchina, tritata o ingiallita, il film apre a una sorta di ideale grande battaglia finale tra il mondo della carta e il digitale, tra il mondo di lettere scritte e spedite a mano e le email superveloci, tra i libri e futuri ebook. 



Molto interessante, ben recitato, con la capacità di mettere in corpo una voglia irrefrenabile di leggere e ri-leggere Salinger (e non solo). Il film tra le sue qualità è anche un’autentica lettera d’amore a chi vive dietro le quinte di una redazione, in questo molto vicino al bellissimo I sogni segreti di Walther Mitty di Ben Stiller. Davvero brave e molto affiatate le due attrici principali. 

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