venerdì 13 agosto 2021

Free Guy: la nostra recensione del nuovo film Disney con Ryan Reynolds

 



(Sinossi filosofeggiante) E se Dio fosse un “troll“ e il mondo non fosse altro che un grande pretesto per far divertire poche persone che “portano gli occhiali da sole”, mentre tutti gli altri “senza occhiali” sono costretti a rivivere ogni giorno una grigia routine, senza futuro e senza sogni?

E se di colpo in questa routine il vero amore facesse risuonare nell’aria una canzone di Mariah Carey che sembra una “sveglia emotiva” e di colpo ci svincolasse dalla quotidianità, facendoci desiderare, per la prima volta, di essere liberi? E allora perché nei videogiochi moderni, specie in quelli costruiti come enormi mondi virtuali dove “si è liberi di fare quello che si vuole”, questa libertà si declina quasi solo in un modo “buffo e divertente” di distruggere le cose? Perché si sogna sempre più spesso e solo di “distruggere le cose”, nei videogame? La libertà risiede nell’amare o nel distruggere un mondo? Ma soprattutto, marzullianamente: “La vita è un videogioco o i videogiochi aiutano a viverla?”. 

Domande così, un po’ in contropiede, tra un inseguimento e una sparatoria, scatena inaspettatamente in noi il nuovo film con protagonista quel mattacchione di Ryan “Deadpool” Reynolds. Guy, il protagonista interpretato da Reynolds, vive in questo mondo ultra colorato, ultra gentile, ultra controllato e ordinato, a metà tra il Truman Show e Lego-city. Guy è un colletto bianco, lavora in banca, è ovviamente un tipo super simpatico, ama il caffè macchiato e sogna di comprare un paio di scarpe in edizione limitata appena arriverà lo stipendio del mese prossimo, ossia “domani”. Solo che il domani non arriva mai. Per Guy e molti come lui, gli abitanti di Free City, il giorno dopo è sempre uguale al precedente e quello successivo pure, come un refresh continuo degli stessi eventi stile Giorno della Marmotta. Guy non avrà mai sul conto i soldi per comprarsi quelle scarpe e anche se lui e i suoi concittadini vivono “felici”, forse vivono solo in un’illusione. Quelli che invece sembrano perennemente “infelici”, incazzati e un po’ psicotici, sono i “tizi con gli occhiali”. Sono in pochi ma fanno casino, rapine, omicidi, distruzione in ogni dove. Usano un lessico scurrile, sono armati di tutto punto e vestiti in modo eccentrico. A loro è permessa ogni “marachella” a Free City, compreso combattere tra di loro sulla città con elicotteri che abbattono palazzi, investire i passanti, crivellare i poliziotti, atomizzare tutto con bombe nucleari. Il giorno dopo lo scenario è di nuovo perfetto, pulito, ricostruito, ogni strage perdonata come se nulla fosse, ogni “morto” di nuovo vivo e felice, come Guy. Guy cerca ogni tanto di carpire qualcosa di più degli “uomini con gli occhiali”, partendo dalle piccole cose. Ama imitare il loro modo di parlare, “gergo” dal significato oscuro farcito di parole come “noob”, “pro”, “skin”, come fosse qualcosa di culturalmente importante. Ama provare a dialogare con loro, sempre rispettosamente, sogna di “vedere le cose” come loro. Ma il giorno dopo dimentica tutto, sempre, fino a che arriva a una svolta. La svolta per comprendere davvero questi strani soggetti e lo strano mondo in cui tutti si trovano, arriva alla vista di una ragazza con gli occhiali e capelli a caschetto (Jodie Comer). Lei appare dal nulla e Guy inizia a sentire dentro di sé risuonare Fantasy di Mariah Carrey. È come se l’attrazione per questa ragazza misteriosa chiedesse a Guy di iniziare a desiderare cose diverse, nuove, rispetto a quel paio di scarpe griffate. Cose nuove anche se apparentemente “piccole”, come ad esempio a colazione desiderare un cappuccino al posto del latte macchiato. Da questa piccola spinta parte un effetto-catena, perché la barista di Guy, appena ascoltata la nuova richiesta, inizia a desiderare di fare dei cappuccini al posto del latte macchiato. Prima la barista si sentiva “costretta” a offrire a tutti indistintamente solo del latte macchiato e ora che ha preso questa nuova decisione progressivamente, con effetti domino, uno “spirito di ribellione” si estende a tutti i “senza occhiali” di Free City. Fino a che Guy riesce a rubare a un “uomo con gli occhiali” i suoi occhiali. Li indossa e come Roddy Piper in Essi vivono di Carpenter scopre “la verità sul mondo”. Scopre che ogni abitante di Free City come lui è parte “non attiva”, NPC (“personaggi non giocanti” in gergo) di un enorme videogame, in cui i protagonisti sono proprio le persone con gli occhiali, che si collegano a Free City da ogni parte del mondo. Quelli come Guy, che ogni giorno vivono e lavorano a Free City, servono solo a “colorare” l’esperienza del gioco vero, che consiste sostanzialmente nel fare punti distruggendo, rapinando o uccidendo. In mancanza di altri stimoli non presenti per ora nelle “regole del gioco”, Guy e i suoi sono le “vittime collaterali” e i tizi con gli occhiali i “carnefici”. Come dire che fare i criminali come fare i bravi ragazzi è dal gioco già preordinato e nessuno, occhiali o meno, è sostanzialmente libero di sottrarsi dal suo “ruolo”. Ma forse Guy, proprio perché ora conosce le regole del gioco, può non stare più nel ruolo che gli si impone. Torna la ragazza con gli occhiali (e con lei Fantasy di Mariah Carey) e Guy scopre con indosso gli occhiali che anche lui può avere accesso al ruolo di giocatore “attivo”. Inizierà anche lui a distruggere, rapinare e uccidere o inizierà ad agire in un modo del tutto diverso, come quando ha chiesto un cappuccino? Qualunque cosa farà, nel mondo reale la Software House che produce il gioco, comandata da uno stralunatissimo Taika Waititi (che sta ambendo da tempo al totem di nostro attore e regista preferito), inizia a valutare seriamente l’influenza di Guy sul mondo di gioco.

