lunedì 30 dicembre 2024

The strangers - capitolo 1: la nostra recensione del primo capitolo della nuova trilogia horror basata sui personaggi di Bryan Bertino, diretto da Renny “Cliffhanger”Harlin

Ci troviamo ai margini di una Route 66  dei giorni nostri. 

La bellissima e decisa Maya (Madelaine Petsch, vista nell’horror eccentrico Polaroid) e il timido e remissivo Ryan (Froy Gutierrez, visto in un telefilm altrettanto eccentrico, Teen Wolf) sono su un’auto ibrida con in sottofondo una musica pop rock: in viaggio verso Portland, momentaneamente sulle lussureggianti e verdissime strade al margine dei boschi dell’Oregon. 

Saranno i colori, saranno la maestosità e calma che infondono quei paesaggi sterminati e incontaminati, Maya afferma che sarebbe bellissimo vivere da quelle parti. Ryan sorride al suo entusiasmo, ma come per un sinistro presagio un paio di curve dopo rischia il frontale contro un pick-Up che corre come un matto in contromano.

Il viaggio prosegue e per Maya arriva il momento ideale per fermarsi nella tipica tavola calda, di un tipico paesino di poco meno di mille abitanti, per lo più tipicamente simpaticissimi e gioviali agricoltori usciti da una pubblicità di cereali degli anni ‘50. 

Ryan sorride al suo entusiasmo e la coppia fa tappa in un posto ameno stile la “Taverna dell’agnello macellato” di un celebre film di John Landis, dove chiunque sembra uscito da Non aprite quella porta, li guarda malissimo, non hanno il menù vegano, chi sorride cerca un modo di derubarli, bambini inquietanti si sincerano con insistenza che i due siano interessanti a partecipare a un qualche incontro spirituale, imponendogli di prendere un volantino forse realizzato a mano. 

Ma c’è comunque un’aria di festa e allegria nell’aria: per i 5 anni insieme di Maya e Ryan. Maya comunica la bella ricorrenza e in tutta la tavola calda iniziano a fioccare sorrisi autentici: almeno fino a che gli autoctoni scoprono che i due convivino more uxorio senza essere sposati e quindi senza Dio. 

Seguono sguardi di biasimo e disprezzo fino a fine pasto. Si potrebbe proseguire per Portland, ma guarda caso l’auto non parte più. Guarda caso un meccanico gentilissimo si offre di ripararla, ma guarda caso i pezzi di ricambio arrivano solo domani. 

C’è un albergo in zona ma guarda caso è chiuso, ma guarda caso è pure in zona un carinissimo rustico/rifugio di caccia, rinominato Air B&B per attirare i “fighetti”, che guarda caso è libero. Guarda caso la cameriera gentilissima dell’agnello macellato in franchise li può accompagnare lei, è di strada. 

Ryan tira fuori tutti gli attributi: urlando pur a modo suo, cioè sottovoce, che sono davanti a una possibilissima truffa. Ma Maya, che è l’unica che prende le decisioni della coppia, lo fulmina, gli intima di calmarsi e gli allunga maternamente il suo respiratorino per l’asma, per sedare in anticipo il solito brutto attacco di panico imminente del suo moroso.  

Del resto Maya decide che sarà bellissimo passare la notte in quel posto tanto simile allo chalet che profuma di “Casa”, fosse anche La casa di Sam Raimi. È il mezzo ai boschi, è tutta in legno cigolante, ha un pianoforte inquietante e scordato in soggiorno, un impianto elettrico precario con luci intermittenti e un frigo già rotto.

Maya dichiara che vorrebbe vivere lì per sempre. Ryan abbozza poco convinto e si becca la madre di tutte le ramanzine, il “rimbrotto maximo”: perché lui, da alcuni giorni, “cincischia”. Nello specifico, Ryan non ha abbastanza “palle” da mollare seduta stante la sua casa e il suo lavoro fisso e ben retribuito a New York, per trasferirsi di colpo dall’altra parte della costa americana, in affitto e ricominciando da zero, seguendo solo ed esclusivamente Maya e il suo infallibile istinto di poter trovare lì il loro futuro professionale. 

Ryan incassa e allora tira fuori gli attributi come solo lui sa fare: si sottomette del tutto a Maya, giurandole che faranno tutto come vuole lei e presto, prestissimo la sposerà. Sempre che “lei e solo lei” lo voglia ancora e nonostante tutta la sua incapacità a comunicare da uomo delle caverne. 


Ma visto che ci troviamo in un film horror, veniamo per un attimo sottratti dall’incubo di questo rapporto di coppia, in ragione di una ben più rassicurante e sana sequenza di mattanze e terrore: è il momento che qualcuno bussi alla porta dello chalet con forza, chiedendo con voce femminile se in casa ci sia “Tamara”.

Del resto chiedere “è in casa Tamara?”, ripetutamente e nel pieno della notte, è il modo più veloce per iniziare un surreale gioco al gatto con il topo. La coppia apre la porta e vede questa figura spettrale femminile totalmente coperta dalle ombre, che all’improvviso come è apparsa va via senza dire una parola. Maya dichiara che ha visto di peggio in metropolitana dopo le 20:00, che si tratta di una povera squilibrata e che non è successo nulla di strano. Ryan cerca il suo respiratorino per l’asma, ma non lo trova: è probabilmente rimasto in auto e ora si trova nella locale officina, per la truffa di cui sopra. 

Però c’è una moto dietro al capanno. 

Ryan non è mai salito su una moto in vita sua, è agitatissimo. Ma potrebbe imparare al momento, recuperare il suo salvavita in città, guidando alla cieca, tra boschi che non conosce e il cellulare che non piglia campo. Vuole comunque farlo, ci crede. Una preoccupatissima Maya gli intima di non tornare indietro, se prima non le trova un panino vegano girovagando per tutto l’Oregon di notte.

Ryan parte. Maya rimane a rispondere alla domanda “è in casa Tamara?” un paio di volte, circondata da mille rumori, sibili e voci inquietanti che lei attribuisce, in alternanza, ai classici inconvenienti dello stare in un rustico o alla sua scarsa lucidità per il fatto di aver bevuto due birre. Ma “i tre estranei”, gli “Strangers”, nello chalet sono già arrivati. 

Hanno delle maschere inquietanti, parlano pochissimo e sono armati di asce e coltelli. Sono persone semplici: “Vogliono solo entrare nello chalet e buttare fuori chi ora lo occupa”, magari non lasciandolo del tutto intero. 

L’uomo del gruppo è sui due metri, indossa un completo un po’ usurato da impiegato, camicia e cravatta storta. Sulla testa un sacco di iuta su cui sono disegnarti due occhietti e una boccuccia stilizzati (ricorda il look di Jason Voorhees prima della maschera da hockey del terzo film), in abbinato una elegante ascia bipenne da boscaiolo. Dovrebbe chiamarsi (ce lo dicono i titoli di coda, siccome i tre parlano pochissimo) “Scarecrow” (lo interpreta Matus Lajcak), ossia “spaventapasseri”.

La ragazza bionda del gruppo è più minuta, veste casual, con sopra una giacchetta rosa come una Barbie. Porta una mascherina carina che la rende simile a una bambolina con gli occhi “Cartoon” e si chiama infatti “Dollface” (Olivia Kreutzova). In abbinato porta un coltellaccio da cucina. 

La ragazza mora ha anche lei un coltellaccio in abbinato per non sfigurare, i suoi vestiti hanno un look più elegante, quasi vintage, indossa una mascherina femminile con un vezzoso ciuffetto nero che scende a ricciolo sulla fronte come le pin-Up degli anni venti: si chiama “Pin-Up”. 

Lo scontro con la coppia inizierà in modo abbastanza pratico e inevitabile, niente di personale in fondo. Magari li spingeranno un po’ a “reagire”, per rendere il gioco un po’ più divertente, ma non se li faranno certo fuggire. 

