giovedì 29 settembre 2022

Tutti a bordo: la nostra recensione del film di Luca Miniero con Giovanni Storti, Stefano Fresi e Carlo Buccirosso

 


Il padre pasticcione e ansioso Bruno (Stefano Fresi) e lo stralunato e distratto nonno Claudio (Giovanni Storti) sono stati scelti per accompagnare in un viaggio in treno un piccolo gruppo di bambini, che da Torino deve andare per le vacanze in colonia in un Camp in Sicilia. A seguito di un battibecco, Bruno e Claudio all’ultimo minuto non riescono a salire sulla carrozza e si lanceranno così in una rocambolesca avventura per raggiungere i bambini prima che arrivino a destinazione, si spera “sani e salvi”. Una speranza non banale, visto che nel frattempo i piccoli dovranno cercare di cavarsela da soli per sfuggire al perfido controllore Mario (Claudio Buccirosso), che odia i bambini e non vede l’ora di farli scendere alla prima stazione nel caso non dimostrino di viaggiare insieme a un accompagnatore adulto. Durante questa avventura on the road Bruno e Claudio avranno a che fare con il ragazzino “problematico in quanto adolescente” Milo, piloti di elicottero con istinti suicida (Alessandro Besentini di Ale e Franz), hippie vegani integralisti (Massimo Ceccherini), suore ultras romaniste e future sposine ubriache, abbandonate su un’auto dopo l’addio al nubilato (Gaia Messerkinger). I bambini sul treno, pur in fuga da Mario, cercheranno di aiutarsi a vicenda, trovare qualche adulto dall’animo gentile che possa aiutarli (Gigio Alberti), ma soprattutto faranno di tutto per godersi un viaggio che diventa sempre più, minuto dopo minuto, una vera avventura.  


Luca Miniero, dopo Benvenuti al sud e Sono tornato, torna a dirigere il remake di una pellicola di origine estera, in questo caso un adattamento di Michele Abatantuono e Laura Prando dal francese Attention au depart! del 2021. La colonna sonora ad opera di Santi Pulvirenti, che ha già collaborato con Miniero a La scuola più bella del mondo, ci dà fin da subito un primo input su quello che avremo a vedere, con una musica particolarmente frizzantina che ricorda nelle prime note il tema dei Goonies di Dave Grusin. Anche il personaggio di un divertito e divertente Buccirosso richiama in qualche modo i cattivi dei Goonies, dando il meglio di sé proprio in una scena in cui spinge “i bambini più grandi” in un surreale interrogatorio sulle “cose cattive” che hanno fatto in passato, che cita a piene mani da Donner. Tutti a bordo profuma quindi un po’ del Goonies di Donner e in questo ci piace, ma volendo descriverci anche un gruppo di bambini di età eterogenea qualche volta cerca di richiamare anche Mamma ho perso l’aereo di Columbus, specie nelle scene in cui i bambini “più piccoli” cercano timidamente e spavaldamente di mostrarsi più autonomi e spigliati. A tutto questo si aggiunge un po’di Un biglietto in due di John Hudges nella strana coppia padre/figlio on The road di Fresi e Storti, tra momenti di incomprensione e momenti di vicinanza, scanditi in un percorso a tappe sempre più tortuoso e titanico. Poi però, forse per omaggiare la comicità più fisica e slapstick di Aldo, Giovanni e Giacomo, la pellicola aggiunge ancora spunti e si avventura più dalle parti di Todd Phillips che di un rassicurante National Lampoon. Arrivano le gag sulle pecore prese a sassate, arrivano gli elicotteri rotanti tra le montagne, arrivano dei loschissimi pastori sardi a caccia di cellulari di ultima generazione da scambiare con un’Ape Piaggio. È come la maionese che impazzisce, questo crescendo narrativo che, procedendo per accumulo, accelera sempre di più sul pedale dell’assurdo e della gag, portandoci a un finale così veloce che quasi ce lo perdiamo via, insieme ai personaggi e a quello che vorrebbero raccontarci. Avremmo voluto magari correre di meno e stare un po’ di più con loro, specie con i bambini, magari esplorando la piccola storia d’amore tra Juri e Ada, indagare sulla narcolessia di Stella, comprendere il motivo per cui Milo è diventato così tanto “Milo”.

 

Molto bravo Buccirosso, divertenti le piccole parti di Ceccherini, della Messerkinger e Gigio Alberti. La coppia Fresi/Storti cerca di incontrarsi e affiatarsi e qualche volta ci riesce. I giovani attori sono simpatici e graziosi, nella media dei giovani attori italiani, ma pagano un po’ lo scotto della consueta, eccessiva teatralità in cui gli insegnano ad esprimersi. 

Molto colorato e leggero, Tutti a bordo divertirà sicuramente il pubblico dei più piccoli a cui è indirizzato, ma forse tramortisce il pubblico dei più grandicelli. Ci sono situazioni stralunate da cartone animato, momenti teneri, un buon senso dell’azione e qualche piccolo momento introspettivo che riesce a offrire un valore aggiunto alla visione. Tuttavia il film forse non riesce ad andare oltre a un viaggio sulle montagne russe ed è un po’ un peccato. 

