mercoledì 8 gennaio 2025

Better man: la nostra recensione del film biografico, musicale e un po’ “fantasy”su Robbie Williams, diretto da Michael Gracey

Premessa: Sono nata nel 1983, mi sono goduta parte dei favolosi anni ‘80 urlando per casa “‘cause I’m a lady, lady, lady easy lady” (!!!) di Spagna con l’innocenza di una bambina, amando alla follia Scialpi ed il suo improbabile taglio di capelli e con Jovanotti, che dava a tutti il cinque per poi partire militare. Grandi anni gli anni ‘80. Ma i ‘90 e i ‘00 non sono stati da meno, specie se li vivi appieno in un periodo di transizione che va dalle elementari al liceo. Momento chiave per la vita di chiunque. Il 2024 ha rappresentato, forse per la prima volta, un anno in cui mi son sentita “diversamente giovane” in quanto ricco di revival per la mia generazione. Prima ci ha pensato Sky, con la serie sugli 883 Hanno ucciso l’uomo ragno, che ha colto in pieno la spensieratezza delle elementari e quel “poter dire le parolacce perché sono testi delle canzoni degli 883”. Poi ci si è messa Netflix con Senna. Tutti si ricordano cosa stavano facendo quando è morto Ayrton. Io stavo giocando in giardino con il mio vicino di casa e mio papà, grande appassionato di F1, guardava il GP di Imola in soggiorno. Ad un certo punto è venuto a chiamarmi dicendo “Senna ha avuto un incidente. E’ lì che non si muove”. E da quel momento i pomeriggi della domenica hanno avuto un sapore differente, citando Cesare Cremonini… “da quando Senna non corre più… non è più domenica”. Ma il colpo di grazia definitivo mi è arrivato con Better man


Sinossi: Better man è la storia di Robbie Williams. Raccontata da Robbie Williams. A modo di Robbie Williams. 

Ma chi è Robbie Williams? Per me la rockstar più incredibile che sia mai esistita tra il 1997 ed il 2003. Ma come Robbie è diventato così? Ce lo racconta il film. Si parte da un baby Robert (lo “interpreta digitalmente” Jonno Davis, mentre la versione adulta di Robbie è interpretata dal cantante stesso) che cresce in un sobborgo inglese coi genitori e la nonna. Bullizzato, non esattamente bravo a scuola, incompreso. Un giorno il padre (Steve Pemberton) se ne va di casa per sfondare nello show business lasciando una madre single (Kate Mulvany), una nonna con qualche problemino (Alison Steadman) e un bambino distrutto. La svolta nella vita di Robert avviene nel 1990, quando riesce ad entrare in una boyband creata a tavolino (il manager, dai tratti un po’ luciferini, ha il volto di Damon Harriman): i Take That. Da quel momento il mondo cambia e Robert diventa Robbie, il “burlone-stupidotto” del gruppo. Insieme agli altri quattro del gruppo: Gary (il leader, il solista, il cantautore, il “cicciobombo”, interpretato da Jake Simmance) da Mark (il babyface del gruppo, interpretato da Jesse Hyde), Jason e Howard (che per fortuna ad un certo punto uno, Howard, si è fatto crescere capelli rasta e si è messo un piercing al sopracciglio… altrimenti sembrano quasi identici, gli attori Liam Head e Chase Vollenweidel) i Take That diventano la boyband inglese più importante della storia. Mai stata la mia boyband. Però è la prima che mi ricordi. Copiati da innumerevoli altri gruppi… gli East 17 (gli East 17!!!!), i Boyzone, i Blue, gli One Direction… o le versioni femminili come le Spice girls, le All saints… o le versioni statunitensi… New kids on the block o i “miei” Backstreet Boys (“kisses for Kevin”, citazione per le più fanatiche…). 

La vita nei Take That non è tutta gioia e felicità per il nostro Rob. Anzi… alcolici, droghe, donne… non si fa mancare nulla. Ed infatti, nel 1996, Robbie viene fatto fuori dal gruppo. E da qui Robbie, anche grazie a un nuovo amore (Nicole Appleton delle All Saints, interpretata dalla brava Raechelle Banno) inizia il percorso per diventare la più grande rockstar del mondo con una carriera solista fatta di hit memorabili e fantastiche che mando a memoria ogni singolo giorno. Come non rispondere all’invito “shake your ass, come over here, now scream” di Let me entertain you o come non ritrovarsi nel “so need your love, so f**k you all” di Come undone. La speranza che “something beautiful will come your way” o la certezza che ormai “early morning when I wake up I look like Kiss but without the make-up” di Strong

La trama del film è la vita di Robbie. Quindi, se non la conoscete, la conoscerete bene. Se la conoscete, è un tuffo nei più vividi ricordi musicali e da video di mtv degli anni scorsi. Creato alla perfezione. Ogni singola scena è un riferimento ad un evento, concerto, foto, copertina vissuta da Robbie e dai Take That. 


Ma perché guardare questo film? Ve lo dico punto per punto!

-Attori perfetti. Trucco e parrucco perfetto. Non è scontato e non è mai banale trovare un cast che riesca bene a interpretare dei personaggi in modo credibile e convincere, quanto a ballare e cantare in coreografie complesse. Merito del regista ma anche di Robbie Williams stesso, insieme co-autori e produttori. 

Williams ha voluto mettessi a nudo emotivamente, quasi scomparendo sotto gli effetti digitali ma curando moltissimo la scelta di attori che avrebbero rappresentato pezzi importantissimi della sua vita personale. 

Su tutti svetta Steve Pemberton, attore che riesce a dominare la scena con un ruolo pieni di estro, contraddizioni e una complicata emotività. Il suo è un “padre” che vive perennemente “Tra palco e realtà”, come canterebbe Ligabue: è un uomo perennemente scontento e in fuga da se stesso, che sa comunicare “davvero” con il figlio solo attraverso la musica, come se la vita fosse solo una continua ricerca della performance in pubblico, dove l’aspetto privato sia quasi privo di senso. 

Ci è piaciuta molto anche Raechelle Banno, alle prese con una Nicole Appleton, “il grande amore”, solare ma al contempo fragile, travolta dalla gioia quanto dalla sofferenza di vivere al fianco di una persona geniale, divertente ma spesso in un profondo stato di crisi emotiva. La sua performance è come un lungo ballo, passo a due che dal rock si fa tango, fino inevitabilmente a finire. 

Ci è piaciuta la “nonna”, interpretata da  Alison Steadman, che invece  riesce dall’inizio alla fine a guardare il suo nipotino con un enorme sorriso, confortandolo e sostenendolo in ogni sua “sfida”, con lo sguardo benevolo “di un angelo”. 

- Better Man è un film da guardare anche perché il registra, Michael Gracey, sa essere nei momenti migliori un visionario. Un “piccolo” Baz Luhrmann, che riesce a interpretare il cinema come un grande ottovolante pieno di balli, colori e musica, trasformando la pellicola in un “lungo videoclip di MTV” pieno di scene dal sapore contrastato, a volte “sperimentale”., mischiando con gusto generi e suggestioni, cromie e ritmo. Già aveva mostrato il suo talento nel bellissimo The greatest showman con la coppia Hugh Jackman e Zac Efron in stato di grazia, nonostante la “materia di base” fosse difficile quanto controversa. Alcuni numeri di Better man, carichi di citazioni, centinaia di ballerini, effetti speciali, scene oniriche, corse in auto a tutta velocità, momenti belli e brutti, romantici e tragici, riempiranno gli occhi anche degli spettatori in cerca di questo tipo di cinema. Anche di chi non è fan dei Take That.

- Un ulteriore motivo per guardare Better Man è perché è uno di quei rari, quanto preziosissimi, musical in cui le canzoni sono parte integrante della trama e non semplice compilazione da greatest hits. Inserite perfettamente nei dialoghi tra i protagonisti. Un po’ com’era stato fatto per Rocketman sulla vita di Elton John, le canzoni raccontano realmente uno stato d’animo, un evento preciso, un sogno o ricordo sfuocato. 

- la colonna sonora è il miglior greatest hits di Robbie Williams mai creato. 

- Un ulteriore motivo per guadagnare Better Man è banalmente forse anche il primo: l’essere  fan. Su questo aspetto trovo nella pellicola un po’ tutta la mia adolescenza. :-) (e forse è così pure per l’adolescenza di centinaia di altre fan), che rivive in un mondo patinato ma perfettamente ricostruito fino nei dettagli, dalla MTV Generation alle luci di Piccadilly Circus, dalle “rivalità tra band” (c’è una “band rivale” che appare sulla scena in un modo divertentissimo, ma non facciamo spoiler) a colpi di gossip alla spietata macchina dello spettacolo, che travolgeva la vita di tutti i cantanti a suon di scandali, reimpasti, scioglimenti e Reunion. Tutte cose che di riflesso infiammavano anche i fan, che tra radio e dischi accompagnavano la loro vita quotidiana con quelle stesse canzoni.  


Finale con voto, anche se qui di solito non mettiamo i voti: 

Voto 5 su 5 (ma sono fan… non fossi fan 5 su 5)

Buona visione da B-Gis.


