venerdì 27 agosto 2021

La crudele e insormontabile bellezza di Ghosts’n’Goblins Resurrection


C’erano una volta, in un medioevo fantastico, tetro ma inspiegabilmente coloratissimo, quasi uscito da un libro di favole oscure, un cavaliere di nome Arthur e la principessa PrinPrin. Un pomeriggio cambiò tutto. Vivevano felici e innamorati, facevano un picnic nel bosco e forse stavano per fare qualcosa di più, perché Arthur stava sul prato già “vestito dei suoi soli mutandoni”, bianchi a fragoline (c’è chi dice “a cuoricini”, ma è qualcuno che non conosce la Storia). Sarebbe stato scortese non esibirli, in fondo, perché erano un regalo della principessa. Poi di colpo, e non sarà più tardi di mezzogiorno, tutto si fa buio, appare un diavolo in cielo e PrinPrin viene rapita con una drammatica colonna sonora di sottofondo, tipo film horror. Arthur, il nostro eroe in mutandoni a fragoline, indossa l’armatura scintillante d’argento in nome dell’amore (sperando di togliersela al più presto a impresa finita, sempre in nome dell’amore) e parte all’inseguimento. Direzione: il villaggio dei demoni. Da fare tutto a piedi, che i cavalli non ci vogliono entrare. Dal cimitero degli zombie ai boschi ventosi dei cavalieri e dei suini fantasma. Dalle diroccate strade di periferia del porto degli orchi-marinai tatuati e “vomitanti” alla città dei piccoli goblin/zanzare di ghiaccio, fin giù fino al castello sotterraneo e alla sua bella PrinPrin, non prima di affrontare il diavolo rapitore. Un viaggio durissimo, fatto di mille battaglie e di implacabili nemici “ricorrenti”, persino  più forti, veloci ed astuti di Arthur, come il gargoyle, gli oni salterini e il fetente drago violetto. Un’impresa costellata di trappole a “tagliola”, bauli pieni di armi brutte e inutili come la fiamma blu (in luogo delle “armi belle” come i pugnali), maghi che ti trasformano in rana, piattaforme mobili su cui saltare sopra senza riuscirci. Insomma, tensione ed eroismo fino alla fine, al livello 6, davanti a quello che sembra il nemico finale, quando si scopre che è solo “un’illusione” e per battere il nemico “vero per davvero” bisogna in realtà ripartire dall’inizio, dal primo livello. Rifare tutta l’avventura con tutte le sue insidie, per poter sconfiggere l’ultimo avversario con l’arma definitiva e più segreta: la croce/scudo a secondo della censura internazionale). Arma che è forte ma non fortissima, quasi un pacco quindi, ma che ce la dobbiamo tenere. Perché se la si perde all’ultimo instante, tipo finendo in una trappola per poi “causalmente rimbalzare” proprio una fiamma blu (cosa che può accadere con una facilità che non vi dico), non si può più sconfiggere il boss e tutto è da ripetere. All’infinito. Un tempo infinito che nel 1985, anno del signore in cui è uscito nel globo Makaimura (lett. “Il villaggio dei demoni”), in Occidente conosciuto come Ghosts’n’Goblins, significava stare nottetempo in una fumosa sala giochi a inserire gettoni. Niente cinema, scuola, parenti, morose: sempre in sala giochi. Felici. Con Arthur (e noi stessi giocatori, freudianamente) che appena colpito da un nemico perdeva l’armatura e rimaneva in boxer a fragoline, al pubblico ludibrio dei frequentatori della sala giochi che ridevano e gufavano, prossimo a capitolare al successivo colpo. 


Uno schema di gioco semplicissimo, a scorrimento orizzontale, da sinistra a destra, un po’ platform e un po’ sparacchino. Un “run’n’gun” della stirpe dei Contra, Metal Slug, Cuphead. Pochi comandi, chiarissimi e responsivi, tantissima difficoltà. Due colpi e muori, armi che colpiscono lente e sbilenche, un salto ridicolo e autolesionista, trappole ovunque, nemici moooolto più letali e veloci di noi. Un martirio, ma da cui è difficile staccarsi, come direbbero oggi gli avventori delle opere From Software di Mikami. Bella, bellissima ed evocativa la parte audio ad opera di Akayo Mori, dalle influenze ultra-classiche, quasi concertistiche. Tutto programmato senza un intoppo, scorrevole e pulito, da Toshio Arima. Tanto dolore, ma anche tanta gloria quando l’impresa riusciva, ma pure la sola contentezza di guardare un gioco visivamente incantevole. Così finivi per inserire una monetina dietro l’altra nel cabinato. Tanta gioia pure a sfottere chi giocava, perché era evidente che il gioco, parto malato di uno dei massimi guru del Game design,  Tokuro Fujiwara, un po’ ispirandosi al medioevo dantesco ma soprattutto ai Monty Python, voleva sadicamente farci scherzare sul senso della vita “più fico”, ossia quelle o più strettamente ironico, più che metafisico. 



