lunedì 27 aprile 2020

Dragonero - il ribelle: "La voce della foresta profonda"



- Premessa - Dragonero e Jack London : 

Guardate come se la tira!

prima che diventasse l'anno delle maledette micro-palline con la coroncina, il 2020 aveva dei piani diversi, almeno per Disney: sarebbe dovuto essere l'anno della grande celebrazione del mito del "cane da slitta". Un revival cinematografico a tutto tondo, che parte addirittura da temi attuali e scottanti come i "grandi errori della Storia dei cani da slitta", con la riabilitazione del cane da slitta "Togo", con una pellicola di Ericson Core con protagonista Willem Dafoe. 

Locandina un po' ambigua, con ADfoe che pare essersi fatto un bel pellicciotto di cane da slitta

Togo, ora lo potranno gridare le nuove generazioni dei suoi cuccioli, è il vero vincitore della "corsa del siero del 1925 a Nome in Alaska (conosciuta anche come "grande corsa della Misericordia"), titolo rubatogli del raccomandato politico Balto, cui per la stessa impresa avevano dedicato un film animato Warner Bros, diverse statue e fama. Come nei peggiori scandali sportivi, la gran parte della corsa l'avrebbe fatta la slitta del cane Togo, con Balto che si è imbucato al comando negli ultimi otto metri di gara uscendo da un McDonalds in cui era stato da sei giorni e tagliando il traguardo per primo. Tutti sapevano ma hanno taciuto (immaginiamo per via delle potenti lobby dei cani da slitta), ma dopo quasi 100 anni "giustizia per Togo" è stata fatta. Messa questa pezza doverosa, la Disney è passata alla fase più filosofica del progetto, se vogliamo: l'esegesi attualizzata al "Disney Live-action" del mito massimo per ogni cane da slitta di sempre, l'immortale Il richiamo della Foresta di Jack London, papà di Zanna Bianca e più volte portato su schermo. 

Trova sei piccole differenze con il disegno di copertina di Dragonero

Il film omonimo diretto da Chris Sanders con Omar Sy e Harrison Ford è una vera bomba, il racconto del viaggio di ritorno alla natura eco-sostenibile e da green-economy di un "civilizzato" cagnone "alla Beethoven" (la razza non sarà quella ma l'attitudine sì) diverte, commuove e probabilmente, se mi concedete una riflessione personale, ne fa l'unico film con protagonisti dei cani che finora non mi faccia vomitare per quel misto di orticaria e diabete che mi procurano questo tipo di pellicole. Bello, per davvero. E quindi trovo doveroso e necessario che anche Dragonero, sulla scia del grande "anno del cane da slitta che non è stato" oggi declini la sua versione personale della mitologia di Jack London sul "richiamo della natura".


L'elfa Sera in questo numero di Dragonero - il ribelle non traina ancora nuda, sulla neve e con le sue gambette senza ceretta, una slitta carica di medicinali, posta e Omar Sy (magari lo farà nei prossimi numeri, attenzionando i per ora silenti "attivisti pro-elfi"), ma la struttura narrativa di fondo mantiene comunque molti punti di contatto con "l'altro richiamo", compresa la presenza di una creatura dai contorni magici "che richiama", che in questo caso non ha la forma di un grande lupo ma di una specie di Poison Ivy. Il "legame" tra Sera e questa Poison Ivy possiamo anticipare che trova le radici nell'incredibile capolavoro della "donna ragno" che abbiamo conosciuto come ottima artigiana internazionale, che "IKEA spostati" nel numero 64, quasi a livello del Garpez (e già sento le vocine nerd urlarmi: "Mannooo, guarda la foggia e le incisioni, è un omaggio alla prima suit di Battle Angel Alita di Kishiro! Sei troppo cattivo!"). Insomma, tutte le premesse di una trama a favore degli artigiani della qualità, solo che parliamo di un legno lontano dalle foreste innevate del Nord America, più vicino alle spaventose "foreste dalla notte infinita" di Blair Witch Project (omaggiato anche in una tavola di pag. 48 e nella prima tavola di pag. 64, dove un certo personaggio assume una posizione molto simile alle celebri "bambole di legno").



- Sinossi fatta male: Cosa può fare una Elfa adolescente erondariana con per genitori un orco e un biondino ultra-preoccupati/apprensivi quando viene sgamata di notte a scappare dalla propria cameretta in cerca di una cannetta di Owia, che ti fa fare i viaggi psicotropi? Può bastare inventarsi cose hippy come "sento il richiamo degli alberi di Owia, datemi tregua, prendo l'uccello gigante, metto il casco, esco, non mi aspettare svegli"? Ovviamente no, i genitori adottivi non se ne andranno! Ma l'Erondar è grande e ricco di sostanze psicotrope biologiche al 100%, così Sera riesce a convincere biondino e orchetto che il "richiamo" potrebbe portare tutta la famigliola dalle parti di Frondascura, dai sui genitori naturali, in un bosco guarda caso pieno di funghetti che "ti illuminano il cammino psicotropo", facendoti arrivare a sentire il richiamo di enormi alberi di Owia psicotropi. I nostri eroi partono, contenti di condividere un bel momento familiare con la piccola Sera e i simpatici elfi di Frondascura. Come finirà la vacanza? 