 


(Gli “architetti” di questa Matrix) Matt Lieberman (l’autore del divertente Fatman con Mel Gibson, film spassoso che sovverte le “regole” sul mito di Babbo Natale) scrive insieme a Zak Penn (sceneggiatore di molti film sui supereroi ma soprattutto di un certo Ready Player One, che riecheggia qui e la nella trama), un film per Shawn Levy (che tra le mille cose ha diretto Una notte al museo, molti episodi della serie Stranger Things e un certo Real Steel che qui in redazione abbiamo amato alla follia), prodotto da Disney e che ha come executive Ryan Reynolds. Un Ryan Reynolds che si mette in una parte in cui “si sente molto Jim Carrey“, al punto che qualche volta riesce pure a sfiorarne leggerezza e spirito fanciullesco. Poi Reynolds svolta l’angolo e torna Deadpool, facendo ridere ed esaltare il suo target consueto: il tredicenne con i brufoli che è in ognuno di noi, che ama i film action e le battutacce. Che lo si veda come un film sui videogiochi e i videogiocatori, come una critica “velata” alla passività della società moderna (sempre più ficcata consapevole/inconsapevole dentro a una realtà orwelliana) o lo si gusti come giostra colorata carica di action o humor, Free Guy è un piatto ricco in cui tutti possono trovare qualcosa di interessante.  

 


(Videogame al cinema) Free Guy, è un piatto ben ricco e farcito di pop-culture come oggi ci piace. Cita a manetta, tra i richiami più evidenti, 1984 di Orwell, Essi Vivono di Carpenter, SimOne e Truman Show di Niccol, Matrix delle Wachowski, Ricomincio da capo di Ramis-Rubin. Ci parla di videogames e riesce a farlo in un modo interessante, arrivando a farci riflettere sul presente se non addirittura sulla famosa questione della “ghianda”, cruccio del filosofo junghiano James Hillman...ma procediamo per gradi. 