Riuscirà Maya a trovare ancora bellissima l’aria di provincia del paesino di Venus?

Riuscirà Ryan a non essere succube della sua ragazza per almeno tre minuti?


Tornano in sala i personaggi creati da Bryan Bertino, per un nuovo capitolo della saga horror, sottogenere “Home Invasion”, The Strangers, per l’occasione strutturato su tre capitoli che forse ci faranno conoscere un po’ di più della back-story di questi moderni “babau”, ancora forse poco conosciuti ma con al seguito già un piccolo stuolo di fan. 

Alla regia Renny Harlin: storico regista di film action come Die Hard 2, Cliffhanger , Driven, ma anche storico regista di film horror: Nightmare 4: il signore dei sogni, The Resident, L’Esorcista: l’inizio, Devil’s Pass. Non sempre al top ma un solido artigiano del film di genere, poliedrico al punto che dal 2016 al 2019 ha diretto pure una sua personale “trilogia cinese”, coinvolgendo Jackie Chan (in Skiptrace) e  Nick Cheung (in Bodies at rest). 

La sceneggiatura è invece opera degli “insospettabile” Alan R.Cohen e Alan Freedland, autori per Todd Phillips di quel piccolo gioiellino di Parto con il folle, ma del resto anche l’ultima trilogia su Michael Mayers aveva ai testi degli autori comici. 

Madelaine Petsch e Froy Gutierrez, tra un Polaroid e un Teen Wolf sono tuttora “giovani attori di belle speranze”, funzionalissimi per un ruolo da vittime nel florido genere horror. 


Con The Strangers, un giovanissimo Bryan Bertino esordiva rocambolescamente alla regia nel 2008. Era la sua prima sceneggiatura comprata da una major, realizzata nel tempo libero mentre lavorava negli Studios di Los Angeles come addetto elettricista. 

Il regista Romanek, di One Hour Photo, era diventato di colpo per la Rogue Pictures  “fuori budget” e il nostro eroe sceneggiatore ha avuto la grande occasione di proporsi a rimpiazzarlo e dimostrare il suo valore: sapendo giocare tantissimo sulle “luci”, che conosceva come elettricista degli Studios, dimostrandosi bravo non solo a scrivere ma anche a dirigere. 

Scommessa vinta, a cui è seguita una carriera fatta di piccoli film, ma quasi tutti interessanti. Mockingbird, del 2014, era un found footage horror sugli allora ancora poco conosciuti “filmati sadici della rete”, scritto a quattro mani con Sam “Mister Robot” Esmail. Nel 2016 è arrivato il suo “Monster movie introspettivo” The Monster, che anticipava opere come Sette minuti dopo mezzanotte. È tornato ai suoi Strangers nel 2018, con un nuovo film che riprendeva alcune tematiche ma ne stravolgeva del tutto altre, in modo originale e parecchio sarcastico. Nel 2020 arrivava l’interessante horror “diabolico” The dark and The Witch e nel 2025 è previsto un nuovo film con protagonista Dakota Fanning. 

È interessante come in tutti i suoi lavori Bertino, in modo provocatorio quanto intelligente, punti a raccontarci, attraverso il genere horror, la complessità delle relazioni umane: indagando spesso sul “significato moderno di famiglia”, portando alla luce una società diventata ormai cinica, egoista e anaffettiva, esplorando temi difficili come la “maternità.” Se a prima vista, dal trailer, appaiono come pellicole assimilabili a centinaia di altre simili, che trattano scenari simili, è nelle qualità “sociologiche” delle scrittura che Bertino si contraddistingue, permettendo anche agli attori di lavorare su personaggi meno banali del solito. 

E veniamo quindi a questo nuovo capitolo degli Strangers, prodotto e benedetto sempre da Bertino, che però a fine visione ci lascia von un enorme punto interrogativo nella testa. 

Perché questo è un capitolo “1 di 3”,che ci racconta davvero pochissimo di nuovo e si limita per lo più a ripercorrere strade già note del brand, un po’ come la scaletta di una serata di una cover band.

Ci muoviamo all’interno delle più classiche e reiterate meccaniche dell’Home Invasion, per quanto tutto risulti ben lucidato e funzionante grazie alle mani di un esperto come Harlin, sempre in grado di creare ritmo e tensione da manuale. Il sangue scorre, le grida arrivano puntuali come i colpi di scena, ci si diverte anche se c’è un po’ il retrogusto di qualcosa di già visto. 

Certo la coppia protagonista della sventurata “gita nell’Oregon” è divertente e un po’ ci racconta di come oggi le dinamiche di coppia siano mutate “anche nei film horror”: con i siparietti tragicomici che più volte mettono alla berlina il povero fidanzatino Ryan, quasi fantozzianamente fustigato da una Maya tanto prepotente quanto a volte priva di concretezza. 

Gli attori sono bravi e divertenti, funzionano.

Lo scenario liturgicamente si ripete, anche se effettivamente, ancora da lontano, iniziamo a vedere qualcosa oltre il “piccolo mondo antico di Venus”. Molto da lontano. 

“Chi sono” gli Strangers in realtà, per dedicargli un terzo film che ne anticipa altri due? “Quanti sono?”, considerando che nel secondo film di Bertino l’esito finale aveva decisamente cambiato le carte in tavola? Che legame hanno gli Strangers con i volantini della chiesa locale, che peraltro ricorrono dal primo film del 2008?

Ma soprattutto : Chi diavolo  è Tamara??? (detta, questa ultima domanda, facendo eco alla Chi è Tatiana del comico Cirilli). 

Ancora sappiamo pochissimo ma siamo in attesa di sorprese dietro l’angolo già con il capitolo 2. 

Questo capitolo 1 è a conti fatti per lo più quasi un reboot del film del 2008, ma senza Liv Tyler e Scott Speedman protagonisti, con dinamiche di coppia “modernizzate”, rese bene da una giovane coppia di bravi attori, con un contesto se vogliamo più “corale” ma che alla fine rimane ancora largamente inesplorato. 

Ma la cosa più importante è che i nostri ancora bellissimi tre Strangers sono ancora cattivissimi e carismatici. 

Il film risulta divertente e godibile pur nuotando in un mare di cliché già noti, ma spetta prima di tutto allo spettatore decidere quanto “sia dolce naufragare in questo mare di cliché”.

Come spesso accade, il cinema horror ripete ritualmente il suo schema “rituale”, anche se a questo giro l’aderenza al prodotto originale è altissima. Aspettiamo il numero 2 e 3,  godendo di questo primo capitolo come si gode di una serata revival di una cover band di un gruppo che ci piace. 

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domenica 29 dicembre 2024

Criature: la nostra recensione del film di Cecile Allegra, con protagonista Marco D’Amore, su come combattere la dispersione scolastica attraverso metodi di pedagogia alternativa

 

Napoli dei giorni nostri. 

Per Mimmo Sannino (Marco d’Amore), un giovane ex insegnante diventato educatore da strada, che va in giro con in tasca tanti nasi da clown, combattere la dispersione scolastica è simile a togliere “le perle ai porci”. Ottenere il tanto vituperato “pezzo di carta” che fa accedere al liceo, superando l’esame di terza media, può essere concretamente per i ragazzi dei quartieri più poveri la speranza di affrancarsi da una vita difficile, che con troppa facilità li può portare al servizio della criminalità, per offrirgli grazie alla scuola una prospettiva di futuro migliore.

I ragazzi vanno motivati a “studiare e sognare” e la strategia di Mimmo parte fin dalla mattina presto: prendendoli direttamente da casa, prima che i genitori li mettano già a lavorare davanti a un banco di frutta o li lascino senza problemi già sulla strada e “a se stessi”, nelle mani di “amichetti più grandi” che già trafficano con i motorini e le “bustine”. Mimmo li porta a scuola e poi nel suo regno, una biblioteca un po’ “sgarrupata” ma che apre su un grande giardino, dove ha luogo il dopo scuola e poi per il suo grande progetto: “le lezioni di circo”. 

