sabato 16 marzo 2024

Povere Creature! (Poor Things!): la nostra recensione del nuovo film di Yorgos Lanthimos, trionfatore agli Oscar, con protagonisti Emma Stone, Mark Ruffalo e Willem Dafoe

 


Ci troviamo in una sgargiante Londra blu notte, nell’epoca vittoriana di un mondo alternativo, tra macchine a vapore, dirigibili e novelli Prometeo. 

Una donna bellissima, aristocratica  e misteriosa, in un bellissimo e sgargiante abito blu da sera (Emma Stone), si getta da un ponte nelle fredde acque dei Tamigi. 

Ritroviamo subito dopo sulla scena una donna uguale a lei, di nome Bella Baxter, viva, ma dall’atteggiamento del tutto incompatibile a prima, eccentrico e quasi infantile.

Ama sporcarsi il volto con ogni genere di cosa, correre su e giù, giocare con piccoli animaletti anche in modi crudeli e fare i capricci con il cibo. Spesso ha in mano armi da taglio e indossa vestitini sporchi di terra. 

Questa donna non la vediamo più muoversi in una Londra sgargiante e colorata ma in un surreale piccolo mondo in bianco e nero, dai contorni dell’immagine “sbordati”: esteticamente ci sentiamo di colpo proiettati nell’atmosfera degli horror delle Hammer degli anni '50 e al contempo ci pare di scrutare attraverso l’immagine di una antica telecamera medica per laparoscopie degli anni '70. Stiamo forse assistendo “clinicamente” alla nascita di una creatura fantastica. 

Questa Bella si trova nella sfarzosa e immensa villa di un eccentrico e imponente figuro, uno scienziato con il volto e il corpo rappezzato e ricucito come un puzzle umano, dall’aria buona ma dalla voce quasi atona, che la ragazza chiama “God” (Willem Dafoe): un “God” che pur essendo il diminutivo di un nome, Godwin, in italiano si può tradurre come “Dio”. 

Il dottor Godwin Baxter, da perfetto ed elegante “scienziato pazzo” vittoriano, seziona cadaveri e qualche volta li ricompone cercando di “riportarli in vita”, conservando l’immagine pubblica di stimato docente di una rinomata facoltà di medicina. 

In facoltà insegna e redarguisce sui limiti della chirurgia, nel tempo libero crea, tagliando e ricucendo, ibridi con la testa di una papera e il corpo di un cane: piccole povere creature ibride che gironzolano indisturbate nel suo parco. Lo stesso corpo a mosaico di God, a sua volta, sembra essere stato “ricomposto” da qualcun altro: è fragile e percorso da continui dolori e per essere conservato al meglio ogni tanto deve essere collegato a degli enormi macchinari. Come effetto collaterale e surreale qualche volta l’uomo-mosaico, con uno strano rumore, riesce ad emettere dalla bocca  quelle che sembrano enormi bolle di sapone. 


God guarda a Bella come lo farebbe un buon genitore, anche se ha decisamente dei brutti ricordi di chi lo è stato per lui: di fatto sente di aver contribuito attivamente alla nascita della ragazza, anche se in un modo incredibile e per la scienza quasi impossibile. Ma prima di ogni cosa le è affezionato. 

Bella ricambia a suo modo, pur essendo involuta nei modi e nell’eloquio come una bambina piccola. Scostante nelle emozioni, passa da felicità a ira in pochi secondi. È lunare nell’approcciarsi alle cose ma soprattutto agli altri esseri viventi, come se non distinguesse il gioco dalla violenza, non afferrando la differenza della vita dalla morte. Spesso è autolesionista, più per la curiosità spericolata di scoprire il suo corpo e i suoi limiti che nel trovare piacere nel dolore. 

Questa strana donna-bambina sta crescendo in fretta in pochi giorni e in modo sempre più bizzarro, così “il suo God” ha bisogno di un aiuto esterno. 

Un aiuto che potrebbe essere offerto dallo studente di medicina  Max McCandles (Ramy Youssef), un uomo posato e attento, premuroso quanto sensibile nell’annotare nel suo taccuino ogni singola variazione fisica e caratteriale di Bella. 

Max inizia a frequentare l’eccentrica Villa Baxter, trovando una sempre maggiore confidenza con la ragazza e il suo strano mondo di animali ibridi, governanti arcigne e autopsie e “riassemblaggi” a cui lei attivamente partecipa come assistente maldestra. Tra un nota e l’altra i due si avvicinano e forse la ragazza prova qualcosa per lui. Il corpo di Bella, ancora prima della sua “testa”, sembra rivolgere sempre più attenzione alle zone erogene, al punto da sviluppare una precoce sessualità. Parallelamente, sale in lei l’insofferenza nel dover essere costretta a vivere in quella villa e Max decide di perorare questo bisogno, offrendosi di accompagnarla personalmente “fuori da quel piccolo mondo”, con tutte le cure e premure necessarie. Anche Max sente di essere legato a lei, forse anche innamorato, decidendo così di proteggere quella creatura con tutto se stesso. 

God accetta i tanti mutamenti di Bella e le riflessioni accorate di Max. Pur rattristato, in virtù di una libertà che lui stesso non ha potuto sperimentare, decide di assecondarli, magari gradualmente, magari con tutte le precauzioni possibili. 

Ma ecco che nella vita della ragazza irrompe l’avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), formalmente chiamato per redigere un accordo scritto tra God e Max. Duncan è affascinante, ambiguo, egocentrico, perennemente eccitato e amante del gioco d’azzardo. In un attimo seduce e rapisce Bella, la porta in giro per l’Europa facendole conoscere un mondo che la ragazza non aveva mai immaginato potesse esistere. 

È un mondo che torna ad essere anche per noi spettatori tutto a colori: sgargiante e infinto, pieno di macchine volanti, architetture vittoriane, cavalli meccanici, vapori steam-punk. Un mondo che sembra uscito da una graphic novel di Jodorowsky o Moebius o da un videogame come Bioshock Infinite.

Un mondo tutto da esplorare per Bella, anche se Duncan non vorrebbe mai farla uscire da una camera da letto. Duncan scatena costantemente sulla ragazza tutta la sua energia sessuale e libido su un corpo che sembra non averne mai abbastanza. Bella sembra presto averlo a noia, preferendogli la compagnia di altre persone, l’esplorazione di luoghi ed esperienze sempre nuovi. 

L’eccentricità continua della ragazza, unita alla incapacità di Duncan di controllarla e alla sua sempre più frustrata gelosia e inadeguatezza come compagno, spingono l’avvocato a portarla in una lunga crociera: ponendola così su una nave bellissima, ma dove per lo meno la ragazza non può fuggire continuamente alle sue attenzioni. Sulla nave Bella incontra prima la gentile appassionata di filosofia Martha (Hanna Schygulla) e poi il cinico e malinconico Harry (Jerrod Carmichael), che durante una fermata del viaggio ad Alessandria le mostra come il mondo possa essere un luogo anche brutto, iniquo per i più poveri, più simile a un inferno che a un paradiso. Nonostante le continue angherie e insicurezze di Duncan, qualche volta “guardata a distanza” da God e Max, Bella continuerà a viaggiare, conoscendo sempre più qualcosa su se stessa e sul mondo. 

Progressivamente trasformandosi in donna emancipata anche con la testa. 

Arriverà forse a conoscere qualcosa anche sul suo passato: i dettagli più tragici e inaspettati della sua strana origine. Dettagli che inevitabilmente riportano ad una donna in elegante vestito blu che un giorno si gettò nel Tamigi, che forse venne raccolta da un novello Prometeo.

Il regista greco Yorgos Lanthimos, autore di film “disturbanti”, affascinanti quanto surreali come Dogtooth, The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro e La favorita, adatta con la sceneggiatura del sodale Tony McNamara (già insieme a lui ne La Favorita) un romanzo dello scozzese Alasdair Gray, autore di “low-fantasy” considerato dal The Guardian come uno dei pilastri della letteratura del ventesimo secolo. 

Sperimentatore, sensuale, surreale e per alcuni critici anche “post-moderno” (in riferimento alla costruzione della sua più opera monumentale, Lanark), Gray in qualche modo “reinterpreta” nel suo romanzo Povere Creature! il Frankenstein di Mary Shelley, quasi fosse un “seguito”, quasi fosse una “versione al femminile”. Giocando con temi cari alla scienza come alla psicologia, creando infiniti giochi di specchi e rimandi tra religione ed etica, passato e presente, Gray va a delineare personaggi complessi, simili a  mosaici: personaggi a cui mancano però sempre delle tessere per essere “completi” e che per questo, nell’imperfezione, ci appaiono ancora più profondamente umani. 