Ormai i videogame sono un pezzo rilevante della cultura popolare e molti film si occupando delle loro “dinamiche interne” oltre che a trasporre su pellicola storie basate su alcuni dei franchise più famosi. Disney si è interessata pionieristicamente ai videogame fin dai tempi di Tron, in cui si interrogava sulla possibilità di un uomo di vivere e sopravvivere all’interno di un videogame, dialogando e scontrandosi con le intelligenze artificiali. Sempre Disney Studios ha poi ripreso a parlarci di videogame nei suoi due film su Ralph Spaccatutto, dove i personaggi virtuali  protagonisti di vecchi cabinati da sala giochi (come tanti adulti umani oggi) vivono incatenati ad una ruotine “lavorativa” e a un ruolo (Ralph era “il cattivo”) spesso ingrato e che si ripete uguale ogni giorno, cercando un piccolo pezzo di felicità. Edge of Tomorrow con Tom Cruise, come il recente Boss Level con Mel Gibson, rileggono “in chiave videogame” le meccaniche del film  Ricomincio da Capo di Ramis, e tutto funziona alla perfezione, al punto che c’è chi pensa che Ricomincio da capo sia basato pure lui su un videogame, tipo un’avventura punta e clicca della Lucas. Di certo L’ultimo combattimento di Chen, Guerre StellariIndiana Jones, pur non essendo “nati videogame”, hanno influenzato in modo profondo i videogame, al punto da “scriverne delle meccaniche”. Sullo “stile da videogame” ne fanno invece una questione estetica film come Cnak con Jason Statham, Scott Pilgrim, Gamer con Gerald Butler e in genere tutela le pellicole che amano rompere i confini tra in mondo reale e il videogame, in cerca di linguaggi visivi contaminati. Il “freddo” Ben X, film drammatico proveniente dall’est Europa, parlava dei  “benefici del mondo virtuale“, specie se è un mondo in cui hai acquisto delle skills che ti rendono “forte” (il che vale anche per il recente Jumanji con Dwayne Johnson) e per quanto può  essere un ottimo luogo di fuga dai guai del mondo vero, specie dal bullismo dei compagni di scuola. L’anime Sword Art Online, in una delle sue intuizioni più interessanti, parla di come in un videogame virtuale anche delle persone con disabilità possano vivere senza limitazioni la loro esistenza, sentendosi pienamente integrate. 

 


(NPC) Free Guy riesce a districarsi tra molti dei temi sopra accennati, amalgamandoli con cura, ma in più volge l’attenzione narrativa sugli NPC, i personaggi non giocanti, di fatto i “non-protagonisti” di un videogame. Non sono i nostri nemici, non sono a volte neanche nostri alleati, sono qualcosa di “diverso”. Li abbiamo già incontrati in altri “film sui videogame” questi NPC, li individuiamo come quegli omini che “ripetono ogni volta la stessa frase” che in genere si concretizza in una qualche missione che l’eroe deve portare a compimento per avanzare nel gioco. Ma dietro di loro c’è tutta una narrativa e filosofia videoludica interessante, a tratti geniale e a tratti crudele, che ci riporta a quella frase scritta nella prima riga di questo articolo: “e se Dio fosse un troll?”. 