Perché è importate studiare, ma pure imparare già a lavorare insieme attraverso il “gioco”.

Compiti, ripassi ed esercizi di memoria, si mischiano qui alla giocoleria, clowneria e l’allestimento di scenografie da realizzare con colori e cartapesta. La lettura de “Il barone Rampante” di Italo Calvino prelude la merenda e diventa quasi un mantra: la guida per imparare l’arte della fantasia. I ragazzini imparano a studiare come a camminare sui trampoli insieme, assimilando la matematica come l’equilibrismo. Diventano loro stessi insegnanti “alla pari” ma forse anche qualcosa di più: arrivano a sentirsi quasi come fratelli, a dispetto dell’appartenenza a “quartieri diversi”. 

Jack Black insegnava il rock, Mimmo l’arte circense. 

I suoi alunni crescono sognando di portare un naso rosso da pagliaccio per fare felice il pubblico nelle feste di piazza. Tutto questo “non piace”, a chi pensa ormai che la vita debba essere vissuta solo come una continua lotta di sopravvivenza, nei confronti di un destino già segnato che non ha senso sfidare. 

Fare “i giullari” va poi contro alla “educazione alla violenza e al cinismo” richieste ai “nuovi soldati della criminalità”: tutti devono crescere sentendosi soli, in un mondo cattivo e competitivo. Uno contro l’altro, divisi rione per rione, famiglia per famiglia, per sempre, come “tradizione vuole”. Mimmo “crea pagliacci” e anche alcuni dei suoi ex alunni, passati presto “ai motorini” per mancanza di alternative, lo chiamano “pagliaccio” in strada, pur senza la forza di guardarlo negli occhi.

Mimmo è aiutato dall'assistente sociale Anna, che lo segue fiduciosa, ma pure un po’ spaventata e un po’ preoccupata, nella sua scelta di vita. Cerca con lui di fare qualcosa usando le armi spuntate dello Stato, favorendo i “dialoghi possibili” con istituzioni spesso distratte, arrabbiandosi con lui quando lo vede sempre più al centro di minacce e ritorsioni, a volte portandolo a terra dai suoi sogni più pindarici. 

Ma Mimmo sogna in grande, nonostante la sua biblioteca si riempia sempre più di scritte d’odio, animali morti appesi, muri che chiudono i passaggi costruiti in piena notte in cemento. Anche un solo ragazzino portato via dalla “strada”, verso un istituto superiore, è un piccolo successo, ma Mimmo non è uno che si accontenta e tira dritto. 

C’è da aiutare la ragazza che vende al mercato i carciofi, Daniela. C’è la piccola parrucchiera Margherita, il già troppo adulto per la sua età Ciro, Bruno che ama il parkour e forse non è più neanche così piccolino, ma che il padre già vede all’interno della sua organizzazione criminale.

Tante sfide, alcune troppo difficili da vincere. “Sorridere”, con un naso da pagliaccio, svilisce troppo “il terrore” che tutti vogliono in fondo preservare: un terrore su cui faticosamente si è per anni investito, per comandare un territorio ricchissimo di “perle preziose”. 


Primo film non documentaristico della regista Cecile Allegra, ispirato alla storia vera dell’educatore Giovanni Savino, fondatore della comunità “Il tappeto di Iqball”,nel quartiere di Barra, dove si pratica con la pedagogia alternativa il circo sociale, il teatro e il parkour. 

Una storia, costruita meticolosamente sulla base di molte interviste a educatori e giovani, che la regista definisce “di “ricomposizione dei valori e dell’identità”: nella ricerca di metodi concreti per cambiare le sorti di un territorio che spesso si chiude troppo su se stesso. 

Entriamo così in un viaggio di 97 minuti che vuole trasmettere con più precisione possibile, attraverso tutte le potenzialità del cinema, il cambiamento emotivo vissuto dai veri ragazzi di Savino: dal cinismo al senso di impotenza e vergogna, fino al ritrovamento del coraggio, grazie alle esperienze educative del gruppo, che gli ha permesso di dare un nuovo corso alla loro vita. 

Marco D’Amore dai tempi di Gomorra è cambiato anche fisicamente, si è fatto ancora più “grosso e rassicurante” nell’aspetto, riuscendo così a padroneggiare al meglio un personaggio grosso e generoso come Mimmo. È interessante che parallelamente anche il co-protagonista di Gomorra, Salvatore Esposito, stia realizzando su Netflix da protagonista una nuova incarnazione di Piedone. È come se D’Amore ed Esposito si siano ora sdoppiati in due magnifici Bud Spencer.

Il film della Allegra è forte, carico di mille sfumature, in grado di passare in pochi minuti da commedia a tragedia, cavalcando in modo sorprendente anche alcuni momenti onirici quanto sognanti. 

Il paragone con Io speriamo che me la cavo, nel senso del libro quanto del successivo adattamento con protagonista Paolo Villaggio, risulta calzante in quanto Criature va a raccontare, a distanza di anni, quasi una “tappa successiva” dello stesso viaggio sullo stesso territorio: la scuola che cerca con tutte le forze si porsi come alternativa concreta al cinismo dei tempi moderni. Forse in Criature c’è “meno favola” e più tragedia: con sequenze anche dal forte significato “simbolico e pittorico”, che reinterpretano la pietà michelangiolesca. Ma ci sono anche “scorci visivi“ che ci riportano alle atmosfere del celebre dipinto “Il pallone”, di Paul Klee, c’è il “calore” del mondo del circo, bellissimi pagliacci sorridenti (sempre che non vi terrorizzino i pagliacci, con i tempi che corrono). Non mancano momenti d’azione quanto commoventi, momenti dove Napoli si mostra in tutte le sue sfumature: dalla bellezza del mare al tramonto al calore e colore delle feste rionali.


Ottimo tutto il cast, con menzione d’onore per i bravissimi piccoli interpreti. 

Molto bella la fotografia e le scelte scenografiche, adeguata la colonna sonora.

Bella l’intuizione di alternare la storia alla descrizione di precisi quanto accurati momenti formativi, che possono essere stimolanti anche per un pubblico di insegnanti delle scuole.

Un bel film su una storia vera, per quanto a tratti drammatica. La bella testimonianza della possibilità di cambiare il mondo, iniziando a guardarlo da un punto di vista diverso: truccati da pagliacci. 

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sabato 28 dicembre 2024

Dove osano le cicogne: la nostra recensione della nuova commedia di Fausto Brizzi, con protagonisti Marta Zoboli e Angelo Pintus alle prese con il desiderio di genitorialità

 


Sinossi: Milano dei giorni nostri, inizio d’estate, giusto a pochi giorni dalla fine della scuola.

Il maestro Angelo (Angelo Pintus) è in classe, quinta elementare, intento nella interrogazione-quiz “chi non vuole essere bocciato”. La posta in palio è altissima per chi deve recuperare prima dello scrutinio finale, ma i concorrenti sono motivati ed è ancora attivo “l’aiuto del secchione”.

La tensione si taglia nell’aria, il clima giocoso, il preside (Antonio Catania), persona di buon senso, guarda con un po’ di scetticismo, ma segue l’evento a distanza ravvicinata, con curiosità, direttamente dietro le spalle di Angelo, un po’ inquietante. Angelo ci sa fare con i bambini, ma vuole impegnarsi anche con i bambini futuri, quelli “in arrivo”.

È per questo che con il massimo impegno, a fine lezione, si lancia in bici per le strade di Milano, saltando acrobatico dal naviglio al Duomo, sgommando a tutta birra fino al bosco verticale e allo studio dove lo aspetta la sua psicologa nonché moglie Marta (interpretata dalla comica Marta Zoboli): pronto per sfruttare al volo e al meglio la “finestra di fertilità” che si è miracolosamente aperta.