- Bel tempo di Sera: Fesserie a parte, ci mancava davvero l'elfa Sera, che abbiamo visto davvero troppo poco negli ultimi numeri di Dragonero. Tutti poi qui in redazione amiamo e attendiamo avidamente l'inside-joke  "cosa fa questo mese Sera con un uccello?", con cui possiamo esplorare le sempre diverse, a ogni numero, interazioni tra Sera e "il mondo dei volatili erondariani". Con queste nobili creature di stazza fantasy variabile (un intero mondo di "Uccellacci e uccellini", citando Pasolini) Sera condivide una sensibilità teneramente affine, che riesce a declinarsi in modalità di comunicazione sempre uniche e appropriate. Sera li accarezza tenendoli tra le mani, li porta al sicuro nel nido, ci monta sopra per volare e combattere, si sente anche lei stessa un uccello, molte volte in gabbia anche se dotata di una sua indipendenza, perennemente in volo e per questo lontana dalle proprie "radici". I volatili più piccoli sono un po' come le sue bambole, li cura come lei stessa vorrebbe essere curata e accudita, esplicitano un bisogno di "coccole" che spesso rimane inespresso. A cavallo dei volatili più grandi, un rapido mezzo di trasporto e battaglia, Sera diviene una guerriera, una unica creatura veloce e implacabile in grado di frantumare eserciti. A metà strada tra il pulcino da accudire nel nido e lo sparviero che domina il cielo, Sera stessa diviene quindi un "pettirosso da combattimento", per dirla come la Berté. Una creatura del cielo "oggi ancora più cazzuta", proprio perché adolescentemente "ribbbelle su questa testata ribbbelle", che non mi stupirebbe quasi immaginarla, tra i tanti sguardi cupi e azioni da ninja di una nuova sicurezza di sé, con una mitragliatrice al posto della gamba protesica come la Rose McGowan di Grindhouse - Planet Terror. Forse "troppo adulta?". Una mitragliatrice protesica tecnocratica fatta di sacro albero Owia in arrivo? ...io propongo...
Ma mettiamo da parte mitragliatrici falliche e uccelli fallici e torniamo a noi, torniamo a questa Sera divisa tra passato e presente, al centro della tempesta esistenziale e ormonale, in una ideale "terra di mezzo dell'adolescenza elfica", al punto che in questo numero è rappresentata "una e trina". Una Sera del passato, del periodo in cui aveva ancora due gambe e contorni infantili, che ha vissuto una avventura parallela agli eventi che hanno impegnato Gmor e Ian nel contrastare gli Algenti nei numeri 52-53. Una Sera del presente, dall'animo tormentato in cerca di risposte sul suo ruolo nel mondo. Una Sera che si proietta in un futuro misterioso, per un istante adulta. Barbieri, l'attuale curatore di Dragonero è autore principale della storia, quello che ha tratteggiato gli eventi passati e presenti con Sera protagonista. Vietti, uno dei due "papà" di Dragonero, ha invece aperto un misteriosissimo squarcio sul suo futuro, cupo e terrificante, molto "heavy metal" se vogliamo. Potremmo quasi dire che Barbieri e Vietti si sono quindi comportati come i i tre fantasmi del Racconto di Natale di Dickens. Forse anche Sera, come piccolo e fragile Timmy del racconto, riuscirà ad arrivare indenne alla fine della storia, ma per ora nessuno può dirlo.  Anche dal  lato visivo abbiamo davanti tre ritratti di Sera, uno diverso per ogni diverso squarcio di tempo, "tra passato, presente e futuro". Le straordinarie tavole dell'albo per questo sono state divise tra il primo copertinista della testata, Giuseppe Matteoni (pagg 84-89) il bravo Giuseppe De Luca (pagg 40-79) e l'attuale copertinista, Giuseppe Pagliarani (prime 39 pagine, da 79 a 83 e da 90 a 98). Sono disegni  che idealmente si specchiano e contrastano per diversità sottili, laddove anagrafica elfica in larga parte maschera il passare del tempo, l'espressività e "ingenuità" delle diverse "età di Sera" riesce a essere colta attraverso raffinate scelte visive. Ha gli occhi grandi, il viso ovale di una bimba e i contorni dolci, la Sera di De Luca. Vive di un corpo più maturo ma dalle linee rigide, uno sguardo cupo e un volto spigoloso e storto, la Sera di Pagliarani. La Sera di Matteoni, che secondo le note dovrebbe essere anche quella di pagina 87, nelle ultime tre vignette della pagina muta repentinamente il volto, si trasforma da ragazzina in una donna dallo sguardo sensuale ma gelido. I cambiamenti di Sera descritti in questo numero avvengono per successive "mutazioni" del corpo e dello spirito, attraverso una struttura narrativa interessante che si merita un approfondimento tutto suo nel prossimo paragrafo.