Catarticamente, Makaimura offriva enormi soddisfazioni, dopo un adeguato apprendimento. Ma ti faceva pure ridere quando perdevi una o due milioni di volte. Così al primo ostacolo irragionevole ti incazzavi, al secondo bestemmiavi, al terzo iniziavi le fasi della Kubler-Ross sulla gestione del dolore, ma alla fine, se sopravvivevi, era tuo il senso finale della vita, videoludica o meno. Da eroe baffuto e traballante presto ridevi del dolore e della sconfitta, per infine sapere che prima o poi ti saresti tolto l’armatura, dopo il mostro finale, per tornare a mostrarti a PrinPrin (il cui nome onomatopeico potremmo tradurre come “Palpatina”, al pari del Puf Puf reso leggendario da Dragon Quest di Enix) in mutandoni a cuoricini. Per riprendere quel discorso iniziale di cui sopra. Eros e Thanatos, tanta ironia e tante mazzate. Un po’ come nella poetica boccaccesca dei Python (quella del “piedone che schiaccia il mondo” di Terry Gilliam), un po’ come nell’estetica dantesca di Go Nagai (il mostro finale, con più “facce sul corpo” stile Generale Nero, ha letteralmente il membro che spara fiamme). Per vincere il gioco e quindi “non farsi vincere da lui”, bisognava prenderlo con sana gioia/follia e amarlo. Soprattutto quando malignamente il gioco ti “irrideva”, e non ce la facevi a ridere “con lui”, nasceva piano piano nel videogiocatore quel dolore-vigile (alimentato da gioia ancestrale e inspiegabile) che anima lo “Sgurtz”. Lo Sgurtz per i non addetti ai lavori è quel concetto comico-filosofico ancestrale nato da Riondino/Gino/Michele (vi consiglio per una lezione sullo Sgurtz la visione del classico Kamikazen di Gabriele Salvatores). Tanta roba lo Sgurtz, ci si possono scalare le montagne se riusciamo a esserne pieni. Finire Ghosts’n’Goblins ti dava l’energia per iniziare una spedizione in solitaria al circolo polare artico. Certo nessuno sapeva di questo effetto e per questo il circolo polare è tutt’oggi poco abitato, Ghosts’n’Goblins era una  perfetta macchina da Sgurtz. Correva il 1985, l’anno di Gradius, Super Mario, Space Harrier e Commando. Il videogioco Commando non era un tie-in del Commando cinematografico con Schwarzenegger, ma quell’ombra deve aver in qualche modo influito parecchio sulle vendite, al punto che di colpo la casa di Makaimura mise un po’ da parte il personaggio del buon Arthur (in fondo tornerà in sala con Ghouls’n’Ghosts e “in parte”, piuttosto apocrifo, in Knights of The round) per creare come protagonisti di videogame  epigoni videoludici di Schwarzenegger, per  lo più disegnati dal grande Akira “Akiman“ Yasuda. Come in Black Tiger, Magic Sword, Forgotten Worlds, il seguito di Commando "Mercs", Captain Commando, Alien vs Predator (Dutch). Ma questa è un’altra storia, una storia nerboruta, reaganiana e testosteronica che non ha impedito ad Arthur nel 1988, con il Cps2, il motore operativo di Capcom dell’era d’oro (quella di Street Fighters II) di tornare in sala con Dai-Makaimura, ossia Ghouls’n’Ghosts in Occidente. Ed era tutto più bello e in meglio, tutto “epico”. “Wow totale”. La storia di Makaimura finiva bene nel 1985, con un “e vissero felici e contenti e in boxer” e partiva male nel 1988, senza picnic e senza boxer, tre anni dopo esatti. Arthur era lontano dal castello quando i mostri attaccano in massa, e riusciva a vedere Prinprin solo un istante prima che questa venisse colpita a morte da un raggio laser lanciato da un demone. E come novello Orfeo ora Arthur di nuovo andava all’inferno, nella speranza di salvare dalla morte la sua bella, passando questa volta per il più spietato e popolato “Villaggio dei “super” demoni”. E’ ancora a piedi, ma ha più armi e addirittura può ora entrare in possesso di una armatura dorata in grado di sprigionare incredibili incantesimi. Inoltre si muove più atleticamente, cosa che non è male, anche se rimane lento e salta ancora in modo casuale e irritante. Il viaggio parte di nuovo da un cimitero ma questa volta è più cupo, un luogo di esecuzioni capitali pieno di cadaveri crocifissi e inchiodati, ghigliottine, montagne di teschi, cripte. Ad affrontare il nostro eroe, in una notte di tuoni e fulmini, si parano tante piccole “morti con falce” (mancando nel cimitero gli zombie, possono essere loro ad aver mangiato i corpi, quindi a essere per la tradizione i ghouls, come da titolo occidentale del gioco), radici animate come artigli, avvoltoi e sinistri uomini-maiale armati di grandi forchette. Tra una schivata e l’altra l’eroe riesce a giungere a un temibile orco verde in armatura, che si stacca la testa e sputa fiamme. Si prosegue per una città derelitta e abbandonata con i mulini a vento che ancora si muovono e i granai che diventano sabbie mobili, mentre tartarughe con la corazza dal volto umano e insetti giganti scorrazzano intorno. Tutto prende fuoco come se dal cielo stesso piovessero fiamme e si arriva al cospetto di cerbero. Si sale verso una torre infinita, fino al cielo, dove l’eroe può muoversi tra le nuvole calpestando lingue di demone che si allungano sul vuoto in cerca di cibo. Sconfitta una nuvola con al centro un occhio sinistro, il viaggio prosegue all’interno di corpi decomposti di antiche creature uscite quasi da un quadro di Gustave Dore’, tra spine e succhi gastrici, arrivando alle tane verdeggianti di insetti giganti quanto di Omu di Nausicaa. Poi si giunge al castello, al confronto finale e allo stesso brutto trucco del primo gioco, architettatoci dal sempre sadico Fujiwara. Per battere il boss serve una nuova arma finale, che questa volta è una specie di raggio bianco e per averlo tocca un nuovo giro completo del villaggio dei demoni dal primo livello. Tutto come sempre è condito con spunti visivi ironici, trappole sadico-umoristiche, la colonna sonora tra l’epico e “la famiglia Addams”. Per un ragazzino del 1988 sembra quasi un cartone animato. La saga continuerà per anni dopo quel magico secondo episodio da sala giochi e troverà un terzo degno capitolo “principale” per Super Nintendo, qualche metroidvania per Gameboy, un brutto capitolo per PSP, interessanti spin-off per Ps2 e finalmente, 35 anni dopo, questo Ghosts’n’Goblins Resurrection, che è a tutti gli effetti un refresh di Makaimura e Dai-Makaimura, con tutti i loro mostri e livelli, condito con qualche elemento ruolistico di contorno e la stessa formula di run’n’gun di quei primi titoli. E c’è ancora Fujiwara dietro al Game design. Se volete giocare i primi 2 classici e non lo avete ancora fatto, potete farlo oggi su tutte le console e pc con la raccolta Capcom Arcade Stadium, perché qui l’approccio è diverso, anche se per me non meno accattivante. La grafica di Resurrection sceglie un approccio più “pittorico” anche se “schiacciato sulle due dimensioni”. Un po’ come i giochi flash, ma dalla architettura avanzata e con tanta classe estetica, che può piacere o non piacere, che lo rende simile a un libro pop up di favole in movimento. Resurrection ha poi la stessa immensa colonna sonora, la stessa crudelissima struttura try and error. Il motore di gioco è il nuovo Resident Evil Engine di Capcom e c’è da dire che fa il suo dovere.



I livelli di sfida architettati da Fujiwara sono quattro e permettono di affrontare il gioco in una maniera meno “verticale”, imparando piano piano a giocarci prima di “impazzire”. Si va da un livello “paggio” con pochi nemici, punti di resurrezione automatici e l’armatura che si scompone in 5 progressivi punti-ferita, fino al livello “leggenda” in cui una moltitudine smodata di mostri ci ridurranno ”in mutandoni“ in un colpo solo, i save Point saranno solo a inizio e metà livello. Molto bella la modalità co-op a due giocatori, che permette di usare degli spiritelli in grado di facilitare ad Arthur i movimenti, costruendo piattaforme dal nulla o portandolo in volo tenendolo per le spalle. 

La saga di Ghosts’n’Goblins ce l’ho nel sangue. Non riesco ad essere abbastanza razionale sul tema, salvo ammettere candidamente che Ultimate Ghosts’n’Goblins per PsP lo avevo trovato bruttissimo fin dal primo approccio grafico in grafica 3d cialtrona, passando ai comandi ultra-legnosi. Per il resto... Quando avevo 9 anni il primo Ghosts’n’Goblins era già con me, a torturarmi, in tutta la sua bellezza e fascino. Stava presso il bar di un residence di Madonna di Campiglio dove trascorrevo le vacanze con i miei genitori. Non sono mai riuscito a comprarmi un gelato a quel bar in due settimane, perché mettevo dentro al cabinato tutte le monetine che mi davano per la merenda. Ero diventato magrissimo. Non passavo il secondo quadro, anche perché i comandi del cabinato erano imprecisi in quanto semi-disintegrati a testate da giocatori iracondi, ma era la cosa più elettrizzante del mondo. Il gioco più bello del mondo. Quando avevo 11 anni il seguito di quello storico era presente in ogni sala giochi del creato, perfino in quelle più scalcinate. Lo trovai anche in un cabinato del bar del college nella mia prima vacanza-studio in Inghilterra. Ci buttai in un mese non so quante monetine destinate alla merenda. Ero di nuovo magrissimo. Non passavo il secondo livello (era in effetti più facile...), in quanto il cabinato era stato preso pure lui a forti testate, con il joystick che viveva di anima propria e con la levetta puntava perennemente a destra. Ma era bellissimo. Quando facevo il liceo, e già con l’Amiga ero abituato a giochi con grafica spettacolare come Shadow of The Beast, Super Ghouls’n’Ghosts per Super Nintendo mi ipnotizzò in un centro commerciale cittadino, nella mattina di una giornata sospesa per sciopero (c’era in ballo la costruzione di una discarica non eco-sostenibile e Greta Thunberg già spiritualmente era presente nei nostri cuori adolescenti). Il gioco era ingiocabile perché gli avventori del centro commerciale avevano spaccato il joypad a testate, ma era una storia che non mi sorprendeva più. Non dovendo inserire monetine fui anche in grado quel giorno di comprarmi una pizzetta surgelata al bar del centro commerciale, una di quelle che erano pre-riscaldate e inguainate per la conservazione in una plastica oleosa che conferiva al tutto un gusto “conservante/plastico/vintage“, ora non più riproducibile nel mondo di reale. Sapevano un po’ di VHS. Chi le ha provate sa di cosa parlo, ma sto divagando. Finalmente, dopo pochi mesi dalla pizzetta oleosa-plasticosa, quel gioco sbalorditivo divenne mio. In una cartuccia giapponese, dopo avermi spinto a vendere il Megadrive (che aveva bellissimi titoli ma difficili da reperire, specie a prezzi umani) per un gloriosissimo Super Nes americano con convertitore internazionale (che incredibilmente a Milano permetteva in certi negozi di avere una copertura di titoli maggiore). Ci giocai allo sfinimento e lo terminai mille volte. Il fatto di usare dei comandi non sputtanati da qualcun altro aveva il suo perché. La grafica più bella del mondo e i comandi migliori del mondo. Le precedenti conversioni dei capitoli 1 e 2 per le macchine domestiche cui avevo giocato, nella specie sul mio vecchio Amiga 500, ossia Ghosts’n’Goblins di Gremlin e Ghouls’n’Ghosts di U.S.Gold, non riuscivano minimamente a rivaleggiare  con le macchine da sala giochi (come il 99% dei titoli Amiga) soprattutto per la responsività ai comandi. Poi c’erano Team che non sapevano spremere al meglio l’Amiga pure a livello grafico basico, come la U.S.Gold appunto, ma era il problema minore. Super Ghouls’n’Ghosts per Super Nes era come un piccolo cabinato da sala giochi ed era poesia autentica, magia grafica, sfida possibile e tutto a casa mia. Quando lo Snes non funzionò più, recuperai la trilogia di Ghosts’n’Goblins in una raccolta per la prima Playstation (Capcom Classics). Iniziai a finire a manetta anche i primi due titoli, anche se il primissimo è tutt'oggi bello duro e infame. Non soddisfatto, presi la saga anche in una successiva raccolta per PlayStation 2 (Capcom Arcade vol.1) insieme ad altri classici titoli Capcom. Non soddisfatto, secoli dopo, un paio di anni fa, presi un mini Super Nintendo, da tenere sempre a portata di mano, collegato con una Usb, sostanzialmente sempre e solo per giocare a Super Ghouls’n’Ghosts. Quest’anno è uscita una nuova raccolta di classici Capcom (Capcom Arcade Stadium) con i primi due capitoli e a breve distanza di tempo è uscito pure questo nuovo fiammante capitolo. 