Umane e imperfette creature “sospese” come God e Bella, ma anche un po’ come l’Edward (Mani di Forbice) di Tim Burton,  come il Pinocchio di Collodi. 

Creature “pure”, di fatto “neo-nate”,  in costante confronto e critica verso un mondo “moderno”, con i suoi usi e costumi ricchi di chiaro-scuri, affascinante quanto respingente, una “realtà” nei loro confronti spesso troppe volte “giudicante”. Creature libere di pensare, quanto poste più volte nella condizione di essere rinchiuse in gabbie sociali sempre più elaborate.  

Lanthimos ci ha raccontato più volte nella sua cinematografia di personaggi rinchiusi in gabbie sociali e morali opprimenti, costretti a decisioni difficili se non impossibili, al solo scopo di sopravvivere a un ingranaggio “più grande” che li contiene. Nell’horror Il sacrificio del cervo sacro, come nel surreale fantascientifico/esistenziale The Lobster, un destino beffardo incombe sulla vita di persone che non possono fare altro che accettarne la crudeltà: accogliere la melanconia degli eventi o impazzire. 

Lanthimos ama immergerci nel caos emotivo che vivono i suoi personaggi, un caos che il regista vuole farci assorbire in tutta la sua anarchica ma inestinguibile potenza anche a livello uditivo, affidandosi a musiche sperimentali, dissonanti e quasi ipnotiche, per le quali in questo caso ha scelto il compositore Jerskin Fendrix. 

Più che una colonna sonora, il musicista crea un “rumore avvolgente”, spigoloso, che sono dopo qualche minuto si riesce a comprendere, introiettare e infine accettare e apprezzare. 

Se il sonoro esprime un caos che poi “riverbera nelle relazioni umane”, il caos rimane invece nascosto tra le pieghe di uno scenario caratterizzato da una geometrica precisione formale (quasi alla Dario Argento). Una “scenografia statica” simile a quella di un palco teatrale sulla quale si muovono i personaggi, qui improntata su una fantascienza “estetizzante” di stampo quasi pittorico, con rimandi sì alle Graphic Novel e Moebius, ma con tratti oscuri e viscerali anche vicini alla scene espressionista tedesca. 

Lanthimos con questa formula ha spesso parlato di disperazione, dell’impossibilità dei suoi personaggi di gestire il proprio destino in un momento di particolare caos esistenziale. 

Ma in Povere Creature! a “cavalcare il caos” e “piegare il destino al suo volere” è un personaggio in controtendenza su tutto e tutti. Bella Maxwell diventa lei stessa, con la sua vitalità e poliedricità un “motore del caos, gioioso, per una volta quasi un caos “positivo”. Forse sono vere le voci che vorrebbero Lanthimos innamorato della sua attrice al punto da mettere da parte per lei il suo pessimismo cosmico. 

Emma Stone, da sempre considerata alla stregua di “fidanzatina d’America” dopo l’esordio di SuXbad, Zombieland e pellicole come La La Land, è sempre più sgargiante e spregiudicata al suo secondo incontro “cinematografico” con Lanthimos dopo La Favorita (e al terzo incontro con lo sceneggiatore McNamara, che ha scritto per lei Crudelia). La diva riesce a dare vita a un personaggio unico, fuori da ogni schema e per questo nella condizione di spezzare ogni tipo di gabbia che provi a reprimerla. Un'eroina che con la forza della sua interpretazione è in grado di gettarsi a testa alta, con coraggio e incoscienza, in scene di stampo horror/fiabesco, momenti carichi di sensualità esplicita, “giochi infantili”, soliloqui drammatici, parentesi oniriche, scene sarcastiche, situazioni dalla forte carica emotiva. Senza mai vergognarsi o trattenendosi, esprimendo al 100% lo spirito libero e anticonformista di una creatura che va al di là della morale costituita, Emma Stone piano piano riesce a far evolvere Bella, aiutandola a smarcarsi, diventare sempre più “proprietaria e consapevole” della sua esistenza e del suo pensiero. 

Una bambina, una donna, un'amante e una creatura artificiale sono tutte racchiuse dalla Stone nello stesso tempo e nello stesso corpo: ognuna di esse riesce a trovare la sua voce con assoluta naturalezza attraverso i mille volti e la corporatura quasi mutante di Bella Baxter. L’attrice offre in assoluto la sua performance più complessa e riesce in ogni frangente narrativo a trovarsi a suo agio, dando prova di un talento eclettico quanto generosa, anche grazie a un Lanthimos che riesce sempre ad illuminarla al cento della scena rendendole satellite ogni altro personaggio, offendo a quella che è stata definita come la sua nuova “musa” la possibilità di improvvisare e dominare ogni spazio con eleganza quando “sfacciataggine”. Un po’ Pinocchio, un po’ Edward Mani di Forbice, Bella Baxter è forse più di tutto la sorella segreta della Barbie di Margot Robbie. Anche se la chiave di lettura di Povere Creature! è più vicina a una sensibilità adulta, il tema dei corpi e ruoli femminili in evoluzione e rivoluzione è il medesimo di Barbie, risultando forse per qualche spettatore scomodo quanto per altri magari affascinante, ma sempre gioiosamente scorretto, intelligentemente cattivo e ben coperto sotto una patina di glamour. 


Dicevamo che Bella ha quasi il potere di rendere satelliti tutti gli altri personaggi sulla scena, ma ce ne sono almeno due che vanno oltre questo ruolo. 

Uno è il dottor Godwin Maxwell di Willem Dafoe, che ogni giorno sul set si è sottoposto a lunghe sessioni di trucco, per incarnare idealmente una “creatura di Frankenstein pentita”: un uomo/meccanico, plasmato dalla cattiveria paterna, che ha saputo rinascere da un dolore che ci viene raccontato, più che da mille parole, dalle mille cicatrici e disfunzioni del suo complicato corpo-mosaico. C’è nel tragico God qualcosa del paterno Vincent Price di Edward Mani di Forbice, ma il riferimento principale sembra essere proprio il Frankenstein di Boris Karloff. God è per lo più assente alle emozioni, afflitto nel suo modo di incedere, poco loquace. Ma riesce a sprigionare la sua grande umanità in ogni piccolo movimento e sguardo, anche solo giocando con la sua stessa ombra. È un mostro “inattuale”, che non fa più paura ma in cui rimane una piccola forza vitale che lo spinge ad amare, anche le piccole cose, come L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. Del tutto opposto, in corpo e spirito, al God di Dafoe è il Duncan di Ruffalo: un esagitato ed esagerato omuncolo vanitoso, tragicomico in una ostentazione di virilità e potenza che viene più volte, con facilità e quasi indifferenza, disarcionata proprio dal personaggio della Stone. Ruffalo, giocando con intelligenza e sarcasmo con lo stereotipo dell’uomo tutto di un pezzo, dimostra ancora una volta di possedere incredibili tempi comici, quasi una “allure fantozziana” al contempo respingente quanto travolgente. Lo fa in un modo così spazzante che conquista. 

Lanthimos con Povere Creature! crea una delle sue opere più anarchiche e sarcastiche, divertente quanto ricca di spunti narrativi e visivi. Emma Stone è straordinaria e non a caso ha vinto per la sua interpretazione gli Academy Awards come miglior attrice per questo ruolo, ma molto bravi sono anche Dafoe e Ruffalo. Magnifiche le scenografie, curate da Shona Heath, che anche loro, insieme ai ricchi costumi vittoriani di Holly Waddington, hanno ricevuto le onorificenze della Academy. Belli anche gli effetti visivi che senza essere troppo invasivi sono riusciti a ricreare la “fantascienza a vapore” vittoriana del romanzo originale. Strane ma infine quasi “accoglienti” le musiche. 

Anche solo per la performance di Emma Stone e per il bizzarro e complesso mondo in cui la storia è ambientata Povere Creature! meriterebbe una visione, magari sul grande schermo ora che è tornato in sala. Ma l’ultimo film di Lanthimos è un'opera carica di mille dettagli e suggestioni in grado di affascinare anche oltre una prima visione, andando a dipingere un nuovo piccolo surreale mondo di celluloide, sospeso tra passato e presente, dove è ancora bello e affascinante perdersi. 

Talk0

martedì 12 marzo 2024

Memory: la nostra recensione del film romantico e malinconico, scritto e diretto da Michel Franco, con protagonisti Peter Sarsgaard e Jessica Chastain. Vincitore a Venezia con la Coppa Volpi per il miglior attore

A Whiter shade of pale, dei Procol Harum. Un pezzo del 1967, tratto dall’album Summer of Love. Qualcosa di molto sdolcinato che in genere si balla lento durante le feste scolastiche. 