- Tagli e innesti: Sera non invecchia ma cambia nei dettagli quindi. Mi piace molto sul piano narrativo che sia la protesi della gamba il motore del tutto. Sera si trovi al centro di un percorso di crescita che promana da una parte del suo corpo che sta "cambiando", in un modo pur "fantasy". Il corpo che cambia, per dirla alla Litfiba, è un meccanismo funzionale noto a molte storie di formazione. Qui mi torna alla mente magari più l'incipit di Carrie, lo sguardo di satana di King che le Piccole Donne della Gerwig. Questa "parte di sé sta cambiando" letteralmente "brucia", polemizza con la visione di se stessi, scatena incubi e si impone all'attenzione con forza. La comparsa di un brufolo, le prime mestruazioni, il cambio della voce e dell'altezza, ma si può dire lo stesso, nell'età della crescita, anche di una infelice menomazione dovuta a una malattia o incidente. Non è una rivoluzione subito generalizzata quanto l'accettazione di nuove caratteristiche del proprio essere, resa più difficile dal fatto, non banale e molto importante, che Sera è pur in un mondo fantasy una portatrice di disabilità. La protesi non è per Sera un semplice oggetto (non lo è nemmeno "originariamente" nella testata) quanto una parte viva "del sé" che pulsa, incrina un equilibrio e la porta a scavare nel suo passato in un viaggio di ritorno alle origini, alla ricerca che il suo "vero spirito" accetti questo cambiamento. Un viaggio che si colora in ulteriori sfaccettature in quanto condiviso con la sua famiglia allargata composta da Ian e Gmor, non diverso, anche se "più fantasy", dal viaggio di ritorno al passato che intraprendono qualche volta, spesso a seguito proprio di momenti di crisi (qualche volta anche alla ricerca di risposte biologiche), i ragazzi adottati con adozione internazionale insieme ai loro genitori adottivi. Curioso che si parli di innesti tanto in ambito di protesi quanto di adozioni e botanica. Quello di Sera è quindi un percorso personale ma anche familiare e un ritorno alla natura. A livello psicologico questa simmetria di intenti (ontologico, culturale e multi-culturale, se vi piace) diviene l'humus su cui si inerpica, anche dolorosamente, la comprensione e accettazione condivisa della "storia comune" della attuale famiglia di Sera. Tematiche sociali all'interno di una narrazione fantasy, da sempre cifra pregiata della narrazione a nuvole parlanti di Enoch, che in questo numero 6 di Dragonero - Il ribelle prendono forma al meglio, come nei migliori lavori del mai troppo celebrato Eugene Wesley Roddenberry. Barbieri è stato molto bravo a imbastire una vicenda semplice, efficace e ricca di scene d'azione con all'interno anche una così pregiata chiave di lettura sociale. Ci piace... Ma torniamo a quello che "più ci piace" di Dragonero al di là dei sottotesti: spade e tette!!
- La parte "action" del pacchetto: in soldoni, questo mese ci viene proposta al di là dei preziosismi un'avventura dalle tinte horror, qualche volta anche splatter, ambientata all'interno di un bosco sinistro e pieno di tizi barbuti agghindati come Robin Hood e creature mezze albero e mezze streghe, in genere poco vestite e con le tette. L'incubo descritto nelle pagine da 5 a 7, il flash back da pagina 69 a 77 così come la apocalittica visione da pagina 88 a 93 sono i pregiati fiori all'occhiello del numero, per chi ama le "emozioni forti". La "donna albero" è un personaggio mooolto bello, a metà tra la strega di Blair e i fantasmi orientali stile The Ring, ha una grande presenza scenica. Per il resto ci sono delle scazzottate nella prima parte, ma non spiccano particolarmente. Possiamo dire che la parte action è quindi sostanzialmente promossa sul versante horror, fermo che il sottotesto narrativo e la realizzazione di insieme sono il vero piatto forte del numero. 
- Finale: il numero 6 di Dragonero - il ribelle è sontuoso e rappresenta il perfetto omaggio all'amatissimo personaggio femminile principale di questa serie. Del resto il numero 6 "è donna", come diceva Dante Alighieri intervistato dal settimanale Chi sul canto 6 di Inferno, Purgatorio e Paradiso. Sera è quindi qui al contempo descritta a 360 gradi, bambina, adolescente e donna, mai in modo scontato o banale, spesso seguendo una caratterizzazione tortuosa e asimmetrica, laddove per i classici la bellezza è solo simmetrica. I tre ottimi disegnatori coinvolti si esprimono al meglio della loro forma anche al di là della propria personale e accattivante interpretazione del character design di Sera. L'albo, che non si risparmia per quanto concerne tavole enormi e dettagliate, presenta magnifiche Splash - page di stampo paesaggistico come a pagina 16 e 42, nonché esaltanti splash page action, quasi da comics (con una tavola che si impone al centro "frantumando" in micro-pezzetti e buttando sullo sfondo la gabbia bonelliana), come quelle a pagina 68 e 72. L'impatto visivo generale è davvero notevole, il lato narrativo è ugualmente di spessore, al netto di una certa lentezza nella prima parte del racconto. Un numero molto buono, che apre anche a sviluppi futuri davvero accattivanti. 
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mercoledì 22 aprile 2020

The Thieves - la nostra recensione del sorprendente "Ocean 11 coreano" firmato Choi Dong-hoon


Esiste un diamante favoloso, la Lacrima del Sole, sul mercato nero quotato 20 milioni di dollari, ed è nelle mani di un leggendario e spietato super-criminale alla Kaiser Soze di nome Wei Kong (Ki Gook-seo), che governa occultamente Macao e ha agganci in tutto l'Oriente. Per rubare il prezioso gioiello un ladro ugualmente leggendario, Macao Park (Kim Yoon-seok, straordinario interprete di due classiche crime-story di Na Hong-jin Yellow Sea e The Chaser), mette insieme ben due super squadre di ladri. La squadra comprende due suoi ex-soci, la "mente" Popeye (Lee Jung-jae, visto nel romantico fantasy Il mare, che avrà un remake americani dal titolo La casa sul lago del tempo) e la scassinatrice Pepsee (Kim Hye-soo ), oltre a contare di due "acrobati", Zampano (Kim Soo-hyun) e Yenicall (Jun Ji-hyun) e di una esperta di travestimenti, Chewing-gum (Kim Kae-sook). La squadra cinese è capitanata da Chen (Simon Yam, visto in Election 1 e 2, capolavori crime-politici di Johnny To) e comprende la scassinatrice Julie (Angelica Lee, vista in The eye, il seminale horror dei Pang Bros.), e i rapinatori Andrew (Oh Dal-su, già visto nella celeberrima trilogia della vendetta di Park Chan-wook) e Jonny (Derek Tsang, visto in Eye 2). Questo mucchio selvaggio darà vita a un complesso furto che tra inseguimenti, sparatorie e acrobazie con funi lungo le pareti dei palazzi coinvolgerà un casinò e un Hotel di Wei Kong, trascinando del caos tutta la polizia e la criminalità di Macao. Riusciranno i ladri a coordinarsi, non essere scoperti e non fregarsi tra di loro il bottino?