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lunedì 26 settembre 2022

Stolen: la nostra recensione di uno scoppiettante film sulle rapine di Simon West con protagonista Nicolas Cage

Il super ladro di banche Will Montgomery (Nicolas Cage) viene arrestato dopo aver compiuto il suo colpo più grande, con il bottino che non viene mai più ritrovato. Will dice di averlo distrutto, bruciato, per avere uno sconto della pena. Forse è vero, forse no, in tanti non ci credono. Molti anni dopo Will è di nuovo un uomo libero e il detective che ha sempre seguito le sue gesta (Danny Huston) lo aspetta direttamente fuori dalle porte del carcere, determinato a seguirlo ovunque per recuperare quei soldi che per lui non sono mai davvero bruciati. A pensarla allo stesso modo è anche un vecchio socio di Will (Josh Lucas), che decide di rapire sua figlia (Eva Padoan) e metterla nel bagagliaio del suo taxi fino a quando l’ex collega non pagherà il conto. Inizierà così per il vecchio super ladro una corsa contro il tempo e forse la pianificazione di un nuovo super colpo. 

C’era una volta, nel 1997, un ex detenuto di nome Cameron Poe, dalla forza quasi erculea e dal capello biondo lungo che vibrava nel vento. Tornava a casa dalla sua bambina, dopo tanti anni, in un aereo carcerario pieno di pazzi squinternati, ascoltando insieme a loro i Lynyrd Skynyrd, recando in dono per la piccola un coniglietto di peluche. C’è molti anni dopo, nel 2012, ancora un ex detenuto, anche se dal capello più corto e di nome Will Montgomery, amante dei Creedence Clearwater Revival, che dopo molti anni torna dalla sua bambina, ora ormai adulta, forse “troppo adulta”, recandole in dono un orsacchiotto coccoloso. Il regista è sempre Simon West, Cage è star in entrambi i film e tra i co-protagonisti c’è sempre quell’amabile omone dal sorriso irresistibile di M.C.Gainey. A fare il “poliziotto buono” a questo giro al posto di Cusack c’è Danny Huston, a fare il “cattivo pazzo” c’è Josh Lucas al posto di Malcovich, a fare la “bionda” c’è la divina Malin Akerman al posto di Monica Potter. È di nuovo un film pieno di azione, spettacolari rapine, inseguimenti e battutacce come si facevano gli action  negli anni 80/90. Quelli che una volta chiamavamo “fumettoni”. Stolen è ben scritto da David Guggenheim, che avrebbe di lì a poco confezionato la sceneggiatura di un altro revival, Bad Boys for life, per poi dedicarsi ai  due Qualcuno salvi il natale con Kurt Russell, che pure vestito da Babbo Natale è ancora il top degli action Hero anni ‘80. Certo lo stile guarda tanto al passato e fosse uscito nel '95, come un Die Hard 3, la pellicola sarebbe stata davvero uguale. Ma Simon West dietro la macchia da presa non sembra invecchiato per niente per tecnica e inventiva, come del resto non sembra cambiato Cage, che trionfalmente indossa sullo schermo quello che è un giubbotto in pelle di vent’anni prima, senza il minimo accenno di pancia e decadimento muscolare. 


E dire che il film inizialmente doveva avere per protagonisti giovanotti come Clive Owen o Jason Statham. Io o immagino proprio Simon West che orfano di Jason “zero per cento di massa grassa” Statham al provino vede Cage e per dargli la parte lo invita a indossare la vecchia giacca senza fare uso di panciere o borotalco e alla fine si convince, gli dà la parte. Immagino che i due piangano e si abbraccino. Superata la prova della giacca di pelle, la giostra può ripartire e riprendere direttamente dai tempi di Con Air, per arrivare a confezionare una storia di un’ora e mezza bella tirata, tra le assolate strade di una New Orleans che ha ospitato le riprese nel 2011, tra marzo e giugno. Il film si becca un VM18 come pellicola “per adulti”, valutazione francamente eccessiva per un “fumettone”, al netto di una violenza visiva non così eclatante ma compatibile con il livello sanguigno delle sparatorie e l’estrema cattiveria del villain interpretato con gusto e passione da Josh Lucas. Lucas lo fa storto, zoppo, dall’indice folle e crudele, patetico e cinico e ci conquista subito, alza il livello della “sfida all’eroe”. Cage risponde adeguatamente, sfoderando un paio di sorrisi e battutacce alla Cameron Poe: non può più esibirsi nei calci volanti al rallentatore del protagonista di Con Air, ma può ancora impersonare benissimo l’asso del volante come in Fuori in 60 secondi di Sena, uscito nel 2000, quello con a fianco Angelina Jolie. Cage si diverte, gioca con le citazioni musicali, offre a Will lo charme del super ladro e West lo aiuta confezionando per lui scene di furti spettacolari e originali, scene di inseguimento adrenaliniche. Malin Akerman non è da meno della Jolie in questo “bionda”, diventando per Stolen la barista/rapinatrice di banche sexy che tutti vorremmo incontrare una volta nella vita. Cage funziona molto bene nelle scene in cui si confronta con Lucas o duetta con la Akerman, vive un po’ a distanza il rapporto/conflitto con il poliziotto del sempre bravo Huston, ma ci piace particolarmente nel ruolo di “padre sgangherato” per l’attrice Eva Padoan, di fatto un'evoluzione del personaggio di Poe. Torniamo alle scene finali di Con Air, dove Poe/Cage riesce finalmente a consegnare alla sua biondissima bambina, che non ha mai incontrato prima di allora, un coniglietto di peluche sopravvissuto a vari esplosioni e infine a un viaggio diretto nelle fogne di Las Vegas. La biondissima prima si ritrae al dono e rileva: “Ma è tutto sporco!!” e Cage, un po’ rattristato cerca subito di sistemarlo meglio e dice: “Beh, basta lavarlo un po’ ed è come nuovo…”. Segue un abbraccio. Una situazione analoga accade al primo incontro di Will/Cage con la figlia Allison, interpretata dalla Padoan. Solo che Allison è una teenager darkettona e Will la vede ancora come una bambina cui regalare un peluche gigante, nello stesso modo imbarazzante con cui Liam Neeson si rapportava alla figlia, che presto sarebbe stata rapita, nel primo Taken del 2008. Ora potrebbe quindi venire facile pensare che Stolen faccia parecchio rima con Taken, ma il protagonista è in fondo (con piccole differenze di caratterizzazione) sempre quello stesso padre un po’ inadeguato di Con Air e la comunicazione (im)possibile tra Cage e la Padoan è davvero qualcosa di tenero, impacciato e quindi pure autentico. 