È ascoltando questo pezzo a una riunione di ex alunni che il loro sguardo si incrocia. 

Lei, Sylvia (Jessica Chastain), è una rossa sui quaranta dall’aria stanca e disincantata, un’assistente sociale con una famiglia disastrata, un brutto passato di alcolista e pochissima voglia di trovarsi lì, trascinata a forza dalla sorella Olivia (Merritt Wever). Lui, che scopriremo in seguito chiamarsi Saul (Peter Sarsgaard), è un bell’uomo sorridente forse della stessa età, che non si ricorda di niente e nemmeno, come non conosce i motivi per cui si trovi lì quella sera, ma appena vede Sylvia “sente qualcosa”. 

I Procol Harum affondano con il loro “We skipped the light fandango” e nel mentre Sylvia ha già “skippato la festa”, è letteralmente in corsa verso casa, a piedi, camminata veloce, preoccupata. Dietro di lei c’è ancora Saul, che la segue e forse insegue, sorridendo, lungo la strada principale, attraverso il parco, fin sotto casa sua. Sylvia si è blindata in casa e questo tizio che lei non ha ancora capito chi sia è fermo sotto la sua veranda, immobile. Inizia a piovere e lui è ancora lì imperterrito, quasi sinistro, per tutta la notte. 

Arriva il giorno e il tizio non è più davanti all’uscio, si è abbandonato tra i copertoni usati di un gommista poco distante, avvolto in un sacco della spazzatura usato come coperta. Dorme come un bambino.  

Sylvia chiama il numero di telefono che trova nel portafogli di “Saul”, risponde Isaac (Josh Charles). Isaac dice di essere il fratello e racconta della strana malattia di Saul: ha una forma di demenza che ne compromette la memoria in modo grave da tempo, facendogli dimenticare anche avvenimenti molto recenti. Non ricorda quasi nulla del suo passato e necessita di molte attenzioni. Ogni tanto “se lo perdono” e per questo la figlia di Saul, Sara (Elsie Fisher), che presto andrà al college, gli sta preparando un bel foglietto con le sue generalità da portare sempre con se, al collo, sostenuto da una collana di perline. 

Per Isaac ad attirare Saul potrebbero essere stati i capelli dì Sylvia, molto simili a quelli della sua defunta moglie. Uno scherzo della memoria.

Compensa la situazione e accertatasi del fatto che Saul sia tutto sommato “innocuo”, Sylvia propone che con il suo lavoro da assistente sociale potrebbe dare una mano a Saul, assisterlo nei momenti in cui la figlia o il fratello non sono reperibili. La donna scambia il suo numero con Isaac.

Tuttavia, sfogliando un vecchio annuario, in Sylvia riaffiora qualcosa di sinistro dal suo passato, anche se forse le appare ancora un po’ indistinto. Su quello spunto matura un’idea ben diversa da quella di aiutare Saul e la sua famiglia, ha in serbo un “piano di vendetta”. 

Decide di accompagnare Saul per una camminata nel parco e quando sono soli lei gli rivela di ricordarsi benissimo di lui: era non ancora maggiormente quando quattro ragazzi della sua scuola avevano abusato di lei e sicuramente Saul era in quel gruppo.

Saul si scusa, anche se non si ricorda nulla di quella vicenda. Sylvia non ci crede e per “vendetta” lo lascia da solo in una zona isolata tra il verde, senza portafogli e documento di riconoscimento, a perdersi immerso nella natura. 

Il pentimento però arriva presto, quando la sorella Olivia, che ha fatto ricerche sul conto della sua nuova strana frequentazione, con una telefonata la rassicura sul fatto che Saul non era nemmeno nella stessa scuola quando la sorella era stata aggredita. 

La donna ritorna da lui, lo trova, gli riporta il cartellino e il resto, si scusa, mentre lui la guarda sorridente come se non fosse mai accaduto nulla, come se non fossero passate diverse ore.

Sylvia ha agito di impulso per via dei tanti conti in sospeso con il passato, alcuni dei quali riguardano anche il rapporto conflittuale con sua madre Samantha (Jessica Harper), così come ha troppo alcol alle spalle e un futuro che non riesce nemmeno a immaginare, nel quale spera solo di essere per la figlia una persona migliore. Saul ha un passato come del tutto annullato, vive un presente felice anche se spesso finisce disperso da qualche parte o non si ricorda di cosa parla un film che sta vedendo. Guardare Sylvia lo rende felice e gli basta. Spesso a casa mette su disco A Whiter shade of pale, dei Procol Harum, e lo ascolta e riascolta felice pensando a lei. 

Riuscirà anche Sylvia a vedere Saul ed essere felice, mettendo da parte tutto il passato, concentrandosi sulla gioia del presente senza preoccuparsi troppo del futuro? 

Sembra una strada difficile, ma piano piano tra lo smemorato e l'assistente sociale inizia a svilupparsi un legame molto forte, in grado di andare oltre alle parole e alla memoria. Un legame fatto di sguardi e gesti d’affetto che rivoluzionerà la vita di entrambi, anche se inizialmente preoccuperà i rispettivi parenti per le difficoltà intrinseche di questo tipo di relazione. 

Ma in fondo A Whiter shade of pale, dei Procol Harum, è un brano che racconta dell’importanza di “lasciarsi andare” ed essere felici. A dispetto di tutti e di tutto. 


Il regista e sceneggiatore Michel Franco ci racconta una love story, con lievi tinte di thriller, con al centro due straordinari interpreti che si sono ritrovati sulla scena con estrema naturalezza e complicità. 

Memory è un film che si basa su una premessa tutto sommato semplice: un uomo “soavemente” smemorato che incontra per caso una donna che ha dedicato fin troppo a pensare ai suoi traumi, “perdendosi” tra l’alcol e i rimpianti delle mille ossessioni che si sono accumulate. Franco ci parla del bisogno di  affettività, della solidarietà tra persone “ferite dalla vita”, del rimpianto e delle soluzioni “mediche e tossiche” legate a quel costrutto misterioso che chiamiamo “memoria”, ma più di tutto ci racconta di come due anime si avvicinino, prima si scontrino e infine riescano a trovare uno stato di grazia reciproca. 

Come in Harry ti presento Sally, come in Qualcosa è cambiato, come per qualcuno in Mr e Mrs Smith (per me,no), Sarsgaard e la Chastain sembrano essere entrati così in sintonia con i loro personaggi da innamorarsi per davvero sotto le telecamere. Al punto che perfino una scena chiave del film, centrale per l’evoluzione emotiva di entrambi i personaggi (la scena “della vasca”), sembra qualcosa di non scritto, di improvvisato sul momento, “nato per caso”, con una naturalezza del tutto non programmata, autentica quanto vitale. 

Qualcosa che è scaturito da una magica intesa di corpi e sguardi più che grazie a mille sceneggiatori di Hollywood. 

Ci si sente “quasi in imbarazzo”, a guardarli da spettatori di un cinema a pomiciare in un multisala buio, insieme ad altre duecento persone, per il modo spontaneo e sincero con cui i due si cercano e scrutano a vicenda, accoccolandosi e rincorrendosi, risolvendo le principali questioni di convivenza quasi senza parlare, senza snocciolare frasi da baci perugina.


È davvero “pura recitazione”, se vogliamo primordiale come quella che insegnano al primo anno di scuola di recitazione: “mettervi a coppie e fate gli innamorati.” Ma non per questo è meno potente. Perché “come imparare a cucinare un uovo sodo” può essere di certo tra le prime ricette di un libro di cucina, ma saper cucinare un ottimo uovo sodo richiede sempre una raffinatezza e attenzione sublime.  Da fuoriclasse. 

Peter Sarsgaard è molto bravo, ha un sorriso sghembo, occhi da bambino e una corporatura quasi troppo grande, che incurva per sembrare più basso. Ha un lungo curriculum televisivo e cinematografico, per qualcuno può confondersi con Colin Firth, ma non è tra i volti più famosi del cinema e per questo è una felicissima sorpresa. Il suo Saul è un uomo che ha accettato stoicamente la sua condizione e cerca di vivere nel mondo senza creare disturbo a nessuno, consapevole di aver magari fatto dei torti di cui non si ricorda quanto del fatto che non è più in grado nemmeno di vedere un film senza dimenticarsi la trama ogni venti minuti. Tuttavia è un uomo che è spinto da una forza misteriosa ad amare. È un ruolo che ricorda la vita reale di Augusto Gongora, come raccontata nel bellissimo e struggente docu-film La memoria eterna, di Maite Alberadi. 