Spettacolare. The Thieves, del 2012,  è senza dubbio uno dei migliori film di rapine che mi sia mai capitato di vedere. Ma come molti film coreani divenuti famosi anche in occidente è difficile inquadrare la pellicola "solo" in un genere di riferimento. Qui ci sono inseguimenti, sparatorie, acrobazie  e un articolatissimo piano criminale a più livelli, scatole cinesi, doppi giochi e tutto ciò che fa di un film di rapine un buon film di rapine, ma  c'è anche dell'altro. Si parla di sconfitta e rivalsa, si parla di fedeltà e libertà, passione e amore, si parla in modo disparato di famiglia. Lo si fa in termini generazionali, culturali ed etnici. Così prendiamo un personaggio apparentemente sbarazzino come Yenicall, la "Fujiko" del gruppo, interpretato da una attrice bella da mozzare il fiato e lo troviamo buffo e al contempo tragico nel suo essere una "poco di buono", una con tatuato sul piede "l'happy ending è la mia specialità. Scopriamo che è stata incarcerata per adulterio (essere amante di una persona sposata), che in Corea è un crimine, che fa la vamp ma tiene lontane le persone che sa potrebbero volerle bene, usa la sua sessualità e femminilità come uno strumento. Allo stesso modo Chewing-gum è una donna di mezza età buffa e autoritaria, sfiorita ma ancora romantica, che beve per non pensare ai problemi di comunicazione che ha con la figlia, che rinuncerebbe a tutto per essere di nuovo amata da qualcuno. Anche un personaggio apparentemente comico come Popeye nasconde qualcosa di diverso, più oscuro. Bastano pochi tratti, alcuni flashback e dialoghi apparentemente di contorno che raccontano gli eventi  a tappe, come flussi di coscienza, e scopriamo un sacco di cose, ci appassioniamo davvero ai nostri eroi, anche quando li troviamo di colpo vigliacchi, autodistruttivi, falsi. Nei 135 minuti del film c'è azione, divertimento ma anche dramma, i personaggi riescono a svilupparsi a 360 gradi e assumono una reale complessità. Da incorniciare e consegnare ai posteri la lunga sequenza del pre-finale, con scene di inseguimento dentro e fuori a dei palazzi, tra balconi, ascensori, ventilatori, proiettili, swat, criminali e cavi metallici con cui letteralmente "volare". Ma al contempo non è meno forte la scena al rallenty (simile in pare a quella di The Beast Stalker di Dante Lam, che in originale si chiamava proprio The Crash, in onore di un incidente stradale che diviene la chiave di lettura dell'intera pellicola) di un incidente d'auto, tragico e inaspettato, che arriva all'alba, con le gioiose insegne al neon del casinò che si spengono mentre la strada è ancora vuota, in attesa delle prime luci del giorno. The Thieves è un gioiello e dobbiamo ringraziare La Tuckerfilm e Cecchi Gori per l'home video. Vi consiglio spassionatamente di recuperarlo. 
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domenica 19 aprile 2020

La vedova Winchester - la nostra recensione post-datata


La vedova Winchester (una stupenda Helen Mirren), ultima titolare dell'impero economico del più grande costruttore di armi da fuoco e di pattini a rotelle al mondo, è pazza. Ha trasformato la sua mega-villa in un eterno set Lego con sempre nuove stanze che fa costruire o demolire h24 da un'impresa edile, farnetica di fantasmi di persone uccise dai fucili Winchester che incontra giornalmente, crede di essere maledetta e impone ai suoi ultimi parenti in vita, la nuora Marion (Sarah Snook, già vista bene in Jessabelle e nel tv drama Succession)  e il suo nipotino Henry (il piccolo Finn O'Prey), di non uscire mai dalla magione. Sta pure con in casa, pagato, Angus Sampson, che ha interpretato il cacciatore di fantasmi Tucker, di Specs e Tucker di Insidious, e qui pare interpretare il bis-nonno di Tucker, con lo stesso pallino per l'occulto. Insomma, per il Consiglio di Amministrazione della Winchester, futuro impero "anche" dei pattini a rotelle, la vedova ha perso le rotelle, va estromessa dai "soldi della ditta" e per questo debba essere quanto prima dichiarata pazza da parte di uno specialista. La vedova acconsente alla verifica ma designa per la sua stessa perizia un tipo strano, ombroso, con un passato difficile e una brutta dipendenza dal Laudano, il dottor Price (interpretato da  Jason Clarke, che ormai sguazza nell'horror mainstream come caratterista indispensabile, anche perché molto bravo a fare il pazzo). Il CdA risponde: "Ok, perché no?" e il buon Price, che già di suo vede allucinazioni h24 per lo "sballo da Laudano", viene mandato a villa Winchester a vedere se ci sono davvero i fantasmi che la vedova sostiene di vedere. Ci saranno davvero i fantasmi? 


