giovedì 30 giugno 2016

Dragon Blade - la battaglia degli Imperi - la nostra recensione


Sinossi: 48 Dopo Cristo, piena dinastia Han, un territorio di 8.000 km diviso tra mare, sabbia, fiumi e fango: la Via della Seta. Magica, forse ricavata da pelli di animali sconosciuti, preziosa e ambita, la seta era solo uno dei mille esotici tesori che arrivavano a Roma da popoli a lei ancora ignoti (Amazon non forniva ancora i feedback dei commercianti...) attraverso le mille diramazioni della più grande via commerciale al mondo. Il sabbioso confine occidentale, tra Unni, Indiani, Parti e una serie indecifrata di altri popoli, era un vero "hot point". Caldo da morire, zero acqua, la sabbia che ti entrava nelle mutande, il posto giusto per incazzarsi per un nonnulla, figurati per una carovana di ventagli e the in doppia fila. Tanto garantire la sicurezza del commercio quanto prevenire i subbugli delle popolazioni più bellicose  era una sfida continua ma necessaria, per permettere alle spezie più pregiate di aromatizzare il pollo nelle trattorie di tutto il mondo. Un continuo gioco di equilibri politici e di sforzi ginnici per i poco noti eroi che sotto il caldo e senza Gatorade tenevano ordine in quei luoghi. Il comandante della squadra di difesa della Via della Seta Huo An, interpretato dal grande Jackie Chan, credeva nella filosofia di "trasformare il tuo nemico nel tuo amico" (in fondo è dal 201 a. C. che la Cina è unita "sotto un unico cielo", come ci raccontava Zhang Yimou in Hero) e gestiva le situazioni più spinose cercando quanto più possibile di tenere la spada nel fodero, anche a costo di ridicolizzarsi facendo le faccette buffe tipiche di Jackie Chan. Vi sto sentendo con le mani alzate e prevengo la domanda: no, qui non indossa dei cappelli buffi. Cioè, a un certo punto ha una specie di cappello da cowboy dorato, ma credo sia roba storica. 


Huo An era il migliore nel suo lavoro e tra risse sedate e matrimoni scansati la Via della Seta era in pace. Ma il destino un giorno tirò un brutto scherzo e il nostro eroe venne coinvolto in uno scandalo e rapidamente, poiché non siamo in Italia, condannato ai lavori forzati nella ricostruzione delle mura presso i Cancelli delle Oche Selvatiche. Un cantiere gestito peggio della Salerno - Reggio Calabria per via di una fissa tutta cinese di spostare enormi blocchi di pietra sopra legnetti grandi come stuzzicadenti.  Per un gioco del destino puntava verso la stessa meta, ossia gli stessi malandati cancelli,  anche un contingente romano. Dei giganti terribili, i romani, alti due Jackie Chan e mezzo. Feroci e possenti, che si muovevano coordinati come giocatori di football americano, coperti di corazze pesanti e da scudi di ferro grandi come le porte di un palazzo cinese. Avrebbero potuto smontare le mura mattone per mattone, ma in quei giorni erano deboli, provati, allo stremo. Anche perché il loro non era esattamente l'abbigliamento consigliato dal dress-code locale e la Gatorade, appunto, non era stata ancora scoperta lungo la Via della Seta. Il loro comandate, Lucio (John Cusack), stava faticosamente cercando in quelle terre un rifugio per il piccolo Publio (Jozef Waite), l'erede di Crasso. Lo stava cercando a casaccio correndo come un indiavolato nel deserto ed era quindi tutto un caso il fatto che fosse arrivato lì. Il piccolo Publio, di una decina di anni, era inseguito costantemente dall'esercito del violento fratello maggiore Tiberio, interpretato da Adrien Brody. Tiberio era pazzo, motivo per cui in un deserto con 60 gradi all'ombra sopra una armatura di 80 chili portava pure un mantello pesante ricavato da un orso. Tiberio era pronto a tutto pur di subentrare a Publio nell'eredità paterna e nel cuore dei romani. Forse era per quello che andava in giro con una pelle d'orso e una assurda pettinatura buffa, ma l'effetto simpatia non pareva dei migliori. Rosicava. Con uno stratagemma Tiberio era già riuscito a rendere cieco Publio e non intendeva fermarsi. Per questo era iniziata la fuga disperata del piccolo drappello romano condotto da Lucio in territori inesplorati della Via della Seta. Per questo motivo il comandante romano, debilitato da giorni senza cibo e senza acqua, sarebbe arrivato al punto di  impugnare il suo gladio pesante contro Huo An. Ancora non era consapevole che la persona che si sarebbe trovato a combattere non avrebbe avuto nessuna intenzione di diventare un suo nemico e che  insieme i due avrebbero tirato su un'impresa edile che avrebbe fatto pure oggi una bella invidia dalle parti del bergamasco.


Una grande produzione: Daniel Lee, regista del bellissimo, romantico e avventuroso (e ancora inedito)  14 Blades con Donnie Yen, firma insieme alla star internazionale Jackie Chan, che qui interpreta, produce, coordina, scrive e cura il catering una delle più colossali produzioni cinematografiche orientali di sempre. Un cast gigantesco, sette anni di produzione, scenografie sontuose per una pellicola molto ritmata e dal minutaggio, per una volta, non sterminato (di cui ringraziamo). Ci sono alla base della ricerche storiche importanti, il primo effettivo incontro diretto tra Cina e Roma venuto in luce da recenti scavi archeologici, ma il taglio scelto dalla pellicola per intreccio, scenari e armature non vuole essere documentaristico. Dragon Blade è gioiosamente indefinito e quasi fantasy, un po' sulla linea di un'altra pellicola di fanta-storia legata sempre ai romani, ma guarda un po', il King Arthur di Fuqua. Il registro narrativo leggero, le spettacolari scene d'azione, addirittura dei numeri musicali e una interessante e inaspettata vena drammatica ne fanno uno spettacolo mai noioso. La scelta di mettere davanti i sentimenti invece che i trattati politici è vincente. Si ride e si piange, si parla di onore e amicizia in un affresco che vuole rappresentare quello che ambisce a essere la Cina  di oggi, una realtà grande ma inclusiva, amica e cordiale con gli altri popoli. I romani in fondo, ci dice il sottotesto, amavano i prodotti cinesi come la seta prima ancora di conoscere chi li aveva lavorati. Lo stesso messaggio di amicizia e "somiglianza" con la cultura romana che di recente ci ha fornito, per quanto riguarda il Giappone, il divertente Thermae Romae di Hideki Takeuchi. Oriente e occidente che oggi si scoprono "una faccia una razza" citando, non a caso, il Mediterraneo di Salvatores. La pellicola offre un ottimo modo di fare intercultura in una società, quella odierna, che di fatto è già cosmopolita, anche se ancora noi non ce ne siamo accorti. Si confrontano usanze diverse e si impara qualcosa di più gli uni dagli altri. Si parte con lo scontro e con le spade, per difendere il proprio territorio dagli "estranei" e infine si scopre che nel mondo, volendo,c'è posto per tutti. Esattamente come accade nei film Marvel e sarebbe bello avvenisse nella vita vera. Gli attori sono molto in parte anche se non mirano alla costruzione di personaggi troppo complessi e il film può risultare facilmente comprensibile anche agli spettatori più giovani. 