Che sto amando alla follia. 



Inutile girarci intorno, Ghosts’n’Goblins Resurrection non è un titolo per tutti, nonostante le migliorie al sistema di difficoltà, il co-op molto originale, la grafica un po’ strana (ma che se “vi prende bene” sa essere gradevolissima). È “quel gioco lì, di 35 anni fa”, con tutti i suoi pregi e difetti visibili a seconda dei vostri “occhi del cuore” (Boris/Elio e le storie tese cit.). Ho letto e visto commenti online di molte persone a cui non è piaciuto per niente, anche tra alcuni nostalgici di ferro, pertanto su Metacritic è intorno al 70 su 100 nelle valutazioni e probabilmente non ci saranno significativi ripensamenti nei mesi a venire. Ma se siete degli “spolpatori” di Ghosts’n’Goblins, che tutt'ora giocate alla sala dopo 35 anni, adirandovi a ogni trappola e saltando esultanti quando si abbatte il boss, finisce il quadro e Arthur prende al volo (nice catch!!) la chiave che apre il nuovo livello... beh, un pensiero dovete farcelo. Diventa una pressione infinita rimandare a lungo questa avventura o peggio ancora “saltarla”. Perché ci sono davvero tutti i mostri e i livelli. Qualcosa è re-impostato ma il mondo di gioco è tutto lì, comprese alcune cose sfiziose di Super Ghouls’n’Ghosts (tranne il doppio salto, purtroppo). La crudeltà smodata è lì insieme con il godimento per ogni sfida vinta. Il Resident Evil Engine funziona molto bene, ricrea l’esatta velocità di gioco dei primi due capitoli, anche se ogni tanto c’è un effetto di “scivolamento” si riesce presto a farci l’occhio e sostanzialmente a passarci sopra. La musica è da sentire in cuffia, a tutto volume, una bellezza autentica. Non è in niente un videogame “moderno”. Troppo corto, troppo tedioso, troppo essenziale, poco social. Anche gli indie game dal sapore “Vintage”, quelli che vogliono far rivivere i traumi infantili del Megaman a 8 bit, sono più malleabili nell’asprezza dei comandi. Fujiwara è un design sadico che vuole che i giocatori soffrano le pene dell’inferno. O prendere o lasciare. Visivamente non è un Cuphead o un titolo Vanillaware, sta più dalle parti di Black Knight Sword di Suda 51, magari ha un po’ dell’appeal di un Puppeteer di Sony per Ps3. Deve piacere. A me piace moltissimo, ma ammetto che ho intorno gente che mi guarda male per questo. Gente che mi fa pure un po’ incazzare per la sufficienza con cui lo guarda due secondi e poi dice che è brutto. Ma il mondo è così. E questo è un po’ tutto quello che volevo dirvi. Da assiduo giocatore di videogiochi del passato e di videogiochi moderni che seguono in qualche modo lo schema dei giochi del passato, Ghosts’n’Goblins Resurrection come prima di lui Super Ghouls’n’Ghosts, mi ha fatto tornare con la testa in una sala giochi fumosa di 35 anni fa, facendomi esaltare come un bambino. Cosa che non speravo minimamene dopo aver visto il primo trailer. Una piccola magia che forse può colpire qualche vecchio volpone come me e magari può affascinare delle giovani leve che vorranno avvicinarsi a questo strano libro-popup animato. Provatelo e fatemi sapere. 

Talk0

martedì 24 agosto 2021

Guilty Gear Strive - “ prime “impressioni a caldo del nuovo “titolo caldo“ di Arc System Works


C’erano una volta, in un mondo futuristico in bilico tra tecnologia e magia, i Gear. Creature create da potenti alchimisti dalla potenza sconfinata in grado da sole di ribaltare interi regni. Per qualcuno diavolo, per altri “angeli”. Il mondo si è presto diviso tra chi voleva averli dalla loro parte e chi distruggerli. Con nuovi culti di “crociati”, associazioni criminali, intelligenze artificiali, pazzi, pirati dell’aria, indemoniati e robot tutti pronti a essere coinvolti nella lotta. Una lotta di secoli. 

C’erano una volta, all’origine della storia dei Gear, tre  amici: Frank, Aria e Asuka. Il potere dei Gear li ha mutati e ne ha fatto creature ultra-centenarie. Qualcuno ha conosciuto il primo solo come Sol Bad Guy, il “Guilty Gear”. Aria è diventata il nuovo dio del mondo “Justice”. Asuka si è nascosto e ha assunto l’identità del misterioso alchimista “That-Man”. In Guilty Gear Strive si chiude la storia di questi amici e forse cambierà per sempre il destino dello strano mondo in cui abitano. 


Se fate una ricerca per nome sul blog, scoprirete senza difficoltà di quanto sia devoto al picchiaduro di Daisuke Ishiwakatari e a tutte le produzioni Arc System Works. Amo la filosofia, lo stile, le scelte musicali, la narrativa... e Strive, se siete interessanti al contesto narrativo, è uno dei pochi Guilty Gear arrivati a noi con sottotitoli in Italiano e un sacco di materiale su tutta la saga tradotto. Amo in genere “tutto” di questo modo di approcciarsi ai videogame, che è degno erede spirituale dei “rullacartoni” Capcom e Snk dell’epoca d’oro delle sale giochi. Qui si sono superati, facendo mangiare la polvere ai migliori esponenti moderni del picchiaduro, che guarda caso sono sempre prodotti da loro. Sto parlando di Dragon Ball Fighterz per Arc “tour cour” e di Guilty Gears Xrd Rev 2 per Ishiwatari. Tutto è coerente con il passato, laddove  Xrd Rev 2 era “semplicemente“ fino a ieri l’anime-fighter visivamente più impressionante degli ultimi anni. Ma ora lo stile visivo se vogliamo è ancora più “cinematografico”. Forse uno stile un po’ “pettinato”, ma di grande impatto, che dà il meglio sui nuovi personaggi ma anche su Valentine, Ky, Cipp, May. 

Sol, il protagonista della saga, l’ho visto un po’ più contenuto ma in fondo anche più “maturo” e qui arriviamo a uno dei tanti tratti peculiari di questo prodotto: i personaggi di Guilty Gear di fatto invecchiano. Salvo i personaggi “immortali”, come vampiri alla Slayer o i robot alla Potemkin o alcune creature mistiche quali i Gear come Dizzy, tutti maturano nel corpo e a volte “muoiono”, di capitolo in capitolo. Come Cliff e Testament, padre e figlio, entrambi capitolati cercando di svolgere il loro dovere. Come in senso “lato” è morta e risorta anche Justice, perdendo la sua forma e cambiando più corpi.  Pure Sol ha forse oggi “una certa età” e non è più abbastanza giovane per trasformasi in un diavolo Hard metal con un Dragon Install. Lo avevamo visto in passato Sol, mentre cercava di diventare un cavaliere, indossando il saio, per mettere la testa a posto e seguire l’amico/nemico Ky. Lo abbiamo visto poi tornare sui suoi passi, lo abbiamo visto diventare maestro di Sin, il figlio di Ky, e ora nello story mode di Strive lo vediamo forse per davvero (ci saranno successivi story mode, anche nei dlc già annunciati), confrontarsi con That Man. Il bello della serie, al di là delle botte, super mosse e grafiche fighissima, sta anche questo in fondo. Vedere May, la piratessa dell’aria, che da bambina di 13 anni agli esordi è ora diventata una ragazza adulta, sexy, perfino con dei tatuaggi! Vedere Zato-1 che si è “disintossicato” dalla sua doppia personalità Eddie, scoprendo un modo di vita quasi zen. Vedere come il demone Valentine è diventata quasi una brava ragazza e si veste più “coperta”, vedere la strega rock I-No non si toglie più la giacca in pelle rimanendo nuda a fine incontro. Mi è diventata Milf. Come Millia, che è diventata ancora più algida, aristocratica. Axl invece rimane il cretino di sempre, ma per lo meno non porta più le braghette come Bryan Johnson. 

