domenica 14 novembre 2021

The French Dispatch: la nostra recensione del nuovo film di Wes Anderson

 


In una ridente cittadina francese, abbarbicato sulla cima di un palazzo panoramico del centro, ha sede un piccolo ma battagliero quotidiano locale. Quel posto incantevole ed eccentrico è la culla di tanti piccoli scrittori il cui “ruolo di cronista” esonda, sta “troppo stretto”. 

Il biondo e tranquillissimo ragazzone che si occupa della pagina di costume (Owen Wilson) di questo soleggiato, tranquillissimo, incantevole e ordinatissimo paesino sul mare, dovrebbe  scrivere articoli sulla “festa patronale”, i luoghi tipici, gli eventi locali.

Ma preferisce scrivere di immaginari bassifondi da detective story, abitati da blatte e saprofagi, di chierichetti che sono in realtà criminali incalliti, di occulti complotti di potere. Una navigata giornalista di inchiesta dovrebbe occuparsi della pagina di cronaca (Frances McDormand), ma  quando viene “inviata sul campo” nel mezzo di una dura manifestazione studentesca si scopre (inconsciamente!!) a raccontare dei bollori adolescenziali, finendo prima nel letto di un piccolo e inesperto Che Guevara (Timothee Chalamet) e poi a correggere di suo pugno i suoi sgrammaticati e inconcludenti manifesti politici per “dargli un tono”. C’è l’esperta d’arte (Tilda Swinton) che finisce per scrivere un pezzo sull’amore “astratto e materico” tra un detenuto che si scopre pittore (Benicio del Toro) e la sua secondina (Lea Seidoux) e di come questo venga brutalmente mercificato e sovradimensionato da un esperto d’arte cinico e arrivista. C’è il critico gastronomico (Jeffrey Wright) che al posto di intervistare uno chef scrive un intero, intricato e avvincente racconto poliziesco “basato su fatti reali”, tra rapimenti, piccoli detective e boss del crimine, che vede lo chef marginalmente coinvolto.  


C’è nel lavoro di tutti i giornalisti del French Dispatch un’eccedenza da “fuori tema”, un “di più” narrativo che per qualcuno magari può suonare facilmente come sviante, eccessivo, un “troppo”. Ma senza questo “di più” forse loro, come autori, non sentirebbero di esistere, non si sentirebbero di aver fatto un lavoro completo. Ed ecco che il capo-redattore (Bill Murray) interviene. Aggiusta il tiro degli articoli, un po’ li riduce, chiede ai giornalisti delle informazioni aggiuntive per aiutarli a trovare il “cuore” di quello che volevano narrare. 

Ogni tanto riesce a mediare “piegando il media”. Perché in fondo chi l’ha detto che un “articolo di gastronomia” debba essere solo un articolo sulla “materiale” gastronomia o che io debba pubblicare “unicamente” un articolo di gastronomia “canonico”? Se il giornale è mio, ci faccio quello che mi pare e pubblico un articolo di “Gastronomia e cronaca nera insieme”!! 

Anche grazie a questo tipo di mentalità è davvero un posto squinternato quanto magico il The french Dispatch. Peccato che il suo ultimo numero debba aprirsi con un necrologio. Proprio quello del suo capo-redattore. A causa di ciò, dopo questa ultima edizione, il French Dispatch potrebbe non vedere mai più un nuovo numero.

Wes Anderson confeziona un film a episodi strutturati come rappresentativi di alcuni articoli giornalistici di un quotidiano locale, legati da una cornice che funge un po’ da “dietro le quinte” (ma non solo) dell'attività redazionale. È un film antologico e ogni “articolo” ha sui specifici colori, modalità narrative, gusto per la composizione scenica. Il regista non si trattiene e gioiosamente fa esplodere in tutte le direzioni il suo modo di intendere il cinema, anche se le formule visive, le modalità narrative come le scelte del cast rimangono “Wes Anderson puro”, riconoscibilissime fin nei minimi dettagli. Le scenografie “geometricamente ordinate” e i costumi “vintage” come ne I Tenenbaum, con colori e composizioni che richiamano la “linea chiara” delle graphic novel europee. Ogni tanto, come ne Le avventure acquatiche di Steve Zissou, un’immagine che inquadra un ampio scenario “si ferma” mentre al suo interno i personaggi la “percorrono” come un labirinto di una rivista di cruciverba, in tutti i lati e direzioni, spesso usando scale, carrucole, comparendo e scomparendo dietro alle porte. Qualche volta come in Budapest Hotel il formato stesso dell’immagine cinematografica cambia, da 16/9 a 4/3 a bianco e nero. Qualche volta come ne L’Isola dei cani la scena viene raccontata facendo uso dell’animazione tradizione a cartoni animati. Il racconto “giornalistico” che veicola la trama è una diretta evoluzione del racconto “epistolare” di moltissime opere di Wes Anderson, dove l’io narrante tende a imporsi quasi del tutto sulla scena, sopra i dialoghi e l’azione, definendo un tono “intimo e sarcastico” alle vicende. 


Lo sconfinato e gioioso amore del regista per “l’arte del raccontare” trabocca da ogni fotogramma, ma tra tanto “chiasso” ci può portare magari a empatizzare, per “dissonanza”, con il personaggio crepuscolare di Bill Murray. Un Murray capo redattore “in ascolto”, che recita per sottrazione e piccoli contrappunti, che guida e non giudica, che permette che qualche giornalista bazzichi per il giornale senza mai aver scritto nulla, perché lì “si sente bene”. Se letto sotto questa luce The French Dispatch si smarca dalla sua natura episodica e trova una particolare “sintesi” unitaria quanto simbolica e diventa quasi un film sul ruolo del padre. Un film sulla capacità di un padre di accogliere, comprendere e dare ai propri figli tutto lo spazio possibile di esprimersi, fornendogli solo quando serve una giusta direzione da intraprendere. Un film che proprio per questo riesce a essere originale, in quanto una pellicola che sappia rappresentare lo “stare in ascolto”, è materia assai rara e preziosa di questi tempi. 

Molto bravi gli attori, da Murray a Del Toro, alla McDormand, alla Swinton. Ma l’elenco dei bravi attori coinvolti, anche solo in piccole parti, è davvero gigantesco, quasi enciclopedico. Segnalo per l’incredibile bellezza, umanità e spirito di sacrificio in una parte decisamente “eccentrica” Lea Seidoux, che dà corpo a un personaggio davvero indimenticabile, quasi felliniano. 

La pellicola è carica e qualche volta sovraccarica di intuizioni, luoghi e personaggi, ma non perde mai il suo ritmo interno e risulta molto godibile per tutta la durata. Molto bella la colonna sonora, impreziosita anche da Morricone . 

I fan di Anderson lo adoreranno, alcuni spettatori si sentiranno magari un po’ spaesati nella struttura episodica, chi saprà o vorrà farsi trascinare fin nel cuore narrativo dello spettacolo troverà in The French Dispatch qualcosa di bello e inaspettato. 

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