P.S. Dimenticavo… Ad impersonare Robbie è uno scimpanzé, mentre il 99% del resto del cast è “umano”… e lo impersona alla perfezione. Grandissima trovata, che permette a Robbie di “recitare” in un modo del tutto “nuovo” quanto convincente, anche perché la tecnologia “scimmiesca” degli ultimi anni, da King Kong al Pianeta delle Scimmie, dalle Scimmie Canterine di Sing alle Scimmie Transformers, ormai ha dato vita a scimmie cinematografiche bellissime. Scimmie piene di espressività quanto di pelo lucido, in grado di lanciarsi in ogni angolo dello schermo come palline da flipper, arrampicarsi sui palazzi, scatenarsi in concitati momenti action, scontri a mani nude. Ma al contempo scimmie dagli occhi enormi e una fisicità “buffa”, in grado di raccontare momenti dolci e sognanti come quelli che prendono forma su un libro di favole. E Better Man, incredibilmente, funziona anche solo per queste scelte grafico stilistiche, come film che riesce a diventare a volte quasi action-fantasy: con il nostro protagonista in grado di superare la forza di gravità e spesso costretto a “confrontarsi con altre Scimmie”, in scontri “sul confine tra palco e pubblico” a tratti onirici come a tratti davvero epici, quasi horror, concitati e pure altamente drammatici. Gli effetti speciali sanno creare davvero un livello narrativo ulteriore, intrigante quanto in grado di coinvolgere anche “chi non è fan di Robbie”. 

Insomma un film per tutti. Da non perdere, carichi di pop corn e coca cola, si grande schermo. E se poi siete fan, un film imprescindibile!!!

martedì 7 gennaio 2025

Cortina Express: la nostra recensione del cinepanettone “vintage” di Eros Puglielli, scritto insieme a Tommaso Renzoni, con protagonisti Christian De Sica, Lillo, Paolo Calabrese, Isabella Ferrari, Veronica Logan e Marco Mazzocca


Siamo in una Italia dei giorni nostri, giusto dal sapore “un po’ vintage”, in una delle città più iconiche e amate per glam e lusso nella stagione invernale. 

Sulle piste innevate di Cortina (che qualcuno scambiò per le Montagne Rocciose, nel film Cliffhanger), un piccolo e variegato popolo di autoctoni e turisti, allegro e felice, coperto da tute firmate e variopinte, scia spensierato sotto le note di un pezzo disco/pop “un po’ vintage”, che trasmette la sensazione agrodolce di una festa delle medie degli anni ‘80. 

In sottofondo, quasi fosse il prologo de Il signore degli anelli o di uno 007, prende vita, tra scintille dorate e la rotazione eperta di un tornio, un manufatto d’oro molto speciale: un anello nuziale adornato con le corna di un cervo, espressamente disegnate dalla novella sposina. 

Una classica cafonata dal sapore vintage, ma pure un simbolo di unione, lusso e corna, finalizzato a suggellare esattamente quanto promette. 

Promette infatti una “unione”, ma prettamente economica: finalizzata a  salvaguardare “il lusso” in cui vive una ricca famiglia della valle dalla bancarotta, i Giordano, a danni di una ricca famiglia più benestante, i De Roberti. 

Celebrato il matrimonio, la scafata e poco ingenua sposina Guendalina (Agata Samperi), sarà libera di mettere “le suddette corna” al giovane e un po’ minchione sposino/preda Andrea (Francesco Bruni), magari per buttarsi su un trapper un po’ bauscia come lo scarsissimo e iper narcisista Osso Sakro (Riccardo Maria Manera). Un piano semplice ma terribile, quasi perfetto, orchestrato, come in una telenovela un po’ vintage, da una “cattiva carismatica” come la risoluta imprenditrice discografica Patrizia Giordano (Isabella Farrari), insieme allo complicità, forse involontaria, dello stralunato e confuso consorte Aristide (Marco Mazzocca).

Un piano che tuttavia non ha tenuto conto di due variabili impazzite. 

La prima variabile è Lucio De Roberti (Christian De Sica), lo scafato e farfallone zio di Andrea, che si recherà di corsa a Cortina per fermare tutto, temendo la distruzione e dispersione di un patrimonio con il quale ha vivacchiato senza di fatto fare nulla da sessant’anni, buttando tutto su donne e nel gioco d’azzardo. Si impegnerà al massimo per mandare il matrimonio a monte, a costo di sputtanare il nipote, fotografandolo ubriaco mentre amoreggia con un travestito dopo una festa-trappola organizzata da lui stesso. Non si farà problemi a coinvolgere una escort nel furto dell’emblematico anello-cornuto, affidato come tradizione all’incasinato sposino, senza il quale tutta l’anima cerimonia potrebbe saltare. Nel frattempo, per tirare su due lire che non ha, Lucio cercherà di vendere a chiunque la sua Ferrari vintage rosso fiammante, tenuta come un cimelio in garage, almeno per 50 papagne: di sicuro non per 10, forse 40. 

La seconda variabile che potrebbe andare contro Patrizia è invece, ironicamente, proprio quello che per lei sarebbe stato idealmente “il piano B”, nel caso il matrimonio fosse andato a monte: l’ex cantante famoso e ora ristoratore romano Dino Doni (Lillo). A lui, che vive sull’orlo della disperazione, ha promesso con l’inganno una casa discografica in salute, oltre che una poco più che accennata speranza di una “liason amorosa direttamente con lei”. Tutte balle, ma balle a cui Dino, che un po’ vive ancora nel sogno vintage dello yuppismo anni ‘80, ha sempre creduto fortissimo. Al punto da prendere un treno diretto per Cortina insieme alla figlia Giorgia (Beatrice Modica), super fan di Osso Sakro, spendendo e sperperando migliaia di euro che non ha in taxi, hotel, ristoranti e vestiti, pur di arrivare a firmare quel contratto fintamente salvifico. Solo che Dino è così maldestro che è quasi programmato per generare un gran numero di sfighe, contrattempi ed equivoci che renderanno quasi impossibile la firma del contratto.

Dino e Lucio creeranno insieme così tanti “casini a valanga”da attirare pure l’attenzione della malavita locale, nella persona del truce ma pure un po’ “bonaccione” boss Alexei Smirnoff ( Paolo Calabresi). Un uomo pericoloso, con due occhi di colore diverso, ma molto legato al rispetto delle regole e alla musica di Dino Doni, che fa ancora fortissimo nell’est Europa. Alexei può essere anche simpatico e “giocoso”, ma vorrà infine anche lui un pezzo della torta.


Nonostante tutti questi giochi di potere, degni di una versione vintage del Trono di Spade, a Cortina c’è spazio anche per l’amore. Almeno “quattro tipi” di amore. 

L’amore “un po’ ninfomane”, che da anni cerca la ricchissima nobildonna Zanin (Veronika Logan), trascinando nella sua suite a cinque stelle ultra lusso camerieri e ogni tipo di giovane amante, pescato a caso dal ristorante per qualche ora di passione. 

C’è poi l’amore “a senso unico” che spinge Giorgia verso il trucidissimo e insensibile Osso Sakro: che la porta a cercare di entrare in intimità con lui nonostante il ribrezzo che prova per quasi tutti i suoi comportamenti.

L’amore “fintissimo, alternato da continua collera”, che in qualche modo misterioso lega quel povero ragazzo un po’ zerbinato di Andrea alla sua intollerante e dispotica sposina/carnefice. 

L’amore di Dino “per l’immagine grandiosa di Dino Stesso”: che lo costringe a pagare delle persone perché in un negozio di souvenir tipico qualcuno si fermi per “riconoscerlo”, come una grande stella della musica che brilla ancora. Così da “far vedere a sua figlia” che suo padre non è un fallito. 

Forse non le migliori premesse per un matrimonio o un qualche tipo di amore ma, in fondo, a natale sono “tutti più buoni”. Che da una tale sequela di tragedie, nel nome della ostentazione e della truffa, possa mai nascere qualcosa di davvero buono?  


A Natale, sono  tutti più brutti, sporchi e cattivi: “Marchette! Marchette!! Marchette!!!” Era questo il mantra dell’amatore seriale interpreto da De Sica, mentre spiegava perentoriamente a un figlio sparsato (un bravo Sermonti) il suo vero lavoro, nella precedente e riuscita opera diretta da Eros Puglietti:  la serie tv Gigolò per caso

Lì De Sica dava corpo a un “Trivellone” (storico personaggio dei cinepanettoni) nuovo, “moderno” o “2.0”. Un Trivellone che  non ostentava più  quella maschera di facciata, “socialmente e moralmente accettabile”, che era alla base della sua tragi-comicità, nonché pietra angolare di tutti gli anti-eroi protagonisti di questo filone cinematografico. Una maschera che reinterpretava l’arlecchino servo di due padroni ai tempi dello yuppismo“, presentandosi con poche variazioni ”fin dall’esordio del “genere/cinepanettone”: che per lo scrivente è più che altro riconducibile come archetipo a quel Pozzetto di Luna di miele in tre (che sarebbe potuto chiamarsi benissimo “Natale in Giamaica”), il primo film di Vanzina, datato 1979. 

Una maschera che ha accomunato tanti anti-eroi simili (coi volti di Pozzetto ma pure Banfi, Pippo Franco, Calà, Greggio e altri, almeno fino alla sua “strutturazione massima”, su De Sica), un po’ ruffiani e un po’ maldestri, spesso trascinati in una continua elegia di “travestimenti”, fughe da tavoli di ristoranti e camere d’albergo, con l’intento di “sdoppiarsi”, fisicamente e moralmente, per evitare randellate da parenti/potenti e mogli/opprimenti. Cercando narcisisticamente di apparire migliori, “almeno a Natale”, senza rinunciare alla loro personale “bolla di trasgressione” (spesso incarnata da una bella donna), fino a che ogni castello di carte insieme alla maschera cadeva, fragorosamente, sotto le risate della sala. 

Il De Sica diretto da Puglielli in quella serie tv era già diverso: rivelava candidamente di fare il gigolò, pragmaticamente, senza giri di parole, “marchette! Marchette! Marchette!”. 

