(Sinossi filosofeggiante) E se Dio
fosse un “troll“ e il mondo non fosse altro che un grande pretesto per far
divertire poche persone che “portano gli occhiali da sole”, mentre tutti gli
altri “senza occhiali” sono costretti a rivivere ogni giorno una grigia routine,
senza futuro e senza sogni?
E se di colpo in questa routine il vero
amore facesse risuonare nell’aria una canzone di Mariah Carey che sembra una
“sveglia emotiva” e di colpo ci svincolasse dalla quotidianità, facendoci
desiderare, per la prima volta, di essere liberi? E allora perché nei
videogiochi moderni, specie in quelli costruiti come enormi mondi virtuali dove
“si è liberi di fare quello che si vuole”, questa libertà si declina quasi solo
in un modo “buffo e divertente” di distruggere le cose? Perché si sogna sempre
più spesso e solo di “distruggere le cose”, nei videogame? La libertà risiede
nell’amare o nel distruggere un mondo? Ma soprattutto, marzullianamente: “La
vita è un videogioco o i videogiochi aiutano a viverla?”.
Domande così, un po’ in contropiede, tra
un inseguimento e una sparatoria, scatena inaspettatamente in noi il nuovo film
con protagonista quel mattacchione di Ryan “Deadpool” Reynolds. Guy, il
protagonista interpretato da Reynolds, vive in questo mondo ultra colorato, ultra
gentile, ultra controllato e ordinato, a metà tra il Truman Show e Lego-city.
Guy è un colletto bianco, lavora in banca, è ovviamente un tipo super
simpatico, ama il caffè macchiato e sogna di comprare un paio di scarpe
in edizione limitata appena arriverà lo stipendio del mese prossimo, ossia
“domani”. Solo che il domani non arriva mai. Per Guy e molti come lui, gli
abitanti di Free City, il giorno dopo è sempre uguale al precedente e quello
successivo pure, come un refresh continuo degli stessi eventi stile Giorno
della Marmotta. Guy non avrà mai sul conto i soldi per comprarsi quelle scarpe
e anche se lui e i suoi concittadini vivono “felici”, forse vivono solo in
un’illusione. Quelli che invece sembrano perennemente “infelici”, incazzati e un po’ psicotici, sono i “tizi con gli occhiali”. Sono in pochi ma
fanno casino, rapine, omicidi, distruzione in ogni dove. Usano un lessico
scurrile, sono armati di tutto punto e vestiti in modo eccentrico. A loro è
permessa ogni “marachella” a Free City, compreso combattere tra di loro sulla
città con elicotteri che abbattono palazzi, investire i passanti, crivellare i
poliziotti, atomizzare tutto con bombe nucleari. Il giorno dopo lo scenario è
di nuovo perfetto, pulito, ricostruito, ogni strage perdonata come se nulla
fosse, ogni “morto” di nuovo vivo e felice, come Guy. Guy cerca ogni
tanto di carpire qualcosa di più degli “uomini con gli occhiali”, partendo
dalle piccole cose. Ama imitare il loro modo di parlare, “gergo” dal
significato oscuro farcito di parole come “noob”, “pro”, “skin”, come fosse
qualcosa di culturalmente importante. Ama provare a dialogare con loro, sempre
rispettosamente, sogna di “vedere le cose” come loro. Ma il giorno dopo
dimentica tutto, sempre, fino a che arriva a una svolta. La svolta per
comprendere davvero questi strani soggetti e lo strano mondo in cui tutti si
trovano, arriva alla vista di una ragazza con gli occhiali e capelli a
caschetto (Jodie Comer). Lei appare dal nulla e Guy inizia a sentire dentro di
sé risuonare Fantasy di Mariah Carrey. È come se l’attrazione per questa
ragazza misteriosa chiedesse a Guy di iniziare a desiderare cose diverse,
nuove, rispetto a quel paio di scarpe griffate. Cose nuove anche se apparentemente “piccole”, come ad esempio a colazione desiderare un
cappuccino al posto del latte macchiato. Da questa piccola spinta parte un
effetto-catena, perché la barista di Guy, appena ascoltata la nuova richiesta,
