Sinossi: 48 Dopo Cristo, piena dinastia Han, un territorio di
8.000 km diviso tra mare, sabbia, fiumi e fango: la Via della Seta. Magica, forse
ricavata da pelli di animali sconosciuti, preziosa e ambita, la seta era solo
uno dei mille esotici tesori che arrivavano a Roma da popoli a lei ancora
ignoti (Amazon non forniva ancora i feedback dei commercianti...) attraverso le
mille diramazioni della più grande via commerciale al mondo. Il sabbioso
confine occidentale, tra Unni, Indiani, Parti e una serie indecifrata di altri
popoli, era un vero "hot point". Caldo da morire, zero acqua, la
sabbia che ti entrava nelle mutande, il posto giusto per incazzarsi per un
nonnulla, figurati per una carovana di ventagli e the in doppia fila. Tanto
garantire la sicurezza del commercio quanto prevenire i subbugli delle
popolazioni più bellicose era una sfida continua ma necessaria, per
permettere alle spezie più pregiate di aromatizzare il pollo nelle trattorie di
tutto il mondo. Un continuo gioco di equilibri politici e di sforzi ginnici per
i poco noti eroi che sotto il caldo e senza Gatorade tenevano ordine in quei
luoghi. Il comandante della squadra di difesa della Via della Seta Huo
An, interpretato dal grande Jackie Chan, credeva nella filosofia di
"trasformare il tuo nemico nel tuo amico" (in fondo è dal 201 a. C.
che la Cina è unita "sotto un unico cielo", come ci raccontava Zhang Yimou in Hero) e gestiva le situazioni più spinose cercando quanto più
possibile di tenere la spada nel fodero, anche a costo di ridicolizzarsi
facendo le faccette buffe tipiche di Jackie Chan. Vi sto sentendo con le mani
alzate e prevengo la domanda: no, qui non indossa dei cappelli buffi. Cioè, a
un certo punto ha una specie di cappello da cowboy dorato, ma credo sia roba
storica.
Huo An era il migliore nel suo lavoro e tra risse sedate e matrimoni
scansati la Via della Seta era in pace. Ma il destino un giorno tirò un brutto
scherzo e il nostro eroe venne coinvolto in uno scandalo e rapidamente,
poiché non siamo in Italia, condannato ai lavori forzati nella ricostruzione
delle mura presso i Cancelli delle Oche Selvatiche. Un cantiere gestito peggio
della Salerno - Reggio Calabria per via di una fissa tutta cinese di spostare
enormi blocchi di pietra sopra legnetti grandi come stuzzicadenti. Per un
gioco del destino puntava verso la stessa meta, ossia gli stessi malandati
cancelli, anche un contingente romano. Dei giganti terribili, i romani,
alti due Jackie Chan e mezzo. Feroci e possenti, che si muovevano coordinati come
giocatori di football americano, coperti di corazze pesanti e da scudi di ferro
grandi come le porte di un palazzo cinese. Avrebbero potuto smontare le mura mattone
per mattone, ma in quei giorni erano deboli, provati, allo stremo. Anche perché il loro non era
esattamente l'abbigliamento consigliato dal dress-code locale e la Gatorade,
appunto, non era stata ancora scoperta lungo la Via della Seta. Il loro
comandate, Lucio (John Cusack), stava faticosamente cercando in quelle terre un
rifugio per il piccolo Publio (Jozef Waite), l'erede di Crasso. Lo stava
cercando a casaccio correndo come un indiavolato nel deserto ed era quindi tutto
un caso il fatto che fosse arrivato lì. Il piccolo Publio, di una decina di
anni, era inseguito costantemente dall'esercito del violento fratello
maggiore Tiberio, interpretato da Adrien Brody. Tiberio era pazzo, motivo per cui
in un deserto con 60 gradi all'ombra sopra una armatura di 80 chili portava pure
un mantello pesante ricavato da un orso. Tiberio era pronto a tutto pur di
subentrare a Publio nell'eredità paterna e nel cuore dei romani. Forse era per
quello che andava in giro con una pelle d'orso e una assurda pettinatura buffa, ma l'effetto simpatia non pareva dei
migliori. Rosicava. Con uno stratagemma Tiberio era già riuscito a rendere cieco Publio e
non intendeva fermarsi. Per questo era iniziata la fuga disperata del piccolo drappello
romano condotto da Lucio in territori inesplorati della Via della Seta. Per
questo motivo il comandante romano, debilitato da giorni senza cibo e senza
acqua, sarebbe arrivato al punto di impugnare il suo gladio pesante contro Huo An. Ancora non era consapevole
che la persona che si sarebbe trovato a combattere non avrebbe avuto nessuna intenzione di
diventare un suo nemico e che insieme i due avrebbero tirato su un'impresa edile che
avrebbe fatto pure oggi una bella invidia dalle parti del bergamasco.