Stolen è un film pieno di inseguimenti e sparatorie con un Cage in ottima forma, un cattivo interessante e una relazione familiare molto tenera. È un film che piacerà forse di più ai nostalgici dei vecchi action, ma è godibilissimo per ritmo e azione anche se siete fuori dal target, da gustare rigorosamente  con un bello stereo, televisore gigante, coca cola e popcorn. Cage indossa benissimo la giacca in pelle di 20 anni prima e si appresta a farlo per altri 30 anni almeno. Noi siamo con lui e non temiamo alcuna prova costume, da veri fan dei vecchi action movie. 

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giovedì 22 settembre 2022

Il cacciatore di donne (Frozen ground): la nostra recensione di un thriller fresco fresco con Nicolas Cage, John Cusack e Vanessa Hudgens

Nel 2013 esce Frozen, uno dei cartoni animati Disney di maggiore successo della storia del cinema e nello stesso anno non poteva che uscire anche “un Frozen”, con protagonista Nicolas Cage: nello specifico un Frozen Ground. Entrambi sono film ambientati in luoghi molto freddi, anche se il cartone è ambientato ad Arendelle in Scandinavia, mente il film con Cage è ambientato ad Anchorage, in Alaska. Entrambi vendono come protagonista una principessa Disney dal presente tormentato: da un lato la giovane e biondissima principessa Elsa, che è costretta a vivere troppo distaccata dagli altri, e dall’altro la giovane mora Cindy, interpretata dalla principessa del Disney Channel Vanessa Hudges (famosa per la serie High school musical), costretta a vivere “troppo ravvicinata agli altri” come animatrice di locali notturni. Entrambi i film vedono nel ruolo di cattivo “uomini che odiano le donne”(cit.), che sia un principe arraffone e poco azzurro o un mite uomo qualunque con il volto di John Cusack e il complesso del giustiziere. Entrambi hanno un eroe positivo che salverà la situazione per lo più aggirandosi in posti pieni di neve in cerca di caldi abbracci: da un lato il pupazzo di neve Olaf, dall’altro un detective empatico con il volto Nicolas Cage. Viste le molte e indiscutibili similitudini tra le due pellicole del 2013, per evitare la possibilità che le piccole spettatrici del cartoon Disney entrassero per sbaglio a vedere un thriller su un cacciatore di prostitute, in Italia Frozen Ground è stato tradotto come Il cacciatore di donne, ma questo non ha impedito a molti padri scapestrati di ordinare online in dvd un altro “Frozen sbagliato”: ossia l’horror Frozen, del 2010. Film che in Italia avrebbero benissimo potuto tradurre come “La seggiovia della morte”, essendo di fatto “l’Open water delle seggiovie” (un ottimo Open water delle seggiovie, se me lo chiedete, con gustosissime scene da commedia nerissima), ma che nessuno si è azzardato a rinominare così per non finire inimicato con la potente lobby degli impianti di risalita del nord Italia. C’è quindi un po’ di Frozen per tutti nel mondo del cinema e fa piacere evocare una “pellicola Frozen”, specie nelle calde giornate di un’estate resa rovente della più recente apocalisse climatica in corso. 