Tutti appaiono più “vintage”, come era di fatto già per giocatori “vintage” appariva il primo Guilty Gear quando è uscito, una ventina di anni fa. 


Pochi personaggi selezionabili inizialmente come da tradizione, una quindicina, ma il primo Season Pass ha già in scaletta altri cinque lottatori, di cui il primo già rivelato, da qui alla primavera ventura. Se le cose gireranno bene come è stato per Dragon Ball Fighters, con successi e tornei a profusione, non è da escludere un’altra decina di personaggi extra. Le new entry mi piacciono molto. Adoro Giovanna e il suo lupo verde, un personaggio molto semplice da approcciare e pazzesco da sviluppare. Ma anche il samurai vampiro Nagoryuki è incredibile, unico e carico di carisma, con alcuni aspetti semplicissimi e altri complicatissimi. Amo tutti i personaggi di Guilty Gear, sono davvero ognuno un piccolo mondo da esplorare per meccaniche e caratterizzazione. 

Ma Guilty Gear non è solo una trama stralunata e personaggi pazzeschi. Potreste solo avviare il titolo e stare solo ad “ascoltare”, come fosse un cd musicale.  Per gli estimatori della “musica bella” Guilty Gear Strive, seguendo la tradizione che parte dal primo gioco e vive di mille citazionismi per appassionati di musica, possiede una intera colonna sonora con brani hard rock.

Tra Bon Jovi e gli Aerosmith, brani questa volta “cantati” al 90% (cosa rarissima in un picchiaduro)  con per apripista una Smell of The Game, che potrebbe e dovrebbe essere un singolo in testa alle classifiche. Prendetevi delle cuffie e sparatevi a tutto volume il gioco, ne vale la pena. Ascoltare la straordinaria ballad dei titoli di coda, The promise land, è uno dei motivi che vi farà stringere i denti nel single player davanti a un boss finale tostissimo. Al netto di una Jack-O “fattibile” come nemico finale di Xrd, Guilty Gear ha storicamente solo boss finali tostissimi... ho ancora gli incubi a pensare a I-No in Guilty Gear XX, che forse era più spaventosa di Justice... ma sto divagando. La musica. La musica di Guilty Gear, se lo vorrete,  vi guiderà alla conquista del gioco. E questo è bellissimo.  


Sento una domanda pressante venire da pubblico..

“Com’è il gioco?”

Grazie della domanda. È cambiato molto, in modo coraggioso e originale. Guilty Gear iniziava tostissimo, rivolgendosi ad una platea Hardcore affamata e innamorata dell’impianto di mosse-contromosse di Street Fighters III 3rd Strike (apro parentesi: la rivoluzione copernicana di 3rd sta nel fatto che la vostra prima mossa vincente Si spostava dalla conoscenza di un super-colpo diretto, mutando in una Sequenza parata-contrattacco-combo. Da lì con Strive si avvia un’enfasi sulla possibilità di eseguire delle mosse anche nel momento di esecuzione di altre mosse già iniziate, concatenandole, cancellandole, girando un contattarti. Insomma e non basta un “calcio forte volante” generico per vincere. Chiudo parentesi, conscio che potrei approfondire con mille altri modi), roba da chirurghi dello stick analogico, pensatori estrosi quanto precisi con i riflessi di Flash. Con Guilty Gear Isuka diventava se possibile ancora più difficile, con il famigeratissimo tasto per “girare il personaggio” che rendeva quasi labirintico ogni duello (cosa che hanno tolto in seguito, dopo gli esaurimenti nervosi del fandom). Con la serie Xrd il gioco tornava, per lo meno a livello normale, piuttosto abbordabile. La modalità semplificata “stilish” permetteva a tutti di fare le super mossone senza troppi allenamenti in Tana delle tigri. (riapro parentesi/ Ecco, allenarsi in Guilty Gear è roba seria, quanto più soddisfacente grazie alle modalità di training e alle missioni. A un certo punto dà la sensazione di imparare uno strumento musicale ed è davvero una sensazione fighissima. Richiudo parentesi). Strive semplifica e complica insieme le cose. La base rimane un attacco di 4 tasti principali (pugno-apertura, calcio, mossa forte e mossa forte-lenta), e concatenazione su base esponenziale dal colpo più debole al più forte. Ma molte delle mosse storiche non ci sono più o si fanno in modo diverso (ri-riapro parentesi: non è un problema per i nuovi giocarli, quando un piccolo dispiacere per i vecchi, che avevano imparato a “suonare i personaggi” con un jazz di mezzelune e Roman-cancel consolidato per anni, ma in breve si imparano “nuove canzoni” e tutti sono più felici. Ri-richiudo parentesi). Da Xrd permangono assenti le “instant kill” degli albori, abbastanza disprezzate dal mondo. Viene data in Strive estrema enfasi sul contrattacco, con tanto di speaker che annuncia “counter” ogni tre per due, che quando eseguito con tempestività rallenta il tempo di reazione, apre una specie di slow-motion e permette di infilare razionalmente dei colpi extra. Diventano grammaticalmente più leggibili, ma ancora per esperti, le “cancell”, mosse che interrompono una combo avversaria ma anche una combo “personale“ in vista di un Ri-catenamento progressivo (ri-ri-riapro parentesi. Avviene perché in genere l’ultima mossa di una combo è la più forte ma spezza la catena. Con le cancell si possono costruire più combo “incomplete” in serie. Ma credo di avervi confuso le idee, quindi ri-ri-richiudo parentesi sconfortato). Dopo la sensazione di “facile onnipotenza” dei colpi di Dragon Ball Fighterz, il precedente e “per tutti” capolavoro Arc System, dove si riusciva a padroneggiare abbastanza velocemente un personaggio con attacchi e contrattacchi di facile esecuzione ed enorme portata (non valeva però per i personaggi più “estremi” come Jiren o Baby o Janemba comunque), con Strive si torna un po’ con i piedi per terra, a sudare colpo su colpo. Le mosse appaiono forti ma non apocalittiche nell’impatto, le sequenze di colpi sono spesso uniche per personaggio e non replicabili con una mezzaluna scarsa, in quanto conta un sacco la distanza reale dall’avversario, proprio a livello di centimetri. Chi non riesce a leggere/prevedere il contrattacco nemico, così come rimane troppo difensivo in un angolo (angolo difensivo che il gioco riesce a “rompere” castigando il gioco troppo passivo) manda in un attimo a peripatetiche tutta la partita. Si avverte da Xrd anche un abbassamento generale della velocità di gioco, che punisce il botton-smashing. 



Bisogna farsi nuovi muscoli, in sintesi, con le dita e con la testa. Ma dopo la prima fase di rabbia sconfinata seguita da sconforto, in cui constaterete che non sarete più in grado con Sol di muovervi come un ballerino omicida e incendiario, inizierete a masticare il nuovo ritmo. Con l’allenamento in breve tempo riuscirete a raggiungere risultati davvero ragguardevoli. E qui Strive saprà essere generoso, con tutti, veterani e neofiti. Riesce davvero a far tornare ai tempi d’oro delle sale giochi, quando un incontro virtuale era sudore e impegno. Davvero appagante.

Meno appagante, almeno per ora, l’architettura online. Carica e cerca di connettersi. Ricarica e cerca di connettersi. Sembra arrivare in fondo e poi ricarica. Problemi che saranno sicuramente risolti a breve, perché la struttura online è la stessa di Mortal Kombat (il rollback) e su Mortal Kombat tutto funziona alla fine. Serve ottimizzazione e si può fare tutto e bene, solo che avrei preferito non passare per tutta la trafila del riconoscimento online della ID se decido preventivamente di giocare offline. Giusto per fare un po’ di palestra virtuale (Io almeno non ci riesco con ps4, ma è cosa che invece si può fare se avete una Ps5), visto quanto qui serva. Si poteva fare un accesso differenziato offline/online preliminare, come succedeva con Dragon Ball Fighterz, e forse era più pratico. Ma questo è il meno. 

Carino il sistema delle lobby, con grafica un po’ cubettosa ma carina, con gli omini che si spostando tra torri e parchi a seconda del livello di esperienza. Ho trovato una community molto carina e gentile anche con chi è più scarso. 

Guilty Gear Strive è il nuovo golden standard per i picchiaduro moderni anime-style e non solo. Visivamente eccelso, libidinoso a livello sonoro, intrigante nelle meccaniche e nella “lore” dei personaggi, tostissimo ma appagante pad alla mano. 