In tempi in cui "si deve restare in casa" su Rai4 e Ray Play ci si può comunque divertire e imbattere in un film interessante quanto assurdo come La vedova Winchester. Un film diretto dai fratelli Spierig, i registi del brillante Daybreakers - l'ultimo vampiro, del buon Predestination e del non così orribile Saw Legacy, ma che mi era stato sconsigliato come la morte ai tempi dell'uscita in sala, facendomi salire a mille la voglia di vederlo. Così appena è uscito in home video sono andato a prenderlo approfittando di un'offerta, ma sono in realtà tornato a casa con La settima musa, che più o meno aveva la stessa copertina, mi dicono essere ugualmente brutto ma devo verificare. Aspettando che uscisse magari ex noleggio, ecco che te lo trovo su Rai4 e mi ci butto, consapevole dai trailer che sarà probabilmente una "baracconata deluxe" sul tema della casa stregata, in salsa vittoriana, a metà strada tra Haunting di Jan de Bont e I 13 spettri di Steve Back. Una pellicola "Deluxe", in un mare di film horror sempre più mezzi-indipendenti realizzati con tre lire e telecamera del cellulare (non dico "brutti", dico "per una volta qualcosa di diverso"), perché basata su una storia vera e famosissima, arricchita da un impianto scenografico davvero ricercato, sontuoso, realizzato con tutti i crismi estetici, benedetta da un cast di tutto rispetto che annovera anche Eamon Farren, distintosi nell'ultima serie di Twin Peaks. Una pellicola comunque "baraccona", con una concezione dell'horror prettamente escapista, da casa degli orrori da luna park, dove si guarda più alla quantità ludica dei jump-scare rispetto alla costruzione di quella sofferenza mentale e sottile di cui si sono fatti bandiera oggi Ari Aster, Jordan Peele, Guadagnino. Non siamo quindi molto distanti dal cinema, forse più prodotto che diretto, da James Wan, dove gli "spaventateli" vengono nobilitati da una qualità produttiva figlia dello stile Hammer. Da amante del genere in un horror, anche "da parco giochi",  mi appassiono alla costruzione degli ambienti e dei "mostri", dalla filosofia di fondo che muove l'ingranaggio. In questo La vedova Winchester, interpretando il mito della reale villa Winchester,  è molto interessante. La villa è una specie di calamita per gli spiriti, la vedova la usa per renderli manifesti e purificarli. Ogni stanza che viene creata è di fatto la riproduzione del luogo in cui è stato ucciso il fantasma e può fungere da amplificatore, per permettere il dialogo con lui, oppure da gabbia di contenimento, qualora l'entità non sia collaborativa. Se il fantasma viene aiutato a trascendere la stanza si abbatte e se ne costruisce una nuova, se il fantasma è violento la stanza viene sigillata con 13 chiodi diventando un "ecto-contenitore" (alla Ghostbusters), una prigione dalla quale cercherà di scappare. Le stanze sono collegate tra loro da un sistema di tubi con cui si può comunicare a distanza, sono piene di passaggi segreti, c'è una campana che suona a mezzanotte forse dividendo il tempo della giornata tra vivi e morti. L'impianto funziona anche dal punto di vista che ci siano i fantasmi e fosse tutta una allucinazione "condivisa", per i motivi sopra esposti nell'analisi della trama, tra lo psichiatra e la vedova. Il senso di colpa della vedova per essersi arricchiti vendendo armi si mischia bene al senso di colpa del medico, amplificato dalla sua dipendenza, di vivere sui dolori delle persone senza davvero avere la certezza di averle aiutate. Entrambi potrebbero sviluppare quella che in psicologia si chiama "follia a due", vedendo di fatto "spiriti". Una costruzione come la villa Winchester può poi scricchiolare e cadere se al suo interno c'è una entità spirituale furiosa, ma potrebbe avvenire lo stesso se la costruzione è perennemente sottoposta a lavori di demolizione e ricostruzione che ne minano la stabilità. Esiste un doppio binario interpretativo per tutto quello che vediamo e questo è davvero il fiore all'occhiello della pellicola. Se quanto finora esposto può essere affascinante, da "pepe" alla storia e allieta lo sguardo, il comparto narrativo sceglie in modo un po' pigro e poco coraggioso di ricalcare troppo situazioni già abusate nelle pellicole di genere e infila dentro pure un paio di supercazzole moleste. Visto con poco disincanto, seguendo le supercazzole, qualcuno potrebbe sostenere che il film punti ad avvalorare  l'american dream di poter sparare con un fucile ad ogni cosa, compresi i fantasmi. In un epoca in cui circola il Coronavirus e gli americani hanno deciso prima di saccheggiare i supermercati alimentari di svuotare le armerie, come se loro potessero con i fucili sparare anche ai virus, la cosa fa decisamente riflettere. Da un altro punto di vista e seguendo una diversa supercazzola, qualcuno può leggere questi fantasmi in larga parte come degli ipocriti, in quanto  morti per lo più in conflitto a fuoco alla pari, spesso durante eventi bellici, solo perché il loro fucile "funzionava meno bene di un Winchester". Come se avessero bevuto Pepsi per tutta la vita e in punto di morte scoprendo la Coca Cola, valutandola migliore ma non potendola più bere, andassero a prendersela con il CEO di Atlanta infestandogli casa. Se riuscite a schivare queste due supercazzole dandole il giusto peso, troverete ne La vedova Winchester un film horror più carino, un ottovolante ben confezionato anche se non travolgente, molto soddisfacente sul piano visivo e con ottimi attori coinvolti. Assolutamente non un capolavoro ma un discreto film per una serata scacciapensieri. 
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venerdì 10 aprile 2020

A dirty carnival - la nostra recensione di un classico gangster Movie coreano


Essere un gangster non è facile, serve impegno, fedeltà, avere mille occhi e zero punti deboli. Un gangster coreano "alla dirty carnival" deve in più impegnarsi in risse furiose ma senza "colpi letali", che la polizia poi si incazza e fa pagare le spese mediche alla gang. Deve poi stare tutto il giorno a giocare a nascondino con le gang rivali, distruggendo le rispettive sale da gioco e scappando via con il furgone. Deve entrare nelle case di chi non paga il pizzo e mettersi nel loro soggiorno in mutande a guardare la TV. Gli toccano gli incontri settimanali con il Boss in cui è obbligato a esibirsi al karaoke. Deve paradossalmente pagare il cibo della gang e l'affitto del "covo", perché i soldi non bastano mai. Specie in virtù di un assurdo sistema "gestionale" per cui se non ha uno "sponsor", una specie di finanziatore non-criminale, la fetta di ricavato dell'attività "criminosa standard" spetta al 90%, non trattabile, al capo, con tutti i picciotti che non hanno neanche i soldi per le mazze da baseball nuove. Poche botte, tasse da pagare, sponsor, karaoke, uniti a un apprendistato lunghissimo in cui si fa per anni poco più dell'attività di un buttafuori e se si "sale di livello" si rischia il carcere subito, senza passare dal via, con ancora le tasche mezze vuote... Insomma, non è Scarface!! Kim Byung-do (Jo In-sung) oltre a un promettente gangster vuole essere visto per questo come un ragazzone di 29 anni con la testa sulle spalle, tutto casa e famiglia, magari un buon partito per la sua ex compagna di classe che ora fa la commessa in un Feltrinelli coreano (Lee Bo-Young). Per questo decide di mettersi a nudo davanti al taccuino dell'amico di infanzia Min-Ho (Namkong Min), promettente sceneggiatore cinematografico, perché descriva al mondo, con realismo e passione, tutto quello che i film di gangster non mostrano. Questo porterà alla produzione di una pellicola che a tutti gli effetti sarà una specie di manifesto della "classe operaia gangster coreana" che subito suscita l'attenzione del narcisissimo mega-Boss di Kim Byung-do, il potente "presidente" Hwang (Chun Ho-Jin), bene intenzionato a far fare la carriera di attrice a sua figlia. 