Frozen Ground è scritto e diretto con “freschezza artica” dal Neozelandese Scott Walker, che ci immaginiamo correre gioioso tra le montagne neozelandesi con uno slittino, inseguito dagli orchi locali, nelle zone dove hanno girato Lo Hobbit. Il film ha nell’ambientazione e fotografia tutto il fascino e freschezza dei gialli svedesi, da Stieg Larsson a Camilla Lackberg, quelli che fin dalla copertina ti fanno venir voglia di indossare il maglione pesante prima di iniziare la lettura, anche se fanno 40 gradi all’ombra. Ho un amico che compra i gialli svedesi e li usa come ghiaccio sintetico nelle borse frigo. Potrà anche questo film di Cage, Cusack e Hudgens essere usato come ghiaccio di emergenza, nel caso ci venisse un bernoccolo in biblioteca?  L’ultima volta che abbiamo visto insieme Cage e Cusack è stato nell’assolatissima Las Vegas di Con Air. Era il 1997, Cage era palestrato, sudato e in canotta stile action hero “post-bruce-willisiano”, Cusack era un poliziotto tranquillo, magrolino ed ecologicamente schierato, che indossava i sandali con i calzini. Mi piace ricordare come nel giro di pochi anni sia Cusack (nel 1999 con Essere John Malkovich) che Cage (nel 2002 con Adaptation) abbiano recitato in film scritti dal grande, originalissimo ma poco prolifico Charlie Kaufman, entrambi per la regia di Spike Jonze. Jonze che nel 1999 sposò Sofia Coppola e quindi in qualche modo entrò nella grande famiglia di Cage, per chi ama i “trivia” sul nostro attore preferito. Un  anno prima di Frozen Ground, nel 2012, Cage non era più palestrato e sudato come nel '97, si era quasi completamente riposato, aveva girato Stolen guarda caso con il regista di Con Air Simon West e in qualche modo si preparava, più cicciottello del solito, a fare questa rimpatriata pure con Cusack, cui è seguita a breve giro anche una delle sue pellicole migliori sempre, Joe, per la regia di David Gordon Green, “super amico” di James Franco. Decisamente un bel momento della sua carriera, in cui Frozen Ground è al centro. Nel 2012 tra le altre cose John Cusack aveva impersonato da protagonista Edgar Alan Poe in The raven: non aveva più i sandali con i calzini e aveva tanta voglia di uno di quei ruoli dark in cui è bravissimo ma che gli offrono super-centellinati, stile Identità di Paxton. Nel 2014 sarebbe stato diretto da Cronenberg in Maps to the stars. Vanessa Hudges come tutte le principesse che prima o poi lasciano il Disney Channel perché “cresciute” aveva invece avuto una recente svolta sexy. Prima interpretando nel 2011 l’incompreso ma affascinante Sucker Punch di Snyder, dove il suo personaggio si chiama Blondie, è la super sexy cosplayer di una aviatrice e guida un robot contro un esercito di zombie. Poi nel  2012 girando Spring Breakers, dove il suo personaggio si chiamava Candy, era sempre in bikini e insieme a James Franco. Sempre nel 2013, dopo Frozen Ground, in cui è appunto la prostituta Cindy, la Hudges sarebbe stata in Machete Kills, dove il suo personaggio, la Bad girl Desdemona, sarebbe stata ovviamente una femme fatale super sexy e armata di reggiseno-mitragliatrice come una moderna Aphrodite Ace, per gasare tutti i nerd e fan di Robert Rodriguez. In Machete Kills a impersonare Machete c’era ovviamente Danny Trejo, coprotagonista di Cage sempre in Con Air. In un ruolo piccolo ma gustoso di “cattivo sfigato alla Coen”, ossia  tipo Buscemi in Fargo o Dillon in Non è un paese per vecchi, compare in Frozen Ground pure 50 Cents. Nello stesso anno il rapper avrebbe partecipato ad Escape Plan con Stallone e Schwarzenegger, rimanendo poi comprimario fisso in in tutta la “trilogia”. Nel 2014 farà pure lui un film con Danny Trejo, Vengeance. Insomma, questo Frozen Ground ha un po’ portato bene a tutti, tranne che a Scott Walker, che dopo Frozen Ground ha scritto e diretto poco, anche se il database lo segnala sempre attivo nella produzione di più film. Quasi scomparso, come accade spesso nei gialli scandinavi che possiamo usare come borse del ghiaccio. 


Ma torniamo a “questo” giallo scandinavo ma girato in Alaska da un neozelandese, tra boschi ghiacciati e uomini che odiano le donne. Il film si apre con la Hudges che è una prostituta scampata miracolosamente a un cliente matto che deve essere ancora identificato, uno che ha iniziato un gioco con le manette e poi aveva voglia di squartarla. La polizia di Anchorage chiude il caso dopo tre minuti con un pleonastico:  “Se l'è cercata, se fosse rimasta a fare le parti di brava ragazza al Disney Channel senza finire negli incubi nerd di Snyder e Rodriguez, forse ora sarebbe in roba come How I meet Your Mother e non in un film in cui fa la prostituta e finisce nelle mani dei pazzi”. Ma c’è qualcuno che la pensa diversamente: un detective di provincia con la barbetta (l’attore è Ryan O’Nan, visto nel telefilm tratto da Fargo dei Coen), personaggio chiave che vedremo in altre due scene da tre minuti in tutto, che fa i collegamenti con altri casi e inizia a pensare che sia opera di un serial killer. Questa interpretazione dei fatti solletica l’attenzione di un altro poliziotto, interpretato da Cage, che da un’altra parte dell’Alaska troverà allo stesso modo colleghi che la pensano in modo diverso e dicono: “Ma non hai visto come è finita Britney Spears? E Linsley Lohan? E Miley Cyrus? E Bella Thorne? Queste star della tv dei ragazzini fanno tutte la svolta sexy e poi non sai mai che razza di fan si portano dietro!! Una aggressione può capitare!!!”. Insomma, questo è un film sulla necessità di superare l’ipocrisia che una ragazza carina “se l'è cercata”. Ipocrisia che si eleva al quadrato quando emerge che il principale imputato (che però la pellicola ci mostra subito come colpevole, come nel telefilm Colombo) è ritenuto un “bravo e morigerato padre di famiglia per bene”, interpretato da John Cusack. Un uomo che è per antonomasia il bravo e morigerato padre di famiglia per bene, anche se ogni tanto ha questa “bizzarria” che ama sparire con il suo aereoplanino personale in un luogo loschissimo tra i boschi, per interi week end, armato di fucile, tornando a casa quasi sempre a mani vuote, con una sacca nera grande come un cadavere che ogni volta si dimentica tra i boschi senza riportarla indietro. Certo come si può pensare che John Cusack, al posto di essere un cacciatore-pippa e uno smemorato che si perde le cose che sembrano cadaveri nei boschi, sia in realtà un pericoloso assassino? Può davvero un uomo così per bene aver fatto dei sogni perversi su una star del Disney Chanel?  Per “crederci” serve un detective / antieroe come quello di Cage. Un uomo così rassicurante, compassato, buono, paffuto e puro che quando si porta a casa la Hudges per difenderla dall’assassino “ci crede davvero”. Anche se la moglie gli tuona contro: “Ma bravo!! Sei passato dai concerti di Hanna Montana a portarti direttamente a casa una star del Disney Chanel!!!?? Non potevi metterla in una casa sorvegliata, la volevi sul divano, mezza nuda a cantare con te in duetto le canzoni di High School Musical!!!??? Ma quando sei bravo!!”. Ma Cage tira avanti, in questo mondo ingiusto e pieno di brutti preconcetti sulla carriera adulta delle baby star. Con Macaulay Culkin e Daniel Redcliffe che dall’alto di pellicole super cult come Tusk di Kevin Smith e Swiss Army Man di Kwan e Scheinert, realizzate quando non erano più dei ragazzetti batuffolosi, testimoniano a lui benevolmente che le baby star possono ancora fare cose fichissime da adulte. Come appunto farà da lì a pochissimo anche la Hudges, indossando quel fantastico reggiseno a mitragliatrice in stile “nagaiano” in Machete Kills