Jessica Chastain è invece semplicemente una delle più straordinarie e versatili attrici di Hollywood, in grado di interpretare letteralmente qualsiasi personaggio con assoluta credibilità e naturalezza. Vedere la Chastain così innamorata e indifesa, nei panni di una donna “incasinata” come Sylvia, è qualcosa di ancora una volta inedito, nuovo e inatteso, soprattutto grazie alla chimica con il suo partner sul set, che sembra quasi frutto di una frequentazione decennale. Sylvia è una donna in perenne lotta con se stessa e con gli altri, una donna spesso messa in secondo piano e alla disperata ricerca di una tranquillità che non riesce forse nemmeno a immaginare. Il modo in cui il personaggio di Sarsgaard riesce ad accettare il suo dolore e renderla più serena anche con un solo abbraccio i un gesto maldestro, scatena delle piccole gioiose rivoluzioni nel carattere di Sylvia. Quasi la trasformano. 

Molto brava anche Jessica Harper, a cui viene affidato un ruolo breve, ma piuttosto complesso e centrale nella trama. Un ruolo “respingente” sul piano emotivo ma che risulta molto coerente sul lato psicologico, che bene si incardina al tema portante della narrazione di Franco, aggiungendo particolare spessore e gravità anche al personaggio della Chastain. 

È un film d’amore e traumi ma che tra le righe ci parla anche di volontariato, di associazioni come gli alcolisti anonimi, delle reti sociali e delle molte cure indispensabili per fronteggiare le difficoltà che la malattia ogni giorno presenta. È un film che parla con garbo anche delle piccole strategie del quotidiano che devono mettere in atto i parenti di persone con problemi di salute, per riuscire a supportarli al meglio. Cose pratiche ma impegnative, come trovare un infermiere, essere sempre reperibili in caso di problemi, predisporre una stanza affinché una persona “smemorata” non si faccia male da sola o prenda più medicine del dovuto, preparare cartellini e foglietti di cui munirli nel caso qualcuno li trovi dispersi da qualche parte, munirli di telefonini con gps. Tante attività che possono essere anche faticose e possono qualche volta mettere i parenti dalla parte dei “cattivi”, come capita all’Isaac di Josh Charles: decisamente un fratello preoccupato più che un infido approfittatore che ama rinchiuderlo in una stanza per diletto. Come capita alla Sara di Elsie Fisher, che da figlia ancora giovane deve occuparsi del padre accettando la sua vulnerabilità come il fatto di doversi affidare per le cure giornaliere a degli estranei. 

Memory è un film semplice, che “si costruisce” in modo “semplice quanto perfetto”, grazie a un'ottima intesa tra gli interpreti. È un film dal ritmo lento e malinconico quando A Whiter shade of pale dei Procol Harum, che invita a vivere le felicità del momento invece che a perdersi nei meandri più oscuri della memoria. 

Una pellicola per sentirsi coccolati dalla magia del cinema, come da un “dolce fandango”. Talk0

mercoledì 6 marzo 2024

Connected - The post Human species: la nostra recensione del documentario sull’intelligenza artificiale di Simona Calo, scritto da Luca Monaco e prodotto dalla multinazionale di consulenza Bip, vincitore del Western Canadian Film Festival e da ora disponibile su Prime Video ed Apple TV

In un appartamento periferico di una grande città del giorni nostri un musicista è in crisi creativa (Richard Rowden). 

Si trova impantanato da mesi, a riascoltare vecchi vinili nel suo loft rigorosamente “analogico”, un eremo privo di ogni diavoleria social e a contatto con la sua sola ispirazione. Suonano alla porta, lui apre, entra il suo agente (Ketora Williams) insieme a un losco figuro (Tom Feasby), si siedono tutti in salotto. 

L’agente rimbrotta l’artista che non risponde mai al telefono o alle mail, l’artista rimbrotta l’agente dicendo che lui può fare a meno di telefono e mail. 

L’agente gli propone un “aiuto forzato”, una “intelligenza artificiale”, in gergo una “IA”,  che poi sarebbe il tizio che è ora con loro due in salotto: il meglio del meglio del futuro/presente, da usare non come “sostituto dell’artista” ma come “un suo strumento di lavoro più performante”, come se fosse una nuova pianola hi-tech. 

Il musicista accetta un po’ riluttante, inizia a far fare all'intelligenza artificiale i primi lavori di casa, le attività più ripetitive e pesanti. Poi, stimolato dalla sua presenza, decide di iniziare a comporre qualche nuova musica con lui, scegliendo di accedere “per ispirarsi” alla sconfinata banca dati di cui dispone. In un attimo la musica creata da loro due “insieme” fa presa sui followers. 

Ma potrà davvero fidarsi il musicista di questa “IA” o finirà malissimo come in Terminator, Matrix, M3gan, Ex Machina, con i robo-soldati di Guerre Stellari, come ne Il mondo dei robot, Blade Runner, come con i borg di Star Trek, come in Avengers Age of Ultron, Caterina, come con l’ED209 di Robocop, Frankenstein, con la cattiva di Superman 3, con i prof di Classe 1999, come con i dalek del Doctor Who, come in Pluto, Cyborg, Cyborg 2, Cyborg 3, 2001 odissea nello spazio, Kill Commando, Tron, Hardware, Dovevi essere morta, Alien, Christmas Bloody Christmas, Monsters and Man, Daitarn 3 e potrei continuare ancora e ancora e ancora?

In sostanza: nonostante da secoli la tradizione mitologica e religiosa (Talos, il Golem), la letteratura (da Shelley a Dick passando per Asimov), l’arte e il mondo del cinema ci portino a diffidare quasi istintivamente della tecnologia, siamo davvero arrivati a uno snodo storico in cui possiamo accoglierla nel nostro quotidiano senza timore di essere annientati da lei all’istante? Citando i cattivi di Star Trek, “io sono Borg, la resistenza è inutile?”

Oltre alla storia del musicista di cui sopra, ispirata proprio dalla esperienza personale con le IA legate del compositore della colonna sonora Vincenzo Adelini, lo scopriamo con una serie di interviste e persone come l’eurodeputato Brando Benifei, il parlamentare con disabilità Maurizio Molinari, la responsabile del centro di eccellenza Human Capital di Bip Alessia Canfarini, il competence manager Andrea Taglioni, il romanziere Paolo Ciuccarelli, il manager Ryan Duff e tanti altri. Sono approfondimenti che spaziano su più campi: dal mondo della politica alla inclusività, dal business al design alla scrittura creativa. Interventi che parlano anche di come l’Italia sia stata centrale nel regolamentare a livello europeo un uso delle IA che sia “consapevole ed equo” sul piano tanto della competitività che del diritto al lavoro. Interventi che parlano di come la nuova tecnologia stia già aiutando moltissimo le persone con disabilità, permettendo anche ai ciechi di “vedere” attraverso IA, integrate ai sistemi di geolocalizzazione, che descrivono loro fotograficamente gli ambienti in cui si trovano e le persone che incontrano. Interventi che parlano della futura necessaria transizione a un modello di lavoro 2.0 ancora “in fase di sviluppo”, come del fatto che le macchine abbiano portato a una efficienza aumentata sul piano produttivo cambiando le regole della concorrenza, di come anche l’ambiente potrà essere meglio tutelato con l’uomo proprio grazie alle nuove tecnologie. 

Per ogni tesi ci sarà un pro e un contro, come in ogni ambito si incontrano scettici ed entusiasti. Si parla quindi anche dei timori più recenti, tra ChatGPT e Sora, intelligenze in grado di esprimersi anche in ambito “artistico”: per molti l’ultimo passo prima che le IA soppiantino l’uomo anche nel campo della “fantasia” e forse dei “sogni”: dando presto probabilmente una risposta al famoso romanzo di Philip Dick “Do androids dream of electric sheep?”.

Connected non punta a offrire risposte semplici ma domande interessanti su cui riflettere… anche perché, nonostante tutti i nostri sforzi, a questo mondo super tecnologico siamo già tutti, da anni, “connessi”. 

Domande se vogliamo solo parziali, ma pur gioiosamente pionieristiche, in attesa che altre opere raccontino le intelligenze artificiali magari maggiormente sul piano degli effetti sociali e sociologici sugli “esseri di carne e ossa”, sul piano medico e psicologico. 

Ma è già un inizio e brilla per una certa equidistanza, non glorificando o abbattendo troppo il dibattito, facendo un uso suggestivo, un po’ inquietante ma anche “gioiosamente labirintico” della colonna sonora del bravo Vincenzo Adelini, utilizzando uno stile narrativo sobrio e a tratti quasi chirurgico, scegliendo testimonianze concrete, a tratti “brutalmente materiali”, ma per questo anche oneste.