A dirty carnival, già da tempo nel catalogo Cecchi Gori - Far East, è il distillato perfetto del thriller coreano di successo moderno, lo stesso che nel 2020 ha prodotto Parasite. Personaggi complessi tanto buffi quanto spietati, una storia libera di entrare e uscire dai limiti del "genere", molta azione, perfette scenografie e una scrittura articolata, mai banale. Ci si innamora presto dello sfigatissimo, romantico e finto-bullo Kim Byung-do. Ma il suo mondo tragicomico velocemente si fa tetro e senza uscita, relegandolo a un ruolo per lo più difficilissimo e ingrato di pedina senza futuro. Una pedina  circondata da pedine come lui, che ne vogliono prendere il posto e sono tutte condannate a stare lontanissimo dal re, con la sua mania del karaoke abbinato a canzoni "anima e core" coreane, in cui sono obbligati dal boss a cimentarsi quotidianamente, nel modo più stonato ma "impegnato" possibile. È un film kafkiano, l'afflato leggendario dell'etica e fedeltà  degli yakuza-samurai di Kitano è lontanissimo, la vita goduriosa ed esaltante, tra donne e soldi, dei malavitosi di Scorsese è ugualmente lontana. Si sta a soffrire ed esporsi per due soldi, pagare spese mediche a un avversario "picchiato troppo forte", pagare l'affitto del covo e ci si autoinfligge pure il karaoke, il "grande momento" della settimana. I 135 minuti volavo via in un attimo, gli interpreti sono davvero bravi e chi definisce A dirty carnival come uno dei migliori film coreani di sempre non sbaglia. C'è tutto dentro, dal melodramma all'action, e gli ingredienti sono sempre ben dosati. 
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lunedì 6 aprile 2020

Wolf warrior 2 - la Recensione del campione di incassi action cinese.



Wu Jing o se preferite "Jacky Wu" forse era un tempo semplicemente "un tizio che mena Brendan Fraser a inizio film" ne La mummia 3 nonché "il tizio che non so come si chiama di S.P.L" (da noi è arrivato solo SPL 2, con il nome Kill Zone e la presenza extra di Tony Jaa, presto arriverà SPL 3, per Blue Swan). Di sicuro era ed è un artista marziale da paura, con il pedigree, uno che come Jet Li ha fatto parte del Beijing Wushu Team, nonché un terza generazione di una famiglia di atleti marziali, ma mancava la grossa occasione per fare il botto, doveva arrivare il suo "periodo del lupo". Nel 2008, dopo che Jing partecipa come volontario della One Foundation per soccorrere le vittime del terremoto del Sichuan, il nostro, che continuerà una carriera di "solo attore" un po' su e giù, si fa notare con Wolf Fang (conosciuto anche come Legendary Assassin) di cui è protagonista e anche regista e tornerà regista e interprete con il mega successo Wolf Warrior, del 2015, e con questo Wolf Warrior 2, del 2017, uno dei più apocalittici successi della cinematografia cinese action. Uscito poco prima del similare Operation Red Sea di Dante Lam, Wolf Warrior 2 eleva ed esagera così tanto, ma così tanto, il tema del "machismo supereroistico del super soldato cinese standard", incarnato in Wu Jing stesso, che i cinema esplodono. I numeri di botteghino sono così alti e il militarismo "sbarazzino" esibito così anni '80 che per evitare che Wu Jing realizzi Wolf Warrior 3, riconfermandosi eroe nazionale e conseguentemente certo candidato a nuovo leader unico di tutta la Cina per consenso popolare, gli bloccano la produzione. Storia "quasi" vera, anche se suona come una supercazzola. 
Ma cosa ha di speciale e così follemente contagioso questo Wolf Warrior 2?


Wolf Warrior (da noi stranamente inedito) era un film su un manipolo di super-soldati impegnato in estreme azioni anti-terroristiche contro un villain cattivissimo e occidentale, interpretato da Scott Adkins.
Wolf Warrior 2 mette da parte la super squadra per concentrarsi sulle gesta del solo super soldato Leng Feng (Wu Jing stesso), eroe dai contorni apocalittici a metà strada tra Rambo e Piedone l'Africano. Feng, che è simpaticissimo, fortissimo combattente a mani nude, irresistibilissimo giocatore di Beach Volley, raffinato sociologo multiculturale, grande campione di bevute tra amici, sub provetto, eccelso pilota di ogni veicolo nonché sorprendente culturista coperto da shampoo Baby Johnson, si trova a ricercare in lungo e in largo per l'Africa il proprietario di uno strano proiettile levigato a mano. Quel villanzone è l'artefice dell'omicidio della sua bella, super-soldatessa pure lei, uccisa mentre Feng era in carcere per una "questione di onore e rispetto militare" (che scopriremo ad inizio pellicola). Ben presto il nostro eroe finisce per essere coinvolto nel salvataggio di un medico virologo (che ovviamente è una figa da paura, Celine Jade, sventola da Wu Jing scoperta in Wolf Fang), poi di un'intera fabbrica a conduzione mista cinese-africana, intraprendendo una guerra personale contro un villain che è di nuovo cattivissimo e occidentale, questa volta con il volto del bravo e simpatico Frank Grillo (La notte del giudizio, Captain America Winter Soldier e Skyline Beyond). Un mercenario spietato al comando di un manipolo di mercenari spietati, per lo più occidentali e caratterizzati quanto i cattivi dei G.I.Joe, tra cui figurano il gigantesco wrestler Oleg Prudius (di recente visto in Fast 8 e John Wick 2) e la fantastica Heidy Moneymaker (la stunt di Scarlet Johansson quando fa Vedova Nera, ma pure di Ruby Rose in John Wick 2).