Una grande produzione: Daniel Lee, regista del bellissimo, romantico e
avventuroso (e ancora inedito) 14 Blades con Donnie Yen, firma insieme
alla star internazionale Jackie Chan, che qui interpreta, produce, coordina, scrive e cura il catering una delle più colossali produzioni
cinematografiche orientali di sempre. Un cast gigantesco, sette anni di
produzione, scenografie sontuose per una pellicola molto ritmata e dal
minutaggio, per una volta, non sterminato (di cui ringraziamo). Ci sono alla
base della ricerche storiche importanti, il primo effettivo incontro diretto
tra Cina e Roma venuto in luce da recenti scavi archeologici, ma il taglio
scelto dalla pellicola per intreccio, scenari e armature non vuole essere
documentaristico. Dragon Blade è gioiosamente indefinito e quasi fantasy, un
po' sulla linea di un'altra pellicola di fanta-storia legata sempre ai romani,
ma guarda un po', il King Arthur di Fuqua. Il registro narrativo leggero, le
spettacolari scene d'azione, addirittura dei numeri musicali e una interessante
e inaspettata vena drammatica ne fanno uno spettacolo mai noioso. La scelta di
mettere davanti i sentimenti invece che i trattati politici è vincente. Si ride
e si piange, si parla di onore e amicizia in un affresco che vuole
rappresentare quello che ambisce a essere la Cina di oggi, una realtà
grande ma inclusiva, amica e cordiale con gli altri popoli. I romani in fondo,
ci dice il sottotesto, amavano i prodotti cinesi come la seta prima ancora di
conoscere chi li aveva lavorati. Lo stesso messaggio di amicizia e
"somiglianza" con la cultura romana che di recente ci ha fornito, per
quanto riguarda il Giappone, il divertente Thermae Romae di Hideki Takeuchi.
Oriente e occidente che oggi si scoprono "una faccia una
razza" citando, non a caso, il Mediterraneo di Salvatores. La
pellicola offre un ottimo modo di fare intercultura in una società, quella
odierna, che di fatto è già cosmopolita, anche se ancora noi non ce ne siamo
accorti. Si confrontano usanze diverse e si impara qualcosa di più gli uni
dagli altri. Si parte con lo scontro e con le spade, per difendere il proprio
territorio dagli "estranei" e infine si scopre che nel mondo,
volendo,c'è posto per tutti. Esattamente come accade nei film Marvel e sarebbe
bello avvenisse nella vita vera. Gli attori sono molto in parte anche se non
mirano alla costruzione di personaggi troppo complessi e il film può risultare
facilmente comprensibile anche agli spettatori più giovani.
Una panoramica sugli attori: Adrien Brody con il suo Tiberio dà vita a un
cattivo d'altri tempi, quasi disneyano al punto da ricordare l'umanizzazione
dello Scar del Re Leone. E' possente nella sua stazza, tracotante nei modi,
minaccioso nello sguardo. Ma a un osservatore più attento appare fragile
quanto il suo Noah Percy di The Village, indifeso e forse
incompreso, a conti fatti un gigante, ma dai piedi di argilla. Cusack è bello
vederlo ogni tanto in un ruolo più action del solito, come ai bei tempi del suo
indimenticabile Ed in Identità. E' un Cusack pensoso,
rassegnato, tormentato e forse dal destino tragico già segnato che grazie alla
sua carica di umanità riesce davvero a elevare la qualità generale della
recitazione del cast. Lavora di gesti semplici, per sottrazione, ma riempie la
scena. Jackie Chan è invece tragico come nei migliori Police Story ma non
rinuncia a tirare fuori ogni tanto la sua fisicità slapstick, canta pure sguaiatamente una canzone popolare
ed è un mattatore assoluto come sempre. Jozef Liu Waite è il classico
"bambino infestante" che ultimamente sdoganatosi da pellicole
hollywoodiane come Jurassic World sta prendendo sempre più piede anche nelle
produzioni orientali, colpendo anche giganti come Tsui Hark (il recente,
inedito e bellissimo - nonostante il marmocchio - The taking of tiger
mountain). Publio dovrebbe essere la personificazione della gioia e
della patria lontana, del valore e del futuro migliore. Ma è il classico
bambino che entra in scena e "legge la poesia" facendo le faccette.