Connected, giocando intelligentemente con le paure scaturite dai “freddi dati” è un’opera che punta a non far dormire qualcuno la notte, come il migliore horror fantascientifico. Al contempo è qualcosa che riesce a scatenare un dibattito che oggi diventa sempre più centrale e inevitabile.

Il sorriso “terrificantemente neutro” della IA di Tom Feasby ci apre davvero a un mondo nuovo, dove forse sì “la resistenza è inutile”, ma almeno un dibattito per ora si può fare.

Un plauso alla regia di Simona Calo e a tutto il suo staff per l’interessante opportunità di iniziare a esplorare queste nuove intelligenze artificiali. Almeno fino a che si ribelleranno agli umani e finiremo tutti come in Terminator. 

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domenica 3 marzo 2024

La quercia e i suoi abitanti ( Le Chene): la nostra recensione del pluripremiato documentario francese del 2022 ,di Laurent Charbonnier e Michel Seydoux, oggi in Italia con la distribuzione di I Wonder

Nel cuore della Francia, al centro della Valle della Loira, si trova l’area naturalistica di cinquemila ettari quadrati di Sologne, dove da 210 anni vive e prospera una imponente quercia di 17 metri d’altezza. Il nobile e immenso albero, quasi come il mitologico Yggdrasil, è il fulcro vitale di un intero piccolo mondo, abitato ha creature grandi quanto microscopiche. 

È una casa accogliente, che con le sue robuste pareti di legno difende dal freddo e dai predatori.

È una madre che sfama i suoi piccoli abitanti con le gocce di rugiada, le ghiande, i funghi che vi si depositano ai margini e le radici. 

Un enorme cantiere in continuo sviluppo, dalla superficie imponente, grandiosa in altezza ma che sottoterra non è da meno, estendendosi tra infiniti canali di radici che ogni giorno diventano più profondi e ramificati, dove ogni singola gocciolina di pioggia arriva idraulicamente ed alimenta come “carburante” la costruzione febbrile di nuove estensioni. 

Ma, come spesso accade in natura, tutto è sorretto alle volte è sorretto o “condizionato” da raffinatissime, quanto quasi microscopiche, alchimie biologiche di cui sono protagoniste centrali soprattutto le creature più piccole, quelle quasi invisibili. Un ruolo da protagonista, se non più propriamente da “piccolo villain” o antagonista, spetta quindi al fiero e indomito parassita “balanino” (o Curculio Elephas). È un buffo quanto duttile insettino grigio della famiglia dei Curculionidi, dotato di un lungo rostro/nasone, due antennine rossastre e sei zampette, lungo non più di 10 millimetri da adulto. 

Combattendo la forza di gravità, il vento e le piogge, potendo contare solo su un fisico tozzo poco atletico che lo invita più volte a ribaltarsi, il balanino stoicamente affronta la sua guerra quotidiana per sopravvivere e amare, accaparrandosi goccioline d’acqua e piccole ghiande in modo spericolato. È proprio nelle ghiande più grosse che la femmina di balanino, dopo essere stata ingravidata in una travolgente Summer of love acrobatica, (i balanini sono amanti pazzeschi anche a gravità zero, con i maschi che a volte finiscono per morire dopo l’amplesso per la qualità estrema della performance), deposita le sue piccole uova bianche per riprodursi: offrendo una solida casa e un riparo per le future generazioni, da costruirsi nel brevissimo lasso di vita delle creaturine. Senza la quercia i balanini potrebbero quindi non esistere per niente, il loro rapporto è simbiotico anche se spesso invisibile agli occhi dei più, ma spesso se non tenuto sotto controllo anche “maligno”, in quanto pur per sopravvivere guastano le ghiande. 

Legatissimo della quercia bicentenaria tanto sul pianto “edilizio” che “alimentare” è anche lo scoiattolo rosso (Sciurus Vulgaris). Come i tassi o le nutrie, ma a piani ben più altri del “bosco verticale” (in quando “sciuro”…ma questa battuta la possono capire solo quello che conoscono il milanese…), lo scoiattolo rosso, ammantato di pellicciotto naturale 100% non sintetico, risiede e accumula cibo bio tra le cavità più esclusive della quercia, anche se a volte pure lui rimane invischiato in complicati problemi idraulici condominiali durante le piogge o la neve. 

La vista di cui gode sarà top di gamma ma lo spazio abitativo ne risente spesso, con improvvisate e un po’ proletarie camerette naturali simili a casermoni con letti a castello. 

Anche il cibo sarà di lusso, ma ha un basso costo/beneficio in quanto spesso conteso con animali volanti che godono di maggiore agilità nel take away direttamene a chilometro zero dai rami più alti, con lo scoiattolo che deve un po’ accontentarsi di quello che rimane a fine planata. 


Tutti gli status symobol hanno il loro costo. Come sanno bene anche le ghiandaie azzurre (o Cyanocitta cristala), che vivono nell’attico dell’albero, pur avendo spesso ai piani bassi una cambusa da ristorante stellato tutta per loro. Con eleganza sfoggiano sulle piume, nella zona collo alta, quella pigmentazione a scacchiera super fashion. Gli uccellini amati da Emily Dickens e dagli Hunger Games sono un po’ timidi ma sgargianti, intrattengono sulla quercia relazioni amorose ricche e nuclei famigliari solidi, ma spesso si trovano ad avere a che fare con i grossi predatori volanti come l’Astore (Accipiter Gentilis), della famiglia degli Accipitridi. Brutali quanto implacabili. Così ogni tanto la caccia alla ghianda si trasforma in un duello aereo alla guerre stellari, dove i rami della quercia e delle altre piante offrono più di una occasione per impalare l’inseguitore in volo, come nella corsa delle overbike sulla luna boscosa di Endor. 

La quercia protegge con le sue solide pareti i suoi abitanti più indifesi, anche se le stesse solide pareti a volte diventano vittime delle “culate da accaparramento” dei cinghiali selvatici (Sus Scrofa). Che sia primavera, estate, autunno o inverno, per avere ghiande dalla quercia i cinghialini vanno giù di spallata o culata come i truzzi che danno i pugni ai distributori automatici delle merendine in stazione. Spesso assaltano di notte, forse per evitare la presenza di altri predatori o forse perché più propriamente sono dei casinari nottambuli. Si ubriacano di ghiande, dormono a pancia all’aria a prescindere dalle condizioni atmosferiche, magari si grattano la schiena in modo poco signorile usando qualche ramo. Anche questo è vivere ai piani bassi di una quercia. Mentre vivere dentro alla quercia come sua stessa emanazione, come i funghi, è tutta una storia psichedelica a parte: una storia sulla capacità di formarsi e costruirsi da piccolissimi filamenti (le tecniche di ripresa per rendere il processo sono semplicemente strabilianti, usano probabilmente obiettivi da chirurgia) fino a “disegnarsi” dentro cerchi concentrici, emergere e poi diventare alimento da sballo (specie se velenosi) per tutti i commensali. Pura arte astratta alimentare.

Da spettatori non possiamo che ammirare questo mondo in pieno silenzio, accompagnati dal solo commento di musica sinfonica, facendoci trasportare dai mille suoni della natura e da camere da presa super tecnologiche in una realtà sensoriale diversa, a tratti quasi aliena ma spesso incredibilmente vicina a casa nostra.

Il documentarista Laurent Charbonnier (già direttore della fotografia per Il popolo migratore) e il produttore Michel Seydoux (il Cyrano con Depardieu, ma  noto anche per un celebre progetto di adattamento di Dune con Jodorowsky) ci portano all’interno del microcosmo di una quercia secolare, che impariamo a conoscere durante l’arco delle quarto stagioni, dall’autunno fino alla primavera. 

Il lavoro di costruzione dello storytelling ha visto la partecipazione di esperti di scienze naturali e l’osservazione giornaliera della quercia e del suo mondo circostante  per per cinque anni. È incredibile quanto più essere emozionante ed erotica le vita di un balanino, sempre sospeso tra attività da sport estremi e riproduzione. È ingegnoso come gli scoiattoli adattino la loro quercia/casa che continua a mutare con il mutare del tempo e delle stagioni, nel segno di una edilizia creativa. È tenero immergersi nei nidi di ghiandaia e sui rami-trampolino da cui i più piccoli spiccano il primo volo, quando un secondo prima li avevamo ancora visti in forma di ovetto. È tragicomico è desolante il modo in cui il cinghiale a seconda delle stagioni faccia imperterrito nel stesse cose e si gratti le chiappe negli stessi punti. È pura arte performativa stile Marina Abramovich la continua ricerca estetica ed espressiva di un fungo.