Come di fatto tutti i personaggi di Cortina Express ci appaiono: “diretti”, senza filtro, pronti alla prima occasione che gli si propone a “svelare le carte” senza paura di apparirci orribili, opportunisti o superficiali. Tutti con licenza di essere cattivi, consapevolmente e candidamente in cerca di “sesso e soldi”, in una Cortina sbrilluccicante e super esclusiva che in quanto tale “nobilita tutti”, rendendoli “più candidi e carini”, sotto le luci e la neve di Natale. 

Cambia così il ritmo, ma anche la struttura del racconto, spegnendo quel “moralismo” che da sempre accomunava i cinepanettoni ai classici film di Natale americani, come ai film horror slasher di Wes Craven.

In un mondo di crociati del politicamente corretto, del resto, la “condanna all’immoralità” deve essere pure nella finzione cinematografica “a vita”, senza condizionale o possibilità di redenzione: chi ha toppato 30 anni fa, ha toppato per sempre, è “cattivo per sempre”. Ogni “tentativo di cambiamento”, ogni speranza di “essere migliori”: se vogliamo le “chiavi” e senso ultimo della lettura di film natalizio medio, dai tempi di Frank Capra, se non dai romanzi di Dickens, sono destinati alla irrilevanza. . 

E mettersi nei panni di personaggi come il Trivellonne di De Sica, in un mondo in cui non è più consentito nemmeno “pensare” fuori dalle regole come lui, non è più un lusso attuabile. 


Se l’antieroe si fa da parte, ci rimane la possibilità di empatizzare solo con il personaggio dell’“idiota”, il “candido” o “bambinone”. Certo, non lo troveremo mai “simpatico”: al massimo “buonino”, “innocuo”, “insapore”. A esagerare, una specie di Minions umanizzato. Quel non-personaggio, che da anni insegue Lillo, che in genere cammina dritto come un lemmings, buffo solo per il fatto di essere un lemmings. Buffo se non buffissimo in una serie di gag da pochi minuti, ma che su un film di due ore “si smaschera”, nel momento in cui lo spettatore medio “si sveglia e capisce”: come non può empatizzare per l’antieroe, lo spettatore non può riuscire nemmeno a empatizzare con un lemmings. Perché gli ricorda troppo il fatto che viviamo in un mondo in cui tutti, chi più chi meno, siamo ridotti dalla società alla stregua dei lemmings. Ridotti ad accettare tutto senza alzare la testa, sperando solo in sporadici “atti di pietà”. Ridotti a “elemosinare like” sui social, spesso fingendoci più “grossi” e “determinanti” di ciò che siamo, come Dino Doni elemosina a pagamento scampoli di una notorietà, che pensa sia l’unica panacea per “sentirsi bene”. È allora che si accende il “senso del tragico” e il personaggio tipico di Lillo, così passivo fino all’autodistruzione, ci fa avvertire tutta l’impotenza in cui viviamo. Una impotenza davanti alla quale una maschera come Fantozzi si ergeva potente ed eroica come una specie di titano, in quanto sapeva alzare la testa e criticare il potere, sebbene venisse puntualmente “rimesso nei ranghi”. 

Cosa ci rimane, se non possiamo più avere l’antieroe e l’eroe, pur comico, non è che un lemmings? 

Come nei cartoni animati, ci rimane da fare il tifo per i cattivi a tutto tondo. L’antieroe Trivellone, riciclato a cattivo, senza troppe sorprese funziona alla perfezione. Con lui funziona ancora e ovviamente un bravissimo De Sica, che rimane uno straordinario interprete. Come colpiscono in positivo, per stravaganza e codici morali “distorti”,  il villain lunare di Paolo Calabrese e il villain cinico di Marco Mazzocca. Come incarnano al massimo la sensualità e il cinismo senza compromessi le “femme fatale” di Veronica Logan e Isabella Ferrarri. 

Quanto sono belli, i cattivi. 

Solo che di colpo non si ride più come “aspetto principale” dell'esperienza, affrontando la visione direttamente come fosse un fumetto di Diabolik. C’è una location bellissima e lussuosa che profuma di ricchezza come Clereville (Cortina), c’è un oggetto prezioso da recuperare (l’anello cornuto), ci sono persone ambiziose quanto ambigue che se lo contendono (le famiglie di ricchi annoiati), criminali senza scrupoli per un paio di scene d’azione (i gangster dell’est) e un’auto di lusso che sfreccia sulle strade (una Ferrari al posto di una Jaguar). È letteralmente Diabolik, anche più della trilogia dei Manetti, con De Sica e la Ferrari che paiono Diabolik ed Eva Kant. 

Certo si ride ancora, facendo molto slalom tra il cinismo, ma è quasi una felice sfumatura extra: il prodotto finale è qualcosa dal sapore molto differente. 

Forse la serialità del precedente lavoro di Puglielli riusciva a preservarne maggiormente la verve comica. Forse Gigolò per caso, del 2023 era come opera stessa una versione riveduta e corretta meglio del lavoro ancora antecedente di Puglielli, il film del 2022 Gli idoli delle donne, in cui era protagonista un sempre insapore Lillo, nel solito ruolo “da Lillo”.

In Cortina Express si sorride, al più, assistendo a una specie di storia alla Diabolik. 


Finale: eccoci quindi al cinepanettone 2.0, debitamente ripulito anche di tutti quegli aspetti pruriginosi che tra docce sexy e giochini hot oggi sarebbero solo intesi come “sessisti”. Ripulito pure delle “note di trash”, al sapore di eloquio vernacolare, cacca di elegante o vomito verde-pesto, che hanno infuso una sorta di “eversione stilistica” nei cinepanettoni del nuovo millennio, perché “fa boomer”. Ripulito del “buonismo fuori tempo massimo” secondo quanto impone la “gogna social”, di cui abbiamo parlato poco sopra.  

Forse un cinema ancora poco ripulito dalle gag sulle imperfezioni estetiche, al punto che qualcuno potrebbe ridere del “vero colore” degli occhi del boss interpretato dal bravo Calabrese, che è esasperato a fini comici, mentre qualcun altro, inconsciamente, potrebbe già sentire il sicuro timore di offendere qualche minoranza, magari ancora non contemplata nel politicamente corretto.

Cortina Express si guarda come Assassinio sull’Orient Express: cercando sulla scena un cadavere e chi ne è colpevole. Qui il morto pare essere il cinepanettone in senso stretto: spolpato, macinato e ri-cucinato dai suoi stessi autori e interpreti, a vantaggio di una odiens moderna, in cerca anche di sapori nuovi e inediti. 

Ha un gusto effettivamente diverso dal solito, più cattivo e disincantato, meno divertente ma più luccicante. 

Presenta ancora delle suggestioni che richiamano gli anni ‘80, sapendo cullare il pubblico più antico con una parola magica come “vintage”, più e più volte esibita come una certificazione di qualità e di origine controllata su tutto quanto si vede e ricorda, dalle musiche alle automobili, dalle sempiterne piste innevate ai locali più in voga.

È un cinepanettone senza canditi però, la cui nuova forma andrà indagata a fondo, per capire se si tratta di rinascita oppure assassinio, sul Cortina Express. 

Talk0

lunedì 6 gennaio 2025

Tofu in Japan: la nostra recensione di una favola moderna, ambientata all’ombra di Hiroshima, scritta e diretta da Mihara Mitsuhiro, con Fui Tatsuva, Aso Kumiko, Nakamura Kumi

Sinossi: La prefettura di Hiroshima dei giorni nostri è un luogo tranquillo e sorridente, famoso per il turismo, il cibo e le cliniche, dove il tempo sembra essersi fermato agli anni '60. Tuttavia è un luogo con il cuore ancora ferito dalla bomba, dalle generazioni che questa ha spazzato via, dall’esodo di tantissimi giovani verso le opportunità delle grandi città come Tokyo.

Nella piccola cittadina di Onomichi, ogni  giorno da tantissimi anni, fin dalle prime luci dell’alba, lavora a pieno regime il “Tofu Takano”. 

Qui il Tofu prende forma da materie prime pregiate quanto tenute gelosamente segrete (forse vaniglia?). Viene filtrato da macchinari ad alta pressione e precisione, lavorato con la forza delle braccia in grandi pentoloni, tra nuvole di vapore che rendono tutto il laboratorio cangiante. È un lavoro che richiede ferrea tempistica, ma anche una armonia di movimenti e sapori che si può acquisire solo dopo molta pratica e impegno. 

I due artigiani preposti, vestiti di abiti, grembiuli, guanti e stivaletti bianchi, si coordinano silenziosi ascoltando i suoni prodotti dal Tofu dal primo impasto alla scolatura e taglio del prodotto finito in cubetti. Prima di mettersi a vendere il loro prodotto, ponendolo direttamente sul bancone della stanza attigua, si regalano una tazza celebrativa di caglio che assaporano in silenzio. 

L’artigiano più anziano è anche il titolare, Takano Tatsuo (Fuji Tatsuya, uno degli attori più famosi e oggi “anziani” del Giappone, protagonista anche del cult L’impero dei sensi). Uomo possente ma canuto, poco ciarliero, gentile nei modi, a tratti un po’ scorbutico nelle relazioni umane. È un artigiano meticoloso, appassionato, orgoglioso e pieno di amore per il suo tofu: considerato, con sua enorme gioia, come il migliore di tutta la zona e perfino arrivato all’attenzione degli stranieri, grazie al tam tam dei social. 

Oltre a curare la sua personale rivendita, con la formula “pochi prodotti ma di qualità”, Tatsuo fornisce il tofu anche al supermercato locale, spesso scontrandosi con chi gli chiede di aumentare la produzione, rivelare la ricetta o in qualche modo espandere il suo prodotto fino a poter servire anche i supermercati di Tokyo. Tatsuo odia Tokyo e i suoi Giants, le grandi catene in generale e l’idea stessa che il suo prodotto, diventando “industriale”, perda quel sapore e fascino unico, che lui solo sa conferirgli lavorandolo a mano. 

