Essere un gangster non è facile, serve impegno, fedeltà, avere mille occhi e zero punti deboli. Un gangster coreano "alla dirty carnival" deve in più impegnarsi in risse furiose ma senza "colpi letali", che la polizia poi si incazza e fa pagare le spese mediche alla gang. Deve poi stare tutto il giorno a giocare a nascondino con le gang rivali, distruggendo le rispettive sale da gioco e scappando via con il furgone. Deve entrare nelle case di chi non paga il pizzo e mettersi nel loro soggiorno in mutande a guardare la TV. Gli toccano gli incontri settimanali con il Boss in cui è obbligato a esibirsi al karaoke. Deve paradossalmente pagare il cibo della gang e l'affitto del "covo", perché i soldi non bastano mai. Specie in virtù di un assurdo sistema "gestionale" per cui se non ha uno "sponsor", una specie di finanziatore non-criminale, la fetta di ricavato dell'attività "criminosa standard" spetta al 90%, non trattabile, al capo, con tutti i picciotti che non hanno neanche i soldi per le mazze da baseball nuove. Poche botte, tasse da pagare, sponsor, karaoke, uniti a un apprendistato lunghissimo in cui si fa per anni poco più dell'attività di un buttafuori e se si "sale di livello" si rischia il carcere subito, senza passare dal via, con ancora le tasche mezze vuote... Insomma, non è Scarface!! Kim Byung-do (Jo In-sung) oltre a un promettente gangster vuole essere visto per questo come un ragazzone di 29 anni con la testa sulle spalle, tutto casa e famiglia, magari un buon partito per la sua ex compagna di classe che ora fa la commessa in un Feltrinelli coreano (Lee Bo-Young). Per questo decide di mettersi a nudo davanti al taccuino dell'amico di infanzia Min-Ho (Namkong Min), promettente sceneggiatore cinematografico, perché descriva al mondo, con realismo e passione, tutto quello che i film di gangster non mostrano. Questo porterà alla produzione di una pellicola che a tutti gli effetti sarà una specie di manifesto della "classe operaia gangster coreana" che subito suscita l'attenzione del narcisissimo mega-Boss di Kim Byung-do, il potente "presidente" Hwang (Chun Ho-Jin), bene intenzionato a far fare la carriera di attrice a sua figlia.
A dirty carnival, già da tempo nel catalogo Cecchi Gori - Far East, è il distillato perfetto del thriller coreano di successo moderno, lo stesso che nel 2020 ha prodotto Parasite. Personaggi complessi tanto buffi quanto spietati, una storia libera di entrare e uscire dai limiti del "genere", molta azione, perfette scenografie e una scrittura articolata, mai banale. Ci si innamora presto dello sfigatissimo, romantico e finto-bullo Kim Byung-do. Ma il suo mondo tragicomico velocemente si fa tetro e senza uscita, relegandolo a un ruolo per lo più difficilissimo e ingrato di pedina senza futuro. Una pedina circondata da pedine come lui, che ne vogliono prendere il posto e sono tutte condannate a stare lontanissimo dal re, con la sua mania del karaoke abbinato a canzoni "anima e core" coreane, in cui sono obbligati dal boss a cimentarsi quotidianamente, nel modo più stonato ma "impegnato" possibile. È un film kafkiano, l'afflato leggendario dell'etica e fedeltà degli yakuza-samurai di Kitano è lontanissimo, la vita goduriosa ed esaltante, tra donne e soldi, dei malavitosi di Scorsese è ugualmente lontana. Si sta a soffrire ed esporsi per due soldi, pagare spese mediche a un avversario "picchiato troppo forte", pagare l'affitto del covo e ci si autoinfligge pure il karaoke, il "grande momento" della settimana. I 135 minuti volavo via in un attimo, gli interpreti sono davvero bravi e chi definisce A dirty carnival come uno dei migliori film coreani di sempre non sbaglia. C'è tutto dentro, dal melodramma all'action, e gli ingredienti sono sempre ben dosati.
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