La trama, che sorprendentemente ha un mare di similitudini con il Tolo Tolo di Checco Zalone,  è un semplice pretesto per montare in serie una lunga fila di scene d'azioni spettacolari, spesso sanguinolente quanto un Mortal Kombat, in cui il nostro eroe picchia, guida cose, nuota, spara, pugnala e fissa l'infinito con sguardo figo e pettorale lucente e unticcio. Infarcita di patriottismo ma ogni tanto non aliena a registri più leggeri, la trama a volte presenta dei pazzeschi momenti nonsense, come quando per salvarsi da degli infetti-zombie Feng gli distribuisce del ramen liofilizzato e loro vanno via contenti. L'azione è pazzesca, a partire dall'iniziale piano sequenza che segue il nostro eroe immergersi in mare, ribaltare una barchetta di pirati, combattere contro loro sott'acqua fino a legarli con filo di acciaio, riemergere, salire sulla loro barchetta, prendere un bazooka e con quello sparare a un'altra barchetta di pirati con il missile che viene sparato verso là telecamere come un James Bond. Wow!! La lunga scena dell'inseguimento in auto che coinvolge Heidy Moneymaker in una serie di salti con la moto e atterraggi su jeep in corsa è da paura. Tutto il film è zeppo di azione a rotta di collo, il volume di fuoco riesce quasi a superare Commando con Schwarzenegger e le arti marziali si esprimono con classe quanto a volte con una potenza "cartoon" tale da rivaleggiare con i film di Bud Spencer.  Frank Grillo gigioneggia nel ruolo di un cattivo così cattivo da non avere neanche un nome, nei titoli di coda definito "Big Daddy" come "il più cattivo dei mostri" in uno zombie Movie classico. Fa il suo lavoro alla grande e gli vogliamo bene, Frank dovrebbe essere più sfruttato al cinema.
Wolf Warrior 2 arriva come graditissima sorpresa nel catalogo degli Originals di Blue Swan, una serie di opere di grande successo all'estero e nei festival, ma in Italia poco conosciute, che stiamo imparando ad amare. È un action travolgente ed adrenalinico, con una trama un po' assurda e semplicistica ma tanta voglia di farvi divertire, sobbalzare sulla poltrona e elogiare un artista marziale ingiustamente ancora poco noto. Una bella giostra su cui farci un giro, a mente spenta e tutta adrenalina. 
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giovedì 2 aprile 2020

Era mio figlio (The last full measure): la nostra recensione



A breve distanza di tempo abbiamo avuto in sala molti film che hanno trattato il tema della guerra. In 1917 avevamo una prima guerra mondiale epica e terribile come una favola oscura della buona notte, raccontata da un nonno che l'aveva vissuta al nipote, il regista Sam Mendes, per poi essere tradotta sullo schermo tra scenografie e musiche fantasy-dantesche. Nel racconto ci immergevamo quasi in prima persona nell'inferno delle trincee, tra sangue, fango, topi e acuminate recinzioni di filo spinato, per un paio d'ore che riproducevano la piccola ma grande impresa di due soldati inglesi, in Francia, in un giorno di primavera del 1917. Altro scenario, in Jojo Rabbit eravamo nel 1945 e avevamo una seconda guerra mondiale vissuta dagli occhi di un bambino tedesco di dieci anni che aveva come amico immaginario un Adolf Hitler che volava fuori dalle finestre come Peter Pan e mangiava unicorni. A rendere ancora più surreale la vita di Jojo è la paura per gli ebrei. Non li ha mai visti ma glieli hanno raccontati terribili e misteriosi, fino anche nella sua immaginazione sono apparsi come mostruosi alieni che strisciano dietro le "f**ken" pareti, alla Alien (poi l'allucinazione si scontra con la realtà, Jojo arriva ad un nuovo punto di vista e la pellicola diventava seria, toccante, adulta). Ora siamo nel 1999, quando si riapre una causa sull'onorificenza negata a un soldato dell'aeronautica, William Pitsenbarger (Jeremy Irvine) che, ci viene raccontato, salvò le vite di 13 "soldati del fango" della Compagnia Charlie del Primo Fanteria, nel Vietnam, durante l'operazione/massacro di Abilene,  del 1966. Questa volta la guerra prende la forma di un racconto vago e lontano per i più, che i giovani non conoscono e i vecchi vertici militari vogliono insabbiare per nascondere una brutta figura di chi era al comando. Ma al contempo il conflitto è ancora un incubo presente per i reduci, che può trovare un "senso" e parziale compensazione in una Medal of Honor, la più grande onorificenza militare, che viene assegnata (sulla base di racconti che assurgono a prove) come testimonianza di impegno e sacrificio. È una questione di rispetto per il sacrificio voluto dalla patria, null'altro. Anche nei videogame che simulano situazioni di guerra, oggi spesso ci sono momenti di gioco in cui tutto si ferma e i giocatori "rispettano i caduti", premendo un comando davanti a un feretro, che diventa un gesto di empatia. Per alcuni è un momento videoludico solo pretestuoso, ma credo sia importante che ci sia, in un possibile dialogo intergenerazionale dove i giochi simulano conflitti reali, è qualcosa che mi colpisce positivamente e il motivo del titolo e filmato, apparentemente per qualcuno assurdi, in apertura di questo paragrafo: il riconoscimento della memoria. 