inizia a desiderare di fare dei cappuccini al posto del latte macchiato. Prima
la barista si sentiva “costretta” a offrire a tutti indistintamente solo del
latte macchiato e ora che ha preso questa nuova decisione progressivamente, con
effetti domino, uno “spirito di ribellione” si estende a tutti i “senza
occhiali” di Free City. Fino a che Guy riesce a rubare a un “uomo con gli
occhiali” i suoi occhiali. Li indossa e come Roddy Piper in Essi vivono di
Carpenter scopre “la verità sul mondo”. Scopre che ogni abitante di Free City
come lui è parte “non attiva”, NPC (“personaggi non giocanti” in gergo) di un
enorme videogame, in cui i protagonisti sono proprio le persone con gli
occhiali, che si collegano a Free City da ogni parte del mondo. Quelli come
Guy, che ogni giorno vivono e lavorano a Free City, servono solo a “colorare”
l’esperienza del gioco vero, che consiste sostanzialmente nel fare punti
distruggendo, rapinando o uccidendo. In mancanza di altri stimoli non presenti
per ora nelle “regole del gioco”, Guy e i suoi sono le “vittime collaterali” e
i tizi con gli occhiali i “carnefici”. Come dire che fare i criminali
come fare i bravi ragazzi è dal gioco già preordinato e nessuno, occhiali o
meno, è sostanzialmente libero di sottrarsi dal suo “ruolo”. Ma forse
Guy, proprio perché ora conosce le regole del gioco, può non stare più nel
ruolo che gli si impone. Torna la ragazza con gli occhiali (e con lei Fantasy
di Mariah Carey) e Guy scopre con indosso gli occhiali che anche lui può
avere accesso al ruolo di giocatore “attivo”. Inizierà anche lui a distruggere,
rapinare e uccidere o inizierà ad agire in un modo del tutto diverso, come
quando ha chiesto un cappuccino? Qualunque cosa farà, nel mondo reale la
Software House che produce il gioco, comandata da uno stralunatissimo Taika
Waititi (che sta ambendo da tempo al totem di nostro attore e regista
preferito), inizia a valutare seriamente l’influenza di Guy sul mondo di gioco.
(Gli “architetti” di questa Matrix)
Matt Lieberman (l’autore del divertente Fatman con Mel Gibson, film spassoso che
sovverte le “regole” sul mito di Babbo Natale) scrive insieme a Zak Penn (sceneggiatore di molti film sui supereroi ma soprattutto di un certo Ready
Player One, che riecheggia qui e la nella trama), un film per Shawn Levy
(che tra le mille cose ha diretto Una notte al museo, molti episodi della
serie Stranger Things e un certo Real Steel che qui in redazione abbiamo amato
alla follia), prodotto da Disney e che ha come executive Ryan Reynolds. Un Ryan
Reynolds che si mette in una parte in cui “si sente molto Jim Carrey“, al punto
che qualche volta riesce pure a sfiorarne leggerezza e spirito fanciullesco.
Poi Reynolds svolta l’angolo e torna Deadpool, facendo ridere ed esaltare il
suo target consueto: il tredicenne con i brufoli che è in ognuno di noi,
che ama i film action e le battutacce. Che lo si veda come un film sui
videogiochi e i videogiocatori, come una critica “velata” alla passività della
società moderna (sempre più ficcata consapevole/inconsapevole dentro a una
realtà orwelliana) o lo si gusti come giostra colorata carica di
action o humor, Free Guy è un piatto ricco in cui tutti possono trovare
qualcosa di interessante.
(Videogame al cinema) Free Guy, è un
piatto ben ricco e farcito di pop-culture come oggi ci piace. Cita a
manetta, tra i richiami più evidenti, 1984 di Orwell, Essi Vivono di
Carpenter, SimOne e Truman Show di Niccol, Matrix delle Wachowski, Ricomincio da
capo di Ramis-Rubin. Ci parla di videogames e riesce a farlo in un modo
interessante, arrivando a farci riflettere sul presente se non addirittura
sulla famosa questione della “ghianda”, cruccio del filosofo junghiano James
Hillman...ma procediamo per gradi.
