A breve distanza di tempo abbiamo avuto in sala molti film che hanno trattato
il tema della guerra. In 1917 avevamo una prima guerra mondiale epica e
terribile come una favola oscura della buona notte, raccontata da un nonno che
l'aveva vissuta al nipote, il regista Sam Mendes, per poi essere tradotta
sullo schermo tra scenografie e musiche fantasy-dantesche. Nel racconto ci
immergevamo quasi in prima persona nell'inferno delle trincee, tra sangue,
fango, topi e acuminate recinzioni di filo spinato, per un paio d'ore che
riproducevano la piccola ma grande impresa di due soldati inglesi, in Francia,
in un giorno di primavera del 1917. Altro scenario, in Jojo Rabbit eravamo nel
1945 e avevamo una seconda guerra mondiale vissuta dagli occhi di un bambino
tedesco di dieci anni che aveva come amico immaginario un Adolf Hitler che
volava fuori dalle finestre come Peter Pan e mangiava unicorni. A rendere
ancora più surreale la vita di Jojo è la paura per gli ebrei. Non li ha mai
visti ma glieli hanno raccontati terribili e misteriosi, fino anche nella sua
immaginazione sono apparsi come mostruosi alieni che strisciano dietro le
"f**ken" pareti, alla Alien (poi l'allucinazione si scontra con la
realtà, Jojo arriva ad un nuovo punto di vista e la pellicola diventava seria, toccante, adulta). Ora siamo nel 1999, quando si riapre una causa
sull'onorificenza negata a un soldato dell'aeronautica, William Pitsenbarger (Jeremy Irvine) che, ci viene raccontato, salvò le vite di 13 "soldati
del fango" della Compagnia Charlie del Primo Fanteria, nel Vietnam,
durante l'operazione/massacro di Abilene, del 1966. Questa volta la
guerra prende la forma di un racconto vago e lontano per i più, che i giovani
non conoscono e i vecchi vertici militari vogliono insabbiare per nascondere una
brutta figura di chi era al comando. Ma al contempo il conflitto è ancora un
incubo presente per i reduci, che può trovare un "senso" e parziale
compensazione in una Medal of Honor, la più grande onorificenza militare, che
viene assegnata (sulla base di racconti che assurgono a prove) come
testimonianza di impegno e sacrificio. È una questione di rispetto per il
sacrificio voluto dalla patria, null'altro. Anche nei videogame che simulano
situazioni di guerra, oggi spesso ci sono momenti di gioco in cui tutto si
ferma e i giocatori "rispettano i caduti", premendo un
comando davanti a un feretro, che diventa un gesto di empatia. Per alcuni
è un momento videoludico solo pretestuoso, ma credo sia importante che ci sia,
in un possibile dialogo intergenerazionale dove i giochi simulano conflitti
reali, è qualcosa che mi colpisce positivamente e il motivo del titolo e
filmato, apparentemente per qualcuno assurdi, in apertura di questo
paragrafo: il riconoscimento della memoria.
I reduci
dipinti da Era mio figlio sono uomini infranti, qualche vota
distrutti dal disturbo post traumatico. Vivono di notte per paura degli incubi,
trovano nella società civile solo lavori ai margini, preferiscono estraniarsi
dal mondo e dal presente, vivere da pescatori, da eremiti, in eterno lutto.
Qualcuno di loro cerca di superare emotivamente quella guerra, torna in Vietnam
per aiutare i reduci che non hanno ancora metabolizzato quegli avvenimenti e
continuano ad aggirarsi come fantasmi tra quei luoghi. Proprio su questo ultimo
aspetto il film compie una riflessione per me molto interessante. C'è un
mantra, bello ma difficile, che segna come un filo rosso tutto il senso
della pellicola, recitando più o meno così: "Non è stata la guerra a
creare queste persone (i reduci), la guerra è stata solo un brutto avvenimento
che è accaduto loro". C'è una scena molto bella ambientata in Vietnam,
nella seconda parte della pellicola (anche se è stata girata in Thailandia ma
non formalizziamo), in cui il protagonista del film (Sebastian "Winter
Soldier" Stan), un giovane civile che lavora al ministero della Difesa a cui
è assegnato il compito di indagare per la medaglia, ritorna proprio nel luogo
dove Pitsenbarger si è sacrificato. Un reduce che ora vive in Vietnam ha
trasformato quel luogo in una paradisiaca riserva di farfalle, l'ha rinominato
"Avalon", di fatto sovrascrivendo la memoria di quel luogo, dandogli
una luce e un significato nuovo. Quest'uomo parla di Pits (lo scrivo
abbreviato come viene usato anche nella pellicola, parlo sempre di
Pitsenbarger) come di un angelo che era sceso dal cielo per salvare persone
come lui e quando ci arriva questa chiave di lettura il flashback con Pits che
scende dall'elicottero con la fune viene ripetuto con una luce diversa, più
spirituale. Allo stesso modo (direbbero persone più esperte di me) si deve
cercare di voltare pagina, di smettere di considerare se stessi solo in ragione
di un fatto traumatico che ci ha segnato, partendo da una nuova lettura dello
stesso. L'immagine dello scenario di guerra viene dalla pellicola annientata da farfalle e angeli che si sovrappongono a essa, idealmente e
storicamente. È un tassello di una (infinita e difficile) ricerca di
purificazione dell'anima, la strada che percorrono i personaggi della
pellicola, un percorso che parte dal riconoscimento all'interno di quel
contatto traumatico, di un gesto buono, altruista, umano. Un rischio eroico
davanti a cui solo Pits ha risposto. L'unica luce da salvare in una battaglia
orribile e insensata, che era già persa in partenza per dei motivi
strategici, che poi andranno a comporre il "mistery" dietro
alla tardiva assegnazione della Medal of Honor. I reduci vogliono che Pits sia
riconosciuto almeno lui, tra tutti loro, come "eroe", nel quadro di
un lungo periodo di "imbarazzo e fastidio" sociale che storicamente
investiva chi tornava dal Vietnam (Rambo docet). Non vanno in cerca di
medaglie per loro gloria personale e questo è molto umano, rimanda anche a uno
specifico (bel) momento in cui si discute del "valore di una
medaglia" nel 1917 di Mendes. Allo stesso modo non si parla dei motivi del
conflitto nel Vietnam in sé, quanto di devozione militare: il titolo
originale The Last full measure è un celebre passaggio di un
discorso di Lincoln dopo la battaglia di Gettysburg, in cui si elogiava come i
soldati avessero nello scontro dimostrato "la misura più piena ed
estrema" di devozione per il loro paese. Il titolo italiano Era mio
figlio sembra mettere al centro delle vicende i genitori di Pits più del
risicatissimo tempo che hanno sulla scena, ma può leggersi anche come un
omaggio a We are soldier once... and young (celebre libro del
Generale Moore, adattato anche sullo schermo da Mel Gibson) nel senso di
celebrare il valore dei "figli d'America" che morirono giovani che
una guerra voluta dalla loro patria.