Mentre qualcuno, come il matto interpretato magistralmente da un Cusack che ogni tanto ama non farsi passare da eterno bravo ragazzo (altra lotta contro gli stereotipi vinta brillantemente!), non vede l’ora di “impallinare (almeno) sui social ogni tentativo di queste baby star di poter fare qualcosa nella vita, dopo la loro ormai terminata epoca dell’ora dell’infanzia. Questo è un po’ il senso del film, secondo me. C’è poi la questione, al di là delle battute, che il film sia tratto da una storia verissima e sanguinosissima, su uno dei serial killer più spietati di sempre. Vediamo poco in azione insieme alle sue vittime, il killer di Cusack. Per lo più le vittime imprigionate le guardiamo in modo ravvicinato, in scene rese veloci e oscure da una macchina da presa che in questi frangenti appare frenetica, quasi umorale, quasi documentaristica. Quando invece le vittime sono esposte al sadico gioco del killer, liberate in un bosco ghiacciato per essere cacciate come dei cervi, la fotografia si fa calda, si allarga quasi al formato panoramico, gli alberi e il riflesso del sole sulla neve riportano quasi ad una dimensione favolistica, diventa quasi una sadica variazione di Cappuccetto Rosso. Questo contrasto tecnico e cromatico rende il personaggio di Cusack ancora più minaccioso, imprevedibile, letale e alieno. È un gioco a due tra vittima e carnefice, intervallato da scene di indagine che incespicano, inciampano, non riescono mai a trovare una sintesi. La polizia gli sta dietro e non lo raggiunge mai, la trama si perde in labirinti burocratici, incomprensioni, bustarelle. Non c’è Clarice Starting che irrompe a casa di Buffalo Bill, dando inizio a un chiaro confronto tra i buoni e i cattivi. La sfida è sempre a distanza, la caccia è frequentemente screditata. Frozen Ground in questo è un thriller duro e realistico, posto in una cornice davvero cupa, glaciale, notturna e disperata. Non ci sono eroi, se non la ragazzina interpretata dalla Hudges, l’unica che è riuscita a scappare ma a cui nessuno crede, perché è ritenuta per la sua professione poco più che un oggetto. Un oggetto destinato a rompersi per sue precise scelte di vita. Questo cinismo diffuso, quasi come un morbo, in troppi  personaggi sulla scena, fa paura quasi quando il killer di Cusack ed è forse l’aspetto più interessante della pellicola. È questo che rende Frozen Ground un thriller glaciale che si potrebbe appoggiare alla testa come una busta del ghiaccio, quando abbiamo un bernoccolo. Con il dvd funziona, ma può essere che si riesca ad avere la stessa sensazione di freddo appoggiando la testa al televisore, guardando la pellicola in streaming. Quindi se fa caldo e volete un po’ di brividi, ecco il film pieno di neve e omicidi che può fare al caso vostro. 

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giovedì 15 settembre 2022

Un mondo sotto social: la nostra recensione del film scritto, diretto e interpretato da Claudio Casisa e Annandrea Vitrano

Nel piccolo paesino siciliano di Roccapinola Sicula, il giovane imprenditore Claudio Casisa veste come uno yuppie degli anni ‘80, parla in milanese perché “è più professionale” e “sogna in grande” di diventare top manager nel capoluogo meneghino. Non potendosi trasferire a Milano per paura degli aerei o che “uno scoglio possa far affondare la nave”, Claudio con le sue conoscenze e il suo improvvisato gruppo pubblicitario a conduzione familiare,  “Casisocial”,  è comunque sicuro di poter creare a casa sua il nuovo polo multimediale sforna-influencer, riuscendo magari a superare anche il successo della più importante web star del momento, quella Nadia Zingales che da quando ha lanciato “la moda del blu” ha sconvolto tutta Roccapinola. Claudio nell’impresa può contare su delle piccole ma ruspanti influencer locali ma ha pure i contatti giusti con un fantomatico “mercato nero dei like filippini”, che può sempre dargli una mano. 