Marta è dolcissima ma anche un po’ un generale e non è saggio fare tardi.

Il tempo è da record su tracciato e sterrato, la tecnica di guida migliore di Brumotti, ma la finestra si chiude anzitempo. Tutto da rifare, ma “sempre pronti!” come il motto dei lupetti, anche per non scontentare il suocero carabiniere in pensione (Tullio Solenghi), che non crede troppo alla virilità di Andrea e ogni tanto lo sottolinea.

La coppia è motivata e aspetta solo che prima o poi la cicogna venga a trovarli, sperimentando tra specialisti, vasetti e influenze lunari sulle maree. La notte, Andrea cerca una “carica” leggendo a letto gli speciali di Focus Junior, mentre Marta cerca al suo fianco “soluzioni”, sfogliando qualche giallo di Grisham. Il “bandolo della genitorialità” è alle porte.

Poi arriva una doccia fredda e crudele, certificata da ecografie e statistiche. 
Il cuore di Marta per un attimo si spezza ma dura poco: c’è Andrea (il comico Andrea Perrone), il migliore amico, infermiere di famiglia, nonché l’addetto a trovare le soluzioni migliori ai problemi concreti. Prospetta un viaggio all’estero, in una terra più “caliente”, in cerca di dottori /maghi. Siccome i dottori/maghi poi non esistono, questi propongono alla coppia qualcosa di un po’ ardito, non legalissimo, che può portare tutti su una strada pericolosa ma che può essere risolutivo ai problemi immediati di Angelo e Marta. Una madre surrogata, giovane e disposta a fare tutto senza alcun compenso: la giovane e bellissima, ma un po’ incasinata Luce (Beatrice Arnera). Giusto l’intervento costa sui 20.000 euro e fino alla nascita Luce vivrà con loro a Milano. Al loro ritorno in Italia Marta fingerà di essere incinta, portando delle pance finte progressive in offerta su Amazon, mentre giustificheranno la presenza di Luce come quella di una nuova “donna alla pari”, qualsiasi cosa sia oggi una “donna alla pari”.

L’inganno è pronto, ma non sarà facile gestirlo per nove mesi, anche per via del fiuto da poliziotto del suocero. Ad aiutare la coppia interverrà anche una esperta di gravidanze “non convenzionale” (Maria Amelia Monti), che tra yoga, canzoni spirituali e proposte di “parti in acqua tutti nudi” per lo più seminerà il caos.

Marta sente già di essere pure lei incinta per davvero, empatizzando a mille con Luce, al punto da replicarne in simultanea i momenti di crisi. Angelo si fa un po’ travolgere dagli eventi. Vincerà il desiderio di avere un figlio tutto loro “nonostante tutto”, anche con la tecnica surrogata, oppure nascerà in loro il desiderio di diventare persone importanti anche della piccola e un po’ disastrata Luce, che giorno dopo giorno sta cambiando le loro vite?

Sapranno diventare dei bravi genitori?

 


Cine-Pintus: è da molto tempo che Pintus corteggia il cinema. In principio fu un piccolo ruolo nel surreale Tutto molto bello del 2014, per la regia di Ruffini. Seguì una particina nella commedia Ma tu di che segno 6 dello stesso anno, per la regia di Neri Parenti. Nel 2015 Pintus diede la voce al “signor Principe” nel meraviglioso Il Piccolo Principe animato di Mark Osborne. Fu poi di nuovo in sala per una particina in On Air, nel 2016, autobiografia simpatica del dj di 105 Mazzoli. Otto anni dopo e moltissimi spettacoli di stand-Up commedia, special natalizi con Malika Ayane (bellissima) e una mini-serie Amazon Prime autobiografica dopo, Angelo Pintus torna al cinema, da protagonista, in una pellicola diretta dal veterano Fausto Brizzi. Al suo fianco ci sono Marta Zoboli e Andrea Perrone, attori comici con i quali condivide spesso degli spettacoli, ma il cast vede anche la presenza di grandi attori comici come Tullio Solenghi e Maria Amelia Monti.

Brizzi iniziava come sceneggiatore di serie tv nel 1998 per poi diventare anche autore di molti film comici (Tifosi, The Clan, Nessuno mi può giudicare), tra cui molti “cinepanettoni” (Natale in crociera, Natale a New York, Natale a Miami, Natale in India). Arrivava alla regia nel 2006 con una delle pellicole “adolescenziali” più riuscite di sempre: Notte prima degli esami. In breve, passava a raccontare i difficili rapporti tra uomini e donne “di età più adulta”, raccontando il complesso di Peter Pan in pellicole come Ex, Maschi contro Femmine, Come è bello far l’amore, per poi arrivare a dirigere, spesso con De Sica, quelli che sono a tutti gli effetti dei “cinepanettoni 2.0”: Poveri ma Ricchi, La mia banda suona il pop.

Nel 2019 dirigeva forse la sua opera più strana e originale, quasi una favola moderna: Se mi vuoi bene. Tratto dal suo sesto libro, edito da Einaudi, il film vedeva con protagonisti d’eccezione Claudio Bisio e Sergio Rubini e raccontava della ri-scoperta di un senso di comunità e mutuo aiuto attraverso un piccolo bar / libreria aperto a tutti, specie ai più fragili, nonché gestito da volontari amabilmente disperati.

Parlare di genitorialità oggi, attraverso una commedia con Pintus: quest’anno abbiamo avuto alcuni film interessanti che ci hanno parlato a varie “latitudini” di genitorialità.

Abbiamo avuto il tenero Vittoria, di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, che ci ha raccontato, con un linguaggio quasi documentaristico, del desiderio inconscio di una madre di adottare: per condividere “un di più d’amore”, con qualcuno che magari è stato sfortunato nella vita, nonostante non si sia più giovanissimi.

Abbiamo avuto il film storico Il treno dei Bambini, di Cristina Comencini, sulle madri di un sud Italia poverissimo nel dopoguerra che si “affidavano” a delle donne del nord iscritte al partito comunista e disposte a diventare madri per accudire i propri figli, in attesa di giorni migliori.

Abbiamo avuto Maria Montessori - La nouvelle femme, di Lily D’Alengy, che ci ha raccontato, con la biografia, di in epoca in cui avere figli al di fuori di un matrimonio era una “condanna sociale”, così come abbiamo avuto il road movie Il più bel secolo della mia vita, di Bardani, sulla legge, reale, che impedisce tuttora ai figli non riconosciuti di sapere l’identità della propria madre, fino al compimento dei 100 anni di vita.

Volendo potremmo trarre, tra le mille sfumature surrealiste del fantascientifico The Substance, di Coralie Fargeat, anche un film sul rapporto a volte tossico tra genitori e figli: la difficoltà di prendersi cura di chi di fatto è “parte di noi”.

Poter essere o diventare genitori, al meglio (o al peggio) delle proprie volontà, è un tema ancora oggi molto forte, divisivo, in grado di muovere importanti corde emotive. Se vogliamo corde emotive che si adattano alla perfezione alle opere più care a Brizzi: quelle che affrontano temi generazionali e sociali affidandosi ad attori comici in grado di “stemperare” la materia.

Comici “a tutto tondo” ma che grazie a Brizzi si cimentano così in ruoli più “sfaccettati del solito”, come nel caso del Giorgio Faletti di Notte prima degli esami: un ruolo da genitore e al contempo insegnante, spesso costretto a indossare la maschera più severa rispetto a quella amichevole; regalando solo un piccolo “sorriso di intesa”, nascosto dal fumo di una sigaretta, per certificare una vicinanza con i suoi figli e alunni “più giovani”. 