Della stessa imprescindibile idea di qualità e artigianalità è la collaboratrice più giovane del Takano Tofu: la timida ma energica figlia di Tatsuo, Haru (Aso Kumiko). È brava e sorridente con i clienti, volenterosa e molto creativa nella fase di elaborazione finale del prodotto. Ogni tanto prova ad aggiornare la produzione con novità, diventate in breve popolari e richieste, come “il Tofu fritto”. 

Ma il padre tende a limitarla, così come non la ritiene ancora il grado di gestire, con dimestichezza necessaria, la fase cruciale e “originaria” dell’impasto: dove muscoli e tempi corretti nel ritmo della mescola vanno dosati con precisione assoluta. 

Forse lo fa per orgoglio: per sentirsi ancora dopo tanti anni solo lui il solo e indispensabile “creatore” del Tofu migliore di tutti. Forse lo fa per paura: temendo di non servire più a molto, il giorno in cui la figlia prenderà tutte le redini della produzione. Forse lo fa perché è un padre iperprotettivo: che da quando Haru era piccolissima ha fatto di tutto, perché lei non dovesse mai scottarsi o farsi male, gestendo pentole bollenti o troppo grandi. 

Quale che sia la verità, Tatsuo sente che sta diventando davvero troppo vecchio. È tempo che Haru, che ormai da anni lo segue fedelmente e senza chiedere nulla in cambio, possa avere la possibilità di trovare la sua strada e farsi una sua famiglia. 

In passato la ragazza ci aveva già provato, ma aveva incontrato un tizio della odiatissima Tokyo ed era finita male. Ora Tatsuo deve però cercarle la persona giusta, magari qualcuno che ami il Tofu e possa avere tutte le qualità migliori: come il suo “Tofu”. 

Gli amici del barbiere e del bar, tutti un po’ strampalati ma risoluti, fanno subito quadrato intorno all’artigiano, solidali e operativi. Si lanciano alla caccia dei “curriculum più appetibili”, del meglio della zona. Creano un database con foto, accolgono critiche metodologiche, organizzano gli incontri conoscitivo/valutativi dei più papabili con lui. È una caccia durissima, anche perché il paesino è pieno di tizi di Tokyo o che tifano Giants, che lo irritano un casino. 

Ma alla fine qualcuno di papabile, ben disposto, carino, esperto di Tofu e che non sia di Tokyo o tifi Giants, si trova. Ora occorre organizzare “la seconda fase”: dimostrare a Haru che non si tratta affatto di una specie di matrimonio combinato. Il candidato dovrà capitare per caso in negozio e Tatsuo dovrà apparire sorpreso quanto colpito, addirittura propositivo nel caldeggiare un incontro intimo a cena, tra Haru e un tizio sconosciuto. 

Recitare che non è per niente nelle corde dell’artigiano e qui occorre una  interpretazione da Oscar. Così  gli amici organizzano per lui una specie di “copione” di cose precise da dire al candidato incontrato “per caso” in negozio. Per rendere il tutto più credibile, ingaggiano una ragazza che studia in un corso di regia: per migliorare l’interpretazione di Tatsuo dopo varie simulazioni, a cui partecipano tutti gli amici, che avvengono in un parco giochi, davanti a bambini un po’ perplessi.

Mentre Tatsuo è intento in questo teatrino, deve occuparsi anche della sua salute, diventata negli anni più cagionevole. L’ospedale è un posto “difficile”, ma che lo fa avvicinare presto a una paziente che si trova lì per problemi simili ai suoi, gentile e piena di vita: Fumie (Nakamura Kumi). Fumie ha più o meno l’età di Tatsuo e si reca a Onomichi solo per le cure, permettendosi il soggiorno lavorando come cameriera in un hotel della zona. 

Tra i due nasce un'intesa forte, che piano piano li allontana dalle preoccupazioni delle malattie e dell’età. Dal bisogno di “organizzare il futuro agli altri” come dai troppi fantasmi del passato, che sempre più spesso vengono a far loro visita.

Del resto ogni giorno Tatsuo dà alla vita un Tofu nuovo quanto eccezionale. E forse Haru vorrà continuare a farlo.


A tavola al cinema: Cibo e Cinema manifestano da sempre, dai tempi delle noccioline e del pop corn, un legame speciale e privilegiato. Un legame che si sta oggi evolvendo in interessanti esperienze cinematografico/culinarie, in salette dove servono pasti accompagnati da bevande e pellicole, come al cinema Anteo di Milano. 

Del resto opere con protagonisti cuochi e cucine sono sempre state all’ordine del giorno, dal sarcastico La Grande Abbuffata al tenero Ratatouille, passando per “l’anti-narcisistico” Il sapore del successo e al recente, folgorante, Il gusto delle cose, di  Tran Anh Hung: un’opera dove la cucina di un cuoco francese si trasforma in un autentico atelier di arte e musica, composta solo da pietanze e passione in un'armonia di impasti e composizioni unica, trascinante e quasi trascendente. E che dire dell’horror gastronomico The Menù, con un luciferino quanto generosamente appassionato Fiennes e critici gastronomici estasiati all’idea di diventare parte di una pietanza?

Molti registi inseriscono poi da sempre, in opere che parlano di qualunque tematica, dei momenti in cui si parla di cibo o della preparazione di un piatto specifico. Tra i più noti, Coppola o Tarantino, ma anche Rodriguez, De Palma, spesso Scott e Zemekis. Ma anche Hayao Miyazaki, che venne “bacchettato” dal suo collega/rivale/amico Takahata per quel suo unico film, Nausicaa nella Valle del Vento, in cui non aveva descritto in animazione un piatto “davvero commestibile”.

Rimanendo in terra d’Oriente, troviamo due esempi illustri di registi che hanno da sempre parlato del loro lavoro come di quello di “cuochi specializzati”. Takashi Kitano ha più volte descritto le sue opere come un insieme di materie prime “fresche” come il sushi: l’idea deve essere folgorante e succosa e deve essere servita appena “pescata”. Il cinema di Kitano nasce da un’urgenza creativa che fa di lui un cuoco specializzato nell’elaborarla e servirla con creatività in tempi rapidi, come un cuoco esperto di sushi. 

Il grande Ozu si definiva invece proprio come un "fabbricante di tofu": in quanto dal suo punto di vista sfornava uno dopo l'altro film tematicamente e stilisticamente simili, proprio come i produttori del “modesto” alimento a base di soia sfornano cubetti indistinguibili l'uno dall'altro. Il regista di Viaggio a Tokyo (1953) ci parla con questa suggestione della capacità del cinema di farsi “nutrimento per il pubblico”. Un bisogno che più essere “modesto” in quanto “semplice”, che nasce per la basilare voglia di “uscire una sera”: per andare in sala con la voglia di divertirsi e staccarsi dal mondo (ma che poi può strutturarsi di più). Una voglia quotidiana come il Tofu, uno degli alimenti più popolari e più semplici nelle cucine orientali, ma oggi anche uno dei più riconosciti nelle diete. 

Nel capolavoro del 2009 di Teddy Chan, Bodyguards and Assassins, il personaggio di un monaco pieno di altruismo viene soprannominato come il particolare Tofu fermentato secondo tradizione cinese: “Tofu Puzzolente”. Un Tofu con personalità, se vogliamo con aspetti di carattere simili ai nostri formaggi erborinati, che nella procedura di fermentazione incontra la terra.

Ma il film di Mihara Mitsuhiro ci parla del classico Tofu tutto giapponese, nato del caglio dei semi di soia, con l’aspetto finale tradizionale di “cubetto”. Un Tofu il cui sapore leggerissimo e delicato discende dagli alimenti e spezie a cui è associato: come una sorta di infusione di The alle erbe. Nel caso del Takano Tofu, quasi delle venature di vaniglia. 


Secondo una teoria giapponese diffusa, questo tipo di Tofu è  un alimento nato facendo bollire per caso delle fave di soia mescolate a del sale marino “sporcato”. Il sale al suo interno presentava calcio e magnesio, stimolando così l’arrivo al caglio e alla coagulazione dell’impasto, fino al prodotto finale. Un prodotto “idealmente” in perfetto equilibrio tra la terra e il mare, come molte delle isole dell’arcipelago giapponese: alla ricerca di una sua immutabilità di sapore, riconoscibile quanto unica, familiare come McDonalds (è una metafora, non uccidetemi).

La Mihara, che scrive e dirige questo film, ci parla però di un Tofu particolarissimo: un Tofu che è “sopravvissuto” alla bomba di Hiroshima, nonostante l’atomica abbia cambiato ogni cosa in quella regione e nel mondo. Un Tofu che è rimasto immutabilmente buono e quotidiano, in perfetto equilibrio tra terra e mare e “nonostante tutto”. Un “prodotto/porto sicuro alimentare” che però rischia di scomparire: “cannibalizzato” dal mercato.

L’eredità della bomba e delle traduzioni: Tofu in Japan ci parla quindi di Tofu, ma anche in senso più sfumato di un popolo. Ce lo racconta “su piccola scala”, nella forma di un racconto intimo e pieno di tenerezze, affidato a straordinari interpreti in grado di farci ridere e piangere con spontaneità assoluta, facendoci credere all’illusione massima: che siamo persone e non personaggi. 

Tuttavia è un popolo arrivato ormai a un grande bivio, con una popolazione anziana altissima e pochi giovani, con una “generazione di mezzo” distrutta: dagli effetti diretti e indiretti della bomba come le radiazioni. I legami familiari sono ormai labili o carichi di cinismo e opportunismo (vedi i parenti di Fumie). I giovani hanno bisogno di “cambiamenti” rispetto alle tradizioni, necessari quanto a volte dolorosi, come la scelta di “andare via”. Il rapporto “con chi non c’è più” si fa sempre più stretto, alimentando un senso di immobilismo e impotenza. 