La giovane Anna Vitrano, concittadina di Claudio e lontanissima dal mondo e dalle star del web, sogna invece “più in piccolo”. Con la sua tuta da meccanico e le mani coperte da grasso e olio, cresciuta con i piedi per terra e con un carattere “da donna cornaduro”, punta con impegno quotidiano a continuare a gestire l’officina meccanica paterna, nonostante le mille difficoltà e i pochi clienti, con il sogno di incontrare un uomo alla Bud Spencer. 

I casi della vita fanno incontrare per “motivi promozionali” i due, portando la riluttante Anna sulla spinta del motivatissimo Claudio a sperimentarsi come nuova e improbabile influencer. Una influencer che per temperamento e stile di vita sembra destinata fin dal primo giorno a infrangere tutte le “regole non scritte” per essere famosi sulla rete, ma che “ben guidata” da Claudio potrebbe ambire al successo. Riusciranno con la loro originalità e determinazione a bissare il mito di Nadia Zingales, in un mondo in cui il vero “talento interiore” deve essere fotografato, pubblicato e postato sui social rigorosamente con un “filtro abbellente”? Oppure la coppia scoppierà, travolta dalla fama e dalla fame di successo? 


L’affiatato duo comico de “I soldi spicci” torna al cinema come protagonista, autore e regista di un nuovo film dopo la loro prima pellicola del 2018, la divertente “La fuitina sbagliata”, per la regia di Mimmo Esposito, premiata al festival del cinema e della televisione di Benevento come: “rivelazione della stagione cinematografica 2019”. La coppia formata da Claudio Casisa e Annandrea Vitrano, attiva dal 2011 tra il teatro, il cabaret televisivo Mediaset e i social, nonché nel 2020 tra i protagonisti di Pechino Express, sceglie questa volta di aggiornare il classico My Fair Lady all’immaginario dell’era social, con tanto di un divertente momento musical che omaggia molto bene lo spirito dell’opera di Alan Jay Lerner. 


In Un mondo sotto social vengono gioiosamente messi alla berlina il mercato dei prodotti di bellezza, il mito delle influencer-modelle, la “likecrazia” e le pubblicità estreme sullo stile di Taffo (già attenzionate dal nostro cinema dal dissacrante I cassamortai di Amendola),  rispondendo per lo più con la filosofia della body positive e di quella che è la Vera Kriptonite del moderno mercato multimediale di massa: la spinta verso una buona iniezione di autostima personale.

In un periodo di politicamente corretto imperante, in cui è diventato davvero complicato realizzare in Italia un qualsiasi film comico, lo stile de I soldi spicci ha l’indubbio merito di riuscire ad affrontare con garbo e leggerezza temi attuali, affidandosi a una comicità molto visiva e accessibile anche a un pubblico più giovane. In questo senso non è forse un caso che anche l’estetica del film sia supercolorata e richiami i lavori dei Me contro Te, una coppia di star del web con cui I soldi spicci hanno più di un punto in comune, a partire dalla chimica interna tra i due attori alla capacità di trasformarsi in una sorta di “cartoni animati viventi”. Non è un aspetto scontato la capacità di offrire una comicità adatta a una platea molto giovane e sotto questo aspetto la pellicola fa davvero un buon lavoro, considerando quanto il mondo dei social sia alla portata dei minori, senza che esistano produzioni in grado di far sviluppare nei più piccoli un senso critico in merito. 

Per “rispondere” all’immaginario patinato ultra-glam delle influencer, Annandrea interpreta in Un mondo sotto i social un personaggio che sembra una diretta evoluzione ”realistica” di un suo popolarissimo ciclo di sketch su YouTube “Le donne camioniste”, che è  un vero proprio inno all’anticonformismo di genere, accompagnato qualche volta nelle scenette dalle note di Siamo Donne di Jo Squillo e Sabrina Salerno. Una donna super emancipata, d’azione, sanguigna e leader della famiglia.  


La meccanica sicula della Vitrano ama quindi sfoggiare i rotolini sulla pancia, non essere trattata come una bambola di porcellana, esprimere un punto di vista sulla vita “tosto e a rutto libero” e guardare i film d’azione, ma nella pellicola va anche oltre. Quando riesce a mettere a riposo “gli occhi della tigre” e la tuta polverosa, il personaggio di Annandrea rivela le sue fragilità, la sua femminilità e voglia di sognare, riuscendo in un paio di occasioni anche a commuovere. Davvero una buona prova quella della Vitrano, che si rivela anche una brava cantante nel piccolo e molto riuscito momento da musical. il personaggio di Claudio Casisa guarda più con gli occhi del sogno che della convinzione all’imprenditoria del nord Italia, immaginandosi come un epigono del Dogui di Guido Nicheli o del Milanese Imbruttito di Germano Lanzoni. Il suo pittoresco e irresistibile manager ha espressioni e movenze da cartone animato e usa un mix lessicale tra il siculo e il meneghino che entra di diritto in quella “variante di esperanto” negli anni sviluppata da Giorgio Porcaro, Lino Banfi, Diego Abatantuono e Aldo Baglio. Il suo social-manager 2.0 dal sorriso tiratissimo e dai movimenti ingessati è molto simpatico, ma forse perché molto al servizio del personaggio di Annandrea non riesce a uscire troppo da un pur riuscito ruolo di spalla. La coppia è ad ogni modo molto affiatata ed è molto carina da vedere insieme sullo schermo, tuttavia uno sviluppo dei personaggi di contorno non sufficientemente organizzato mina con il passare del tempo la tenuta del racconto, comunque ricco di spunti interessanti e di alcune scene molto riuscite.