Pensando a Brizzi e al ruolo di Pintus in questo film arrivano echi proprio al personaggio del professore del mai dimenticato Faletti (personaggio che in Brizzi ha rivissuto “tre volte”, sempre in opposizione a Vaporidis, in un instant-sequel, ma anche trasformandosi in un vero e proprio villain, in un thriller-action non convenzionale come Cemento Armato… ma questa è un’altra storia).

Certo Faletti impersonava un terribile insegnante del liceo e Pintus è un maestro delle elementari giocoso, pronto a travestirsi da Asterix (anche se lui puntualizzerebbe “Vercingetorige”), “più amico che minaccia”. Faletti era padre di una ragazzina che stava per affrontare, come il giovane protagonista di Vaporidis, la famigerata “notte prima degli esami”, uno dei momenti più belli e drammatici dell’esistenza umana. Viveva così questa esperienza “due volte”. Pintus non è ancora padre e sta cercando di promuovere la sua classe di alunni in vista del primo anno di scuola media, che rappresenterà anche il suo distacco da loro come insegnante, assistito (o forse bonariamente intralciato) dal personaggio del preside, del bravo Catania, che racconta con la sua parte della grande gioia e malinconia di un ruolo educativo “a tempo determinato”, che ogni tanto può avere di fatto molte sfumature genitoriali.


Pintus funziona benissimo come insegnante: favorito da un cast di giovani attori molto riuscito, una fotografia super colorata e una trama “scolastica” molto divertente, riesce in queste scene cariche di azione e gag a offrire il meglio del suo repertorio da intrattenitore surreale e quasi slapstick. 
È il Pintus “futuro genitore” che è più contratto, forse “irrisolto”. La genitorialità, tematica che presto scalza della maternità surrogata dall’obiettivo principale della pellicola (forse perché oggi ancora troppo difficile), sembra travolgere come un’onda un po’ tutti i protagonisti sulla scena, a parte Pintus. 

La Zoboli incarna una Marta particolarmente in crisi, emotiva, a volte dispotica ma tenerissima: alla continua ricerca di un equilibrio tra le sue irrinunciabili esigenze di cura e controllo e la possibilità di accettare la vita “così come viene”. Il personaggio di Luce, di Beatrice Arnera, è una madre-bambina controvoglia, infantile quanto un po’ “scroccona”, ma che ha alle spalle un vissuto molto complicato che ne giustifica molti atteggiamenti contraddittori. Solenghi è un poliziotto integerrimo fino allo sfinimento, quasi caricaturale, ma mostra dietro l’armatura di poter essere, anche e pur sempre, un padre. Il folle e divertentissimo personaggio di Maria Amelia Monti è cosi innamorato del suo ruolo di “levatrice new age”, da far intendere di accettare di operare anche in contesti non del tutto legali, “pur che nasca un nuovo bambino”.

Tanto la Zoboli, la Monti, Sonenghi e la Arnera, dimostrano con i loro personaggi una trasformazione emotiva importante nel corso della storia.

Il personaggio di Pintus no. O per lo meno dimostra, tra le righe, quanto per lui sia difficile “abbassare la maschera”: per esprimere liberamente delle emozioni diverse dal buffo maestro elementare “tutto battutine, pose da supereroe e sguardi buffi” che impersona.

Tra le righe, Angelo ci racconta di essere un personaggio che ha vissuto molte situazioni di fragilità emotiva, fino ironicamente a scegliere di poter vivere solo con la sua analista. Tra le righe, lo vediamo leggere Focus Junior e guardare solo cartoni animati, forse un po’ con un complesso acuto di Peter Pan, buffo ma preoccupante.

Avremmo voluto davvero vedere Pintus almeno per un istante, almeno di sfuggita, magari nascosto nell’ombra, “commuoversi”. Abbassare per un istante la sua “maschera comica” e rivelare un personaggio più complesso anche in ragione del tema portante del film: il desiderio di diventare padre.

Forse è un desiderio anche questo implicito, in quanto il personaggio possiamo dire che viva l’insegnamento come già una forma di genitorialità, ma avremmo voluto qualcosa di più.

Anche il personaggio di Fantozzi di Villaggio indossava una maschera comica: ma quando questa “calava”, vedevamo un uomo ricco di dignità, lucidissimo davanti a un mondo crudele. Sotto la maschera buffa di molti personaggi da cinepanettone di Boldi c’è una voglia di tenerezza non espressa in modo deciso. Dietro le maschere dei più cattivi anti-eroi di De Sica c’è la paura del “vuoto”, il timore che non esista nulla di lui oltre la maschera stessa.

Quando “cade la maschera” ognuno di questi personaggi si eleva in qualcosa di nuovo e unico: ci accorgiamo che un film comico più darci qualcosa “di più” che l’esecuzione di un lungo sketch comico.

Chi c’è qui dietro la maschera del maestro Angelo di Pintus? Forse è troppo fragile e agisce emotivamente per lo più solo “di supporto” a un desiderio espresso da altri personaggi, esprimendosi con un paio di pacche sulle spalle? Nasconde sul suo Focus Junior tutte le verità sul destino umano? 

Un bravo comico come Pintus può sicuramente diventare un grande comico, se prima o poi riuscirà ad abbassare quella maschera, senza ridurci a indagare sui sentimenti del suo personaggio come dei detective. Forse sarà per la prossima volta.

Finale: Dove osano le cicogne è un film che riesce ad affrontare con molta leggerezza e ottimi interpreti un tema molto complicato come la genitorialità, di fatto cercando di parlare, molto a latere, “andandoci con i piedi di piombo”, anche un tema ancora più complicato, difficilissimo, come la maternità surrogata. 

È un’opera colorata, pieno di bambini e di gag divertenti, perfino qualche scena d’azione, che possiamo ritenere perfetta come intrattenimento per tutta la famiglia, in queste feste natalizie. Adatta a tutti i bambini e a tutti i tipi di genitori.

Molto bravi tutti gli interpreti e divertentissimo Pintus, anche se forse non riesce ancora ad abbassare la maschera comica che lo ha reso un personaggio tanto amato, per raccontarci personaggi con qualche sfumatura in più. 

Talk0 

 

Mufasa - Il Re Leone: la nostra recensione del nuovo film Disney, diretto dal premio Oscar Barry Jenkins, che racconta l’infanzia del papà del leone Simba ispirandosi al “Padrino - Parte 2” di Coppola

 


Sinossi: Ci troviamo tra le magnifiche foreste della Tanzania, poco dopo gli eventi raccontati ne Il Re Leone (film uscito nel 2019, diretto da Jon Favreau).

Simba (in originale con la voce di Donald Glover e in italiano con quella di Marco Mengoni) e Nala (con la voce di Beyoncé Knowles-Carter e da noi di Elisa), ormai diventati i nuovi re e regina, devono lasciare momentaneamente la Rupe dei Re per recarsi lontano dal territorio. La piccola “principessa leoncina” Kiara (con la voce in originale di Blue Ivy Carter, figlia di Beyoncé) viene affidata alle cure di uno strampalatissimo duo di babysitter: il cinghiale Pumba (Seth Rogen, da noi Stefano Fresi) e il suricato Timon (Billy Eichner, da noi Edoardo Leo).

La notte è particolarmente buia, spaventosa e tempestosa. Le storie raccontate dal duo sono assurde quanto sconclusionate e manca l’ispirazione per una bella canzone che sollevi il morale. Per placare la paura dei tuoni è richiesto a gran voce l’intervento di un vero “raccontastorie professionista”: il saggio mandrillo Kafiki (John Kani, da noi Toni Garrani). Kafiki ha in mente una storia vera, grandiosa, di molti anni prima: una storia di quando il nonno di Kiara, Mufasa, era poco più che un cucciolo della sua stessa età.