Una panoramica sugli attori: Adrien Brody con il suo Tiberio dà vita a un cattivo d'altri tempi, quasi disneyano al punto da ricordare l'umanizzazione dello Scar del Re Leone. E' possente nella sua stazza, tracotante nei modi, minaccioso nello sguardo. Ma a un osservatore più attento appare fragile quanto il suo Noah Percy di The Village, indifeso e forse incompreso, a conti fatti un gigante, ma dai piedi di argilla. Cusack  è bello vederlo ogni tanto in un ruolo più action del solito, come ai bei tempi del suo indimenticabile Ed in Identità.  E' un Cusack pensoso, rassegnato, tormentato e forse dal destino tragico già segnato che grazie alla sua carica di umanità riesce davvero a elevare la qualità generale della recitazione del cast. Lavora di gesti semplici, per sottrazione, ma riempie la scena. Jackie Chan è invece tragico come nei migliori Police Story ma non rinuncia a tirare fuori ogni tanto la sua fisicità slapstick, canta pure sguaiatamente una canzone popolare ed è un mattatore assoluto come sempre. Jozef Liu Waite è il classico "bambino infestante" che ultimamente sdoganatosi da pellicole hollywoodiane come Jurassic World sta prendendo sempre più piede anche nelle produzioni orientali, colpendo anche giganti come Tsui Hark (il recente, inedito e bellissimo - nonostante il marmocchio - The taking of tiger mountain). Publio dovrebbe essere la personificazione della gioia e della  patria lontana, del valore e del futuro migliore. Ma è il classico bambino che entra in scena e "legge la poesia" facendo le faccette. Fortuna che su schermo ci sta poco. Molto divertita e divertente la bella Lin Ping, che interpreta la giovane e combattiva Luna Fredda. Sembra una parente non troppo lontana della moglie indiana interpretata da Brandon Merrill in Shanghai noon - Pallottole Cinesi.  E' buffa, sopra le righe e lancia a raffica frecce con il suo arco. Peccato venga sacrificata un po' dalla pellicola la brava Mika Wang, che interpreta la moglie di Huo Au Xiuqing, una insegnante di una scuola di confine. Il suo personaggio, dall'animo altruista e semplice riesce comunque a lasciare il segno. 
C'è poi un'intera legione romana, i barbari, l'esercito cinese, una valanga di uomini in armi e cavalli sullo schermo. Tutti con splendidi costumi, armi e cavalcature diverse. Si parlavano sul set 10 lingue diverse, dal cinese al russo, dal coreano al francese, dal cantonese all'inglese. Ma come si rapportano così tanti attori e di tante nazionalità diverse? A gesti ed è anche piuttosto divertente da vedere! Le relazioni, anche per via dei diversi registri linguistici, sono spesso "fisiche", "mimate" e donano alla pellicola una connotazione visiva quasi da film muto, una chiarezza della messa in scena cristallina. La trama si segue senza possibilità di perdersi in mille anfratti, parlano i paesaggi e la massa colorata delle comparse. 


I combattimenti: per gli amanti dei wuxia, la cappa e spada cinese, c'è poi lo spettacolo nello spettacolo dello scontro tra i gladiatori e i funamboli orientali. Abbiamo visto molti film sui romani in armi, ma non li avevamo ancora ammirati con le coreografie di combattimento di Jackie Chan. La star per l'occasione crea per loro un interessante stile che richiama tanto il Kick boxing (peraltro praticato da Cusack, Jachie Chan gli ha quindi cucito addosso un "abito marziale su misura", tramutando colpi diretti in colpi di daga) quanto gli assalti compatti del football americano. Ai difensori della via della seta invece dona una lama che allunga la portata del colpo attraverso una corda retrattile. I cinesi sono minuti rispetto ai romani, ma si avvantaggiano così di un attacco degno della cuspide di uno scorpione. Lo stile dello scontro è di stampo realistico, più vicino a coreografi marziali come Sammo Hung che a Yuen Woo Ping. E' un bello spettacolo visivo anche vedere armato e pericoloso il colossale Adrien Brody. Il suo stile si caratterizza per una forte teatralità: l'incedere lento ma a scatti fulminei e per i movimenti ampi e minacciosi con cui brandisce la sua spada pesante, quasi da guerriero medioevale. Sbilanciato ma insidioso e con il costante sguardo da pazzo, Tiberio sembra all'apparenza in grado di tenere testa da solo a un esercito. Ogni suo colpo è gestito come i match dei film di Rocky, con una forte aderenza allo storyboard. Deve essere stato un lavoraccio e l'ennesima dimostrazione che Brody è in grado di essere oltre che un grande attore drammatico anche un action hero. 
Dragon Blade è il classico popcorn movie o meglio "nuvole di drago movie". Divertente, a volte melodrammatico, veloce e sontuoso nella messa in scena. La location sabbiosa, che non pochi grattacapi ha dato alla produzione, ha regalato una resa visiva che grazie all'attenta fotografia risulta unica nel suo genere. E' un film "fisico", ma che grazie al talento degli attori riesce ad avere sfumature drammatiche interessanti. Una bella sorpresa nella nostra calda estate.
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lunedì 27 giugno 2016

Pioggia di ricordi - la nostra recensione!



Taeko è una 27enne single che lavora in un ufficio e vive a Tokyo. Questo fa di lei per la società giapponese del 1991 una esclusa sociale tristemente destinata a essere una pazza gattara con dei tratti somatici propri di una sessantenne invecchiata male. Taeko un giorno chiede al suo capo una cosa stranissima e inconsueta, dei giorni di ferie. Il capo è molto riluttante, ma accetta quando lei gli comunica che li sfrutterà per andare a rompersi la schiena arando dei campi altrui e pagando per questo chi la ospiterà. Taeko è particolarmente euforica alla prospettiva di questo viaggio perché fin da quando era bambina sognava di andare in vacanza in campagna e questo particolare stato mentale fa si che come una pioggia le affiorino dalla memoria i ricordi di quando era una pischellina che andava alle elementari. Ricordi così vividi e fino ad allora sopiti che a un certo punto la Taeko adulta riesce a vedere in giro la se stessa bambina e tutte le sue divertenti avventure formative. Il primo annegamento per incuria parentale, la prima intossicazione alimentare per senso di colpa, le amichette stronze in odore di nazismo gioiose di sputtanarla davanti a tutta la scuola, il primo insuccesso in una relazione sentimentale matematicamente certa, il primo sberlone a cinque dita mano aperta per aver chiesto di non essere abbandona dai genitori una sera a casa da sola, quella volta che la mamma si convinse che avesse un ritardo mentale perché non capiva una questione di matematica e lo urlò in sua presenza a tutta la cittadinanza, quella volta che poteva diventare ricca e famosa ma c'aveva il babbo stronzo che non voleva senza un perché. Ma Taeko rilegge tutto col senno di poi, in questo viaggio interiore. Alla fine si incolpa di tutto e ride a denti stretti di un momento della sua vita che ricorda comunque come "il più felicissimo" della sua esistenza (chissà il resto!!) senza nutrire quell'umano comune sentire che la spingerebbe per spirito di auto conservazione a voler andare a uccidere con un lanciafiamme tutti coloro che le hanno causato quelli che anche a uno psicologo distratto apparirebbero come gravi traumi permanenti. Forse è per questo in fondo che Taeko va a coltivare i campi, per sfogarsi e non commettere una strage della sua stronzissima famiglia. E va a sfogarsi con l'agricoltura in capo al mondo, a diecimila miglia dalla civiltà, per impervie stradine sterrate cariche di tornanti, in una località, Yamagata, dove si coltivano i fiori di Cartamo. 
Apro parentesi. 
Come ampiamente illustrato nella pellicola il Cartamo è un fiore giallo, dal quale però (tra i mille usi) si ricavava, spremendone una quantità gargantuesca, un rossetto rosso rubino favoloso e pregiatissimo. Il perché del colore rosso accesissimo era in realtà una questione aberrante e inquietante, che è calata se non finita del tutto (pare, si spera, non ho indagato) in epoca moderna. Non si sa se a causa di una paga bassissima o di ritmi di lavoro infernali o di mancanza di strumenti idonei al raccolto o combinazione di questi tre fattori ma sta di fatto che la raccolta era frenetica e avveniva senza guanti, al punto che le (stronzissime e acuminatissime) spine (del fiore diabolico) squarciavano di continuo le mani delle raccoglitrici, con la conseguenza che i fiori raccolti erano colmi di sangue umano. La tintura era una spremuta di sangue che la protagonista ricorda come una sorta di tributo dei poveri contadini a vantaggio della bellezza di poche ricche signore. Una bella metafora sulla conquista della parità sociale di genere, unita alla classica critica all'inurbamento e al progresso che Takahata ci ripropone e ri-propina convintamente da sempre, dalla trasposizione animata di Heidi in poi. 
Chiusa parentesi.
Ad accompagnare la nostra eroina nella scoperta del lavoro duro nei campi, tra sessioni di guida del trattore e la raccolta dei fiori, passando dalla cura delle varie colture, c'è Toshio, il cugino del cugino di un parente acquisito, non troppo più giovane di lei (che ripeto è 27enne ma li porta malissimo) e carico di entusiasmo e spirito contadino, che ascolta, presta "effettivamente" e primo al mondo attenzione alla nostra Taeko, e poi mette a palla in auto un cd del gruppo vocale di voci bulgare (vi giuro che sono loro!!) che ha contribuito al Pippero di Elio e le storie tese, perché è un cultore di "musica contadina internazionale". E oltre che cultore e coltore (sognavo di scrivere una frase così da tutta la vita), Toshio è pure un attivista convinto, un politico contadino, che spara con ardore proclami a raffica sull'importanza dell'agricoltura e dell'allevamento per il futuro del Giappone e in una certa misura colpisce, per risolutezza e spirito positivo (quanto per un accento strano, "country ") la nostra salary-girl zitella. Come andrà l'eccitante vacanza di Taeko? Riuscirà a rivivere al meglio i peggiori traumi della sua infanzia mentre sfreccia felice su di un trattore facendo il dito medio alla plutocratica società capitalistica moderna all'ombra dell'imperatore?