Ormai i videogame sono un pezzo
rilevante della cultura popolare e molti film si occupando delle loro
“dinamiche interne” oltre che a trasporre su pellicola storie basate su alcuni
dei franchise più famosi. Disney si è interessata pionieristicamente ai
videogame fin dai tempi di Tron, in cui si interrogava sulla possibilità di un
uomo di vivere e sopravvivere all’interno di un videogame, dialogando e
scontrandosi con le intelligenze artificiali. Sempre Disney Studios ha poi
ripreso a parlarci di videogame nei suoi due film su Ralph Spaccatutto, dove i
personaggi virtuali protagonisti di vecchi cabinati da sala giochi (come
tanti adulti umani oggi) vivono incatenati ad una ruotine “lavorativa” e a un
ruolo (Ralph era “il cattivo”) spesso ingrato e che si ripete uguale ogni
giorno, cercando un piccolo pezzo di felicità. Edge of Tomorrow con Tom Cruise,
come il recente Boss Level con Mel Gibson, rileggono “in chiave videogame” le
meccaniche del film Ricomincio da Capo di Ramis, e tutto funziona alla
perfezione, al punto che c’è chi pensa che Ricomincio da capo sia basato
pure lui su un videogame, tipo un’avventura punta e clicca della Lucas. Di
certo L’ultimo combattimento di Chen, Guerre Stellari e Indiana Jones,
pur non essendo “nati videogame”, hanno influenzato in modo profondo i
videogame, al punto da “scriverne delle meccaniche”. Sullo “stile da
videogame” ne fanno invece una questione estetica film come Cnak con
Jason Statham, Scott Pilgrim, Gamer con Gerald Butler e in genere tutela le
pellicole che amano rompere i confini tra in mondo reale e il videogame, in
cerca di linguaggi visivi contaminati. Il “freddo” Ben X, film drammatico
proveniente dall’est Europa, parlava dei “benefici del mondo virtuale“,
specie se è un mondo in cui hai acquisto delle skills che ti rendono
“forte” (il che vale anche per il recente Jumanji con Dwayne Johnson) e per
quanto può essere un ottimo luogo di fuga dai guai del mondo vero, specie
dal bullismo dei compagni di scuola. L’anime Sword Art Online, in una delle sue
intuizioni più interessanti, parla di come in un videogame virtuale anche delle
persone con disabilità possano vivere senza limitazioni la loro esistenza, sentendosi
pienamente integrate.
(NPC) Free Guy riesce a districarsi tra
molti dei temi sopra accennati, amalgamandoli con cura, ma in più volge
l’attenzione narrativa sugli NPC, i personaggi non giocanti, di fatto i
“non-protagonisti” di un videogame. Non sono i nostri nemici, non sono a volte
neanche nostri alleati, sono qualcosa di “diverso”. Li abbiamo già incontrati
in altri “film sui videogame” questi NPC, li individuiamo come quegli omini che
“ripetono ogni volta la stessa frase” che in genere si concretizza in una
qualche missione che l’eroe deve portare a compimento per avanzare nel gioco.
Ma dietro di loro c’è tutta una narrativa e filosofia videoludica interessante,
a tratti geniale e a tratti crudele, che ci riporta a quella frase scritta
nella prima riga di questo articolo: “e se Dio fosse un troll?”.