Era un giorno come tanti altri quello in cui Mufasa ascoltava dai suoi genitori la grande leggenda di Melene: una terra lontana e rigogliosa, dove regnava la pace tra gli animali. Il territorio dove vivevano era da mesi arido, spoglio, con il letto del grande fiume ormai prosciugato e forse era giunto il momento di iniziare il viaggio verso questa “terra promessa”, quando all’improvviso dal cielo arrivò la tempesta.

La gioia durò il poco tempo che bastò al fiume per ingrossarsi, fagocitare ogni cosa, rompere gli argini e abbattere la grande diga. Gli animali che non erano riusciti a mettersi in fuga, arrancando tra pioggia e fango, venivano inghiottiti dalle correnti. Tra questi dispersi c’era anche il piccolo Mufasa, strappato letteralmente dalle zampe dei suoi genitori dalla forza dell’acqua, per finire a fare lo slalom tra tronchi, elefanti e sassi aguzzi, fino a cadere in immersione, diventando una specie di palla da flipper sospinta dalle correnti sottomarine, fino a fermarsi immobile, a galleggiare privo di sensi.

Poi una luce dall’alto e l’aiuto di un piccolo tronco lo riportarono in superficie.

Il bel tempo si era ristabilito e il leoncino era ora in un luogo del tutto nuovo, rigoglioso ma in qualche modo minaccioso. Non Melene ma una “terra d’altri”, piena di coccodrilli affamati, dove lui era solo un “randagio”.

Tuttavia, tra tanti denti aguzzi pronti ad azzannarlo, incontrò un cucciolo come lui, avventuroso quanto gentile, curioso quanto fragile: il “principe leoncino” Taka. Nonostante il parere contrario del suo aristocratico e scostante padre, re Obasi (con la voce in originale di Lennie James e da noi di Pasquale Anselmo, doppiatore di Nicolas Cage) Taka fin da subito decise che Mufasa sarebbe diventato a tutti gli effetti “suo fratello”. Con in passare del tempo i due divennero grandi amici, inseparabili. Obasi però dispose che Simba vivesse lontano da lui, nel branco delle femmine: imparando a svolgere incarichi di “basso profilo regale” come “la caccia”, sotto la guida della dolce ma severa regina Eshe (con la voce in inglese di Thandiwe Newton e da noi di Daniela Calò, doppiatrice di Evangeline Lilly).

Presto tra i due fratelli arrivarono le competizioni, volute dal sempre più tirannico Esche per dimostrare che Taka (da adolescente con la voce inglese di Kelvin Harrison Jr. e in italiano di Alberto Malanchino), suo figlio, era l’unico degno erede del trono, in virtù della sua discendenza di sangue.

Mufasa (da adolescente con la voce in inglese di Aaron Pierre e da noi con quella di Luca Marinelli) era più forte e anche senza volerlo vinceva ogni confronto: alimentando l’insicurezza di Taka e l’odio nei suoi confronti di Esche.

Poi un giorno arrivarono nel territorio i leoni bianchi, da tutti soprannominati gli “Emarginati” (The Outsiders, in lingua originale). Creature più grosse e forti del normale, già espulse dai vari branchi della savana in quanto “strane” e ora molto numerose, unite sotto la guida del minaccioso e imponente Kiros (in originale con la voce di Mads Mikkelson e da noi interpretato da Dario Oppido, doppiatore di Raoul in Ken il Guerriero), ben disposto a sterminare tutti i gruppi fino a diventare l’unico e solo re leone. Taka e Mufasa sarebbero fuggiti insieme per salvarsi dallo sterminio, alla ricerca della leggendaria Melene, incontrando nel loro viaggio molti personaggi che forse Kiara già conosceva. Come sarebbero riusciti a salvarsi? Ma soprattutto, chi era o dove si trova ora un leone di nome Taka? Pumba è così confuso dal racconto di Kafiki che è quasi convinto che Taka potrebbe essere in realtà lui…

 


La costruzione del secondo capitolo del Re Leone del 2019: A metà degli anni ’90 la Walt Disney Pictures iniziò a sperimentare dei veri e propri remake di alcuni dei suoi più fortunati film di animazione, scegliendo un approccio più “realistico e moderno”. Attori in carne e ossa, creature digitali frutto della più moderna computer grafica e storie e canzoni “al passo con i tempi”, andavano ad affiancare così disegni, musiche e racconti realizzati anche una cinquantina di anni prima: spesso allontanandosi molto dal modello di riferimento, ma comunque destando grande interesse e curiosità da parte del pubblico.

Antesignano di questa nuova onda fu il divertente live action de Il libro della giungla di Stephen Sommers, uscito nel Natale del 1994, cui seguirono nel 1997 e nel 2000 due pellicole che riprendevano ed espandevano anche il classico Disney La Carica dei 101, con mattatrice assoluta una Crudelia di eccezione interpretata da Glenn Close. Nel gruppo non c’era The Lion King, ma nel 1997 il film animato ispirò un incredibile musical, che il 13 novembre arrivò anche a Broadway, vincendo negli anni tantissimi riconoscimenti a livello internazionale e che oggi fa ancora il tutto esaurito nei molti teatri del mondo in cui viene allestito.

Dal 2010 Disney ha invece iniziato a produrre remake e riadattamenti di sue opere classiche in modo quasi sistemico, con la media di uno o due all’anno, con la punta di ben quattro pellicole a tema nel 2019.

Il re leone del luglio 2019 era il secondo live action Disney firmato dal regista di Iron Man Jon Favreu, dopo l’ottimo Il libro della giungla del 2016, ma anche se vogliamo uno dei remake più singolari: la prima pellicola di questo tipo in cui erano completamente assenti attori in carne e ossa. Il primo impatto non era dissimile a uno special sui leoni prodotto dal National Geographic, ma dietro a un così elevato grado di realismo, frutto anche del talento dei maghi degli effetti speciali della Moving Picture Company (premiati con l’oscar per Jungle Book ma anche per Life of PI),  Favreu era forse riuscito a produrre il remake più dinamico e interessante: quello che tradiva di meno l’opera originale grazie alla sua spettacolarità e anzi riusciva a rilanciare in pieno alcuni dei personaggi Disney più amati.

Nel settembre 2020 entrava già in produzione il secondo capitolo, scritto ancora una volta dallo sceneggiatore Jeff Nathanson (Prova a prendermi, The Terminal). Tornavano le voci originali, i maghi della Moving Picture Company, la colonna sonora firmata da David Metzger (Frozen, Moana), questa volta accompagnato da canzoni nuovissime realizzate ad hoc del premio Oscar Lin-Manuel Miranda (Hamilton, Oceania, Encanto).

Per la regia veniva scelto Barry Jenkins, nel 2016 vincitore del premio Oscar per il miglior film con il drammatico Moonlight, che da Moonlight portava qui anche il suo direttore della fotografia James Laxton, la montatrice Joi McMillion, il musicista Nicholas Britell, la produttrice Adele Romanski.

 


Segni di stile: “Al chiaro di luna i ragazzi neri diventano blu”. In questa frase, poetica quanto volutamente provocatoria, frutto di una ardita e quasi sognante “suggestione cromatica”, si poteva forse sintetizzare tutto il complesso messaggio alla base del bellissimo film Moonlight, scritto e diretto nel 2016 da Barry Jenkins.  Una pellicola che invitava a guardare oltre alle apparenze di una pelle “più scura”, che per qualcuno veniva percepita quasi intrinsecamente “più pericolosa”: il blu al chiaro di luna sembrava avere il potere di mettere in luce i tratti più dolci e vulnerabili anche di chi, all’apparenza, nei suoi stessi lineamenti, sembrava sempre dover indossare, per sopravvivere, la più forte delle corazze emotive. Il blu “smontava l’inganno”, svelando come “l’etichettamento” delle persone può essere solo un punto di vista o di luce, fallace quanto mutabile: raccontandoci la storia di un uomo che fin da bambino ha dovuto costantemente combattere in virtù di come gli altri lo percepivano dall’esterno. Degli “altri” che non arrivavano mai ragionare su come, sotto la superficie, a partire dal colore del sangue fin su nell’animo umano, siamo di fatto tutti uguali, con i nostri sogni e fragilità. Una persona poi, per la prima volta, lo “riconosceva blu”, di fatto permettendogli di cambiare per sempre la direzione della sua esistenza.