Takahata è... è... è... pesante. No, forse non è la parola giusta. Takahata è "denso". Nelle sue opere c'è un sacco di roba, messaggi politici, sfumature sociali, racconto interiore, spunti biografici e autobiografici, tradizione cinematografica che va dritta dalle parti di Ozu, amore per la natura e la cultura giapponese. Personalmente faccio in gente fatica a una prima visione ad assimilare tutto, faccio fatica proprio ad arrivare in fondo alla visione. Ma poi il film lo affronto, magari a rate, poi ci ripasso sopra, lo guardo, lo riguardo da un nuovo punto di vista, lo interpreto male, credo di averlo capito, lo stratifico e in genere, alla fine di tutto,  ne rimango rapito. I suoi quindi non sono film facili, anche se strutturalmente lo sembrerebbero, ma spesso proprio per la ricchezza di letture che offrono, sono capolavori da conservare e riprendere spesso in mano, che so mi accompagnano negli anni perché alla fine mi risultano indispensabili, mi ci immedesimo, se fossero dei libri li consumerei a furia di leggerli. E non è esattamente una cosa che possa ritenersi scontata, a pensarci, per me riuscire a immedesimarmi in vita e opere in una bambina delle elementari giapponese. E credo che pure il signor Takahata non fosse da piccino una bambina giapponese delle elementari, i tempi delle sorelle Wachowski sono troppo recenti, ma non divaghiamo. Ma descrive così bene questa piccola vita che almeno in un'altra vita Takahata deve necessariamente essere stato una bambina giapponese. Nella breve sinossi ho scherzato sul "dramma", che è forse il tratto formante dell'approccio realistico, tragico, che Takahata predilige imprime alle sue opere. La tragedia è sempre dietro l'angolo e puntualmente accade, come la carrozzina di Clara che ruzzola giù dalla montagna, come l'epilogo di Una tomba per le lucciole. Ma è anche il modo più rapido con cui il regista ci mette in contatto, ci fa empatizzare, con la sua opera. E più la vita dei protagonisti sarà dolorosa più saranno magici i momenti di gioia o anche solo di "quiete". Ora la vita di Taeko non è poi così orribile come ve l'ho raccontata, perché è la stessa Taeko a smitizzare i drammi che viviamo da bambini, si fa quasi una auto-analisi e ci ride sopra, ma tuttavia la nostra protagonista rimpiange la potenza e purezza di quei sentimenti gridati a squarciagola, un po' teme e un po' ama l'esuberanza della se stessa bambina che di colpo, prepotente quanto "risoluta" arriva a infestare la sua piccola vacanza agreste dicendole senza giri di parole che lei nella vita ha sbagliato tutto, a furia di tenere la testa bassa non è più riuscita a guardare in faccia le altre persone quanto se stessa, sta morendo dentro, è la ventisettenne più vecchia della terra! Ed è commovente la forza esplosiva della piccola Taeko e del suo mondo. Certo ci avrò messo un anno intero a vedere il film completo. La storia di immedesimarsi in una bambina ecc. ecc. mi convinceva poco. La parte quasi pseudo-documentaristica con il lavoro dei campi mi sembrava eterna e meno eccitante di una puntata di Linea Verde. Ma vederlo tutto di seguito facendo i collegamenti e non essendo troppo pigri è davvero una rivoluzione copernicana e da allora ho visto la pellicola almeno sei volte di filato. La stessa cosa più o meno che mi era capitata con Pom poko. 


Visivamente taglio corto, è stupendo. Bellissimi i paesaggi, così dettagliati da essere foto-realistici. Mooolto graziosa la Taeko bambina e tutto il suo mondo di compagni di classe, ananas e bagni termali, canzoncine della tv e borsette alla moda riciclate dalle sorelle maggiori. Molto vitale e tranquilla, in piena comunione con la natura, la vacanza nel verde della Taeko adulta, ti viene davvero una voglia maledetta di andare ad arare un campo e coltivare barbabietole, lasciando da parte le menate assurde del lavoro, le bollette e la città come accadeva dopo la visione di Wolf Children (non a caso Mamoru Hosoda è accreditato come esponente della stessa poetica nel l'animazione giapponese odierna). Come mi capita di dire di frequente in merito delle opere Ghibli, Pioggia di Ricordi fa bene all'anima ed è un delitto non guardarlo. Ne vale troppo la pena. 
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mercoledì 22 giugno 2016

The neon demon - il nuovo film di Nicholas Winding Refn, nelle sale ora, grazie a Midnight Factory


Jesse (Elle Fanning) è l'incarnazione della bellezza. Prendetelo come dato di fatto e passiamo oltre. Quando entra in una stanza irradia tutto con una luce calda stile telecamere di Paola Ferrari e tutti rimangono folgorati e in adorazione. Sicura del suo "potere", Jesse arriva a Hollywood per sfondare come modella. Il fotografo Dean (Karl Glusman) la ritrae plastica, sdraiata su un divano e con la testa aperta in due dopo un brutto massacro a sfondo familiare. Perché la ama. Le foto arrivano alla gente che conta e in qualche misura c'entra pure la truccatrice  Ruby (Jena Malone), che si definisce ai party la "custode" di una villa gigantesca, probabilmente la villa vacanze di Satana. Che burlona. Anche Ruby la ama. Forse è per questo che la sera trascina Jesse in locali perversi insieme a due modelle - mostro tristi e pericolose completamente rifatte in silicone che vorrebbero solo ucciderla di invidia per i suoi occhioni a cerbiatto e fisico da principessa Disney con allegati gli uccellini che le volano intorno quando cammina. L'amore per Refn fa fare cose di questo tipo. Ma Jesse è positiva sul futuro, per questo continua a vivere, sicura e tranquilla, nel lurido e fatiscente motel di periferia gestito dell'inquietante Hank (Keanu Reeves): rissoso alcolista, ricattatore per diletto, forse un assassino, di sicuro un pedofilo, probabile stalker. Però Hank è uno che ispira fiducia e di cui ci si affeziona. Almeno secondo Jesse e per... Nessun altro sulla Terra. Motivo per cui non lo denuncia quando una sera, rincasando, Jesse trova nella sua camera non uno scarafaggio, non un topolino, non un ramarro ma una cacchio di dannata tigre africana di 6 metri che ha tipo sventrato ogni sua proprietà. Lei dice: "Ma come cavolo è entrata?". Hank dice: "Ce l'hai messa tu perché sei una perversa e mi ripagherai i danni". Si vede che anche Hank la ama. Di fiore in fiore Jesse finisce, dopo aver duedipiccato un ragazzino troppo dolce, per colpire l'immaginazione del misterioso e spietato fotografo Jack (Desmond Harrington), un tizio che si accompagna a una enorme e inquietante valigia nera ripiena di solo Dio sa cosa. Vuole stare solo con Jesse, butta fuori tutti dal suo studio fotografico e apre la valigia. Me estrae una vernice dorata sicuramente cancerogena da spalmare sulla pelle delle modelle, comprata al Lidl. Jesse è felice di essere ricoperta come una statuina degli Academy Awards. Jack l'ha vista e l'ha scelta  e questo provoca reazioni pazzesche e inconsulte alle altre modelle. Perché in questo film le modelle sono gente che passa tutto il giorno a essere scartata ai provini perché troppo vecchia, troppo sfigata, troppo con le orecchie in fuori. 


Jesse invece è "nuova", è "fresca", non è rifatta o adulterata chirurgicamente e in un mondo che apprezza il biodegradabile è un valore non da poco. Ma siccome le modelle hanno saltato la terza asilo per il loro primo servizio di intimo, non ci arrivano al fatto che non se le caga più nessuno perché sono vecchie e in fondo sempre le solite tre modelle che si presentano a tutti i provini. Perché giuro che è così, Refn mette sempre le solite 3 modelle di gomma a ogni provino. Così le mannequins pensano che Jesse abbia tipo un asso nelle manica sovrannaturale per aggiudicarsi le passerelle. Se Jesse ha un qualche potere, loro vogliono averlo per poter brillare come lei. E per scoprire il suo mistero sono disposte a frequentarla, cosa invero facilissima in una Los Angeles in cui vivono letteralmente 6 persone in tutto, seguirla assiduamente ovunque è mal nascondendo il fatto di odiarla o forse di amarla. 
Poi un bel giorno a Jesse arriva la grande occasione e il suo potere, la sua bellezza, il neon demon (una sorta di mood da "super figa di legno siderale" che ha l'aspetto grafico di un triangolo colorato volante preso di peso dalle scene più fantasy di Conan il Distruttore o dalla Valle dei Re di Gardaland) potrebbe cambiare e travolgere la sua vita. Chi si aggiudicherà il cuore di Jesse? 