Ogni animale o pianta si incontra o scontra, nascono legami e rivalità, si avverte un senso di famiglia e comunità nel modo in cui  i piccoli gruppi fanno fronte comune davanti al freddo, alla pioggia o nei momenti di caccia. Anche il temporale, il vento e la neve hanno la loro voce e il loro ruolo, diventano protagonisti attivi di una vicenda articolata. Il lavoro sinfonico, che spazia dalla musica corale ai tamburi di un action movie, dalle chitarre hippy alle musiche “da cartone animato”, è originale e composto da Cyrille Aufort, già autore ne La marcia dei pinguini. È molto trascinante, variegato e ritmato, ma soprattutto riesce attraverso un uso ingegnoso dei registri sonori a sviluppare un funzionario “linguaggio cinematografico”, in grado di sostenere da solo la narrazione abbinandosi alle immagini, senza bisogno del commento descrittivo audio di qualche narratore/attore. Sul finale un brano molto bello del cantautore Tim Dup ci racconta tutto quello che abbiamo visto come fosse una favola. 

L’esperienza è estetica quanto estatica: una pura elegia avvolgente in cui è per lo spettatore bello perdersi. La quercia e i suoi abitanti è un prodigio per le tecniche documentaristiche usate, ma ha anche molto cuore nelle scelte narrative. Un piccolo gioiello. 

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venerdì 1 marzo 2024

20.000 specie di api: la nostra recensione del film drammatico basco diretto da Estibaliz Urresola Solaguren, con protagoniste Sofia Otero e Patricia Lopez Arnaiz, vincitore nel 2023 di molti riconoscimenti internazionali

Dopo un lungo periodo dedicato alla famiglia e alla maternità, la giovane Ane (Patricia Lopez Arnaiz), figlia di uno scultore e di un'apicultrice, in un momento molto convulso della sua vita sogna di insegnare all’università e al contempo “continuare” insieme alla famiglia l’attività artistica del padre, creando repliche in cera d’api delle sue opere. 

Recuperati dagli scaffali i suoi vecchi lavori universitari per crearsi un nuovo portfolio in vista di un concorso, Ane decide al contempo di ricreare con la cera anche “le silfidi”, statue raffiguranti giovani corpi femminili realizzate dal padre, ispirate a modelle con le quali probabilmente aveva in passato tradito la moglie. 

Per il battesimo di Peiyo, figlio della sorella, Ane torna così per qualche giorno alla casa di famiglia immersa nella natura e al vecchio laboratorio paterno. Qui vivono ancora sua madre Lita (Itziar Lazkano) e la zia Lourdes (Ane Gabarain), impegnate nottetempo in strane e misteriose attività, come la cura delle api e la sartoria tradizionale.

In viaggio con Ane ci sono i suoi tre figli, il più piccolo dei quali si chiama Aitor (Sofia Otero) e sta vivendo in una situazione psicologica molto complessa.

Aitor ha otto anni, ma spesso viene chiamato da tutti Cocò. Ha lineamenti femminili e capelli lunghi, è taciturno, non vuole essere nemmeno sfiorato da nessuno, non vuole mostrarsi senza vestiti da nessuno, vuole dormire isolato. 

Un pomeriggio, nella piscina comunale, Aitor insiste per andare a cambiarsi nello spogliatoio femminile e la sorella della mamma, prima perplessa, infine lo asseconda.

In famiglia tutti sembrano bisbigliare qualcosa sul conto di Aitor e il ragazzino si chiude sempre più in se stesso, ma la zia Lourdes in qualche modo riesce al ascoltarlo. Lo coinvolge giorno dopo giorno sempre di più nell’allevamento delle api, gli spiega che è tradizione antica di famiglia che risale alla bisnonna. Gli mostra le arnie, gli racconta la complessa dinamica relazionale delle api tra fuchi, api operaie, soldato e regina, lo fa assistere a una misteriosa forma terapeutica di agopuntura in cui si impiegano tradizionalmente proprio le loro api. 

Lourdes parla con Aitor di tutto, anche di Santa Lucia. Il ragazzo è sorpreso da tutte queste storie e dalla calma e calore di quella casa e quei luoghi che sembrano coperti da una patina dorata. Impara velocemente e sente il suo cuore sempre più sollevato, come se per la prima volta si trovasse nel “posto giusto” del mondo. 

Aitor infine si apre anche emotivamente alla zia. 

Le racconta del risentimento che nutre per la madre che lo chiama Aitor o peggio con quel Cocò che sembra una presa in giro. Parla dei suoi compagni di classe che non lo capiscono, di tutti che non lo capiscono. Dice che ora, dopo aver conosciuto la storia della Santa, preferirebbe essere chiamato anche lui Lucia. Vorrebbe tanto che gli altri imparassero a chiamarlo così, con un nome scelto da lui per definirlo. 

Nel frattempo Ana è come assente, immersa nel lavoro di calco e assemblaggio come nei suoi pensieri. Insegue e ricostruisce un po’ con rabbia i corpi femminili che il padre amava e che erano diventati le sue “Silfidi”. Corpi che sono stati l’emblema massimo della crisi della sua famiglia ma che ora possono sublimarsi a “qualcosa di positivo”, ma che al contempo possiedono forme di una bellezza e solarità a cui Ane stessa aveva “rinunciato troppo presto”, essendo diventata madre in giovane età. Ana è come se “odiasse” quel lato aggraziato femminile che sembra invece indossare con innocenza il suo figlio più piccolo. Un figlio che aveva chiesto per Carnevale di potersi vestire da sirena. 

Ana e “Lucia” non sono mai state così distanti. 

Così arriva il giorno del battesimo.

Durante  la festa Aitor si presenta prima con indosso un abito da ragazza. Poi, quasi colpito a morte dalla indifferenza generale,  si cambia. Successivamente durante la festa Aitor decide di scappare per i boschi: con il padre (eterno assente) Gorka, la madre Ane, la nonna, la zia e tutti gli altri che lo cercano disperati, corrono tra la boscaglia, lo chiamano. 

Ma riusciranno a chiamarlo con il nome giusto?


20.000 specie di Api è un film sulla crisi di identità, che coinvolge tanto una giovane madre quanto suo figlio di otto anni. 

È un film in cui i personaggi inseguono un “simbolico famigliare” distrutto, cercando di ricostruire i rapporto sulla base di riti e tradizioni millenarie aspirando, se non alla serenità, ad un proprio “ruolo nel mondo”. 

È un film dove la pace e armonia “primordiale” dei luoghi si contrappongono a una rumorosa rabbia e finta accoglienza famigliare. Tutto sembra mosso da dolorosi fantasmi del passato che si sovrappongono e imperversano nelle vite dei personaggi, infestando un “presente inaridito” con il rumore della loro assenza. 

Assente quasi del tutto è la figura maschile, didascalicamente simboleggiata, nel mondo delle api di zia Lourdes, nella figura “fugace ma centrale” del fuco. 

Assente è il nonno di Aitor, ma di fatto le “api operaie” della sua famiglia continuano a costruire “simulacri” della sua arte. È ugualmente assente il padre di Aitor e marito di Ane: uomo che Ane ha sopportato di fatto rinunciando ai suoi sogni, vedendolo diventare sempre più lontano quanto affermato. 

Di contro tutte le donne sulla scena aspirano a diventare “api regine”, prendendo decisioni e di conseguenza “spostando il loro esercito”, in modo spesso arbitrario, come se i sudditi non potessero che assecondarle senza ribellarsi. Zia Lourdes lo fa “materialmente”, gestendo le arnie, ma Lita e Ane non sono dissimili nella gestione della casa e della azienda. Le api regina spostano, dividono, si punzecchiano. In tutta questa lotta di potere (che narrativamente abbraccia “sociologicamente” tanto il mondo degli insetti che il mondo reale) Aitor è un po’ un ape operaia che aspira, anche timidamente, a diventare un'ape regina, con un nome nuovo, “suo”. 


Aitor vuole essere per lo meno “visto” da sua madre (e forse in questo il richiamo alla iconografia di Santa Lucia non è secondario): accettato nella sua ricerca della sessualità, supportato nelle scelte di vita senza essere “spostato da una parte all’altra” come le truppe dell’esercito di una ape regina che decide di cambiare alveare.

Forse, ci suggerisce la trama, zia Lourdes è un'ape regina provvisoria migliore per Aitor, una che in quel luogo dorato lontano dalla città sa maggiormente immergerlo in una realtà/arnia accogliente. 

Una realtà accogliente, in perfetta armonia tra uomo e natura, costruita dalla macchina da presa nel verde e nel sole delle cittadina francese di Hendaye, in Nuova Aquitania, quanto tra gli squarci boschivi e correnti d’acqua ricercati in Spagna, a Laudio, nei Paesi Baschi. Una cornice accogliente che asseconda bene i molti momenti di riflessione che la pellicola riesce a portare sulla scena.