Un mondo sotto i social è una commedia graziosa e divertente sul mondo degli influencer, molto garbata e colorata, adatta anche ai più piccoli e che passa veloce nella sua durata complessiva di novanta minuti. La coppia di protagonisti funziona e ci sono molti momenti riusciti, ma la struttura narrativa verso metà della pellicola inizia ad avere il fiato un po’ corto, portandoci a un finale che avremmo magari voluto più sviluppato e magari più “cattivo”. Davvero ben riuscito per interpretazione e coreografie il momento in cui il film si trasforma in musical, realizzato con un linguaggio che se avesse avuto più spazio nella storia avrebbe elevato la pellicola a piccolo gioiellino. 

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giovedì 8 settembre 2022

Las Leonas: la nostra recensione del film di Isabel Achaval e Chiara Biondi’ prodotto da Nanni Moretti

 


Roma, via Aurelia. In un campetto di calcio con un paio di gradinate per il pubblico si tiene qui tra sei squadre, ogni anno, la competizione conosciuta come “Las Leonas”: “Le leonesse”. Un piccolo campionato di calcio femminile a 8 cui partecipano calciatrici italiane ma anche  latinoamericane, moldave, marocchine, capoverdiane, cinesi e di altre nazioni. Donne di tutto il mondo e di tutte le età accomunate dall’amore comune per il calcio: uno sport che alcune sognavano di praticare fin da bambine e che altre hanno conosciuto solo una volta arrivate in Italia, vedendolo come un’occasione per conoscere altre persone, fare gruppo, non essere più sole. Queste “leonesse” nella vita di tutti i giorni lavorano come badanti, donne delle pulizie, babysitter, cameriere. Hanno dovuto lasciare per questioni economiche i loro paesi d’origine, i loro diplomi e i loro sogni, per “ingabbiarsi” in lavori qui in Italia considerati (erroneamente) umili. Dopo mille difficoltà, il calcio ha dato loro di nuovo la gioia di correre come leonesse, almeno per una volta alla settimana, seguite con entusiasmo anche dalla locale radio in lingua spagnola Vox Mundi Web Radio, che cura le radiocronache.

C’è la fortissima 40enne moldava Ana, che da giovane poteva diventare calciatrice professionista e qui in Italia è stata prima donna delle pulizie e poi, dopo gli studi, educatrice di scienze motorie. Nella “Estrellita Juvenil” guida una squadra multietnica composta da energiche ultraquarantenni, tra cui molte asiatiche, un po’ come generale e un po’ come mamma. 

C’è la 34enne peruviana Joan, portiere della squadra “Peruanas en Roma”, che dopo le scuole elementari ha dovuto diventare venditrice ambulante e da 3 anni è in Italia, dove spera in una vita migliore. Il calcio lo aveva visto come necessità, per essere seguita almeno da un medico sportivo in caso le sue condizioni di salute alle gambe si aggravassero, ma poi il gioco l’ha conquistata. C’è la 44enne marocchina Siham, della squadra “Paraguay”, che in Italia da 17 anni si è trovata prima in una situazione di sfruttamento lavorativo e poi in una difficile relazione di coppia. Ora grazie alla sua “dipendenza dal calcio” è riuscita a buttarsi alle spalle tutti i problemi, girare pagina e diventare indipendente. C’è la 48enne ecuadoriana Elvira, in Italia da 22 anni, che per andare a lavorare come domestica, ogni giorno, prende la sua amatissima bici “Fausto Coppi” per macinare in media 300 km. Un esercizio che la rende una calciatrice instancabile per la squadra “Paraguay”. C’è Bea, che voleva essere come Maradona e ora si occupa di una bambina di 9 anni. C’è Melisa, che ha dovuto per la crisi chiudere il suo bar in Perù e oggi assiste l’anziano Enzo. C’è Vania, che a Capoverde era davvero una calciatrice professionista, guadagnandosi così il rispetto da parte degli uomini e oggi lavora come domestica. 


Sono piccole e grandi storie vere di coraggio, umiltà e gioia di vivere. Testimonianze raccolte a bordo campo dalla competizione sportiva Las Leonas e nelle sessioni di allenamento, negli spogliatoi, mentre le ragazze con gli occhi pieni di gioia e tensione agonistica riescono a parlare di loro stesse mentre scrutano le avversarie, cercano nuove tattiche di gioco, esultano e si commuovono per una palla che va in rete o prende un palo. C’è molto cameratismo e affetto, anche per chi è sul campo il nemico. Il calcio è visto davvero come una festa: tutte le giocatrici e le tifoserie riempiono di colori, gioia e balli tradizionali lo spettacolo che ha luogo a latere della competizione. È come un grande abbraccio tra culture, nell’attesa di arrivare in finale e conquistare una coppa da Champions League o una “qualsiasi delle altre mille coppe di categoria”, gentilmente offerte dal regista Nanni Moretti, che con la sua Sacher Film produce il documentario e si ritaglia un piccolo ruolo sulla scena. È un calcio lontanissimo dalle polemiche e dalle “tifoserie in armi” che purtroppo qualche volta caratterizzano i nostri campionati e per questo un buon invito a vivere il gioco davvero come un momento di incontro e amicizia, una piccola parentesi positiva che può dare un profumo migliore alla vita di tutti i giorni.