Con la memoria mi piace tornare ai tempi del Commodore Amiga e di un gioco della Bullfrog, Populus, che aveva come game-designer Peter Molyneux. Era nelle intenzioni un “simulatore di divinità”, in cui il giocatore impersonava un dio che poteva far fiorire o meno un certo territorio, fin dalla conformazione del terreno, fino a farsi “adorare“ dal suo popolo di sudditi-omini, che ricambiavano con delle preghiere che si tramutavano in punti. Il bello era che questi omini non avevano un comportamento “automatico” a ciò che facevano, erano un po’ “indipendenti” e la Bullfrog e Molyneux per molti anni hanno enfatizzato sulla creazione di piccole intelligenze artificiali. In modo differente, sempre su Amiga, c’era la Psygnosis, con la sotto-etichetta DMA design, gli autori di Lemmings (alcuni dei quali sarebbero diventati gli autori di GTA, il Grand Theft Auto). In Lemmings come giocatori vestivamo ancora i panni di una specie di divinità, questa volta impegnate “in modo più diretto” nel salvare la vita a delle creature che potevano per loro natura solo camminare dritto, andando a schiantarsi contro gli ostacoli se qualcuno non li fermava. Potevamo per esempio “scegliere” una creaturina e dargli un “ruolo” come “impedire agli altri di andare in quella direzione”, di fatto evitando che il gruppo finisse dritto in un burrone. Solo che quella creaturina “eletta” non poteva più procedere verso la salvezza, doveva rimanere a “fermare il traffico” per sempre. Questa filosofia di gioco, che negli anni ha portato a Sim-City, Sims, Creatures, Good & Evil, alla fine è però caduta in minoranza, gli NPC sono diventati per lo più “i passanti occasionali” di un mondo virtuale. In GTA sono i conducenti delle auto da rapinare, per lo più quando sono fermi al semaforo, buttandoli fuori dal posto di guida. In Skyrim si poteva addirittura burlarsi di un NPC che faceva il commerciante, mettendogli letteralmente un vaso in testa che gli impediva di vedere e rapinandolo indisturbati. Poco più che birilli umani da deridere quindi. Ma gli NPC sono omini virtuali o birilli umani, dunque? Ecco, Free Guy parla di questi due aspetti antitetici degli NPC come membri di una comunità virtuale che a seconda della “scelta di intrattenimento” può apparire più o meno virtuosa. Free Guy, in qualche modo, cerca di enfatizzare sul fatto che gli NPC possono essere più interessanti quando appaiono differenti dai “birilli da abbattere”. Chissà che magari, promuovendo un approccio diverso al gaming, sia possibile modificare anche molte delle abitudini che sempre di più riguardano i social, dove sempre più spesso le persone trattano gli altri come se fossero alla stregua degli NPC-birilli. 



(Andiamo alla ciccia) Free Guy possiede delle buone idee visive, un ottimo cast di attori e risulta un film divertente, movimentato, pieno di effetti speciali. A sorpresa è la narrazione il suo elemento di maggiore pregio. Se all’inizio sembra cercare di ripercorrere (malino) il canovaccio del Truman Show, poi riesce a svincolarsi, andando a sviluppare una poetica romantico-nerd, sulla linea di Ready Player One, piena di tanti spunti interessanti e originali. Dietro ai pixel ultra colorati e che inneggiano a Games come Fortnite, GTA, Saint Row, Watch Dogs, tra elicotteri, costumi sgargianti e armi strampalate, si nasconde così tanta voglia di tornare bambini, salire su un'altalena e provare il gelato allo zucchero filato. Il “nuovo” slang da gamer, usato sapientemente e satiricamente come fosse una neo-lingua, in fondo non è così diverso dal lessico parolaccesco dei film per ragazzini dei primi anni ‘80, E.T. su tutti. E così, mente guardiamo Free Guy, ci accordiamo che in fondo i ragazzini degli anni ‘80 non parlavano troppo diversamente da quelli oggi. Molto bello il messaggio finale sul “senso della vita” di un NPC, che vi lascio scoprire in sala (la dice prima del “boss finale” la guardia Buddy, interpretata dal bravo Lil Rel Howery). 

Free Guy funziona nel complesso, ma forse paga una lunghezza eccessiva. Una forte caduta di ritmo si accusa soprattutto sulla due quarti di durata, quando il “villain” non entra mai davvero in scena. Poteva essere più incisivo lo stralunato art director impersonato da Taika Waititi, poteva essere più a fuoco il personaggio di Joe Keery, come quello di Utkarsh Ambudkar. Dialogano molto bene Ryan Reynolds e Lil Rel Howery, sono una bella coppia e hanno Insieme un divertente momento alla “Essi vivono”. Tra Reynolds e la Comer invece “non scatta” l’alchimia giusta. Da segnalare una grande presenza su schermo di volti noti dei Gamers/streamers internazionali, cosa che può far piacere ai fan del gaming.

Ogni tanto Free Guy mi ha fatto sentire “un po’ vecchio”, ogni tanto sono entrato felice sulla sua onda, qualche volta mi ha sorpreso. È una pellicola in cui non sempre tutto è bene a fuoco, ma compensa con tante idee e tanta azione. Molto divertente Reynolds, che non vediamo l’ora di rivedere presto con il costume di Deadpool. 

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