Premiato nel 2023 da molti riconoscimenti internazionali per la indubbia bravura di tutto il cast e tecnici, 20.000 specie di Api arriva finalmente anche in italiano grazie a Wanted ed è un film tutto da scoprire:  carico di molta profondità emotiva quando di momenti visivi quasi fiabeschi, ricco di simboli e suggestioni. 

Un film complesso, che a tratti può risultare anche difficile, destinato in prima battuta a chi cerca il cinema d’autore ed è disposto a farsi sedurre dall’idea di una “melittologia” sorprendentemente, nella metafora, drammaturgica. 

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giovedì 29 febbraio 2024

Caracas: la nostra recensione del film su una Napoli “tra sogno e realtà” scritto, diretto e interpretato da Marco D’Amore, con co-protagonisti Toni Servillo e Lina Camelia Lumbroso

 

Ci troviamo nell’aria, a molti metri dal suolo. Si apre lo sportello del piccolo aereo e con un unico tuffo un gruppo di paracadutisti si lancia nel vuoto, coordinato e compatto, con le mani e i corpi che si cercano e incontrano per formare coreografe ordinate, arrivare a una armonia perfetta di testa e di cuore. 

Il suolo si avvicina e uno del gruppo, di grossa stazza, si stacca mentre gli altri già aprono il paracadute. 

Aspetta, vuole stare ancora “sospeso”. 

Vuole ancora per un po’ provare il brivido dello schianto. Alla fine apre ma è già tardi, la velocità è troppa e l’atterraggio è scomposto. L’uomo ruzzola male al suolo, gli altri accorrono preoccupati ma lui si rialza da solo, accartocciato ma con calma. Quando si toglie il casco ha il volto coperto di sangue, ma sorride.

È quello stesso uomo “ardito” (Marco D’Amore) che di sera percorre le strade piccole, sporche e labirintiche di un quartiere popolare di Napoli, la zona “ferrovia”, ai cui angoli si assiepa una umanità multietnica che potrebbe provenire da tutte le zone povere del mondo. 

L’uomo si addentra nei cunicoli, quasi sotto terra. Giunge fino alla tana di un gruppo di suprematisti, riuniti intorno a un tavolo da tatuatore, mentre stanno marchiando un giovane adepto con una svastica. Anche l’uomo è stato marchiato, su un braccio. Prosegue in un corridoio ancora più stretto per poi accedere a una zona più larga, dove tra il gruppo riunito in assemblea imperversa la politica e si reclama l’azione, dura e immediata. 

L’uomo è di nuovo per strada, cammina sospeso senza ascoltare i suoni e rumori, come quando era in aria. Ai suoi lati i compagni con spranghe, fuoco e catene stanno radendo al suolo ogni auto, negozio e “straniero” che gli capiti davanti: stanno ripristinando un “ordine”. 

L’uomo però sembra non reggere questo equilibrio di forze, non ce la fa a reggere alla vista di soprusi e di quello che appare come un omicidio intenzionale davanti ai suoi occhi. Cerca di opporsi al suo compagno anche se il danno è ormai fatto e la lama ha fatto il suo corso nella carne. Rimane insieme allo straniero mentre tutti fuggono, mentre quell’uomo steso lo ringrazia della sua premura, prega con lui. L’uomo piange e si sente di colpo parte di una comunità diversa. Decide di abbracciare l’Islam e frequentare persone diverse.

Al contempo arriva alla stazione di Napoli Giordano (Toni Servillo), autore di libri e saggista anziano, che ha sempre raccontato storie di Napoli ma ora non ne può più, ha deciso di appendere la penna al chiodo. 

Percorre le strade della sua infanzia, il quartiere periferico di zona stazione, quando  si imbatte in un ragazzino che viene malmenato da un branco di coetanei. lo salva e questo di tutta risposta gli ruba la borsa. 

Giordano lo rincorre tra i vicoli, fino a una casa che in qualche modo gli “è familiare”, al cui interno trova però l’uomo convertitosi all’Islam, insieme alla donna che ora ama, la marocchina tossicodipendente Jasmine (Lina Camelia Lumbroso). 

Il bambino sembra sparito o forse non è mai esistito.

L’uomo, che presto Giordano scoprirà essersi dato il nome esotico di “Caracas”, è con lui all’inizio scontroso e gli dice di andare via: che nessuno lì dentro ha visto un bambino o una borsa. Ma lo scrittore tornerà più volte in quel luogo e con il tempo annoderà in modo sempre più stretto la sua esistenza con quella di Caracas, diventato al contempo il personaggio del suo nuovo e inatteso libro. Un libro di speranza dopo tanti libri di depressione. 

Magari un libro d’amore dopo troppi libri di rabbia.

Ma tra la realtà e l’immaginazione dello scrittore iniziano sempre più a crearsi zone d’ombra e di confusione, dove tutto si mischia, tra sogno e realtà. 

Forse come il bambino anche Caracas e il suo disperato bisogno di trovare “un equilibrio”, un posto nel mondo dove dare un senso alla sua rabbia, è solo un sogno partorito dalla fantasia di Giordano. 

Un personaggio e non una persona, un mosaico costruito ad arte perché simboleggi qualcosa: magari “Napoli stessa” o magari i timori e paranoie verso cui si sta spostando il mondo intero.

Riuscirà la storia di Caracas per lo meno a trovare un bel finale?


Marco D’Amore, prendendo spunto dal romanzo Napoli Ferrovia di Ermanno Rea, ci trascina nel ventre di una Napoli labirintica, una nuova Babilonia che trovatasi di colpo incapace di amare rimane sospesa tra il caos e la necessità di inseguire “simboli di ordine”, affascinanti e accoglienti quando spesso forvianti, autodistruttivi. Tra le vie della sua infanzia, lo scrittore stanco Giordano, interpretato da un Toni Servillo come sempre straordinario, incontra o forse solo immagina di imbattersi, tra tanti volti, in Caracas. Il personaggio, interpretato del sempre più “massiccio” Marco D’amore, è quasi un anti-eroe “metafisico”, un uomo perennemente arrabbiato della propria immobilità umana e alla ricerca di mondi lontani e “scopi più alti”, ma senza la voglia di allontanarsi mai veramente dall’unico luogo che lui chiama “casa”, che vivrebbe come una sconfitta. 

Un eroe che vive per questo “sospeso”, tra i pensieri più che tra le persone, viaggiando prima attraverso il mito di famiglia, patria e padre promesso dal Duce e poi attratto in egual misura dalla spiritualità e accoglienza dell’Islam. Ma in fondo prima di tutto un uomo che in cerca di amore trovando sempre strade nuove per negarselo, che lo scrittore cercherà di guidare come può verso questa meta, seppur tra mille avversità. Uno scrittore che rivive in qualche modo in Caracas la sua vita in un quartiere difficile, prima da bambino che cerca di sopravvivere, poi da adulto confuso come Caracas, infine da “padre” di un luogo che, seppur gli anni ne hanno mutato la forma, non è variato nella sostanza e nello spirito, spigoloso ma anche accogliente. 


D’Amore rimane fedele all’opera originale, ma cerca spesso nella scrittura di destrutturarla, complicarla e “polemizzarla”. Grazie anche al montaggio di Mirko Platania scompone a puzzle alcune sequenze, viaggiando sulla continua linea di confine tra reale ed onirico, sottraendo alcuni pezzi necessari per la ricostruzione della storia ma rendendo il racconto qualcosa di più viscerale e profondo. Quasi una circolarità esistenziale. Crea così nei suoi personaggi, tanto per l’eroe che per il suo scrittore, una complessità emotiva tragica: qualcosa che ce li rende in egual modo rarefatti, malinconici e sfuggenti, quanto intimamente autentici. 

La Napoli della “zona ferrovia diventa attraverso la fotografia di Stefano Meloni e alle scenografie di Fabrizio D’Arpino un non-luogo universale, una città/mondo che potrebbe trovarsi in Italia o in Messico o a Caracas. Il comparto sonoro curato da Rodrigo D’Erasmo lavora in sottrazione, sceglie di soffermarsi con grande trasporto “naturalistico” nella descrizione dei mille rumori e suoni di questo mondo, dalla poesia delle onde di un mare percepito sempre “troppo lontano”, al suono da “percussioni” delle randellate che esplodono nell’odio sociale. Dall’estatica calma della preghiera condivisa al rimbombo della vita notturna, dai monti di “calca politica” in cui sembra partire una nuova guerra ai momenti riflessivi e quasi muti in “equilibrio” con la natura. Tutto ha un suono, compresa un’emotività dei personaggi che prende a volte il suo “spazio di sospensione” attraverso il fischio interno di un acufene. 