Tofu in Japan racconta questi aspetti critici sottovoce, tra i dettagli, tra le bellissime e avvolgenti musiche di Naohisa Taniguchi e la fotografia colorata e quasi da favola di Shuichiro Suzuki. Tra i molti momenti gustosi da commedia e le affettuose sequenze serali, in cui i personaggi camminano spessano sulle strade a braccetto, sostenendosi a vicenda, barcollando fiduciosi. 

Tofu in Japan ci racconta di un popolo che per sopravvivere riscopre un modo positivo di guardare avanti, accogliendo le sorprese che vengono dalla quotidianità, senza impuntarsi su quanto l’uomo non è in grado di controllare al meglio sulla base di “ricette precise” e “convinzioni assolute”. 

Accettando le sconfitte o anche solo il “brivido” di non seguire una “ricetta di vita”, può forse dar vita a un Tofu diverso e di conseguenza il suo “sapore/rifugio” può mutare. Ma forse alle volte si possono anche scoprire gusti nuovi: perché il cuoco sia sempre una persona in gamba.


Finale: Tofu in Japan segue la lezione del cinema essenziale e preciso di Ozu, si ammanta di una garbata ironia e si affida a un cast artistico e tecnico molto valido. All’esterno profuma delle fragranze della favola che accoglie come un abbraccio ma, dopo il primo assaggio, sa trasmettere una maggiore complessità narrativa. 

È una piccola opera, ma per molti aspetti risulta davvero imperdibile: in grado di toccare temi davvero profondi quanto importanti non solo per capire il Giappone di oggi, ma anche la nostra quotidianità. 

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lunedì 30 dicembre 2024

The strangers - capitolo 1: la nostra recensione del primo capitolo della nuova trilogia horror basata sui personaggi di Bryan Bertino, diretto da Renny “Cliffhanger”Harlin

Ci troviamo ai margini di una Route 66  dei giorni nostri. 

La bellissima e decisa Maya (Madelaine Petsch, vista nell’horror eccentrico Polaroid) e il timido e remissivo Ryan (Froy Gutierrez, visto in un telefilm altrettanto eccentrico, Teen Wolf) sono su un’auto ibrida con in sottofondo una musica pop rock: in viaggio verso Portland, momentaneamente sulle lussureggianti e verdissime strade al margine dei boschi dell’Oregon. 

Saranno i colori, saranno la maestosità e calma che infondono quei paesaggi sterminati e incontaminati, Maya afferma che sarebbe bellissimo vivere da quelle parti. Ryan sorride al suo entusiasmo, ma come per un sinistro presagio un paio di curve dopo rischia il frontale contro un pick-Up che corre come un matto in contromano.

Il viaggio prosegue e per Maya arriva il momento ideale per fermarsi nella tipica tavola calda, di un tipico paesino di poco meno di mille abitanti, per lo più tipicamente simpaticissimi e gioviali agricoltori usciti da una pubblicità di cereali degli anni ‘50. 

Ryan sorride al suo entusiasmo e la coppia fa tappa in un posto ameno stile la “Taverna dell’agnello macellato” di un celebre film di John Landis, dove chiunque sembra uscito da Non aprite quella porta, li guarda malissimo, non hanno il menù vegano, chi sorride cerca un modo di derubarli, bambini inquietanti si sincerano con insistenza che i due siano interessanti a partecipare a un qualche incontro spirituale, imponendogli di prendere un volantino forse realizzato a mano. 

Ma c’è comunque un’aria di festa e allegria nell’aria: per i 5 anni insieme di Maya e Ryan. Maya comunica la bella ricorrenza e in tutta la tavola calda iniziano a fioccare sorrisi autentici: almeno fino a che gli autoctoni scoprono che i due convivino more uxorio senza essere sposati e quindi senza Dio. 

Seguono sguardi di biasimo e disprezzo fino a fine pasto. Si potrebbe proseguire per Portland, ma guarda caso l’auto non parte più. Guarda caso un meccanico gentilissimo si offre di ripararla, ma guarda caso i pezzi di ricambio arrivano solo domani. 

C’è un albergo in zona ma guarda caso è chiuso, ma guarda caso è pure in zona un carinissimo rustico/rifugio di caccia, rinominato Air B&B per attirare i “fighetti”, che guarda caso è libero. Guarda caso la cameriera gentilissima dell’agnello macellato in franchise li può accompagnare lei, è di strada. 

Ryan tira fuori tutti gli attributi: urlando pur a modo suo, cioè sottovoce, che sono davanti a una possibilissima truffa. Ma Maya, che è l’unica che prende le decisioni della coppia, lo fulmina, gli intima di calmarsi e gli allunga maternamente il suo respiratorino per l’asma, per sedare in anticipo il solito brutto attacco di panico imminente del suo moroso.  

Del resto Maya decide che sarà bellissimo passare la notte in quel posto tanto simile allo chalet che profuma di “Casa”, fosse anche La casa di Sam Raimi. È il mezzo ai boschi, è tutta in legno cigolante, ha un pianoforte inquietante e scordato in soggiorno, un impianto elettrico precario con luci intermittenti e un frigo già rotto.

Maya dichiara che vorrebbe vivere lì per sempre. Ryan abbozza poco convinto e si becca la madre di tutte le ramanzine, il “rimbrotto maximo”: perché lui, da alcuni giorni, “cincischia”. Nello specifico, Ryan non ha abbastanza “palle” da mollare seduta stante la sua casa e il suo lavoro fisso e ben retribuito a New York, per trasferirsi di colpo dall’altra parte della costa americana, in affitto e ricominciando da zero, seguendo solo ed esclusivamente Maya e il suo infallibile istinto di poter trovare lì il loro futuro professionale. 

Ryan incassa e allora tira fuori gli attributi come solo lui sa fare: si sottomette del tutto a Maya, giurandole che faranno tutto come vuole lei e presto, prestissimo la sposerà. Sempre che “lei e solo lei” lo voglia ancora e nonostante tutta la sua incapacità a comunicare da uomo delle caverne. 


Ma visto che ci troviamo in un film horror, veniamo per un attimo sottratti dall’incubo di questo rapporto di coppia, in ragione di una ben più rassicurante e sana sequenza di mattanze e terrore: è il momento che qualcuno bussi alla porta dello chalet con forza, chiedendo con voce femminile se in casa ci sia “Tamara”.

Del resto chiedere “è in casa Tamara?”, ripetutamente e nel pieno della notte, è il modo più veloce per iniziare un surreale gioco al gatto con il topo. La coppia apre la porta e vede questa figura spettrale femminile totalmente coperta dalle ombre, che all’improvviso come è apparsa va via senza dire una parola. Maya dichiara che ha visto di peggio in metropolitana dopo le 20:00, che si tratta di una povera squilibrata e che non è successo nulla di strano. Ryan cerca il suo respiratorino per l’asma, ma non lo trova: è probabilmente rimasto in auto e ora si trova nella locale officina, per la truffa di cui sopra. 

Però c’è una moto dietro al capanno. 

Ryan non è mai salito su una moto in vita sua, è agitatissimo. Ma potrebbe imparare al momento, recuperare il suo salvavita in città, guidando alla cieca, tra boschi che non conosce e il cellulare che non piglia campo. Vuole comunque farlo, ci crede. Una preoccupatissima Maya gli intima di non tornare indietro, se prima non le trova un panino vegano girovagando per tutto l’Oregon di notte.

Ryan parte. Maya rimane a rispondere alla domanda “è in casa Tamara?” un paio di volte, circondata da mille rumori, sibili e voci inquietanti che lei attribuisce, in alternanza, ai classici inconvenienti dello stare in un rustico o alla sua scarsa lucidità per il fatto di aver bevuto due birre. Ma “i tre estranei”, gli “Strangers”, nello chalet sono già arrivati. 

Hanno delle maschere inquietanti, parlano pochissimo e sono armati di asce e coltelli. Sono persone semplici: “Vogliono solo entrare nello chalet e buttare fuori chi ora lo occupa”, magari non lasciandolo del tutto intero. 

L’uomo del gruppo è sui due metri, indossa un completo un po’ usurato da impiegato, camicia e cravatta storta. Sulla testa un sacco di iuta su cui sono disegnarti due occhietti e una boccuccia stilizzati (ricorda il look di Jason Voorhees prima della maschera da hockey del terzo film), in abbinato una elegante ascia bipenne da boscaiolo. Dovrebbe chiamarsi (ce lo dicono i titoli di coda, siccome i tre parlano pochissimo) “Scarecrow” (lo interpreta Matus Lajcak), ossia “spaventapasseri”.

La ragazza bionda del gruppo è più minuta, veste casual, con sopra una giacchetta rosa come una Barbie. Porta una mascherina carina che la rende simile a una bambolina con gli occhi “Cartoon” e si chiama infatti “Dollface” (Olivia Kreutzova). In abbinato porta un coltellaccio da cucina. 

La ragazza mora ha anche lei un coltellaccio in abbinato per non sfigurare, i suoi vestiti hanno un look più elegante, quasi vintage, indossa una mascherina femminile con un vezzoso ciuffetto nero che scende a ricciolo sulla fronte come le pin-Up degli anni venti: si chiama “Pin-Up”. 

Lo scontro con la coppia inizierà in modo abbastanza pratico e inevitabile, niente di personale in fondo. Magari li spingeranno un po’ a “reagire”, per rendere il gioco un po’ più divertente, ma non se li faranno certo fuggire. 

Riuscirà Maya a trovare ancora bellissima l’aria di provincia del paesino di Venus?