Ho le dita doloranti come non mi succedeva da tempo con un picchiaduro. Sembra davvero di dover imparare uno strumento nuovo. Ma questo è il bello dei picchiaduro come del suonare la musica, e Strive sa rilasciare endorfine in abbondanza a chi riesce a coniugare al meglio questi due mondi, vicini e lontani, di esprimersi attraverso il “ritmo”. Ishiwakatari, storico Game director e compositore della colonna sonora di Guilty Gear, ce le ha “suonate” di nuovo. 

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giovedì 19 agosto 2021

La ragazza con il braccialetto: la nostra recensione del film diretto da Stephane Demoustier


In tribunale, davanti al giudice, Lise (Melissa Guers) è una ragazza silenziosa. Risponde con monosillabe, guada nel vuoto, nasconde segreti. Era l’amica più intima di Flora, forse qualcosa di più, anche se ultimamente le due avevano litigato. Di sicuro Lise è stata l’ultima a vedere Flora viva. Probabilmente è stata lei a ucciderla, perché non ci sono altre piste o altri moventi.

Così, in attesa del verdetto, Lisa è agli arresti domiciliari e  porta un bracciale di sorveglianza sulla caviglia, cercando tra un’udienza e l’altra di vivere la sua vita da sedicenne, di innamorarsi, di colmare in qualche modo l’improvvisa e spietata assenza della sua migliore amica. 

Ma come si può credere e parteggiare per una persona che non parla, non si esprime, appare a tratti così incredibilmente altera e antipatica. Il pubblico ministero (Anais Demoustier) non ha alcun dubbio sulla colpevolezza, a rischio di apparire spietata e insensibile. 



Stephanie Demoustier che dirige è adatta per lo schema la piece Acusada di Gonzalo Tobal, ha voluto Melissa Guers, una attrice al suo esordio, come protagonista per il suo nuovo film. La scommessa era puntare su un volto non ancora avvezzo a esprimere in modo “impostato” le proprie emozioni, per dare forma a un personaggio affascinante quanto ambiguo, misterioso. Una giovane donna che nella sua bellezza appare “strana” e appariscente per un dettaglio, quel braccialetto sulla caviglia che per qualche critico d’oltralpe ha permesso un paragone, illuminante con la protagonista del quadro della Ragazza con l’orecchio di perla di Vermeer. Come spettatori viviamo il tempo presente della vicenda, quello relativo al processo, seguendo a distanza i personaggi, come in un documentario. Sbirciamo così, quasi dal buco della serratura, i legami della ragazza con i suoi genitori (Roschdy Zem e Chiara Mastroianni), con il fratello e con un nuovo ragazzo conosciuto online. Viviamo con apprensione l’incedere inquisitorio delle domande del pubblico ministero, i piccoli segni di fragilità di Lisa, i turbamenti di un padre che non sa più se conosce davvero la ragazza che ha in casa, la rabbia della madre della ragazza uccisa, le illazioni cattive dei compagni di classe (che ci richiamano alla cronaca recente, dove si fa un gran parlare del limite percepito tra libertà sessuale e condizioni idonee per parlare di “stupro“, nei rapporti tra adolescenti “consenzienti”). Quello che davvero da spettatori ci turba, e non ci lascia anche una volta finito lo spettacolo, è la mancanza di “una risposta”. Perché se arriva la risposta della “giustizia” insieme al verdetto, alla fine del film, il “cinema” non ci ha questa volta regalato un flashback chiarificatore, una prova decisiva, una “pistola fumante”, un dialogo rivelatore. Solo piccoli gesti di Lisa da interpretare liberamente, forse per qualcuno in grado di farci costruire enormi castelli mentali, forse per altri del tutto ininfluenti. Indizi che ci riportano a quella singola immagine della ragazza con il braccialetto, incatenando anche noi a quel suo stato sospeso quanto “reale”, che frustra la nostra passione di fare i detective, separare il bene dal male, sentirci “nel giusto”. Con questa immagine Demoustier riesce ad allacciarci al cinema sociale migliore, quello dei fratelli Dardenne e che “ha un piede nell’Italia degli anni '70 “ con le opere di Petri. Un cinema di volti sotto accusa, spesso analizzati con fare da entomologo da quel pubblico che non riesce ad accettare che la vita non sempre è “un giallo da risolvere“, anche se viene raccontata in un film. È questo il buon cinema che attraverso la forza dell’arte ci fa “dubitare” e forse ci permette di sviluppare così quella competenza empatica, quel “sapersi mettere nei panni degli altri”, che oggi è tanto raro e prezioso da trovare. 

Molto bravi gli attori, davvero straordinaria la Guers. Glaciale e malinconica la messa in scena. Un buon ritmo e tanti dubbi che accompagneranno per un po’ gli spettatori alla fine della visione. 

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venerdì 13 agosto 2021

Free Guy: la nostra recensione del nuovo film Disney con Ryan Reynolds

 



(Sinossi filosofeggiante) E se Dio fosse un “troll“ e il mondo non fosse altro che un grande pretesto per far divertire poche persone che “portano gli occhiali da sole”, mentre tutti gli altri “senza occhiali” sono costretti a rivivere ogni giorno una grigia routine, senza futuro e senza sogni?

E se di colpo in questa routine il vero amore facesse risuonare nell’aria una canzone di Mariah Carey che sembra una “sveglia emotiva” e di colpo ci svincolasse dalla quotidianità, facendoci desiderare, per la prima volta, di essere liberi? E allora perché nei videogiochi moderni, specie in quelli costruiti come enormi mondi virtuali dove “si è liberi di fare quello che si vuole”, questa libertà si declina quasi solo in un modo “buffo e divertente” di distruggere le cose? Perché si sogna sempre più spesso e solo di “distruggere le cose”, nei videogame? La libertà risiede nell’amare o nel distruggere un mondo? Ma soprattutto, marzullianamente: “La vita è un videogioco o i videogiochi aiutano a viverla?”. 

Domande così, un po’ in contropiede, tra un inseguimento e una sparatoria, scatena inaspettatamente in noi il nuovo film con protagonista quel mattacchione di Ryan “Deadpool” Reynolds. Guy, il protagonista interpretato da Reynolds, vive in questo mondo ultra colorato, ultra gentile, ultra controllato e ordinato, a metà tra il Truman Show e Lego-city. Guy è un colletto bianco, lavora in banca, è ovviamente un tipo super simpatico, ama il caffè macchiato e sogna di comprare un paio di scarpe in edizione limitata appena arriverà lo stipendio del mese prossimo, ossia “domani”. Solo che il domani non arriva mai. Per Guy e molti come lui, gli abitanti di Free City, il giorno dopo è sempre uguale al precedente e quello successivo pure, come un refresh continuo degli stessi eventi stile Giorno della Marmotta. Guy non avrà mai sul conto i soldi per comprarsi quelle scarpe e anche se lui e i suoi concittadini vivono “felici”, forse vivono solo in un’illusione. Quelli che invece sembrano perennemente “infelici”, incazzati e un po’ psicotici, sono i “tizi con gli occhiali”. Sono in pochi ma fanno casino, rapine, omicidi, distruzione in ogni dove. Usano un lessico scurrile, sono armati di tutto punto e vestiti in modo eccentrico. A loro è permessa ogni “marachella” a Free City, compreso combattere tra di loro sulla città con elicotteri che abbattono palazzi, investire i passanti, crivellare i poliziotti, atomizzare tutto con bombe nucleari. Il giorno dopo lo scenario è di nuovo perfetto, pulito, ricostruito, ogni strage perdonata come se nulla fosse, ogni “morto” di nuovo vivo e felice, come Guy. Guy cerca ogni tanto di carpire qualcosa di più degli “uomini con gli occhiali”, partendo dalle piccole cose. Ama imitare il loro modo di parlare, “gergo” dal significato oscuro farcito di parole come “noob”, “pro”, “skin”, come fosse qualcosa di culturalmente importante. Ama provare a dialogare con loro, sempre rispettosamente, sogna di “vedere le cose” come loro. Ma il giorno dopo dimentica tutto, sempre, fino a che arriva a una svolta. La svolta per comprendere davvero questi strani soggetti e lo strano mondo in cui tutti si trovano, arriva alla vista di una ragazza con gli occhiali e capelli a caschetto (Jodie Comer). Lei appare dal nulla e Guy inizia a sentire dentro di sé risuonare Fantasy di Mariah Carrey. È come se l’attrazione per questa ragazza misteriosa chiedesse a Guy di iniziare a desiderare cose diverse, nuove, rispetto a quel paio di scarpe griffate. Cose nuove anche se apparentemente “piccole”, come ad esempio a colazione desiderare un cappuccino al posto del latte macchiato. Da questa piccola spinta parte un effetto-catena, perché la barista di Guy, appena ascoltata la nuova richiesta, inizia a desiderare di fare dei cappuccini al posto del latte macchiato. Prima la barista si sentiva “costretta” a offrire a tutti indistintamente solo del latte macchiato e ora che ha preso questa nuova decisione progressivamente, con effetti domino, uno “spirito di ribellione” si estende a tutti i “senza occhiali” di Free City. Fino a che Guy riesce a rubare a un “uomo con gli occhiali” i suoi occhiali. Li indossa e come Roddy Piper in Essi vivono di Carpenter scopre “la verità sul mondo”. Scopre che ogni abitante di Free City come lui è parte “non attiva”, NPC (“personaggi non giocanti” in gergo) di un enorme videogame, in cui i protagonisti sono proprio le persone con gli occhiali, che si collegano a Free City da ogni parte del mondo. Quelli come Guy, che ogni giorno vivono e lavorano a Free City, servono solo a “colorare” l’esperienza del gioco vero, che consiste sostanzialmente nel fare punti distruggendo, rapinando o uccidendo. In mancanza di altri stimoli non presenti per ora nelle “regole del gioco”, Guy e i suoi sono le “vittime collaterali” e i tizi con gli occhiali i “carnefici”. Come dire che fare i criminali come fare i bravi ragazzi è dal gioco già preordinato e nessuno, occhiali o meno, è sostanzialmente libero di sottrarsi dal suo “ruolo”. Ma forse Guy, proprio perché ora conosce le regole del gioco, può non stare più nel ruolo che gli si impone. Torna la ragazza con gli occhiali (e con lei Fantasy di Mariah Carey) e Guy scopre con indosso gli occhiali che anche lui può avere accesso al ruolo di giocatore “attivo”. Inizierà anche lui a distruggere, rapinare e uccidere o inizierà ad agire in un modo del tutto diverso, come quando ha chiesto un cappuccino? Qualunque cosa farà, nel mondo reale la Software House che produce il gioco, comandata da uno stralunatissimo Taika Waititi (che sta ambendo da tempo al totem di nostro attore e regista preferito), inizia a valutare seriamente l’influenza di Guy sul mondo di gioco.