Frammenti di trama, suggestioni, una rincorsa labirintica a interpretare tessuti narrativi non abbinati. Scene che dovrebbero seguire logicamente ad altre scene ma che si perdono, non arrivano proprio sullo schermo. Un vero sbattimento, visto che mi aspettavo più una roba di donne vampire in reggicalze che si menano e fanno cosacce tra una doccia e l'altra. Mai dare retta ai trailer. Il film si fa "vestito" (guarda che metaforone ti trovo, da sobrio, alle 18.39 del pomeriggio, cercando di elevare la discussione) giocando di contrasti ed emozioni forti, cercando un senso nell'insieme più che nei singoli componenti. A sfruttare il materiale, ossia la matassa di argomenti solo accennati che compone il "film", cinicamente si poteva tirare fuori una serie tv. Magari con scene zozze di vampire sotto la doccia, che non era male come spunto di partenza. Si è scelta invece la carta un po' stronza dell'oggetto misterioso, ma di sicuro culto, "facciamo il film strano che dice e non dice", anche se probabilmente non appagherà gli sforzi produttivi dei realizzatori ora, tra trent'anni se ne parlerà ancora. Forse. E' stata una scelta alla fine giusta? Di seguito un po' di cavolate a caso sul tema. Di sicuro è stata una scelta impopolare e originale.


Pochi giorni fa parlavamo di cinema alimentare di lusso, presentando l'ultima pellicola di Tarantino ad uscire in Blu Ray come un hamburger di lusso, gustoso, appagante, magari intoppante ma irrinunciabile. Tarantino pesca il meglio dalla cinematografia di genere, impone il suo timbro di garanzia su temi anche desueti o proprio fuori moda e per magia quei temi, i film da cui ha preso ispirazione, ritornano attuali, diventano "cool" . Così ti trovi a vedere il suo Django per poi correre a riguardare il Django originale insieme a mezza chilata di altri spaghetti western. Vedi Kill Bill e ti fiondi su Hero, prodotto guarda caso anche da Tarantino. Oggi non ci distanziamo troppo, metaforicamente, ma qui si fa l'inverso. Refn vuole scioccare e non accomodare. The Neon demon è quindi qualcosa di liquido nella nostra immaginazione, quasi uguale al classico Bloody Mary che, con tutti i suoi estimatori e detrattori, trovate in tutti i bar, quasi ovunque. Un cocktail raffinato e strano forte. Solo apparentemente "da donne" per via della sua caratteristica pseudo- salutista, offerta da quel gambo di sedano che spesso lo accompagna. Un cocktail, più simile al sugo per la pasta per la sua preponderante componente di pomodoro, che gioca sull'effetto (sorpresa che non è sorpresa) dolce-salato e sull'allegoria visiva del sangue, un feroce aspetto cremisi. Il Boody Mary è deciso al gusto, per nulla accomodante. Dalla preparazione agli ingredienti, come da quello che si è mangiato due minuti prima, il  Bloody Mary può variare dell'80% nel piacervi o meno, spesso varia in peggio. La Vodka e' al 30% e come sua natura sembra solo di passaggio, "semplice come acqua" scende in due sorsate e poi attacca alle spalle. Il limone, 10%, avvolge di freschezza e per un istante ricordiamo il ghiacciolo che prendevano al bar della spiaggia, ci sentiamo a casa, ma dura poco,subito arriva il tabasco insieme al sale e al pepe, a ricordarci che non stiamo bevendo Coca Cola ma, appunto, il sugo della pasta, che questo è un mix insolito, pungente e per nulla dolce, e che in fondo non sappiamo perché cacchio l'abbiamo ordinato, non fosse per quel suo nome "che fa gore", accattivante. Infine, insieme alla salsa worcestershire arriva, come un treno merci, il succo di pomodoro, il 60% del mix, il piatto forte, qualcosa di veramente alieno per chi non ha mai provato il succo (e può non piacere) e lo sperimenta solo ora con la vodka (e può non piacere peggio). E' un cocktail classico, c'è chi lo ama, c'è chi lo prende solo per dire "io bevo Bloody Mary", affascina anche se come effetto primario spesso indispone. Se lo proverete poi con elementi non di qualità, come un succo pomodoro di marca scarsa, non vorrete più avvicinarvi a lui per il resto dei vostri giorni. Ma se vi piace, tornerete per un altro giro. Insomma, si ama o di odia e spesso nemmeno lo si capisce. E questo vale incredibilmente per molte pellicole di Refn. Hanno nomi d'impatto forte. Sono fiere di essere "fuori dal coro". Sono apparentemente lineari nell'andamento, ma ci si "ubriaca subito" e la storia prende strade strane e impreviste. Infine si accetta tutto e ci si bea della loro stranezza fino in fondo, ma la ricetta potrebbe andare di traverso alla fine, lasciando un saporaccio. Refn non vuole piacere, non vuole accomodare. Refn vuole stupire, spesso a tutti i costi. 


Non manca in The Neon Demon un animo citazionista, attento e devoto. Ci sono richiami "autunnali" a Lynch (Mulholland Drive), la perfezione geometrica di Argento (Suspiria), la famelicità alimentare di Suskind (il Profumo), la plastica "d'animo" dei Vanzina (Sotto il vestito niente), la "merda" intellettuale di Altman (Pret-a-Porter), il fantasy estetizzante di Zemekis (La morte ti fa bella), la mistica religiosa della bellezza estrema del corpo di Ferretti (La carne), la "fame di cervelli" di Romero (La notte dei morti viventi), i non-luoghi di periferia di Hitchcock (Psycho), la staticità esistenziale di chi offre di se sempre e solo un'immagine di (S) Coppola (Somewhere), la cattiveria nei rapporto relazionale di Von Tier, il rigore nella rappresentazione di Van Sant. Refn è bravissimo con la cinepresa, gli attori sono bravissimi, tutto funziona e bene formalmente, ma rimane a livello di suggestione, si punta all'opposto della refenzialità, ricercando inedite fragranze e modi nuovi per cullarvi sensorialmente con l'avvolgente colonna sonora di Cliff Martinez e la fotografia di Natasha Braier. Ci sono buchi narrativi, ma ci sono fieramente. Refn nemmeno vuole che "capiate troppo", che arriviate a definire una pellicola che per vocazione anarcoide sfugge da un qualsiasi incasellamento, anche di massima. E' un film dolce? E' un film amaro? E' una commedia? Un horror? Un dramma esistenziale? Una love story? Una unica ed essenziale, evidente e ingenua, metafora sulla bellezza come costrutto sensuale/ sessuale/ alimentare? The neon demon è "così come è", originale quanto narrativamente nudo, iconoclasta, ruvido. E pure altezzoso e stronzo, crasso e labirintico. Ma  se siete fortunati, se siete abbastanza suggestionabili e quindi suggestionati dal suo fascino, se il sole è in trigono con Urano e la vostra giornata felice, sarà il film stesso a parlarvi a livello neurale, intimo, suggerendovi che avete voi il potere (forse) di vederci dentro tutto quello che volete. 