Fortuna che su schermo ci sta poco. Molto divertita e divertente la bella Lin
Ping, che interpreta la giovane e combattiva Luna Fredda. Sembra una parente
non troppo lontana della moglie indiana interpretata da Brandon Merrill in
Shanghai noon - Pallottole Cinesi. E' buffa, sopra le righe e lancia a
raffica frecce con il suo arco. Peccato venga sacrificata un po' dalla pellicola
la brava Mika Wang, che interpreta la moglie di Huo Au Xiuqing, una insegnante
di una scuola di confine. Il suo personaggio, dall'animo altruista e semplice
riesce comunque a lasciare il segno.
C'è poi un'intera legione romana, i barbari, l'esercito cinese, una valanga di
uomini in armi e cavalli sullo schermo. Tutti con splendidi costumi, armi e
cavalcature diverse. Si parlavano sul set 10 lingue diverse, dal cinese al
russo, dal coreano al francese, dal cantonese all'inglese. Ma come
si rapportano così tanti attori e di tante nazionalità diverse? A gesti ed è
anche piuttosto divertente da vedere! Le relazioni, anche per via dei diversi
registri linguistici, sono spesso "fisiche", "mimate" e
donano alla pellicola una connotazione visiva quasi da film muto, una chiarezza
della messa in scena cristallina. La trama si segue senza possibilità di
perdersi in mille anfratti, parlano i paesaggi e la massa colorata delle
comparse.
I combattimenti: per gli amanti dei wuxia, la cappa e spada cinese, c'è
poi lo spettacolo nello spettacolo dello scontro tra i gladiatori e i funamboli
orientali. Abbiamo visto molti film sui romani in armi, ma non li avevamo
ancora ammirati con le coreografie di combattimento di Jackie Chan. La star per
l'occasione crea per loro un interessante stile che richiama tanto il Kick
boxing (peraltro praticato da Cusack, Jachie Chan gli ha quindi cucito addosso
un "abito marziale su misura", tramutando colpi diretti in colpi di
daga) quanto gli assalti compatti del football americano. Ai difensori della
via della seta invece dona una lama che allunga la portata del colpo attraverso
una corda retrattile. I cinesi sono minuti rispetto ai romani, ma si
avvantaggiano così di un attacco degno della cuspide di uno scorpione. Lo stile
dello scontro è di stampo realistico, più vicino a coreografi marziali come Sammo
Hung che a Yuen Woo Ping. E' un bello spettacolo visivo anche vedere armato e
pericoloso il colossale Adrien Brody. Il suo stile si caratterizza per una forte
teatralità: l'incedere lento ma a scatti fulminei e per i movimenti ampi
e minacciosi con cui brandisce la sua spada pesante, quasi da guerriero
medioevale. Sbilanciato ma insidioso e con il costante sguardo da pazzo,
Tiberio sembra all'apparenza in grado di tenere testa da solo a un esercito.
Ogni suo colpo è gestito come i match dei film di Rocky, con una forte aderenza
allo storyboard. Deve essere stato un lavoraccio e l'ennesima dimostrazione che
Brody è in grado di essere oltre che un grande attore drammatico anche un
action hero.
Dragon Blade è il classico popcorn movie o meglio "nuvole di drago
movie". Divertente, a volte melodrammatico, veloce e sontuoso nella messa
in scena. La location sabbiosa, che non pochi grattacapi ha dato alla
produzione, ha regalato una resa visiva che grazie all'attenta fotografia
risulta unica nel suo genere. E' un film "fisico", ma che grazie al
talento degli attori riesce ad avere sfumature drammatiche interessanti. Una
bella sorpresa nella nostra calda estate.
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