Il Mufasa di Jenkins, con i suoi leoni bianchi “Outcast”, il leoncino “randagio” e il leoncino “vittima delle aspettative di sangue del padre”, non distano troppo lontano dal mondo dei “non accettati” di Moonlight. Allo stesso modo in cui i “supereori senza dimora” di The Eternals di Chloe Zhao non si distanziava molto dagli homeless, fuori dal tempo e dallo spazio, del suo precedente film drammatico, Nomadland. Ancora una volta Disney ha scelto di avvalersi di un grande autore per reimmaginare i suoi cinecomics e classici animati in una chiave molto speciale, quasi unica.

Il classico The Lion King ci parlava di debiti di onore difficili da estinguere. Ci raccontava del peso della eredità e del sanissimo bisogno, ogni tanto (alla Cowboy Bebop), di staccare la spina e la testa dalle preoccupazioni: Hakuna Matata! Una fuga e un ritorno al cerchio della vita, cantato da Ivana Spagna, in ragione di un'armonia universale più grande e difficile da capire.

Jenkins riprende questi temi e li amplifica, raccontandoci un mondo spietatamente ancora più cinico, drammaticamente attuale. Ci racconta, attraverso il viscido personaggio di Obasi, di come il massimo dei poteri di chi detiene il comando politico stia nella capacità di mentire e ingannare il prossimo. Kiros è un re potente e in grado di unire le persone (come il Raul di Hokuto no Ken, doppiato forse non a caso sempre da Oppido), ma il cui ego è tenuto insieme unicamente dalla volontà di una vendetta, pur comprensibile ma del tutto incompatibile con ogni forma di convivenza. Il futuro per Kiros non può e non deve esistere. Taka è un anti-eroe in cerca di affetto costante, che vive ogni tipo di legame come una catena rigidissima e immutabile, di fatto confondendo i sentimenti con i doveri. Sono tutti personaggi difficili quanto “umani”: accomunati e avvelenati dalla medesima sfiducia nei rapporti interpersonali; poco propensi a credere in un utopico mondo felice come Melene.


Poi naturalmente ci sono “i buoni”, ma anche loro si sentono spesso vittima di un ingranaggio sociale dal quale non gli è permesso fuggire fino in fondo. Mufasa non sente di poter essere un leader, in quanto concepisce quel ruolo adatto solo a persone come Obasi e Kiros ed è ormai “troppo abituato” a mettersi da parte in favore degli altri.

Molto belli e sfaccettati, forti quanto tragici, sono i personaggi delle leonesse Eshe e Sarabi, quest’ultima interpretata vocalmente dalla cantante Elodie. Combattive quanto purtroppo spesso destinate a stare nelle retrovie, parlando sottovoce o sacrificandosi nel totale silenzio come molte donne del passato.

Anche un amatissimo personaggio storico della serie rivela un passato in cui è stato preso “per pazzo”, in virtù di una positività e fiducia che forse non sembrano più abitare questo mondo. E che dire di quanto sono pazzi e super positivi di solito i divertentissimi e immancabili Pumba e Timon?

Ogni interprete vocale ha lavorato con molto impegno anche nella versione italiana, al netto di qualche piccola increspatura nel tono. Davvero encomiabili le interpretazioni di Marinelli e Malanchino, che insieme sono riusciti a dare molta personalità e tenerezza al complesso legame tra Mufasa e Taka. Molto belli anche i momenti in cui Adriano Trio, interprete per la parte delle canzoni di Mufasa, affianca Elodie in un duetto molto riuscito.

Jenkins disegna per ogni personaggio percorsi difficili e tortuosi, a volte amari quanto messianicamente “ironici”, ma riesce a ricoprire tutta la pellicola di colori sgargianti, momenti genuinamente divertenti e un grandissimo senso dell’azione. Le canzoni di Liu-Manuel Miranda riescono ad essere sempre precise, ritmante quanto coinvolgenti nella narrazione.  Mufasa diviene così a tutti gli effetti un classico Disney, moderno quanto nel suo sviluppo narrativo familiare.

Finale: Il film è bellissimo da vedere, viaggia veloce, intrattiene tra tanta azione e divertimento, ma riesce anche a far riflettere attraverso personaggi non banali. Uno spettacolo quindi adatto a ogni età, molto colorato e accompagnato da magnifiche canzoni. Disney conferma di avere un occhio di riguardo per la saga del Re Leone ed è possibile che questa non sia certo l’ultima pellicola a parlarci di Simba, Pumba e Timon.

La scelta di puntare su un Barry Jenkins e i suoi collaboratori è stata davvero vincente.

Talk0

domenica 8 dicembre 2024

Solo Leveling - ReAwakening: la nostra recensione del film di “riassunto” della prima stagione dell’anime realizzato da A-1 Pictures, tratto dalla serie di Light Novel Sonyon di Chugong, con molte influenze visive riprese dal manwa disegnato dal compianto DUBU

Premessa n.1 – la tipologia di film: ReAwakening per tutto il primo tempo è un film di montaggio ricavato da scene tratte dalla prima serie animata di Solo Leveling, con l’aggiunta di limitati materiali realizzati ex novo. Il secondo tempo è invece tutto costituito dai primi episodi della seconda serie dell’anime, al momento ancora inedita.

Le animazioni come la regia sono sempre curate da A-1 Pictures e pure al netto di diversi passaggi e situazioni “tagliate”, per esigenze di sintesi, la fruizione di quest’opera può risultare soddisfacente e appagante anche per chi non ha già visto le puntate trasmesse da Cruncyroll.

Premessa n.2 - lo “scenario” della Light Novel: Per riuscire a orientarsi con maggiore facilità nel complesso mondo di Solo Leveling, nel paragrafo che segue sono riportate in modo succinto alcune informazioni generali sulla “lore” creata da Chugong. 

In un presente distopico, l’umanità da dieci anni è coinvolta in una “guerra silenziosa” contro una minaccia di origine sconosciuta, che viene combattuta da truppe speciali molto singolari, simili per molti versi a dei “contractors”.

Dal nulla, in tutto il globo, sono apparsi i “gate”: dei piccoli portali sferici in grado di collegare la nostra realtà con biomi sconosciuti dove il tempo è dilatato, popolati da creature mostruose che sembrano provenire direttamente dai racconti fantasy.

L’unico modo per far scomparire i gate è penetrare al loro interno e sconfiggere una creatura definita come “boss”: un nemico così forte da determinare da solo l’esito finale della battaglia.

Se entro sette giorni nessuno sconfigge il boss avviene il cosiddetto “dungeon break”: le creature dell’altra dimensione sono autorizzate a varcare il passaggio e invadere il nostro mondo, seminando morte e distruzione fino al loro annientamento. Fino al settimo giorno è possibile tentare più volte l’impresa, quanto estrarre dal bioma una fonte di energia preziosa chiamata “mana”, sulla quale si sta investendo molto a livello tecnologico.

Parallelamente alla comparsa dei Gate, alcuni esseri umani, in modo del tutto casuale, hanno iniziato a subire una trasformazione interna detta “risveglio”, a seguito della quale manifestano incedibili poteri che gli permettono di contrastare con maggiore facilità i mostri del gate. Poteri che portano a definirli di volta in volta come maghi, ladri, spadaccini, ninja, guaritori o altre classi specifiche, sempre derivate dai giochi di ruolo fantasy. Vengono chiamati comunemente “Hunter” e classificati secondo un “livello di abilità” misurabile dalla classe S alla classe E. 