Come nei film di Tarantino (impossibile non far rincorrere idealmente all'infinito Refn e Tarantino) si avverte che c'è molta più storia di quanto non appaia su schermo, che i personaggi hanno vissuti che travalicano la pellicola. Ma nella nuova pellicola di Refn sembrano non esserci confini storici e immaginifici, narrativamente può esserci davvero "di tutto" . All'apparenza è davvero uno splendido contenitore vuoto, finemente lavorato e attraente, che può assumere un significato diverso - altro (bello-brutto) solo a seconda di quello che lo spettatore vuole ficcarci dentro. Minore è la vostra voglia immaginifica (anche momentanea, fate conto sia un giorno in cui "non siete in vena"), minore lo sforzo di giocare con i pochi tasselli che ci vengono forniti per costruire il  puzzle che di fatto è la trama di The Neon Demon, minore è il fascino chi il film saprà sprigionare. Insomma: se nutrite in seno un "horror vacui" alimentato da anni di pellicole che dicono e spiegano tutto, specialmente americane (e comunque se siete in cerca di un film leggerino da dormicchiare) The neon demon potrebbe non fare per voi. Finireste a elencarne enigmisticamente solo le stranezze della trama. Potrebbe essere tutto un rincorrersi di "Ma cosa è successo tra il punto a e il punto b? " oppure "Cosa voleva dire quel personaggio dicendo che fa quel certo lavoro?", "Che cosa sta facendo allo specchio quel personaggio? Cosa c'entra la luna?". Un continuo riempire forsennato di buchi neri narrativi, dei quali il regista è conscio e fiero. Un incoerente sforzo di ricerca di una logica di cui anche allo stesso regista frega pochissimo. Refn butta carne al fuoco e se ne sbatte delle risposte: "Trovatevele da soli!", sembra dire, "Dategli voi un senso!". Certo che può essere frustrante un film che ricerca il suo senso dagli occhi e dalla testa di chi lo guarda, ma in fondo non è così per le immagini di un capo di moda che vediamo (soprattutto le donne) su una rivista? Separiamo la modella dal vestito, compiamo una astrazione essere-apparire. Guardiamo un capo di abbigliamento per come andrà bene a noi, con i nostri accessori e la nostra incredibile personalità. E magari irritandoci, quel giorno che lo sfoggeremo in una serata importante, se qualcuno, diversissimo da noi e con una "classe assente" ne porta in pubblico uno identico a tre metri da noi, "accomunandoci", "svilendoci", "parificandoci" a lui? La moda vive di soggettività, individualismo, e Refn adatta il cinema a questo concetto. Refn sembra quasi nascondersi dietro a una etichetta di moda, come si intuisce nei titoli di testa. Ed è traumatico per chi nei film cerca sicurezze, "bolle di sapone sotto controllo di vite alternative", scottarsi con una visione così radicale e non lineare. Così potreste uscire di sala frastornati e irritati, cercando conforto in uno sguardo amico che vi possa aiutare a capire "cosa cacchio ho appena visto?" oppure (se il sole è in trigono con Uran, dicevamo...) potreste essere ludicamente e  sinceramente contenti per il giocattolo strano che vi è appena stato regalato. Allora può essere una commedia nera? Se bendisposti rispondereste: "Sì, e funziona". Potrebbe essere un horror? "Sì, e funziona". Potrebbe essere una storia d'amore non corrisposto? "Sì', e funziona alla grande". Ma non ci sono buchi narrativi? "Sì, ma li ho riempiti io, divertendomi". Refn non fa prigionieri. Ma prendete The neon demon dal lato sbagliato (lo ri-sottolineo perché mi pare vero) e lo odierete da subito e per sempre. Pur riconoscendogli un certo fascino formale, una recitazione interessante, quelle favolose musiche da paura e quella luce tutta particolare, tra il mistico e l'artificiale, che ricopre ogni scena. Strano e con un nome Figo come il Bloody Mary, il succo di pomodoro con vodka che vi fa guardare strano da tutti gli avventori della birreria, intenti magari a ridervi addosso. Ve la sentire di tentare la sorte? Per me ne vale la pena. L'insieme è originale come poche altre cose sulla piazza. Se amate Refn non devo certo io convincervi, ma se di Refn avete visto solo Drive vi consiglio prima di vedere Solo Dio perdona, che con questo The Neon demon ha molto in comune, costituisce quasi un dittico uomo-donna. Andateci comunque informati e non nell'attesa di un horror con tante tette o fareste la fine di Nelson che in una celebre puntata dei Simpson's va a vedere Il pasto nudo di Cronemberg unicamente perché è un film vietato ai minori... Forse magari un porno...



A tutti gli altri buona visione...
Talk0

domenica 19 giugno 2016

Dylan Dog n. 356: la macchina umana


Dylan è nel suo ufficio open - space della Ghost Enterprise, sommerso di pratiche fino al collo. Vorrebbe tornare a casa dopo un'ora e mezza oltre la fine dell'orario di lavoro, ma sarebbe il primo a tornare a casa, il primo ad abbandonare un ufficio brulicante di capi chini che con entusiasmo e abnegazione danno la vita per la prosperità dell'azienda. Questo "tradimento" comporta la compilazione di infiniti moduli sulla soddisfazione dell'impiegato e l'additamento pubblico ma lui non demorde, perché è giusto vivere anchenal di fuori del lavoro. Sbrigata la burocrazia è quindi libero di tornare a casa a guardare i dvd e giocare con la sua ultima console, godere dell'agognato tempo libero. Ma, stanco, crolla in un sonno profondo, dal quale si risveglia solo il giorno dopo, all'ultimo minuto, in ritardo anche per prendere il pullman al volo. Sarà crocifisso in sala mensa? L'effrazione la sconta invece in una sorta di camera detentiva senza finestre, un luogo angusto e squallido in cui arrivano continue pratiche da compilare. Un non - luogo in cui sembrano passare dei giorni senza cibo e senza sonno. Fino a che la pena è sufficiente, con il nostro eroe reso finalmente libero, diventato un guscio vuoto di se stesso. Dylan un minuto dopo ha giusto il tempo per scambiare qualche battuta con i colleghi e partecipare alla obbligatoria gita al centro commerciale della Ghost, dove poter trovare occasioni ghiotte per il suo tempo libero, spendendo entusiasticamente tutti i suoi pochi soldi. "Lo facci per la ditta, Dogghi!!". E Dogghi... cioè Dylan è pronto a spendere, anche se con la dovuta preoccupazione. Perché di fatto con il lavoro d'ufficio non ha guadagnato fino a ora granché, al punto che per sopravvivere sta già vendendo il mobilio di casa. Ma le occasioni del Ghost store sono troppo ghiotte. Forse però la vita può cambiare o diventare più sopportabile, con poco. E senza possedere dvd impacchettati che non si ha il tempo di vedere. E' un trucco che qualcuno gli ha insegnato. Basta, durante il lavoro, rimanere con gli occhi fissi sullo schermo del pc, ma senza guardarlo davvero. Concentrarsi solo su un puntino dello schermo del pc e lasciare che i pensieri si focalizzino e spirino in quel punto. D'un tratto diviene magicamente possibile decontestualizzare  il mondo, immaginare di essere in un luogo diverso, una persona diversa. Magari, addirittura, è possibile sognare di essere un cacciatore di fantasmi che si trova in quella ditta per affrontare un caso, ma che per qualche motivo ha perso la memoria.  Per un attimo, come direbbe Marzullo, si potrà sognare che la realtà è un sogno e forse i sogni ci aiuteranno a vivere meglio. Per poi tornare con i piedi per terra, dentro la macchina lavorativa.


Sì pero'... Che tristezza... Certo la dimensione del single, depresso e solitario lavoratore aziendale, spesso è questa. Ma grazie al cielo ci sono a volte anche gli amici o i familiari "là fuori dal lavoro". In fondo qualcuno va al lavoro sperando di tornare a casa, anche per pochi secondi, per abbracciare i propri cari o farsi una bevuta tra amici? Qualcuno va al lavoro sperando che i propri sforzi permettano a un figlio di crescere e diventare adulto o anche solo per permettere alla mamma di comprarci una pagnotta? Ci sono delle vite da proteggere, sorrisi e abbracci da ricevere! Perché, come canta qualcun altro, chi si spacca la schiena sul lavoro in fondo è tutt'altro che uno sfigato...


Ma spesso non si riesce a essere eroi e non è nemmeno il caso in cui "il ragazzo non ci si impegna abbastanza". Non si trova materialmente il tempo per costruirsi una vita e fare gli eroi è difficile, soprattutto per chi non ha mai preteso di esserlo.