 


(Gli “architetti” di questa Matrix) Matt Lieberman (l’autore del divertente Fatman con Mel Gibson, film spassoso che sovverte le “regole” sul mito di Babbo Natale) scrive insieme a Zak Penn (sceneggiatore di molti film sui supereroi ma soprattutto di un certo Ready Player One, che riecheggia qui e la nella trama), un film per Shawn Levy (che tra le mille cose ha diretto Una notte al museo, molti episodi della serie Stranger Things e un certo Real Steel che qui in redazione abbiamo amato alla follia), prodotto da Disney e che ha come executive Ryan Reynolds. Un Ryan Reynolds che si mette in una parte in cui “si sente molto Jim Carrey“, al punto che qualche volta riesce pure a sfiorarne leggerezza e spirito fanciullesco. Poi Reynolds svolta l’angolo e torna Deadpool, facendo ridere ed esaltare il suo target consueto: il tredicenne con i brufoli che è in ognuno di noi, che ama i film action e le battutacce. Che lo si veda come un film sui videogiochi e i videogiocatori, come una critica “velata” alla passività della società moderna (sempre più ficcata consapevole/inconsapevole dentro a una realtà orwelliana) o lo si gusti come giostra colorata carica di action o humor, Free Guy è un piatto ricco in cui tutti possono trovare qualcosa di interessante.  

 


(Videogame al cinema) Free Guy, è un piatto ben ricco e farcito di pop-culture come oggi ci piace. Cita a manetta, tra i richiami più evidenti, 1984 di Orwell, Essi Vivono di Carpenter, SimOne e Truman Show di Niccol, Matrix delle Wachowski, Ricomincio da capo di Ramis-Rubin. Ci parla di videogames e riesce a farlo in un modo interessante, arrivando a farci riflettere sul presente se non addirittura sulla famosa questione della “ghianda”, cruccio del filosofo junghiano James Hillman...ma procediamo per gradi. 

Ormai i videogame sono un pezzo rilevante della cultura popolare e molti film si occupando delle loro “dinamiche interne” oltre che a trasporre su pellicola storie basate su alcuni dei franchise più famosi. Disney si è interessata pionieristicamente ai videogame fin dai tempi di Tron, in cui si interrogava sulla possibilità di un uomo di vivere e sopravvivere all’interno di un videogame, dialogando e scontrandosi con le intelligenze artificiali. Sempre Disney Studios ha poi ripreso a parlarci di videogame nei suoi due film su Ralph Spaccatutto, dove i personaggi virtuali  protagonisti di vecchi cabinati da sala giochi (come tanti adulti umani oggi) vivono incatenati ad una ruotine “lavorativa” e a un ruolo (Ralph era “il cattivo”) spesso ingrato e che si ripete uguale ogni giorno, cercando un piccolo pezzo di felicità. Edge of Tomorrow con Tom Cruise, come il recente Boss Level con Mel Gibson, rileggono “in chiave videogame” le meccaniche del film  Ricomincio da Capo di Ramis, e tutto funziona alla perfezione, al punto che c’è chi pensa che Ricomincio da capo sia basato pure lui su un videogame, tipo un’avventura punta e clicca della Lucas. Di certo L’ultimo combattimento di Chen, Guerre StellariIndiana Jones, pur non essendo “nati videogame”, hanno influenzato in modo profondo i videogame, al punto da “scriverne delle meccaniche”. Sullo “stile da videogame” ne fanno invece una questione estetica film come Cnak con Jason Statham, Scott Pilgrim, Gamer con Gerald Butler e in genere tutela le pellicole che amano rompere i confini tra in mondo reale e il videogame, in cerca di linguaggi visivi contaminati. Il “freddo” Ben X, film drammatico proveniente dall’est Europa, parlava dei  “benefici del mondo virtuale“, specie se è un mondo in cui hai acquisto delle skills che ti rendono “forte” (il che vale anche per il recente Jumanji con Dwayne Johnson) e per quanto può  essere un ottimo luogo di fuga dai guai del mondo vero, specie dal bullismo dei compagni di scuola. L’anime Sword Art Online, in una delle sue intuizioni più interessanti, parla di come in un videogame virtuale anche delle persone con disabilità possano vivere senza limitazioni la loro esistenza, sentendosi pienamente integrate. 

 


(NPC) Free Guy riesce a districarsi tra molti dei temi sopra accennati, amalgamandoli con cura, ma in più volge l’attenzione narrativa sugli NPC, i personaggi non giocanti, di fatto i “non-protagonisti” di un videogame. Non sono i nostri nemici, non sono a volte neanche nostri alleati, sono qualcosa di “diverso”. Li abbiamo già incontrati in altri “film sui videogame” questi NPC, li individuiamo come quegli omini che “ripetono ogni volta la stessa frase” che in genere si concretizza in una qualche missione che l’eroe deve portare a compimento per avanzare nel gioco. Ma dietro di loro c’è tutta una narrativa e filosofia videoludica interessante, a tratti geniale e a tratti crudele, che ci riporta a quella frase scritta nella prima riga di questo articolo: “e se Dio fosse un troll?”. 

Con la memoria mi piace tornare ai tempi del Commodore Amiga e di un gioco della Bullfrog, Populus, che aveva come game-designer Peter Molyneux. Era nelle intenzioni un “simulatore di divinità”, in cui il giocatore impersonava un dio che poteva far fiorire o meno un certo territorio, fin dalla conformazione del terreno, fino a farsi “adorare“ dal suo popolo di sudditi-omini, che ricambiavano con delle preghiere che si tramutavano in punti. Il bello era che questi omini non avevano un comportamento “automatico” a ciò che facevano, erano un po’ “indipendenti” e la Bullfrog e Molyneux per molti anni hanno enfatizzato sulla creazione di piccole intelligenze artificiali. In modo differente, sempre su Amiga, c’era la Psygnosis, con la sotto-etichetta DMA design, gli autori di Lemmings (alcuni dei quali sarebbero diventati gli autori di GTA, il Grand Theft Auto). In Lemmings come giocatori vestivamo ancora i panni di una specie di divinità, questa volta impegnate “in modo più diretto” nel salvare la vita a delle creature che potevano per loro natura solo camminare dritto, andando a schiantarsi contro gli ostacoli se qualcuno non li fermava. Potevamo per esempio “scegliere” una creaturina e dargli un “ruolo” come “impedire agli altri di andare in quella direzione”, di fatto evitando che il gruppo finisse dritto in un burrone. Solo che quella creaturina “eletta” non poteva più procedere verso la salvezza, doveva rimanere a “fermare il traffico” per sempre. Questa filosofia di gioco, che negli anni ha portato a Sim-City, Sims, Creatures, Good & Evil, alla fine è però caduta in minoranza, gli NPC sono diventati per lo più “i passanti occasionali” di un mondo virtuale. In GTA sono i conducenti delle auto da rapinare, per lo più quando sono fermi al semaforo, buttandoli fuori dal posto di guida. In Skyrim si poteva addirittura burlarsi di un NPC che faceva il commerciante, mettendogli letteralmente un vaso in testa che gli impediva di vedere e rapinandolo indisturbati. Poco più che birilli umani da deridere quindi. Ma gli NPC sono omini virtuali o birilli umani, dunque? Ecco, Free Guy parla di questi due aspetti antitetici degli NPC come membri di una comunità virtuale che a seconda della “scelta di intrattenimento” può apparire più o meno virtuosa. Free Guy, in qualche modo, cerca di enfatizzare sul fatto che gli NPC possono essere più interessanti quando appaiono differenti dai “birilli da abbattere”. Chissà che magari, promuovendo un approccio diverso al gaming, sia possibile modificare anche molte delle abitudini che sempre di più riguardano i social, dove sempre più spesso le persone trattano gli altri come se fossero alla stregua degli NPC-birilli. 