Come in Full Metal Jacket il nemico in scena più riconoscibile è una donna,
una signora sui quarant'anni agguerrita che dà una pedata ai soldati americani
che si fingono morti sul prato con la stessa convinzione di una mamma che da
una pedata al figlio ancora a letto alle 11 di mattina dopo una notte brava.
Gli altri vietcong che si ricordano per caratterizzazione sono un paio di
sentinelle sedute con le gambette a ciondoloni e infradito a un albero di bambù
e c'è davvero poco altro al di là di figurini asiatici tutti uguali con il
cappellino a triangolo in testa e pantaloncini che sparano con vecchi fucilini.
Il
film non punta a una rappresentazione credibilmente strategica o scenografica
della battaglia, predilige le forza delle parole e dell'immaginario a un'azione ripresa sempre rapida, confusa e per pochi fotogrammi. Si poteva forse
fare di più in questo senso, perché l'atto di eroismo era centrale nella messa
in scena e forse risulta fuori fuoco. Se i protagonisti delle vicende
descrivevano la situazione come un inferno, forse si poteva farci vedere più
fiamme, anche se sono stati scelti degli ottimi attori per rappresentare i
reduci della Charlie e la sceneggiatura risulta accorta, in grado di caratterizzarli
bene con pochi tratti. Ci si commuove per l'ultima interpretazione di Peter
Fonda, nel ruolo di un reduce con disturbo post traumatico misterioso e
nottambulo, personaggio che viene abilmente "costruito" anche quando non è in scena (l'attore era già molto debilitato), attraverso la
moglie interpretata dalla bravissima Amy Madigan. I genitori di Pitsenbarger
sono interpretati con misura da Christopher Plummer e Diane Ladd, una coppia
silenziosa e dolente che è morta il giorno che è scomparso il figlio, che vive
solo di ricordi. Samuel Jackson è sorprendente nel suo ruolo meno da Samuel
Jackson di sempre, un uomo stanco e scarico, con una camminata malferma e con
una espressività contenuta. Ed Harris è fisicamente e a livello recitativo
uguale a Terence Hill, pure nella voce, giuro, non che sia un peccato. Il cast
è ricchissimo e pure se un po' stretti troviamo anche William Hurt e molti
altri bravi attori.
Peccato
che sul finale la costruzione narrativa perda di mordente. Manca un vero
conflitto emotivo, manca un'immagine forte come quella delle farfalle, le scene
di guerra sono risicate, pure il personaggio di Fonda si ridimensiona e ci
troviamo un po' nel classico film del pomeriggio di rete quattro (dove
peraltro sta pure il nuovo ultra-enfatico Il diritto di opporsi con
Michael B.Jordan). E allora ci si ricorda che il regista Todd Robinson
come top è stato lo sceneggiatore di Albatros di Ridley Scott e
poco altro, che questo film è interessante, ha i suoi momenti, ma ha una natura
più televisiva che cinematografica. La regia non riesce a far esplodere il
ricco potenziale di attori, tematiche e paesaggi, ci si chiede cosa ne avrebbe
fatto Clint Eastwood, che con Richard Jewel aveva molto meno materiale
narrativo ma è riuscito a creare un film più dinamico e intrigante (merito
anche di un divertente Sam Rockwell, una dolce Katie Bates, una intrigante
Olivia Wilde e uno strepitoso, tenerissimo Paul Walter Hauser). Anche Todd
Robinson qui ha un sacco di bravi attori, ma li fa giostrare un po' troppo poco
e si perde dietro al faccione di quel pupazzone poco coinvolgente ed espressivo
di Sebastian Stan o alle faccette di un Bradley Whitford funzionale ma un po'
macchietta. Gli scenari del Vietnam girati in Thailandia sono molto belli e
rigogliosi (pure troppo per essere "un inferno"), belle le scene
notturne collegate al personaggio di Peter Fonda.
Era mio
figlio è un film sul riconoscimento del valore di un soldato, che si eleva a
riconoscimento morale del valore di chi va a combattere una guerra senza mai
davvero "tornare a casa", anche dopo anni che il conflitto si è
chiuso. Ci sono alcuni ottimi interpreti, interessanti soluzioni narrative e
ricche scenografie. Poco sviluppato il lato action, un po' depotenziato il
finale, il ritmo generale è un po' lento.
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