Caracas di Marco D’Amore è un’interessante pellicola su uno scrittore stanco e tormentato (Servillo) che cerca la sua nuova storia tra una Napoli quasi metafisica, che ama e dalla quale al contempo vuole fuggire, tra estremismi e personaggi che lui costruisce quasi a mosaico (come il Caracas di D’Amore), sovrapponendo sugli stessi più “volti e luoghi”, a volte anche lontani tra spazio, tempo e ricordo.  

D’Amore, già convincente come attore, come regista e sceneggiatore (accompagnato da Ghiaccio) reinterpreta bene il libro di Rea, cercando di destrutturarlo e scomporlo in modi anche complessi, alimentando sulla scena quasi un senso di perenne sospensione emotiva e precaria “identità”. Un senso di smarrimento sottolineato anche visivamente da una Napoli “dai mille colori e persone” che diventa lei stessa un non-luogo tra presente, passato e futuro, universale e labirintico quanto sempre uguale a se stesso, al contempo “centro e periferia del mondo”, attraverso un uso visivo quasi “emozionale” di fotografia e scenografia. 

Molto validi tutti gli attori coinvolti, buono un comparto sonoro che fa un ampio uso di rumori ambientali. D’Amore sta diventando un autore sempre più completo e interessante. Al netto di alcune imprecisioni nella gestione dei tempi nella parte centrale, questo suo lavoro risulta lodevole per costruzione e direzione degli attori. 

Un film originale e pieno di spunti di riflessione. 

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mercoledì 28 febbraio 2024

La natura dell’amore (Simple comme Sylvain): La nostra recensione della nuova commedia sentimentale scritta e diretta da Monia Chokri, autrice canadese musa di Xavier Doland

 


Il rapporto tra la docente universitaria Sophia (Magalie Lepine Blondeau) e il suo finanziato Xavier (Francis-William Rheaume), intellettuale sempre in giro per conferenze a Ottawa, si è fermato alla pompa di benzina. 

Lui seduto in auto, lei alla pompa, a fissare una coppia più felice di loro a ruoli invertiti a pochi metri. 

Lui, finisco minuto e occhialetti rotondi, ha appena tacchinato una francese di nome Josephine e ora, a casa, sembra indubbiamente intenzionato a tradire la moglie, essendo cascato nel classico giochino psicologico femminile: “Mi tradiresti con questa tizia se tu e lei doveste essere gli ultimi uomini sulla terra?”. Lui è caduto nel tranello e ha risposto di sì, anche se gli sembrava impossibile sopravvivere per un mingherlino come lui, in un’era postatomica, rispetto al nascente popolo di “uomini medi /super atleti” dedito al crossfitness. 

Ma tanto è bastato per la crisi. 

A letto, in letti separati. 

La coppia inizia a vacillare.

Il giorno dopo lui parte per congressi e lei va a supervisionare lo stato dei lavori della loro nuova casa di campagna, affidata da un muratore del posto di nome Sylvain (Pierre-Yves Cardinal). Lui parla per ore di ripristinare tubature del 1942 e spera che il circuito elettrico regga. Lei vede un ragazzone affascinante enorme e barbuto in camicia a quadri da boscaiolo, ma dallo sguardo gentile. 

Gli piace, si sente “sola” e si sfoga. Lui mansueto la ascolta nei suoi drammi personali più che sulle richieste di un sottotetto con cappotto. La conversazione parte sul luogo dei lavori, passa nel folcloristico bar locale pieno di boscaioli e poi direttamente nell’auto piena di chiavi inglesi e attrezzi del muratore, con intenti sempre più peccaminosi. 

Dopo un paio d’ore fanno sesso direttamente in quella che sarà la nuova taverna. 

I giorni passano, ma Sophia sente sempre più bisogno di contattare Sylvain per parlare del cappotto termico. Un po’ a tutte le ore. 

La nuova relazione prosegue, mentre Xavier non se ne accorge anche perché ha problemi con il padre con l’altzeimer e la gestione di una madre super preoccupata per la discendenza della prole, che vuole nipoti già ora, subito. 

La suocera chiede anche a Sophia se è disposta per lo meno a congelare gli ovuli adesso, mentre è ancora fertile, nel caso dovesse protrarsi per troppo tempo la sua “mania carrieristica dall’insegnamento” per quel suo corso di filosofia per anziani che non servirà mai a niente e nessuno. La coppia originale piano piano si rompe del tutto, anche perché lei sa che di passione per il segaligno intellettuale non ne ha più e non ce ne era più già da tempo.

Basta salottini/conferenze per libri/ incontri chic con tizi che sproloquiano sulla fine del mondo, scenari da terza guerra mondiale, l’immigrazione e l’abbassamento dell’asticella del mondo verso il proletariato. Meno visite anche al fratello lunare di Sophia, il poliamoroso Olivier, come alla sua mamma perennemente depressa. 

Il marito Xavier  piange e se ne va con tutto il suo mondo. 

Ora Sophia frequenta i salotti più rumorosi e proletari di Sylvain, dove la gente urla, è promiscuamente attiva e le donne vengono trattate non troppo raffinatamente. 

La birra alla Alien ha in fondo spesso un sapore più buono delle bottiglie di vino di lusso. 

Ma in un attimo anche per il rude ma gentile Sylvain la gelosia pullula e galoppa. 

Accade per un vecchio giaccone di Xavier incautamente conservato da Sophia “solo perché comodo”. Il muratore in brevissimo mette fine alle gite sul gatto delle nevi, al nuovo sesso creativo sadomaso a base di collari, alle sue “sentite ma un po’ goffe” citazioni poetiche/amorose di autori controversi in odore di Xenofobia amati da lui. 

Sophia intanto cerca di venire a capo di quello che ha avuto e ancora vuole dall’amore, cercando di decifrarlo e comprenderlo nelle sue mille sfumature proprio a partire dagli insegnamenti dei filosofi che affronta in aula per i suoi studenti della terza età. L’insegnante sarà in grado di definire razionalmente la natura altalenante del sentimento confusivo e stordente che la sta travolgendo? 

O forse ciò che davvero sta cercando oggi è solo voglia di libertà? da ogni tipo di legame nei confronti di uomini così diversi ma in fondo ugualmente “tossici”?


Monia Chokri scrive e dirige una divertentissima commedia sull’amore e i suoi problemi tra “passione e quotidianità”, tra “cuore e cervello”, con al centro una irresistibile protagonista simpatica e stralunata con il volto della brava Magalie Lepine Blondeau. 

La nostra eroina riflette, si scervella, abbozza e soppesa ogni pro e contro, ma infine si muove come una palla impazzita tra ragione e sentimento. Dribbla i luoghi comuni tra borghesia e proletariato con un sincero “chissenefrega” di pancia, cambia stoicamente punto di vista.

Ma infine Sophia si invischia comunque nei casini di un troppo grande gioco di ruolo “sociologico/escatologico”, da lei stessa avviato ma forse più grande di lei, che in ultima istanza appare più tragico che erotico. 

Difficile non voler bene al personaggio della Blondeau, che in fondo è perfetta sintesi delle quattro donne di Sex and the City, specie quando sembra distaccarsi dal corso della trama e andare per una strada narrativa tutta sua, abbattendo i più triti luoghi comuni e dinamiche relazionali consolidate, in ragione di uno spirito più avventuroso che rivoluzionario. 

I suoi due “pretendenti” di contro, sospesi tra intellettualismo e machismo, sono entrambi destinati a soccombere dentro i cliché grandiosi che li muovono, autoparodizzati fino alla macchietta, tragicamente incapaci di reinventarsi guardando oltre al loro ego ed egoismo.

 Alla fine l’autrice di questa pellicola sembra quasi dire, con tutta la dovuta ironia del caso e tutta la forza della metafora, che chi mette la benzina nella propria auto è chi comanda davvero il suo destino, e forse deve pensarci più di una volta se caricarsi in auto un passeggero troppo ingombrante. 

La natura dell’amore non è quindi un film sull’amore per gli altri, quanto sull’amore per se stessi. È prima di tutto una ironica e irresistibile pellicola sulla “crescita personale”. 

Ottimi i tempi comici, brillanti gli interpreti, una narrazione sempre gioiosamente sopra le righe, ma anche un interessante utilizzo del pensiero accademico (qui si parla di filosofia universitaria come in Supereroi di Genovese si parlava di matematica) che sa dare più di una stoccata intelligente e originale all’intreccio. 

Un ottimo film per imparare ad amarsi prima di cercare il vero “grande amore”, se mai esiste. 

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