I reduci dipinti da Era mio figlio sono uomini infranti, qualche vota distrutti dal disturbo post traumatico. Vivono di notte per paura degli incubi, trovano nella società civile solo lavori ai margini, preferiscono estraniarsi dal mondo e dal presente, vivere da pescatori, da eremiti, in eterno lutto. Qualcuno di loro cerca di superare emotivamente quella guerra, torna in Vietnam per aiutare i reduci che non hanno ancora metabolizzato quegli avvenimenti e continuano ad aggirarsi come fantasmi tra quei luoghi. Proprio su questo ultimo aspetto il film compie una riflessione per me molto interessante. C'è un mantra, bello ma difficile, che segna come un filo rosso tutto il senso della pellicola, recitando più o meno così: "Non è stata la guerra a creare queste persone (i reduci), la guerra è stata solo un brutto avvenimento che è accaduto loro". C'è una scena molto bella ambientata in Vietnam, nella seconda parte della pellicola (anche se è stata girata in Thailandia ma non formalizziamo), in cui il protagonista del film (Sebastian "Winter Soldier" Stan), un giovane civile che lavora al ministero della Difesa a cui è assegnato il compito di indagare per la medaglia, ritorna proprio nel luogo dove Pitsenbarger si è sacrificato. Un reduce che ora vive in Vietnam ha trasformato quel luogo in una paradisiaca riserva di farfalle, l'ha rinominato "Avalon", di fatto sovrascrivendo la memoria di quel luogo, dandogli una luce e un significato nuovo.  Quest'uomo parla di Pits (lo scrivo abbreviato come viene usato anche nella pellicola, parlo sempre di Pitsenbarger) come di un angelo che era sceso dal cielo per salvare persone come lui e quando ci arriva questa chiave di lettura il flashback con Pits che scende dall'elicottero con la fune viene ripetuto con una luce diversa, più spirituale. Allo stesso modo (direbbero persone più esperte di me) si deve cercare di voltare pagina, di smettere di considerare se stessi solo in ragione di un fatto traumatico che ci ha segnato, partendo da una nuova lettura dello stesso. L'immagine dello scenario di guerra viene dalla pellicola annientata da farfalle e angeli che si sovrappongono a essa, idealmente e storicamente. È un tassello di una (infinita e difficile) ricerca di purificazione dell'anima, la strada che percorrono i personaggi della pellicola, un percorso che parte dal riconoscimento all'interno di quel contatto traumatico, di un gesto buono, altruista, umano. Un rischio eroico davanti a cui solo Pits ha risposto. L'unica luce da salvare in una battaglia orribile e insensata, che era già persa in partenza per dei motivi strategici, che poi andranno a comporre il "mistery" dietro alla tardiva assegnazione della Medal of Honor. I reduci vogliono che Pits sia riconosciuto almeno lui, tra tutti loro, come "eroe", nel quadro di un lungo periodo di "imbarazzo e fastidio" sociale che storicamente investiva chi tornava dal Vietnam (Rambo docet). Non vanno in cerca di medaglie per loro gloria personale e questo è molto umano, rimanda anche a uno specifico (bel) momento in cui si discute del "valore di una medaglia" nel 1917 di Mendes. Allo stesso modo non si parla dei motivi del conflitto nel Vietnam in sé, quanto di devozione militare: il titolo originale The Last full measure è un celebre passaggio di un discorso di Lincoln dopo la battaglia di Gettysburg, in cui si elogiava come i soldati avessero nello scontro dimostrato "la misura più piena ed estrema" di devozione per il loro paese. Il titolo italiano Era mio figlio sembra mettere al centro delle vicende i genitori di Pits più del risicatissimo tempo che hanno sulla scena, ma può leggersi anche come un omaggio a We are soldier once... and young (celebre libro del Generale Moore, adattato anche sullo schermo da Mel Gibson) nel senso di celebrare il valore dei "figli d'America" che morirono giovani che una guerra voluta dalla loro patria. 


Come in Full Metal Jacket il nemico in scena più riconoscibile è una donna, una signora sui quarant'anni agguerrita che dà una pedata ai soldati americani che si fingono morti sul prato con la stessa convinzione di una mamma che da una pedata al figlio ancora a letto alle 11 di mattina dopo una notte brava. Gli altri vietcong che si ricordano per caratterizzazione sono un paio di sentinelle sedute con le gambette a ciondoloni e infradito a un albero di bambù e c'è davvero poco altro al di là di figurini asiatici tutti uguali con il cappellino a triangolo in testa e pantaloncini che sparano con vecchi fucilini.
Il film non punta a una rappresentazione credibilmente strategica o scenografica della battaglia, predilige le forza delle parole e dell'immaginario a un'azione ripresa sempre rapida, confusa e per pochi fotogrammi. Si poteva forse fare di più in questo senso, perché l'atto di eroismo era centrale nella messa in scena e forse risulta fuori fuoco. Se i protagonisti delle vicende descrivevano la situazione come un inferno, forse si poteva farci vedere più fiamme, anche se sono stati scelti degli ottimi attori per rappresentare i reduci della Charlie e la sceneggiatura risulta accorta, in grado di caratterizzarli bene con pochi tratti. Ci si commuove per l'ultima interpretazione di Peter Fonda, nel ruolo di un reduce con disturbo post traumatico misterioso e nottambulo, personaggio che viene abilmente "costruito" anche quando non è in scena (l'attore era già molto debilitato), attraverso la moglie interpretata dalla bravissima Amy Madigan. I genitori di Pitsenbarger sono interpretati con misura da Christopher Plummer e Diane Ladd, una coppia silenziosa e dolente che è morta il giorno che è scomparso il figlio, che vive solo di ricordi. Samuel Jackson è sorprendente nel suo ruolo meno da Samuel Jackson di sempre, un uomo stanco e scarico, con una camminata malferma e con una espressività contenuta. Ed Harris è fisicamente e a livello recitativo uguale a Terence Hill, pure nella voce, giuro, non che sia un peccato. Il cast è ricchissimo e pure se un po' stretti troviamo anche William Hurt e molti altri bravi attori. 
Peccato che sul finale la costruzione narrativa perda di mordente. Manca un vero conflitto emotivo, manca un'immagine forte come quella delle farfalle, le scene di guerra sono risicate, pure il personaggio di Fonda si ridimensiona e ci troviamo un po' nel classico film del pomeriggio di rete quattro (dove peraltro sta pure il nuovo ultra-enfatico Il diritto di opporsi con Michael B.Jordan). E allora ci si ricorda che il regista Todd Robinson come top è stato lo sceneggiatore di Albatros di Ridley Scott e poco altro, che questo film è interessante, ha i suoi momenti, ma ha una natura più televisiva che cinematografica. La regia non riesce a far esplodere il ricco potenziale di attori, tematiche e paesaggi, ci si chiede cosa ne avrebbe fatto Clint Eastwood, che con Richard Jewel aveva molto meno materiale narrativo ma è riuscito a creare un film più dinamico e intrigante (merito anche di un divertente Sam Rockwell, una dolce Katie Bates, una intrigante Olivia Wilde e uno strepitoso, tenerissimo Paul Walter Hauser). Anche Todd Robinson qui ha un sacco di bravi attori, ma li fa giostrare un po' troppo poco e si perde dietro al faccione di quel pupazzone poco coinvolgente ed espressivo di Sebastian Stan o alle faccette di un Bradley Whitford funzionale ma un po' macchietta. Gli scenari del Vietnam girati in Thailandia sono molto belli e rigogliosi (pure troppo per essere "un inferno"), belle le scene notturne collegate al personaggio di Peter Fonda.
Era mio figlio è un film sul riconoscimento del valore di un soldato, che si eleva a riconoscimento morale del valore di chi va a combattere una guerra senza mai davvero "tornare a casa", anche dopo anni che il conflitto si è chiuso. Ci sono alcuni ottimi interpreti, interessanti soluzioni narrative e ricche scenografie. Poco sviluppato il lato action, un po' depotenziato il finale, il ritmo generale è un po' lento.
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