Riuscirà Ryan a non essere succube della sua ragazza per almeno tre minuti?


Tornano in sala i personaggi creati da Bryan Bertino, per un nuovo capitolo della saga horror, sottogenere “Home Invasion”, The Strangers, per l’occasione strutturato su tre capitoli che forse ci faranno conoscere un po’ di più della back-story di questi moderni “babau”, ancora forse poco conosciuti ma con al seguito già un piccolo stuolo di fan. 

Alla regia Renny Harlin: storico regista di film action come Die Hard 2, Cliffhanger , Driven, ma anche storico regista di film horror: Nightmare 4: il signore dei sogni, The Resident, L’Esorcista: l’inizio, Devil’s Pass. Non sempre al top ma un solido artigiano del film di genere, poliedrico al punto che dal 2016 al 2019 ha diretto pure una sua personale “trilogia cinese”, coinvolgendo Jackie Chan (in Skiptrace) e  Nick Cheung (in Bodies at rest). 

La sceneggiatura è invece opera degli “insospettabile” Alan R.Cohen e Alan Freedland, autori per Todd Phillips di quel piccolo gioiellino di Parto con il folle, ma del resto anche l’ultima trilogia su Michael Mayers aveva ai testi degli autori comici. 

Madelaine Petsch e Froy Gutierrez, tra un Polaroid e un Teen Wolf sono tuttora “giovani attori di belle speranze”, funzionalissimi per un ruolo da vittime nel florido genere horror. 


Con The Strangers, un giovanissimo Bryan Bertino esordiva rocambolescamente alla regia nel 2008. Era la sua prima sceneggiatura comprata da una major, realizzata nel tempo libero mentre lavorava negli Studios di Los Angeles come addetto elettricista. 

Il regista Romanek, di One Hour Photo, era diventato di colpo per la Rogue Pictures  “fuori budget” e il nostro eroe sceneggiatore ha avuto la grande occasione di proporsi a rimpiazzarlo e dimostrare il suo valore: sapendo giocare tantissimo sulle “luci”, che conosceva come elettricista degli Studios, dimostrandosi bravo non solo a scrivere ma anche a dirigere. 

Scommessa vinta, a cui è seguita una carriera fatta di piccoli film, ma quasi tutti interessanti. Mockingbird, del 2014, era un found footage horror sugli allora ancora poco conosciuti “filmati sadici della rete”, scritto a quattro mani con Sam “Mister Robot” Esmail. Nel 2016 è arrivato il suo “Monster movie introspettivo” The Monster, che anticipava opere come Sette minuti dopo mezzanotte. È tornato ai suoi Strangers nel 2018, con un nuovo film che riprendeva alcune tematiche ma ne stravolgeva del tutto altre, in modo originale e parecchio sarcastico. Nel 2020 arrivava l’interessante horror “diabolico” The dark and The Witch e nel 2025 è previsto un nuovo film con protagonista Dakota Fanning. 

È interessante come in tutti i suoi lavori Bertino, in modo provocatorio quanto intelligente, punti a raccontarci, attraverso il genere horror, la complessità delle relazioni umane: indagando spesso sul “significato moderno di famiglia”, portando alla luce una società diventata ormai cinica, egoista e anaffettiva, esplorando temi difficili come la “maternità.” Se a prima vista, dal trailer, appaiono come pellicole assimilabili a centinaia di altre simili, che trattano scenari simili, è nelle qualità “sociologiche” delle scrittura che Bertino si contraddistingue, permettendo anche agli attori di lavorare su personaggi meno banali del solito. 

E veniamo quindi a questo nuovo capitolo degli Strangers, prodotto e benedetto sempre da Bertino, che però a fine visione ci lascia von un enorme punto interrogativo nella testa. 

Perché questo è un capitolo “1 di 3”,che ci racconta davvero pochissimo di nuovo e si limita per lo più a ripercorrere strade già note del brand, un po’ come la scaletta di una serata di una cover band.

Ci muoviamo all’interno delle più classiche e reiterate meccaniche dell’Home Invasion, per quanto tutto risulti ben lucidato e funzionante grazie alle mani di un esperto come Harlin, sempre in grado di creare ritmo e tensione da manuale. Il sangue scorre, le grida arrivano puntuali come i colpi di scena, ci si diverte anche se c’è un po’ il retrogusto di qualcosa di già visto. 

Certo la coppia protagonista della sventurata “gita nell’Oregon” è divertente e un po’ ci racconta di come oggi le dinamiche di coppia siano mutate “anche nei film horror”: con i siparietti tragicomici che più volte mettono alla berlina il povero fidanzatino Ryan, quasi fantozzianamente fustigato da una Maya tanto prepotente quanto a volte priva di concretezza. 

Gli attori sono bravi e divertenti, funzionano.

Lo scenario liturgicamente si ripete, anche se effettivamente, ancora da lontano, iniziamo a vedere qualcosa oltre il “piccolo mondo antico di Venus”. Molto da lontano. 

“Chi sono” gli Strangers in realtà, per dedicargli un terzo film che ne anticipa altri due? “Quanti sono?”, considerando che nel secondo film di Bertino l’esito finale aveva decisamente cambiato le carte in tavola? Che legame hanno gli Strangers con i volantini della chiesa locale, che peraltro ricorrono dal primo film del 2008?

Ma soprattutto : Chi diavolo  è Tamara??? (detta, questa ultima domanda, facendo eco alla Chi è Tatiana del comico Cirilli). 

Ancora sappiamo pochissimo ma siamo in attesa di sorprese dietro l’angolo già con il capitolo 2. 

Questo capitolo 1 è a conti fatti per lo più quasi un reboot del film del 2008, ma senza Liv Tyler e Scott Speedman protagonisti, con dinamiche di coppia “modernizzate”, rese bene da una giovane coppia di bravi attori, con un contesto se vogliamo più “corale” ma che alla fine rimane ancora largamente inesplorato. 

Ma la cosa più importante è che i nostri ancora bellissimi tre Strangers sono ancora cattivissimi e carismatici. 

Il film risulta divertente e godibile pur nuotando in un mare di cliché già noti, ma spetta prima di tutto allo spettatore decidere quanto “sia dolce naufragare in questo mare di cliché”.

Come spesso accade, il cinema horror ripete ritualmente il suo schema “rituale”, anche se a questo giro l’aderenza al prodotto originale è altissima. Aspettiamo il numero 2 e 3,  godendo di questo primo capitolo come si gode di una serata revival di una cover band di un gruppo che ci piace. 

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domenica 29 dicembre 2024

Criature: la nostra recensione del film di Cecile Allegra, con protagonista Marco D’Amore, su come combattere la dispersione scolastica attraverso metodi di pedagogia alternativa

 

Napoli dei giorni nostri. 

Per Mimmo Sannino (Marco d’Amore), un giovane ex insegnante diventato educatore da strada, che va in giro con in tasca tanti nasi da clown, combattere la dispersione scolastica è simile a togliere “le perle ai porci”. Ottenere il tanto vituperato “pezzo di carta” che fa accedere al liceo, superando l’esame di terza media, può essere concretamente per i ragazzi dei quartieri più poveri la speranza di affrancarsi da una vita difficile, che con troppa facilità li può portare al servizio della criminalità, per offrirgli grazie alla scuola una prospettiva di futuro migliore.

I ragazzi vanno motivati a “studiare e sognare” e la strategia di Mimmo parte fin dalla mattina presto: prendendoli direttamente da casa, prima che i genitori li mettano già a lavorare davanti a un banco di frutta o li lascino senza problemi già sulla strada e “a se stessi”, nelle mani di “amichetti più grandi” che già trafficano con i motorini e le “bustine”. Mimmo li porta a scuola e poi nel suo regno, una biblioteca un po’ “sgarrupata” ma che apre su un grande giardino, dove ha luogo il dopo scuola e poi per il suo grande progetto: “le lezioni di circo”. 

Perché è importate studiare, ma pure imparare già a lavorare insieme attraverso il “gioco”.

Compiti, ripassi ed esercizi di memoria, si mischiano qui alla giocoleria, clowneria e l’allestimento di scenografie da realizzare con colori e cartapesta. La lettura de “Il barone Rampante” di Italo Calvino prelude la merenda e diventa quasi un mantra: la guida per imparare l’arte della fantasia. I ragazzini imparano a studiare come a camminare sui trampoli insieme, assimilando la matematica come l’equilibrismo. Diventano loro stessi insegnanti “alla pari” ma forse anche qualcosa di più: arrivano a sentirsi quasi come fratelli, a dispetto dell’appartenenza a “quartieri diversi”. 

Jack Black insegnava il rock, Mimmo l’arte circense. 

I suoi alunni crescono sognando di portare un naso rosso da pagliaccio per fare felice il pubblico nelle feste di piazza. Tutto questo “non piace”, a chi pensa ormai che la vita debba essere vissuta solo come una continua lotta di sopravvivenza, nei confronti di un destino già segnato che non ha senso sfidare. 

Fare “i giullari” va poi contro alla “educazione alla violenza e al cinismo” richieste ai “nuovi soldati della criminalità”: tutti devono crescere sentendosi soli, in un mondo cattivo e competitivo. Uno contro l’altro, divisi rione per rione, famiglia per famiglia, per sempre, come “tradizione vuole”. Mimmo “crea pagliacci” e anche alcuni dei suoi ex alunni, passati presto “ai motorini” per mancanza di alternative, lo chiamano “pagliaccio” in strada, pur senza la forza di guardarlo negli occhi.

Mimmo è aiutato dall'assistente sociale Anna, che lo segue fiduciosa, ma pure un po’ spaventata e un po’ preoccupata, nella sua scelta di vita. Cerca con lui di fare qualcosa usando le armi spuntate dello Stato, favorendo i “dialoghi possibili” con istituzioni spesso distratte, arrabbiandosi con lui quando lo vede sempre più al centro di minacce e ritorsioni, a volte portandolo a terra dai suoi sogni più pindarici. 