Come si comporterà quindi il nostro Dylan, anti-eroe per eccellenza, nell'ingranaggio chapliniano della macchina umana? 
Dopo essersi dedicato per combattere i "Mali interiori" al social work con procedure da manuale  (vedasi recensione ultimo numero, testo più commenti), facendoci intuire (e non è la prima volta) che sia diventato una specie di "assistente sociale dell'incubo", oggi Dylan si connette con un altro classico malessere esistenziale, quello dei colletti bianchi. Un tema che non passa mai di moda. Open-space fatti di cantucci brulicanti di umana depressione, l'incubo del non rinnovo del contratto, lo sconforto di una vita non vissuta, il massimo orrore di finire in mezzo a una strada perché troppo vecchi o troppo giovani e quindi "sacrificabili". 
Dylan Dog incontra così l'horror per autonomasia del cinema italiano: l'immortale Fantozzi (e il correttore automatico mi ha appena tradotto Fantozzi in Fantocci, ve li giuro). Nonostante le evidenti parti comiche, il capolavoro di Paolo Villaggio è infatti la più spietata, efficace e realistica critica alla condizione di vita dei colletti bianchi. Certo è un problema autentico e reale, tutto il mondo del lavoro si sta estremizzando, chiedendo sempre più ore e ore di lavoro extra, andando a risucchiare il capitale umano in un vortice senza uscita. Manca il tempo, mancano i soldi, manca la voglia di ribellarsi, manca una qualsiasi dimensione di futuro al di fuori della lotta titanica per accumulare quanto basta per estinguere un mutuo o garantire almeno la scuola ai propri figli. I familiari alla fine si vedono per sei minuti al giorno (almeno da svegli) e i legami si assottigliano, spesso si spezzano e resta solo il lavoro come condanna a vita. L'uomo è ridotto davvero  a ingranaggio del sistema oggi esattamente come lo era ieri. anche se sono cambiate le "forme esteriori", anche se sono state vinte importati battaglie sindacali e umane, anche se si vive di più e ragionevolmente meglio, l'uomo è sempre più vittima e succube del suo lavoro, al punto da nullificare il resto della sua vita. 
Cosa c'è "di più horror" di questa esistenza meccanizzata?
Qual e' la via d'uscita? 
Se il lavoro d'ufficio è un mostro, riuscirà Dylan a combatterlo con i suoi nuovi "superpoteri" di assistente sociale (ormai la moda è questa, non che sia un male)? Anche qui Dylan si "connette con il problema", anche se non ci viene detto come tutto è partito e ce lo ritroviamo fin dall'inizio ficcato nel problema dalla testa ai piedi. Dylan è già da subito un colletto bianco, auto - convinto di esserlo, da sempre, dai mostruosi e alienanti schemi di lavoro della Ghost Enterprise. 
Come ne uscirà?
Il lavoro di Bilotta è originale e forte al punto da scuotere e fare calare completamente nella storia una grossa fascia dei lettori. Chi si lamentava dell'incapacità di Dylan Dog di trattare temi di attualità qui potrebbe almeno un po' ricredersi (in fondo è realtà fantozziana, ma fin troppo attuale). I disegni del bravissimo (da applauso) Fabrizio De Tommaso,  copertinista ufficiale di Morgan Lost (di cui prima o poi vorrei parlare) sono splendidi. I tratti somatici sono ruvidi, stilizzati, forti. Le tavole cariche di impiegati geometricamente ingabbiati in "non-luoghi aziendali", con una ricerca di bidimensionalità grafica che ricade sul loro piano esistenziale, con splash page "di sfogo e di fuga" che caricano di colore (il nero) l'ambiente del tutto asettico e impersonale della Ghost Enterprise. C'è una vena di grottesco e un tocco di involontario umoristico sui volti dei personaggi, uno spirito indomito e un po' folle negli occhi. C'è la tragedia dietro l'angolo, ci sono i mostri finti e i "veri" nascosti a più livelli narrativi, non si riesce a scovare una razionale via d'uscita a questo incubo. 
Visivamente il numero è davvero bello. Mentre narrativamente è addirittura sconcertante, in positivo, anche se un po' mi indispone. 
In effetti questo lavoro di Bilotta (ve lo dico da subito, questo numero a livello narrativo è davvero molto valido, non fraintendetemi per quelli che preciserò dopo) è una di quelle cose che mi fanno spaccare in due la testa. Un rebus senza soluzione su quello che io davvero mi aspetto da un fumetto, nel connubio tra fantasia e realtà.

Cercherò di esprimermi nel modo spero meno contorto possibile, ma non fatevi illusioni, non ci si capirà nulla... diciamo che ho due punti di vista contrastanti...


1) Primo punto di vista: mi piacciono i fumetti che affrontano di petto la realtà ricordandosi di essere "solo fumetti". In uno storico numero di Hulk scritto da Peter David di molti anni fa si affrontava il tema dell'Aids, che all'epoca, anche per via di una tecnologia medica diversa dalla attuale, era di forte attualità. La storia non era sulla prevenzione stile il "cartone animato contro la droga", il taglio era diverso, più adulto, c'era un personaggio legato alla trama principale che si scopriva malato e prossimo alla morte. Forse si poteva salvare con una iniezione del super sangue di Hulk (all'epoca eroe stabile e intelligentissimo nella versione "the professor", ma non divaghiamo), ma Peter David "abbatteva la quarta parete" e in qualche modo faceva ragionare sul fatto che Hulk non esiste, che è solo un fumetto. Allo stesso modo, nello storico numero di Spiderman sull'11 settembre 2001, John Romita Jr e J.M. Straczynski tutti gli eroi e villain Marvel sono intenti ad aiutare le vittime e a spostare i detriti di New York. Non ci sono più buoni e cattivi, il Dottor Destino piange. Gli eroi di carta si affiancano ai pompieri, paramedici, volontari e addetti delle forze dell'ordine. Perché sono, appunto, eroi di carta che tutti i mesi distruggono le città per finta, mentre i veri eroi dell'11 settembre (nella splash page finale) sono i soccorritori delle Twin Towers. La realtà spinge a chiudere il mondo dei fumetti su se stesso, diviene un limite invalicabile.
2) Secondo punto di vista: mi piacciono anche  i fumetti che "non sanno di essere fumetti". Mi piace che l'immaginazione possa "vincere" sulla realtà. Non sto parlando di un "caos mentale" che integra reale e fantastico, non mi aspetto di trovare Silver Surfer che scorrazza sopra il Duomo di Milano per protestare a una manifestazione politica. Ma del fatto che spesso i lettori sanno già che la realtà è orribile, non modificabile e "reale" e cerchino nei fumetti proprio una fuga impossibile, controllata e fasulla, un placebo allo stress quotidiano. Voglio che l'eroe di carta, almeno lui, possa vincere. Ed è un po' quello che si aspettavano gli spettatori dei film poliziotteschi degli anni settanta: la criminalità imperava ma un prefetto di ferro riusciva a frenarla. Mentre sono in bagno in una pausa fisiologica mi piace immaginare invasioni zombie ed eroi che riescono a vincerle. 
Non vi dico che punto di vista adotti il fumetto scritto da Bilotta, lo lascio a voi scoprire, ma quella tensione emotiva che sopra vi ho descritto l'ho avvertita. E non è stata un male. E essere tesi emotivamente è cosa buona se si sta leggendo un horror.
A fare giusto i pignoli, e qui oltremodo mi esprimo a carattere personale, c'è un aspetto "politico" dell'autore che non riesco a condividere in pieno , ve lo espongo sotto 


SPOILER

Alla fine il cliente di Dylan che lo ha messo in tutto il casino dice che lui è riuscito a "fuggire" trovando un impiego meno remunerativo e molto più tranquillo, in una libreria di provincia. In qualche modo l'autore avvalla la teoria che gli impiegati-schiavi della Ghost Enterprise siano vittime congiuntamente di capitalismo e consumismo. Dei gioghi che si potrebbero facilmente togliere se accettassero di vivere un po' più poveri ma in un ambiente in cui la qualità di vita è migliore (in fondo il consumismo si sviluppa anche come reazione compensativa a una vita non appagata). Il che sarebbe auspicabile, certo, ma attualmente è anche possibile? Mi piacerebbe che ci fossero milioni di librerie in paesini di provincia, magari in Toscana o Emilia Romagna, dove ricollocare impiegati resi "burnout" dal lavoro in grandi aziende, tutti i disoccupati e "pure me"! Ma attualmente, sarò pessimista io, non riesco a trovarle sugli annunci di lavoro. Ma magari sono io che guardo male. 


FINE SPOILER

Insomma. Alla fine decisamente un ottimo numero. Ben disegnato, ben scritto, crudo e spietato come un vero horror dovrebbe essere. Decisamente uno dei migliori numeri degli ultimi tempi. 
Talk0

martedì 14 giugno 2016

Monster trucks - Primo trailer... Ma questa roba arriverà in Italia?



Ok, dietro ci sono i tipi dell'Era Glaciale e quello non mi sembra il Grave Digger o Superman... L'interprete è Lucas Till, che oltre ad aver interpretato Havoc nei recenti X-Men... oh mio dio, sarà il prossimo McGuyver!!!!!! Oltre a McGuyver... Cioè, vi rendete conto?!!! McGuyver!!! Quest'uomo sarà McGuyver!!!!! Cacchio, il prossimo McGuyver!!!! Ok, ora prendo un calmante; oltre a Till c'è anche Jane Levy, che  era nel remake di Albarez de La Casa, e ben due mostri sacri usciti fuori ora da un vortice spazio- temporale. Perché non mi spiego altrimenti la loro assenza prolungata dal cinema... Anzi no, guardando in rete roba ne fanno, ma non esce in genere dai cestoni dei film Direct to video di un'ipercoop dell'Ohio, figurati arrivare in Italia. I due mostri sacri in questione sono Rob Lowe, che oramai vive di comparsate, e  Danny Glover, che se era "troppo vecchio" nell'86 per "certe stronzate" giuro non so cosa ci faccia qui... Forse il mutuo da pagare? Intanto apprendo da IMDB che ha girato, tipo ieri, e quindi "esiste" , un Death Race 4!! Ma non è pazzesco??!!  E recita con il nuovo McGuyver!!!  Bel colpo Danny!!! Ma torniamo al trailer.
Ci sta la provincia depressa americana stile Hazzard, con bifolchi e corse pazze per salvare la terra del nonno dall'ipoteca o giù di lì. Ci stanno dei mostri nel sottosuolo. Sono "pallaformi", tutti gommosi, poliposi, con gli occhioni e tenerelli e amano correre contorcendosi orribilmente dentro gli ingranaggi di macchine-mostro senza una ragione specifica. Cioè capito il gioco di parole? Le "auto-mostro" o "Monster-Trucks"? Auto... Più... mostro? Sì, lo so, gli americani a giochi di parole sono sottili; l'importante è che ci sia il prossimo McGuyver comunque. Il resto è tutto contorno.