(Andiamo alla ciccia) Free Guy possiede delle buone idee visive, un ottimo cast di attori e risulta un film divertente, movimentato, pieno di effetti speciali. A sorpresa è la narrazione il suo elemento di maggiore pregio. Se all’inizio sembra cercare di ripercorrere (malino) il canovaccio del Truman Show, poi riesce a svincolarsi, andando a sviluppare una poetica romantico-nerd, sulla linea di Ready Player One, piena di tanti spunti interessanti e originali. Dietro ai pixel ultra colorati e che inneggiano a Games come Fortnite, GTA, Saint Row, Watch Dogs, tra elicotteri, costumi sgargianti e armi strampalate, si nasconde così tanta voglia di tornare bambini, salire su un'altalena e provare il gelato allo zucchero filato. Il “nuovo” slang da gamer, usato sapientemente e satiricamente come fosse una neo-lingua, in fondo non è così diverso dal lessico parolaccesco dei film per ragazzini dei primi anni ‘80, E.T. su tutti. E così, mente guardiamo Free Guy, ci accordiamo che in fondo i ragazzini degli anni ‘80 non parlavano troppo diversamente da quelli oggi. Molto bello il messaggio finale sul “senso della vita” di un NPC, che vi lascio scoprire in sala (la dice prima del “boss finale” la guardia Buddy, interpretata dal bravo Lil Rel Howery). 

Free Guy funziona nel complesso, ma forse paga una lunghezza eccessiva. Una forte caduta di ritmo si accusa soprattutto sulla due quarti di durata, quando il “villain” non entra mai davvero in scena. Poteva essere più incisivo lo stralunato art director impersonato da Taika Waititi, poteva essere più a fuoco il personaggio di Joe Keery, come quello di Utkarsh Ambudkar. Dialogano molto bene Ryan Reynolds e Lil Rel Howery, sono una bella coppia e hanno Insieme un divertente momento alla “Essi vivono”. Tra Reynolds e la Comer invece “non scatta” l’alchimia giusta. Da segnalare una grande presenza su schermo di volti noti dei Gamers/streamers internazionali, cosa che può far piacere ai fan del gaming.

Ogni tanto Free Guy mi ha fatto sentire “un po’ vecchio”, ogni tanto sono entrato felice sulla sua onda, qualche volta mi ha sorpreso. È una pellicola in cui non sempre tutto è bene a fuoco, ma compensa con tante idee e tanta azione. Molto divertente Reynolds, che non vediamo l’ora di rivedere presto con il costume di Deadpool. 

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lunedì 9 agosto 2021

Suicide Squad - Squadra Suicida: la nostra recensione del nuovo film di James Gunn


(Premessa doverosa: è un film vietato ai minori) Suicide Squad è un film per un pubblico adulto, pieno di sangue, tette, battute a sfondo sessuale e decapitazioni. Certo non è solo “tutto qui”, c’è anche della sana ironia, una punta di critica sociale costruttiva, una bella vena sentimentale e malinconica, perfino delle parentesi “sognanti” in grado di smuovere anche i cuori più di ghiaccio. Ma sangue, tette, battute a sfondo sessuale e decapitazioni finisce che te le ritrovi un po’ ovunque alla fine dei 130 minuti della pellicola, anche se tutto è così estremo e assurdo “da fare il giro”, consegnando agli appassionati di fumetti “estremi e non” uno degli spettacoli più spassosi e appaganti degli ultimi anni. Però trovo giusto almeno avvisare quanti amano andare a vedere con i propri bimbi i film di supereroi al cinema, che per me sono i padri migliori del mondo, delle peculiarità “estreme“ della nuova pellicola del bravissimo regista dei Guardiani della Galassia, che oggi privo della supervisione Disney è davvero “scatenato”, come ai tempi in cui lavorava per la casa editrice indipendente Troma, patria dei film pieni di tette, sangue,  battute sporche e decapitazioni “a uso ridere”. Un modo di vedere i fumetti e la vita non adatto a un pubblico di 6 anni, ma che può essere “tutto giusto” per lo spettatore adolescente-tipo, pronto ad apprezzare la magia del cinema espressa dai film in cui si spara e squarta con in sottofondo battute a sfondo sessuale, in quanto unica espressione freudiana di tutto il tormento ormonale della magica età in cui si hanno i brufoli e le prime cotte. Un momento rituale verso l’età adulta in cui i supereroi di riferimento non sono più Spiderman e Flash, ma gli anti-supereroi Lobo e Deadpool e, con onore, anche le storie più scorrette, come questa di Gunn, della Suicide Squad. Che belle le case editrici che non ci trattano tutti solo come dei bambini e creano film/fumetti che ci accompagnano, con temi ad hoc sviluppati per differenti fasce di età, verso la maturità! Sono un po’ come Paolo Bonolis, che da Bim Bum Bam ci ha poi insegnato ad ammirare la bellezza delle tette in Ciao Darwin per poi in seguito parlarci del Senso della Vita. Così quando la divina Margot Robbie in una battuta del film dice: “Mi piace la pioggia, è come se gli angeli si facessero le seghe su di noi”... beh, tutto torna. Il senso della vita, che spesso è precluso ai film non vm18, ci viene svelato... Ma di cosa stavo parlando? Ah, sì: non ci portate al cinema i bambini di sei anni o aspettatevi per lo meno che citino alla maestra, all’ora del dettato, battute su pompini, seghe, esperienze anali, rapporti incestuosi o con madri di persone sconosciute, cacca, pipì e vomito.  Fine della premessa. 

 


(Sinossi fatta male) Nel mondo in cui vivono superoi come Batman e Wonder Woman, la Suicide Squad è un gruppo ultra segreto che opera per il Governo americano in missioni “scomode”. È composto da supercriminali che decidono di collaborare con la giustizia in cambio di uno sconto della pena, ma entrare in squadra è quasi sempre una pessima idea. Il nome “Squadra suicida” non è infatti stato scelto a caso e anche se alcuni supercattivi sono di fatto riusciti a rivaleggiare con Flash o Lanterna Verde, il governo si premura di affidargli missioni ai limiti delle possibilità di sopravvivenza. Nota triste a margine: i supercriminali seri in genere non si fanno “comprare” e in questi gruppi finiscono per lo più mezze tacche, scapestrati e pazzi. Scartine solitamente patetiche in cerca magari di una piccola possibilità di essere “eroi”, per lo più destinata ad andare in fumo insieme alla loro integrità fisica. La nuova missione dell’esercito di “expendables” di Amanda Waller (Viola Davis, sempre perfetta nella parte della grigia e spietata direttrice governativa) ha per meta l’isola sud americana di Corto Maltese e Hugo Pratt apprezzerebbe. Qui la dittatura locale sta pasticciando con delle stelle marine assassine di natura forse aliena, che potrebbero dare più di un grattacapo ai sevizi segreti americani. Servirà una squadra omicida extra-extra large, per far fronte a un numero assurdo di militari, villici locali posseduti e resi zombie da stelle marine assassine in formato piccolo  e pure gigantesche “stelle marine assassine-Kaiju” alte come palazzi. Servirà tanta carne di cannone, così tanta che la Waller decide di dividere la Suicide Squad in più “gruppi suicida”, in una missione che ha però sempre la logica malata del 30 vs 20.000 di un videogame.