Ma Mimmo sogna in grande, nonostante la sua biblioteca si riempia sempre più di scritte d’odio, animali morti appesi, muri che chiudono i passaggi costruiti in piena notte in cemento. Anche un solo ragazzino portato via dalla “strada”, verso un istituto superiore, è un piccolo successo, ma Mimmo non è uno che si accontenta e tira dritto. 

C’è da aiutare la ragazza che vende al mercato i carciofi, Daniela. C’è la piccola parrucchiera Margherita, il già troppo adulto per la sua età Ciro, Bruno che ama il parkour e forse non è più neanche così piccolino, ma che il padre già vede all’interno della sua organizzazione criminale.

Tante sfide, alcune troppo difficili da vincere. “Sorridere”, con un naso da pagliaccio, svilisce troppo “il terrore” che tutti vogliono in fondo preservare: un terrore su cui faticosamente si è per anni investito, per comandare un territorio ricchissimo di “perle preziose”. 


Primo film non documentaristico della regista Cecile Allegra, ispirato alla storia vera dell’educatore Giovanni Savino, fondatore della comunità “Il tappeto di Iqball”,nel quartiere di Barra, dove si pratica con la pedagogia alternativa il circo sociale, il teatro e il parkour. 

Una storia, costruita meticolosamente sulla base di molte interviste a educatori e giovani, che la regista definisce “di “ricomposizione dei valori e dell’identità”: nella ricerca di metodi concreti per cambiare le sorti di un territorio che spesso si chiude troppo su se stesso. 

Entriamo così in un viaggio di 97 minuti che vuole trasmettere con più precisione possibile, attraverso tutte le potenzialità del cinema, il cambiamento emotivo vissuto dai veri ragazzi di Savino: dal cinismo al senso di impotenza e vergogna, fino al ritrovamento del coraggio, grazie alle esperienze educative del gruppo, che gli ha permesso di dare un nuovo corso alla loro vita. 

Marco D’Amore dai tempi di Gomorra è cambiato anche fisicamente, si è fatto ancora più “grosso e rassicurante” nell’aspetto, riuscendo così a padroneggiare al meglio un personaggio grosso e generoso come Mimmo. È interessante che parallelamente anche il co-protagonista di Gomorra, Salvatore Esposito, stia realizzando su Netflix da protagonista una nuova incarnazione di Piedone. È come se D’Amore ed Esposito si siano ora sdoppiati in due magnifici Bud Spencer.

Il film della Allegra è forte, carico di mille sfumature, in grado di passare in pochi minuti da commedia a tragedia, cavalcando in modo sorprendente anche alcuni momenti onirici quanto sognanti. 

Il paragone con Io speriamo che me la cavo, nel senso del libro quanto del successivo adattamento con protagonista Paolo Villaggio, risulta calzante in quanto Criature va a raccontare, a distanza di anni, quasi una “tappa successiva” dello stesso viaggio sullo stesso territorio: la scuola che cerca con tutte le forze si porsi come alternativa concreta al cinismo dei tempi moderni. Forse in Criature c’è “meno favola” e più tragedia: con sequenze anche dal forte significato “simbolico e pittorico”, che reinterpretano la pietà michelangiolesca. Ma ci sono anche “scorci visivi“ che ci riportano alle atmosfere del celebre dipinto “Il pallone”, di Paul Klee, c’è il “calore” del mondo del circo, bellissimi pagliacci sorridenti (sempre che non vi terrorizzino i pagliacci, con i tempi che corrono). Non mancano momenti d’azione quanto commoventi, momenti dove Napoli si mostra in tutte le sue sfumature: dalla bellezza del mare al tramonto al calore e colore delle feste rionali.


Ottimo tutto il cast, con menzione d’onore per i bravissimi piccoli interpreti. 

Molto bella la fotografia e le scelte scenografiche, adeguata la colonna sonora.

Bella l’intuizione di alternare la storia alla descrizione di precisi quanto accurati momenti formativi, che possono essere stimolanti anche per un pubblico di insegnanti delle scuole.

Un bel film su una storia vera, per quanto a tratti drammatica. La bella testimonianza della possibilità di cambiare il mondo, iniziando a guardarlo da un punto di vista diverso: truccati da pagliacci. 

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sabato 28 dicembre 2024

Dove osano le cicogne: la nostra recensione della nuova commedia di Fausto Brizzi, con protagonisti Marta Zoboli e Angelo Pintus alle prese con il desiderio di genitorialità

 


Sinossi: Milano dei giorni nostri, inizio d’estate, giusto a pochi giorni dalla fine della scuola.

Il maestro Angelo (Angelo Pintus) è in classe, quinta elementare, intento nella interrogazione-quiz “chi non vuole essere bocciato”. La posta in palio è altissima per chi deve recuperare prima dello scrutinio finale, ma i concorrenti sono motivati ed è ancora attivo “l’aiuto del secchione”.

La tensione si taglia nell’aria, il clima giocoso, il preside (Antonio Catania), persona di buon senso, guarda con un po’ di scetticismo, ma segue l’evento a distanza ravvicinata, con curiosità, direttamente dietro le spalle di Angelo, un po’ inquietante. Angelo ci sa fare con i bambini, ma vuole impegnarsi anche con i bambini futuri, quelli “in arrivo”.

È per questo che con il massimo impegno, a fine lezione, si lancia in bici per le strade di Milano, saltando acrobatico dal naviglio al Duomo, sgommando a tutta birra fino al bosco verticale e allo studio dove lo aspetta la sua psicologa nonché moglie Marta (interpretata dalla comica Marta Zoboli): pronto per sfruttare al volo e al meglio la “finestra di fertilità” che si è miracolosamente aperta.

Marta è dolcissima ma anche un po’ un generale e non è saggio fare tardi.

Il tempo è da record su tracciato e sterrato, la tecnica di guida migliore di Brumotti, ma la finestra si chiude anzitempo. Tutto da rifare, ma “sempre pronti!” come il motto dei lupetti, anche per non scontentare il suocero carabiniere in pensione (Tullio Solenghi), che non crede troppo alla virilità di Andrea e ogni tanto lo sottolinea.

La coppia è motivata e aspetta solo che prima o poi la cicogna venga a trovarli, sperimentando tra specialisti, vasetti e influenze lunari sulle maree. La notte, Andrea cerca una “carica” leggendo a letto gli speciali di Focus Junior, mentre Marta cerca al suo fianco “soluzioni”, sfogliando qualche giallo di Grisham. Il “bandolo della genitorialità” è alle porte.

Poi arriva una doccia fredda e crudele, certificata da ecografie e statistiche. 
Il cuore di Marta per un attimo si spezza ma dura poco: c’è Andrea (il comico Andrea Perrone), il migliore amico, infermiere di famiglia, nonché l’addetto a trovare le soluzioni migliori ai problemi concreti. Prospetta un viaggio all’estero, in una terra più “caliente”, in cerca di dottori /maghi. Siccome i dottori/maghi poi non esistono, questi propongono alla coppia qualcosa di un po’ ardito, non legalissimo, che può portare tutti su una strada pericolosa ma che può essere risolutivo ai problemi immediati di Angelo e Marta. Una madre surrogata, giovane e disposta a fare tutto senza alcun compenso: la giovane e bellissima, ma un po’ incasinata Luce (Beatrice Arnera). Giusto l’intervento costa sui 20.000 euro e fino alla nascita Luce vivrà con loro a Milano. Al loro ritorno in Italia Marta fingerà di essere incinta, portando delle pance finte progressive in offerta su Amazon, mentre giustificheranno la presenza di Luce come quella di una nuova “donna alla pari”, qualsiasi cosa sia oggi una “donna alla pari”.

L’inganno è pronto, ma non sarà facile gestirlo per nove mesi, anche per via del fiuto da poliziotto del suocero. Ad aiutare la coppia interverrà anche una esperta di gravidanze “non convenzionale” (Maria Amelia Monti), che tra yoga, canzoni spirituali e proposte di “parti in acqua tutti nudi” per lo più seminerà il caos.

Marta sente già di essere pure lei incinta per davvero, empatizzando a mille con Luce, al punto da replicarne in simultanea i momenti di crisi. Angelo si fa un po’ travolgere dagli eventi. Vincerà il desiderio di avere un figlio tutto loro “nonostante tutto”, anche con la tecnica surrogata, oppure nascerà in loro il desiderio di diventare persone importanti anche della piccola e un po’ disastrata Luce, che giorno dopo giorno sta cambiando le loro vite?

Sapranno diventare dei bravi genitori?

 


Cine-Pintus: è da molto tempo che Pintus corteggia il cinema. In principio fu un piccolo ruolo nel surreale Tutto molto bello del 2014, per la regia di Ruffini. Seguì una particina nella commedia Ma tu di che segno 6 dello stesso anno, per la regia di Neri Parenti. Nel 2015 Pintus diede la voce al “signor Principe” nel meraviglioso Il Piccolo Principe animato di Mark Osborne. Fu poi di nuovo in sala per una particina in On Air, nel 2016, autobiografia simpatica del dj di 105 Mazzoli. Otto anni dopo e moltissimi spettacoli di stand-Up commedia, special natalizi con Malika Ayane (bellissima) e una mini-serie Amazon Prime autobiografica dopo, Angelo Pintus torna al cinema, da protagonista, in una pellicola diretta dal veterano Fausto Brizzi. Al suo fianco ci sono Marta Zoboli e Andrea Perrone, attori comici con i quali condivide spesso degli spettacoli, ma il cast vede anche la presenza di grandi attori comici come Tullio Solenghi e Maria Amelia Monti.