Se i classe S vivono nel lusso, godono di armi rare, fama e di una influenza politica elevata, i classe E raschiano il fondo alla catena alimentare, sono pagati con pochi spicci, utilizzati alla stregua di portantini dagli Hunter di rango maggiore, discriminati socialmente alla stregua di una casta inferiore. Questo perché, una volta che avviene il risveglio, l’Hunter viene associato a una classe e grado di abilità in modo immodificabile, permanente. 

Esistono strumenti scientifici anche in grado di classificare i gate in relazione alla loro pericolosità, da S a E, di fatto permettendo agli Hunter di organizzarsi in squadre specifiche per fronteggiare situazioni che richiedono un maggiore utilizzo di tattiche di squadra. Ogni gate si caratterizza per misteriose “regole di ingaggio” che vengono per lo più svelate attraverso l’esperienza diretta, ma di fatto “lì dentro” vige piena libertà di azione.

Ciò che succede nei gate non è sottoposto ad alcuna giurisdizione, ma esiste uno specifico “Federal Bureau” degli Hunter che vigila sugli abusi e crimini connessi a questa nuova realtà. Un giorno trascorso in un gate equivale a un’ora nel mondo reale. Chi muore in un gate, non torna più in vita nel mondo reale.

 


Sinossi: A Seul, il giovane e gracile Hunter Jinwoo Sung è stato ribattezzato “l’arma più debole dell’umanità”. 

Figlio di un Hunter rimasto disperso, affronta i gate di più basso livello a testa bassa, per permettere alla sorella di continuare gli studi e per consentire le cure della madre, in coma a causa di una malattia legata al mana. Ogni giorno si espone sempre più al pericolo, portando zaini pesanti pieni di pale per scavare il mana e armature tattiche e viveri di proprietà altri, finendo spesso vittima di Hunter senza scrupoli a dire il vero molto più infidi dei maghi goblin e dei cavalieri ciclopici nascosti in un gate.

La frustrazione e il senso di impotenza raggiungono il culmine quando un gruppo lo lascia indietro in un raro “gate doppio”, abbandonandolo al suo destino durante una fuga.

Jinwoo Sung perde i sensi e si sveglia in stato di confusione in un ospedale, ma qualcosa per lui è definitivamente cambiato: ha avuto un “secondo risveglio” e da allora una intelligenza chiamata “sistema” compare davanti ai suoi occhi, guidandolo nelle missioni e facendolo accedere ad abilità uniche. Jinwoo Sung da Hunter di classe E è passato a essere definito dal sistema come “Player”. L’unico umano in grado di salire di livello con l’esperienza acquisita durante le missioni nei gate. L’unico in grado di percepire ciò che si nasconde davvero sotto la realtà. Forse solo “un gioco”, ma un gioco nel quale ora lui può essere il più forte. Con il secondo risveglio la corporatura di Jinwoo è mutata, rendendolo più muscoloso e adulto. Anche il modo di vedere il mondo è cambiato e il ragazzo ora si rende conto di essere sempre più cinico e spietato.

Qualcuno del Bureau e alcuni degli hunter più pericolosi iniziano a interessarsi a lui.


Un'invasione aliena che viene combattuta “per soldi” come all’interno di un videogame fantasy: Solo Leveling è un’opera complessa, capace di mischiare al meglio influenze narrative e visive di natura diversa, in un prodotto godibile, divertente quanto cupissimo.

Dentro i gate ci troviamo a tutti gli effetti in un gioco di ruolo, che agli occhi del “player” appare pieno di menù, statistiche e inventari, come in Sword Art Online e come nei mille isekai che ormai hanno invaso il mercato, raccontandoci di protagonisti incarnati in mondi paralleli come blob, spade, scheletri immortali.

Si parla di “leveling” e “farming”, di mostri e di “lore”, ma anche di un imbarbarimento dei rapporti umani, in ragione di un territorio senza regole in cui tutti, prima o poi, sono liberi di sperimentare cinismo ed egoismo, seguendo alla lettera la massima “homo homini lupus”.

Fuori dai gate, succedono le invasioni dei mostri del Dungeon Break e di colpo veniamo calati in una atmosfera alla Gantz, ma accadono anche tanti piccoli giochi di potere machiavellici che giocano moltissimo sulla sensibilità personale e l’impatto sociale, sullo stile di Death Note e Code Geass.

C’è molto della coolness di Matrix in Solo Leaving, fin nelle particolarissime scelte cromatiche dai colori plumbei ed esautorati con cui in modo artificiale, quasi plastico, vengono spesso raccontati i gate. Un impianto visivo che l’anime eredita direttamente dai bellissimi disegni opera di DUBU, in grado di trasmettere un costante senso di straniamento e angoscia, nonostante la grande raffinatezza del tratto.

Ma c’è in Solo Leveling anche la crudeltà, il senso di dramma e disincanto sociale proprie di molto del cinema e delle serie tv coreane, da Old Boy a Squid Game.

Tutto nella storia gira intorno al denaro e a classi sociali che distorcono i rapporti umani. Il nostro eroe, più che un affascinante cavaliere in armatura, ci appare simile a un moderno “rider”: si muove di gate in gate seguendo informazioni che riceve ad un cellulare per pochi spicci, spesso dovendosi fidare di sconosciuti che non hanno alcun rispetto per il suo destino.

È un mondo pieno di mostri colorati ma anche aspro e crudele, confezionato con cura in animazione proprio dagli stessi ragazzi di A-1 Pictures che da anni curano la trasposizione animata di Sword Art Online, avvicinando idealmente i due brand in un modo riuscito quanto suggestivo: con Solo Leveling che fa la parte del “fratello” più ombroso e solitario, meno interessato alle situazioni romantiche e più concentrato sui drammi esistenziali.

È facile avvicinarsi con curiosità a Solo Leveling per poi rimanerci “travolti dentro”.

Una volta masticata la ramificata struttura che fa da scenario generale alle vicende, possiamo divertirci abbandonandoci senza esitazioni a una storia ricchissima di combattimenti lunghi, originali, disperati quanto epici e a volte perfino dalle sfumature “ironiche”.

Una storia che tra tanta azione e un accompagnamento sonoro di forte impatto non lesina in colpi di scena e cambi di punti di vista repentini, che con il passare del tempo cresce fino a mutare quasi del tutto la sua pelle: evolvendo verso scenari giganteschi quanto inaspettati, come solo le migliori opere di fiction riescono a fare.

Pur nella peculiarità del “film di montaggio”, Solo Leveling affascina e diverte, così che riusciamo facilmente a empatizzare con un personaggio dalle mille sfaccettature e lati irrisolti come Jinwoo Sung. In ragione di un “faro narrativo” spesso puntato sul protagonista, rimane invece un po’ in ombra il resto del cast, ma siamo sicuri che nella seconda stagione molti personaggi cominceranno un po’ a emergere. 


Finale:
Il film di Solo Leveling ci ha piacevolmente colpito e, a quanto ci stato possibile appurare in sala, anche alcuni fan della serie hanno apprezzato molto le scelte di montaggio operate da A-1 Pictures.

Molti tagli rispetto all’opera originale permangono, ma ReAwakening può essere l’antipasto ideale con cui approcciarsi all’opera di Chugong e approfondire in un secondo momento tutti i nodi che non sono arrivati al pettine.

Vedere su di un grande schermo le “avventure fantasy” di Jinwoo Sung, piene di mostri giganteschi e intrighi, risulta davvero spettacolare e avvincente anche per i neofiti o per chi magari in passato ha apprezzato Sword Art Online, anche se in Solo Leveling la componente “pruriginosa e sentimentale” è quasi del tutto assente.

La saga promette di mettere ancora tanta altra carne sul fuoco nella seconda stagione dell’anime e questo film ci da anche l’occasione di “sbirciare” quanto ci aspetta all’orizzonte, nel 2025.

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