Io ho appena visto il trailer... che dire? E' colorato, gli effetti sembrano carini, la trama già da ora pare inesistente. Credo ce ne dimenticheremo tutti fino a che arriverà fortunosamente in un cestone dell'ipercoop a noi più vicina, a fianco al mucchio di dvd di Pilates, "costruisco un dinosauro con la carta", "Spartacus - la versione noiosa del National Geographic Channel senza sangue e tette",  Zombie 2 di Fulci e al film "L'uomo dell'anno" con Beppe Convertini. 
Potrebbe essere Free Willy incontra il Maggiolino Tutto matto... Come faceva la canzone di Free Willy?



Ok, fesserie a parte, se avessi 6 anni questo sarebbe il film del 2017 che più aspetterei al mondo. Anzi no, escono i Transformers nel 2017 e pure il nuovo King Kong... Ok, il secondo o terzo film dell'anno 2017 se avessi sei anni. Forse. No, direi starebbe comunque un bel po' dietro.
Chris Wedge è (dicevamo mezz'ora fa)  un militante dello studio di animazione 3D Blue Sky, il tizio che ha diretto il primo Era Glaciale, Epic (quello tipo Arthur e i minime ma con i ninja), Robots (quelli con Dj Francesco. Non si sa perché, ancora oggi). Ha anche scritto la sceneggiatura di Epic e non era affatto male. Il team di sceneggiatori qui coinvolto in Monster Trucks è responsabile invece di Kung Fu Panda per lo più, ma ce ne sta uno, Derek Connolly (il cui nome ora scrivo e sottolineo in rosso  nell'agendina) che ha lavorato a Jurassic Word e sarà sui prossimi Kong: Skull Island, Pacific Rim 2 e Star Wars IX. Non oso immagine chi doppierà la macchina mostro da noi. Spero davvero che non parli.
Ok, cosa stavo facendo? Ah, si'!! Cercare notizie su McGuyver!
Talk0

domenica 5 giugno 2016

Trasformers: the last knight - il quinto film sui giocattoli trasformabili Hasbro ha un titolo e una bella gnocc... No, più una gnappetta...



23 giugno 2017, non avete scuse per mancare, comprate il calendario dell'anno prossimo di Max (ma li fa ancora i calendari Max? Io ero rimasto a Rossella Brescia... Qualche secolo fa... ma comunque spettacolare) e cerchiate la data!! I Transformers tornano al cinema e pure con l'intenzione di restarci per un po'. Infatti dopo questo, per il 2018, è previsto un film su Bumblebee e per il 2019 si parla già di Transformers 6. La Paramonut si è presa giusto una pausa sul franchise in questo ultimo periodo, utilizzando lo "slot" temporale per piazzare gli "analoghi" film delle Turtles, per l'occasione rese da Bay "hulkesche" (che ovviamente già amo alla follia), ma nel contempo ha ingaggiato un maxi team di sceneggiatori per gestire al meglio gli sviluppi futuri. Come risultato, questo Transformers V vanterà gli sceneggiatori del primo Iron Man e di Black Hawk Down e si spera che questi eroi silenziosi riescano a risolvere il più grande problema della saga dei robottoni trasformabili: "la trama del cazzo". Gente che "vede i Prime morti". Nemici-amici-signori oscuri di cui si ricorda l'esistenza solo nel film successivo per poi dimenticarsene di nuovo. Il cubo cosmico che non si capisce cosa facesse, se trasformasse tutto in robottini o avesse una "coscienza Borg" o fosse una banca dati o fungesse da batteria di ricarica. Il transformium, il didò del futuro. I cagnolini invalidi con rapporti omosessuali ad uso ridere, madri drogate a uso ridere, minoranze etniche idiote a uso ridere, scoregge, rutti e piscio di robot alieno a uso ridere. I camion che si nascondono dentro i cinema senza che qualcuno si chieda come cacchio sono entrati. Eroi cibernetici che volano veloci come jet,  armati di armi laser, che stanno impigliati a dei cavi della corrente per venti minuti di pellicola. Alieni che sono arrivati sulla luna ma di cui nessuno sa nulla o forse sì o forse non se lo ricorda più o forse ci fanno i traffici illegali. Nuovi transformers che non si "trasformano più" ma diventano tipo dei cubetti lego. Bumblebee che prima non parla, poi parla, poi non parla più. E soprattutto lui, Shia Labeouf, che si fa le più stratosferiche fighe dell'umanità senza alcun merito. Risvolti narrativi che vanno a farsi friggere da un episodio all'altro introducendo cose a caso importantissime di cui prima non si è fatta alcuna menzione. Insomma, la trama è sempre stata (forse meno nel quattro...) un casino, con voragini di sceneggiatura pronte a ingoiarvi a ogni passo in quei brevi momenti in cui non eravate assuefatti dagli inseguimenti, esplosioni, trasformazioni e soprattutto da un carico di patata (leggi "gnocca") spaziale da novanta. Quindi nuovi sceneggiatori servivano. Forse. Lo dico un po' così, mestamente, pensando al fatto che Orci e compagni non è che fossero male (e infatti in altri contesti hanno fatto molto bene), ma che forse potrebbe essere la macchina produttiva stessa di un colosso composto tipo "Devastator" tra la Hasbro+Paramount+Bay a prendere sceneggiature buone, frullarle e renderle quello che è venuto fuori. Vuoi per introdurre un personaggio da vendere all'ultimo minuto, vuoi per creare un arco narrativo volto sfruttare i finanziamenti di quel paese in cui girare, vuoi per inserire la massa di spot pubblicitari delle aziende che hanno contribuito alla produzione. Ricordiamo che parliamo di una pubblicità così invasiva (per via dei costi di produzione folli) che ogni tanto, invece del paesaggio, dietro ai robottoni in primo piano sembrava di scorgere quei pannelli pubblicitari che stanno dietro ai calciatori nelle interviste del dopo partita. Insomma, ho forti dubbi che la trama possa migliorare, ma vorrei sperarci, anche perché, a conti fatti, lo spettacolo visivo di questi film mi piace a livello anche solo epidermico. Merito anche di Bay, che crea un "non-mondo-patinato" pieno di auto bellissime, donne bellissime, sparatorie, botti, bandiere sventolanti, fotografia razor, musica pop. Una realtà parallela inverosimile in cui ci fa nuotare abbondantemente per quasi tre ore a film, fino a che non ne possiamo davvero proprio più e torniamo a casa quasi stremati, ma felici, come se avessimo fatto lo sforzo molto americano di ordinare al Buger King, e mangiarlo, un secondo Double Whooper: gioia mista al leggero timore di morire per il cibo eccessivo. Micheal Bay per me è così, il guilty pleasure definitivo, L'orgasmo da abuso di prodotti economico-ma-cool da fast food cinematografico. Ogni suo film equivale alla intera programmazione annuale di Dmax sparata nel cervello, a velocità di diecimila immagini al secondo, con le tecnologie di Matrix in sessioni da tre ore (i film di Bay corti, in genere). Neo imparava il Kung Fu in tre ore. Noi dopo tre ore di Bay  farfugliamo esaltati roba tra "Armi del futuro", "Nudi e crudi" , " Bear Grills" e "American Tarzan". E per tre ore all'anno (ripeto, considero le Turtles una estensione di questa ottica anche se Bay solo produce) questo "trattamento" si può fare, quasi lo aspetto, proprio a livello alimentare, conscio che l'abuso mi sarebbe fatale. Certo non pretendo che voi siate come me e apprezziate tutto ciò. Ci sono fan dei cartoni animati dei Transformers inorriditi da tutto ciò e forse li capisco a livello ipotetico. Io non sono fan della serie a cartoni per niente, ho visto qualcosa ma non ricordo la trama di un singolo episodio, mi hanno lasciato nella memoria storica davvero "il nulla" a parte lo spettacolo di grossi robottoni componibili che non potevo poi comprare perché costavano quanto un appartamento in centro. Comprare il Devastator mi ricordo che era più oneroso di creare una impresa edile vera. Pertanto il mondo dei Transformers visto oggi dagli occhi di Bay mi va benissimo e anche se ne comprendo la "tossicità" non riesco che ad amarlo, ad amare la "Bay's american way". Gnocca e robottoni, una scelta consapevole al punto che quando vuole Bay se ne esce con cose raffinate come 13 Hours: the secret soldiers of Benghazi o Pain & Gain. Solo che qui non vuole farlo, ci vuole dare il nostro double transformers special con salsa barbecue e patatine con guacamole accompagnato da una coca cola gigante ghiacciata. La cena dei campioni! 
E a che punto eravamo arrivati con la trama? Cioè la "linea guida" del prodotto? Nel primo film si è scoperto che i transformers, una razza di alieni robotici senzienti molto simili per relazioni interne ai "puffi" (cacchio se è così, altro che intelligenza superiore!!) esistono e sono capitati a caso sul nostro pianeta, da loro mai visto prima, divisi in squadre buoni contro cattivi, per cercare un cubo cosmico che servirebbe per qualcosa di importante, almeno a livello bellico. Nel secondo si è scoperto che in realtà i transformers sono stati sulla terra parecchi anni fa e ci hanno nascosto una macchina per distruggere il sole e creare energia tipo il cubo cosmico, un oggetto non sfruttato perché c'è stata una lite tra i "grandi puffi". A voler riprendere i lavori dal lato dei cattivi un tizio piuttosto importante nell'economia della trama da non essere mai stato menzionato nel primo film (perché il puffo burlone malvagio che si trasforma in aereo ha prima seguito il suo "grande puffo megatron" nella conquista andata a male dei primo film per poi, in sua mancanza, seguire la volontà dell'oscuro "grande puffo caduto", del quale era sempre rimasto fedele). Nel terzo film un altro tizio piuttosto importante per la trama compare dal nulla, è il il "grande puffo capo supremo dei buoni" che (caduto nel lato oscuro dopo essersi rotto i coglioni a stare sulla luna per 40 anni) è intenzionato a colonizzare - invadere la Terra (o forse a governarla con una casta di uomini scelti? Non è chiarissimo, la trama è un vero macello). Nel quarto film i transformers buoni vagano tristi per aver mezzo distrutto il mondo mentre uomini senza scrupoli ne hanno ciuffato la tecnologia grazie a tutti i pezzi di transformers sventrati che si trovavano ovunque dopo la battaglia del terzo film e a dei reperti archeologici di transformium. Anche qui roba mai sentita prima nei film. In pratica i robottoni sono roba tecnologica-organica fatta di transformium, attivata dal transformium a livello molecolare. Che è un po' per "applicazione immediata" come il Cubo cosmico. Nel primo film la tecnologia umana a contatto del cubo si "trasformava in robottini". Con una "bomba di transformium" è invece possibile trasformare (se ho capito bene) una vasta area, anche un pianeta, in transformium, trasformandolo il un pianeta adatto alla vita dei transformers. E chi ha creato questa tecnologia? Altri alieni, i Quintessenziali, coloro che hanno creato i puffi.., cioè i transformers. E l'universo scopriamo essere pieno di tanti tipi diversi di alieni, tipo Star Wars. E c'è pure un Boba Fett, transformer pure lui, che lavora per i Quintessenziali e gira con una astronave pazzesca allo scopo di eliminare - imprigionare i puffi scappati sulla Terra. Cioè il cattivo del quarto film, puffo Boba Fett. E nella sua astronave, ciuffato all'ordine dei misteriosi "cavalieri" nasconde pure i puffo dinosauri. 
E siamo al quinto film, dedicato proprio a questi "cavalieri", i puffi Jedi. L'identità di un paio di loro la sappiano già anche se ci vengono in mente mille "perché", ora è il momento di saperne di più e incontrare i Quintessenziali per rivolgergli la "domanda puffa" per eccellenza: "Che cacchio volete dai noi puffi?". Ma soprattutto, se il film è ambientato nello spazio, come farà Bay a metterci dentro la gnocca? 
Non giriamoci intorno: la gnocca è il fattore di interesse di queste pellicole per un buon 53%. E spesso le storie umane sono pretesti per inanellare le scene action concepiti con la logica di mini film-demenziali dentro la cornice, confusa, del canovaccio fantascientifico che riguarda gli affari dei puffi. Ma la gnocca fa storia a se stante! Ricordiamo i veri motivi per cui,noi veri fan, amiamo queste pellicole.
Rachael Taylor