Con la memoria mi piace tornare ai tempi
del Commodore Amiga e di un gioco della Bullfrog, Populus, che aveva come
game-designer Peter Molyneux. Era nelle intenzioni un “simulatore di divinità”,
in cui il giocatore impersonava un dio che poteva far fiorire o meno un certo
territorio, fin dalla conformazione del terreno, fino a farsi “adorare“ dal
suo popolo di sudditi-omini, che ricambiavano con delle preghiere che si tramutavano in punti. Il bello era che questi omini non avevano un
comportamento “automatico” a ciò che facevano, erano un po’ “indipendenti” e la
Bullfrog e Molyneux per molti anni hanno enfatizzato sulla creazione di piccole
intelligenze artificiali. In modo differente, sempre su Amiga, c’era la
Psygnosis, con la sotto-etichetta DMA design, gli autori di Lemmings (alcuni
dei quali sarebbero diventati gli autori di GTA, il Grand Theft Auto). In
Lemmings come giocatori vestivamo ancora i panni di una specie di divinità,
questa volta impegnate “in modo più diretto” nel salvare la vita a delle
creature che potevano per loro natura solo camminare dritto, andando a
schiantarsi contro gli ostacoli se qualcuno non li fermava. Potevamo per
esempio “scegliere” una creaturina e dargli un “ruolo” come “impedire agli altri
di andare in quella direzione”, di fatto evitando che il gruppo finisse dritto
in un burrone. Solo che quella creaturina “eletta” non poteva più procedere
verso la salvezza, doveva rimanere a “fermare il traffico” per sempre. Questa filosofia
di gioco, che negli anni ha portato a Sim-City, Sims, Creatures, Good &
Evil, alla fine è però caduta in minoranza, gli NPC sono diventati per lo più
“i passanti occasionali” di un mondo virtuale. In GTA sono i conducenti delle
auto da rapinare, per lo più quando sono fermi al semaforo, buttandoli fuori
dal posto di guida. In Skyrim si poteva addirittura burlarsi di un NPC che
faceva il commerciante, mettendogli letteralmente un vaso in testa che gli
impediva di vedere e rapinandolo indisturbati. Poco più che birilli umani da
deridere quindi. Ma gli NPC sono omini virtuali o birilli umani, dunque? Ecco,
Free Guy parla di questi due aspetti antitetici degli NPC come membri di una
comunità virtuale che a seconda della “scelta di intrattenimento” può apparire
più o meno virtuosa. Free Guy, in qualche modo, cerca di enfatizzare sul fatto
che gli NPC possono essere più interessanti quando appaiono differenti dai
“birilli da abbattere”. Chissà che magari, promuovendo un approccio diverso al
gaming, sia possibile modificare anche molte delle abitudini che sempre di più
riguardano i social, dove sempre più spesso le persone trattano gli altri come
se fossero alla stregua degli NPC-birilli.
(Andiamo alla ciccia) Free Guy possiede delle buone idee visive, un ottimo cast di attori e risulta un film divertente, movimentato, pieno di effetti speciali. A sorpresa è la narrazione il suo elemento di maggiore pregio. Se all’inizio sembra cercare di ripercorrere (malino) il canovaccio del Truman Show, poi riesce a svincolarsi, andando a sviluppare una poetica romantico-nerd, sulla linea di Ready Player One, piena di tanti spunti interessanti e originali. Dietro ai pixel ultra colorati e che inneggiano a Games come Fortnite, GTA, Saint Row, Watch Dogs, tra elicotteri, costumi sgargianti e armi strampalate, si nasconde così tanta voglia di tornare bambini, salire su un'altalena e provare il gelato allo zucchero filato. Il “nuovo” slang da gamer, usato sapientemente e satiricamente come fosse una neo-lingua, in fondo non è così diverso dal lessico parolaccesco dei film per ragazzini dei primi anni ‘80, E.T. su tutti. E così, mente guardiamo Free Guy, ci accordiamo che in fondo i ragazzini degli anni ‘80 non parlavano troppo diversamente da quelli oggi. Molto bello il messaggio finale sul “senso della vita” di un NPC, che vi lascio scoprire in sala (la dice prima del “boss finale” la guardia Buddy, interpretata dal bravo Lil Rel Howery).
Free Guy funziona nel complesso, ma forse paga una lunghezza eccessiva. Una forte caduta di ritmo si accusa
soprattutto sulla due quarti di durata, quando il “villain” non entra mai
davvero in scena. Poteva essere più incisivo lo stralunato art director
impersonato da Taika Waititi, poteva essere più a fuoco il personaggio di Joe
Keery, come quello di Utkarsh Ambudkar. Dialogano molto bene Ryan Reynolds e
Lil Rel Howery, sono una bella coppia e hanno Insieme un divertente momento
alla “Essi vivono”. Tra Reynolds e la Comer invece “non scatta” l’alchimia
giusta. Da segnalare una grande presenza su schermo di volti noti dei
Gamers/streamers internazionali, cosa che può far piacere ai fan del gaming.
Ogni tanto Free Guy mi ha fatto sentire “un po’ vecchio”, ogni tanto sono entrato felice sulla sua onda, qualche volta mi ha sorpreso. È una pellicola in cui non sempre tutto è bene a fuoco, ma compensa con tante idee e tanta azione. Molto divertente Reynolds, che non vediamo l’ora di rivedere presto con il costume di Deadpool.
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