Dal consueto gioco al massacro esce momentaneamente il cecchino hi-tech Deadshoot (Will Smith ha chiesto una pausa per impegni concomitanti ma dalle ultime indiscrezioni è pronto a tornare in futuri film), finito chissà dove, ed entra a questo giro il misconosciuto ma equivalente Bloodspot (l’ottimo Idris Elba), sempre un cecchino hi-tech, ma che dicono una volta abbai quasi steso Superman con una pallottola di Kriptonite. Da tempo vive da recluso-modello scontando la sua pena, è un tipo a posto che vuole voltare pagina, ma la Waller lo desidera in campo così tanto che lo costringe ad entrare in squadra sotto il ricatto di mandare in carcere a vita sua figlia, finita in una brutta situazione penale. 



La supercriminale Harley Queen (la sempre più “divina” Margot Robbie, il vero grande motivo per ri-guardare il precedente Suicide Squad), già sopravvissuta a mille battaglie con la Suicide Squad e di recente “co-fondatrice” delle Birds of Prey (il vero unico motivo per riguardare Birds of Prey) è di nuovo in squadra, finita dentro per un reato di “sicurezza stradale” qualsiasi. Ma per lei distruggere stati canaglia con esplosivi in testa e su tutto il corpo è come andare in gita il fine settimana a Gardaland e tutto va bene. Di nuovo caposquadra, unico non-criminale del gruppo e forse l’anima più pia/fessa di tutte, torna il sempre più disincantato, più underdog e meno boy-scout  Rick Flag (Joel Kinnaman, qui più simpatico che nel primo film). Ha un buon ascendente sulle scartine della Suicide Squad, una visione del mondo positiva ed è effettivamente difficile volergli male. Mentre è facilissimo pensare male del nuovo nerboruto e parecchio ottuso supersoldato Peacemaker (John Cena, una vera rivelazione, il ruolo che potrebbe farlo sfondare come fu per Bautista con Drax, sempre in un film di James Gunn), un gigante rozzo ma inaspettatamente buffo. Non si può invece che tifare forte per la ragazza che sa guidare mentalmente i topi, nickname Ratcatcher (interpretato dalla dolce Daniela Melchior, con Ratcatcher1, il padre, che nei flashback ha il volto dell’ormai amatissimo e lanciatissimo Taika Waititi, il personaggio più poetico e sognante della vicenda ). Non si può che volere un pupazzetto pelouche dell’uomo-squalo King Shark (in originale doppiato da un divertito Sylvester Stallone in vena di “io sono il PRIMO Groot, quello per adulti”, quasi in competizione a distanza con Vin Diesel), anche se spesso lo vedremo smembrare e ingurgitare persone con i suoi teneri occhietti buffi. Non si potrà che tifare fortissimo pure per l’eccentrico mutante spara-pois colorati Polka-Dot Mam (David Dastmalchian, che incarna cosi a pieno l’essenza di un personaggio da Suicide Squad da diventarne un simbolo, davvero da applausi), la cui vita è stata rovinata da una madre luciferina davanti a cui scomparirebbe pure Darkseed. Avremo tanto amore anche per il cecchino albino Savant (l’ amatissimo Michael Rooker, attore-feticcio di Gunn), per il mutante “allungabile” T.D.K.  (l’amatissimo Nathan Fillon, altro attore-feticcio di Gunn), per il tronfio ma fiero lancere Javelin (Flula Borg, intenso quanto “giallo”), per l’uomo-donnola Weasel e l’eccentrico Calendar Man (interpretati entrambi da Sean Gunn, fratello del regista, che si porta sempre dietro come suo attore-feticcio per piccole parti), per il sempre amato e pazzerello Captain Boomerang (Jai Courtney) e tanti altri. Tante altre scartine, pronte a raccontarci la loro storia, farci esaltare e divertire, ma per cui non potremo mai affezionarci troppo. Perché sarà davvero una strage, fin dall’inizio, ancora ai titoli di testa. Sarà una piccola, sanguinolenta e nerissima sfilata di super-tizi colorati che continuamente esplodono cose fino a che finiscono per esplodere loro stessi, in uno dei più sanguinolenti (e divertenti) film di superoeroi per adulti mai girato. Riuscirà qualcuno a sopravvivere e a dimostrare di poter essere, nonostante tutto, un eroe?

 


(La “nuova” Suicide Squad di James Gunn) Tornano al cinema gli umanissimi “losers“ del DC Universe, dopo che il capitolo 1 della serie, a firma “David Ayer + 20 altri tizi” era riuscito nonostante tutto a riscuotere un buon successo di pubblico. Ne avevamo già parlato a suo tempo, dell’immenso casino produttivo in cui si era ficcata questa pellicola. In sintesi, la Dc voleva un film serio, ma poi esce Deadpool per la Fox e di colpo tutti vogliono un film sbarazzino e il cambio di rotta avviene all’ultimo momento, in post-produzione, quando in pratica tutto è già girato, con il regista che viene estromesso perché contrario a questa nuova linea e con la produzione che affida il montaggio finale al team misconosciuto che ha confezionato il secondo trailer del film, quello “buffo” ed economicamente ritenuto più vantaggioso. Non contenta, la DC farà qualcosa di simile al film della Justice League, ma ne riparleremo a suo tempo, quando mi deciderò a recensire la Snyder Cut uscita nel 2021. Sta di fatto che il film esce “un casino”, con personaggi che non riescono mai ad essere troppo seri o troppo buffi, con un montaggio allucinante e pure con effetti visivi “così così”. Nonostante tutto è però un film divertente, l’idea della Suicide Squad è affascinante e ancora più affascinante è Margot Robbie nel ruolo di Harley Queen, che riesce quasi da sola a rendere non solo digeribile ma quasi discreto tutto il polpettone. C’era anche Will Smith, ma in versione “mi è morto il cane”. Un paio di cameo di Batman e Joker e tutti erano felici. 

Oggi invece si può “ri-partire bene” con James Gunn e le cose vanno davvero benissimo. Il tono è chiaro fin da subito, gli attori sanno cosa fare e lo fanno al meglio, amalgamandosi bene, la trama ha un senso anche solo a livello di “rapporto di potere” (una delle principali e giustificate critiche “per addetti ai lavori” della prima pellicola). Se avete letto la sinossi qua sopra avrete già notato che mi sono sperticato di lodi per gli attori. Ottimo John Cena, molto valido come di consueto Idris Elba, straordinaria e stralunata Margot Robbie. Eroe e personaggio dell’anno lo spara-pois di David Dastmalchian. Magnifico Taika Waititi sul suo monologo sui topi, che diventa il momento più alto del film. Giganteschi gli effetti speciali messi in scena, appagante e costante l’azione e soprattutto un plauso per il “tono” dell’operazione, ossia la scelta di farne un fumettone per adolescenti-adulti, sporco, cattivo e sboccato. Un film i cui si parla di eroismo, erotismo ma anche di fragilità, di morte, di sconfitte, di crudeltà imposte dall’alto. Satira e sbudellamenti, topi pelosi e polvere, matti e teneri squali mangiateste. C’è tutto il disgusto e l’amore per l’estremo che “ti fa smuovere” e che un film per tutte le età non può avere. È un vero film per adolescenti-adulti che negli anni ‘80 avrebbero guardato lo zio Tibia (e poi magari Smaila), avvolti in quella “puzza della roba degli adulti”, come lo fu il dittico di Deadpool prima che Deadpool entrasse in Disney con quella specie di favola di Natale. Mi piace ancora di più il fatto che questo Suicide Squad sia arrivato dopo un Wonder Woman 1984, che è rivolto a un pubblico di bambini, da uno Snyder’s Cut Justice League rivolto ai “vecchi nerd” (ma non a tutti, non a me) e ad un Joker, che è rivolto a un pubblico di adulti-adulti. Era la strada per trattare i fumetti indicata dalla Fox e una alternativa possibile alla creazione di un multiverso come la Marvel Disney, che ha pur i suoi meriti di continuità e stile. Qui sul blog non si tifa per Dc o Marvel, ma solo per i bei film di cui questo Suicide Squad di Gunn è un ottimo esempio. 130 e passa minuti che volano in un attimo e la voglia di vederne subito un altro. Certo non è per tutti e se non vi piaceva troppo la rappresentazione della violenza (pur così esagerata da essere fumettosa), le parolacce e le allusioni sessuali, è meglio che vi rivolgiate ad altri cinefumetti. Ma se siete alla ricerca di divertimento “forte” il nuovo film di Gunn è quello che fa per voi. In attesa che qualcuno resusciti la X-Force, è una bella giornata per gli amanti dei fumetti più sporchi e cattivi. 

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