Era la bellissima Maggie del primo film. Aveva decifrato il linguaggio alieno usato dai puffi cattivi per coordinarsi nelle operazioni di recupero del cubo grazie a un hacker panzone (Anthony Anderson). Lei era da togliere il fiato, lui era simpaticissimo. Non c'è alcuna traccia di loro nelle pellicole seguenti ed è un vero peccato. Io mi immaginavo lei che combatteva contro Soundwave in una gara di intelligenza... Sì sono un illuso...

Megan Fox

La bellissima Mikhaela, il sogno erotico definitivo per ogni nerd, di cui Shia LaBeouf rappresenterebbe (male) il modello tipo. Esperta di motori, innamoratissima e con un fisico di un'altra dimensione. Ipnotica. Dopo i primi due film ha litigato con la produzione, ha un po' affossato la sua carriera, ma ora grazie alle Turtles è "tornata a casa".  Il suo personaggio nella serie veniva di contro troppo sacrificato già nel secondo film, ma ogni suo secondo in scena bucava letteralmente lo schermo.
Isabel Lucas
Alice, la dimostrazione che i robot possono prendere l'aspetto umano e governarci senza problemi. Ma non vogliono farlo, perché questo è un film che serve a vendere giocattoli trasformabili. Seduce Labeouf, ma in questo caso la cosa "ha un senso", perché in fondo vuole ucciderlo. Appoggiamo al 100% Alice.
Rosie Huntington - Whiteley

Interpreta Carly, una strato-gnocca inglese che si innamora senza alcun spiegabile motivo di Shia Labeouf nel terzo film, sostituendo all'ultimo minuto la Fox, che aveva litigato con la produzione per il poco spazio a lei concesso nel secondo capitolo (e noi siamo con lei, la scena che sta a cavallo della harley vale tutte le tre ore di pellicola). Carly è gnocca, ha un po' un gommone al posto delle labbra ma il suo "lato b" (elemento su cui Bay si sofferma per il miglior piano sequenza di tutto il film) è qualcosa di mistico. Peccato sia poco più che un personaggio decorativo. Ma di sicuro arreda bene.
E sta con Jason Statham. Scusate se è poco.
Nicola Peltz

E' Tessa Yeager, figlioletta smandrappa di un Mark Wahlberg che se la trova di colpo mezza nuda a frequentare un suo quasi coetaneo pilota di auto sportive. Secondo la legge di "Romeo e Giulietta" dello stato della California, anche se ha 16 anni può sposare il suo amato ed è considerata a tutti gli effetti maggiorenne. Il film ci tiene a dircelo. Oggi che è a tutti gli effetti maggiorenne ci sentiamo legalmente tutelati per dire che è davvero un bel vedere con i suoi stivali cowboy e i micro shorts. Il suo personaggio è però meno decorativo del solito, è bello il modo in cui si occupa del suo papà eterno sognatore.
Bingbing Li

Su Yueming è una risoluta donna d'affari che conosce il kung Fu e guida la moto in modo accrobatico. Un po' come tutti gli orientali in Transformers 4, bellissimi, palestrati e pronti a fare cose spettacolari (sembra che questa pellicola sia stata mooolto voluta per conquistare il mercato cinematografico asiatico). Bingbing è divertente, sexy e letale ma il ruolo che interpreta la tiene fin troppo abbottonata rispetto alla foto che abbiamo messo qua sopra. Il suo personaggio è legato a quello di Stanley Tucci. Se tornerà nel 5 lui, sarebbe bello vedere pure lei.
E cosa ci aspetta come "gnoccona" per questo Transformers 5?

Isabella Moner, che vista così è pure bellina...
...se non fosse alta quanto uno sgabello e avesse tipo 14 anni...
Bah, speriamo ci sia un'altra attrice nel ruolo di super gnocca. Siamo un po' perplessi da questa gnappetta, non sappiamo manco come la contestualizzerà Bay nello spazio (dove immaginiamo si svolgerà la prossima pellicola, ma potremmo pure sbagliarci). Tornerà la Peltz? Tornerà Bingbing? Per ora non lo sappiamo...
Le riprese inizieranno questo giugno e riguarderanno location sparse in tutto il mondo. Si vociferava che Optimus Prime non sarebbe tornato (alla fine del 4 partiva verso lo spazio), ma dal titolo della pellicola pare siano cambiati i piani. Ci sarà un cattivone come Unicorn? Magari sì, ma se fosse mi aspetterei che non venisse subito "bruciato", tenendolo valido anche per i prossimi film. Questo giugno non arriverà nulla di "trasformatico", ma le Turtles per me faranno il loro sporco lavoro di intrattenermi. Del resto un guilty pleasure all'anno è comunque una aspettativa niente male. 
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