Brizzi iniziava come sceneggiatore di serie tv nel 1998 per poi diventare anche autore di molti film comici (Tifosi, The Clan, Nessuno mi può giudicare), tra cui molti “cinepanettoni” (Natale in crociera, Natale a New York, Natale a Miami, Natale in India). Arrivava alla regia nel 2006 con una delle pellicole “adolescenziali” più riuscite di sempre: Notte prima degli esami. In breve, passava a raccontare i difficili rapporti tra uomini e donne “di età più adulta”, raccontando il complesso di Peter Pan in pellicole come Ex, Maschi contro Femmine, Come è bello far l’amore, per poi arrivare a dirigere, spesso con De Sica, quelli che sono a tutti gli effetti dei “cinepanettoni 2.0”: Poveri ma Ricchi, La mia banda suona il pop.

Nel 2019 dirigeva forse la sua opera più strana e originale, quasi una favola moderna: Se mi vuoi bene. Tratto dal suo sesto libro, edito da Einaudi, il film vedeva con protagonisti d’eccezione Claudio Bisio e Sergio Rubini e raccontava della ri-scoperta di un senso di comunità e mutuo aiuto attraverso un piccolo bar / libreria aperto a tutti, specie ai più fragili, nonché gestito da volontari amabilmente disperati.

Parlare di genitorialità oggi, attraverso una commedia con Pintus: quest’anno abbiamo avuto alcuni film interessanti che ci hanno parlato a varie “latitudini” di genitorialità.

Abbiamo avuto il tenero Vittoria, di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, che ci ha raccontato, con un linguaggio quasi documentaristico, del desiderio inconscio di una madre di adottare: per condividere “un di più d’amore”, con qualcuno che magari è stato sfortunato nella vita, nonostante non si sia più giovanissimi.

Abbiamo avuto il film storico Il treno dei Bambini, di Cristina Comencini, sulle madri di un sud Italia poverissimo nel dopoguerra che si “affidavano” a delle donne del nord iscritte al partito comunista e disposte a diventare madri per accudire i propri figli, in attesa di giorni migliori.

Abbiamo avuto Maria Montessori - La nouvelle femme, di Lily D’Alengy, che ci ha raccontato, con la biografia, di in epoca in cui avere figli al di fuori di un matrimonio era una “condanna sociale”, così come abbiamo avuto il road movie Il più bel secolo della mia vita, di Bardani, sulla legge, reale, che impedisce tuttora ai figli non riconosciuti di sapere l’identità della propria madre, fino al compimento dei 100 anni di vita.

Volendo potremmo trarre, tra le mille sfumature surrealiste del fantascientifico The Substance, di Coralie Fargeat, anche un film sul rapporto a volte tossico tra genitori e figli: la difficoltà di prendersi cura di chi di fatto è “parte di noi”.

Poter essere o diventare genitori, al meglio (o al peggio) delle proprie volontà, è un tema ancora oggi molto forte, divisivo, in grado di muovere importanti corde emotive. Se vogliamo corde emotive che si adattano alla perfezione alle opere più care a Brizzi: quelle che affrontano temi generazionali e sociali affidandosi ad attori comici in grado di “stemperare” la materia.

Comici “a tutto tondo” ma che grazie a Brizzi si cimentano così in ruoli più “sfaccettati del solito”, come nel caso del Giorgio Faletti di Notte prima degli esami: un ruolo da genitore e al contempo insegnante, spesso costretto a indossare la maschera più severa rispetto a quella amichevole; regalando solo un piccolo “sorriso di intesa”, nascosto dal fumo di una sigaretta, per certificare una vicinanza con i suoi figli e alunni “più giovani”. 

Pensando a Brizzi e al ruolo di Pintus in questo film arrivano echi proprio al personaggio del professore del mai dimenticato Faletti (personaggio che in Brizzi ha rivissuto “tre volte”, sempre in opposizione a Vaporidis, in un instant-sequel, ma anche trasformandosi in un vero e proprio villain, in un thriller-action non convenzionale come Cemento Armato… ma questa è un’altra storia).

Certo Faletti impersonava un terribile insegnante del liceo e Pintus è un maestro delle elementari giocoso, pronto a travestirsi da Asterix (anche se lui puntualizzerebbe “Vercingetorige”), “più amico che minaccia”. Faletti era padre di una ragazzina che stava per affrontare, come il giovane protagonista di Vaporidis, la famigerata “notte prima degli esami”, uno dei momenti più belli e drammatici dell’esistenza umana. Viveva così questa esperienza “due volte”. Pintus non è ancora padre e sta cercando di promuovere la sua classe di alunni in vista del primo anno di scuola media, che rappresenterà anche il suo distacco da loro come insegnante, assistito (o forse bonariamente intralciato) dal personaggio del preside, del bravo Catania, che racconta con la sua parte della grande gioia e malinconia di un ruolo educativo “a tempo determinato”, che ogni tanto può avere di fatto molte sfumature genitoriali.


Pintus funziona benissimo come insegnante: favorito da un cast di giovani attori molto riuscito, una fotografia super colorata e una trama “scolastica” molto divertente, riesce in queste scene cariche di azione e gag a offrire il meglio del suo repertorio da intrattenitore surreale e quasi slapstick. 
È il Pintus “futuro genitore” che è più contratto, forse “irrisolto”. La genitorialità, tematica che presto scalza della maternità surrogata dall’obiettivo principale della pellicola (forse perché oggi ancora troppo difficile), sembra travolgere come un’onda un po’ tutti i protagonisti sulla scena, a parte Pintus. 

La Zoboli incarna una Marta particolarmente in crisi, emotiva, a volte dispotica ma tenerissima: alla continua ricerca di un equilibrio tra le sue irrinunciabili esigenze di cura e controllo e la possibilità di accettare la vita “così come viene”. Il personaggio di Luce, di Beatrice Arnera, è una madre-bambina controvoglia, infantile quanto un po’ “scroccona”, ma che ha alle spalle un vissuto molto complicato che ne giustifica molti atteggiamenti contraddittori. Solenghi è un poliziotto integerrimo fino allo sfinimento, quasi caricaturale, ma mostra dietro l’armatura di poter essere, anche e pur sempre, un padre. Il folle e divertentissimo personaggio di Maria Amelia Monti è cosi innamorato del suo ruolo di “levatrice new age”, da far intendere di accettare di operare anche in contesti non del tutto legali, “pur che nasca un nuovo bambino”.

Tanto la Zoboli, la Monti, Sonenghi e la Arnera, dimostrano con i loro personaggi una trasformazione emotiva importante nel corso della storia.

Il personaggio di Pintus no. O per lo meno dimostra, tra le righe, quanto per lui sia difficile “abbassare la maschera”: per esprimere liberamente delle emozioni diverse dal buffo maestro elementare “tutto battutine, pose da supereroe e sguardi buffi” che impersona.

Tra le righe, Angelo ci racconta di essere un personaggio che ha vissuto molte situazioni di fragilità emotiva, fino ironicamente a scegliere di poter vivere solo con la sua analista. Tra le righe, lo vediamo leggere Focus Junior e guardare solo cartoni animati, forse un po’ con un complesso acuto di Peter Pan, buffo ma preoccupante.

Avremmo voluto davvero vedere Pintus almeno per un istante, almeno di sfuggita, magari nascosto nell’ombra, “commuoversi”. Abbassare per un istante la sua “maschera comica” e rivelare un personaggio più complesso anche in ragione del tema portante del film: il desiderio di diventare padre.

Forse è un desiderio anche questo implicito, in quanto il personaggio possiamo dire che viva l’insegnamento come già una forma di genitorialità, ma avremmo voluto qualcosa di più.

Anche il personaggio di Fantozzi di Villaggio indossava una maschera comica: ma quando questa “calava”, vedevamo un uomo ricco di dignità, lucidissimo davanti a un mondo crudele. Sotto la maschera buffa di molti personaggi da cinepanettone di Boldi c’è una voglia di tenerezza non espressa in modo deciso. Dietro le maschere dei più cattivi anti-eroi di De Sica c’è la paura del “vuoto”, il timore che non esista nulla di lui oltre la maschera stessa.

Quando “cade la maschera” ognuno di questi personaggi si eleva in qualcosa di nuovo e unico: ci accorgiamo che un film comico più darci qualcosa “di più” che l’esecuzione di un lungo sketch comico.

Chi c’è qui dietro la maschera del maestro Angelo di Pintus? Forse è troppo fragile e agisce emotivamente per lo più solo “di supporto” a un desiderio espresso da altri personaggi, esprimendosi con un paio di pacche sulle spalle? Nasconde sul suo Focus Junior tutte le verità sul destino umano? 

Un bravo comico come Pintus può sicuramente diventare un grande comico, se prima o poi riuscirà ad abbassare quella maschera, senza ridurci a indagare sui sentimenti del suo personaggio come dei detective. Forse sarà per la prossima volta.

Finale: Dove osano le cicogne è un film che riesce ad affrontare con molta leggerezza e ottimi interpreti un tema molto complicato come la genitorialità, di fatto cercando di parlare, molto a latere, “andandoci con i piedi di piombo”, anche un tema ancora più complicato, difficilissimo, come la maternità surrogata. 

È un’opera colorata, pieno di bambini e di gag divertenti, perfino qualche scena d’azione, che possiamo ritenere perfetta come intrattenimento per tutta la famiglia, in queste feste natalizie. Adatta a tutti i bambini e a tutti i tipi di genitori.

Molto bravi tutti gli interpreti e divertentissimo Pintus, anche se forse non riesce ancora ad abbassare la maschera comica che lo ha reso un personaggio tanto amato, per raccontarci personaggi con qualche sfumatura in più. 

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