Isabel Achaval e Chiara Bondì, registe di Las Leonas, trovano con il calcio la giusta chiave per raccontarci delle storie al femminile attuali, gioiose quanto complesse, stimolanti quanto positive nello spirito, soprattutto quando la vita si presenta difficile e ingrata. La pellicola nei suoi 80 minuti ci apre con garbo a un piccolo grande mondo, colorato quanto “tosto”, facendoci guidare emotivamente dai passaggi e tiri a rete. È un bellissimo modo per parlare di calcio, che speriamo non rimanga isolato. 

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venerdì 2 settembre 2022

Le favolose: la nostra recensione del nuovo film di Roberta Torre in sala dal 5 al 7 settembre

Delle vecchie amiche si ritrovano insieme in una calda estate nel luogo dove vivevano e lavoravano insieme, quando venivano chiamate “le favolose”. È l’occasione giusta, tra ironia e malinconia, per ripensare al passato tornando a indossare gli abiti di un tempo, riflettere sul significato di temi come la famiglia e l’amicizia, tirarsi i capelli e piangere insieme. Nelle stanze e nei discorsi che si rincorrono aleggerà la memoria delle amiche che non sono più tra loro e forse il gruppo deciderà di evocarle in una seduta spiritica, facendo affidamento sulla loro nomea di “streghe”.

C’è una canzone del passato che in qualche modo calza a pennello per offrire una giusta sintesi di questo film:

Quando più fitta l'oscurità

Scende sulla città

Lucciole ansiose di libertà

Noi lasciamo i bassifondi

Senza una meta c'incamminiam

E sotto ad un lampion

Quando la ronda non incontriam

Cantiamo la canzon

Noi siam come le lucciole

Brilliamo nelle tenebre

Schiave d'un mondo brutal

Noi siamo i fiori del mal

Se il nostro cuor vuol piangere

Noi pur dobbiam sorridere

Danzando sui marciapiè

Finché la luna c'è

Così iniziava Lucciole Vagabonde, celeberrima e celebrata (spesso come colonna sonora di molte trasmissioni televisive notturne a tema erotico) canzone cantata da Achille Togliani (poi anche da Milva), scritta da quel Bixio Cherubini che è stato autore anche di classici della canzone popolare italiana come Mamma e Violino tzigano. Cherubini parlava nel testo della vita delle donne di piacere, citando per l’occasione il titolo della famosa raccolta di poesie di Baudeleire dove ai “fiori”, simbolo della bellezza che si schiude attraverso l’arte, viene attribuita l’accezione “del male”, in quanto ritenuti “figli della corruzione del mondo”. Fiori che brillano solo nella notte, vivendo perennemente osteggiati dalle “ronde” della buoncostume e nella brutalità del mondo, lontani dalla gentilezza “dei giusti” e vicini alle passioni forti dei “peccatori”. Fiori colorati e dall’aspetto gioioso anche quando “il cuore vuole piangere”, davanti a una vita che appare spesso simile a una schiavitù, ma che può sempre essere sublimata e sconfitta attraverso l’arte, la fantasia e l’amicizia. Sopravvivere attraverso l’arte e il trucco, riuscendo a rialzarsi tenacemente ogni volta “finché la luna c’è”, sapendo cogliere il bello di questo mondo. Una vita che deve essere sempre degna di essere vissuta fino in fondo a testa alta e con positività perché, come diceva Marcello Marchesi, citato direttamente nella pellicola: “l’importante è che la morte (quando arriva) ci trovi vivi”. Essere “lucciole vagabonde” ed essere “vive e vitali”, è quanto viene raccontato dalle protagoniste del film come dictat in riferimento a un passato oscuro, molto diverso dal nostro presente. Un passato dove prostituirsi per molti transessuali una delle poche e possibili scelte per sopravvivere e avere un'autonomia economica, sebbene “all’ombra del mondo”, sebbene esponendosi a pericoli come violenze e abusi di sostanze stupefacenti. Chi non voleva prostituirsi era così osteggiato ed escluso dal mondo che poteva finire nella depressione e nell’abuso di sostanze. Spesso osteggiati sui luoghi di lavoro regolari e disconosciuti pure dalla propria famiglia, ritenuti “diversi” anche dalla religione, i transessuali vivevano in case ai margini della strada, contendendosi le piazze di lavoro notturno con le donne e spesso finendo a fare a botte con loro, quando la malavita immetteva nel territorio a ondate nuove ragazze provenienti dai paesi più poveri. Per lo meno i transessuali dal controllo di un “pappone” erano esentati, in quanto la criminalità non si occupava ideologicamente, per questioni di “machismo” di “gestire uomini di piacere”. Nella pellicola, per convivere con questo mondo, le protagoniste dicono che tra “il delirio e il dramma, abbiamo sempre scelto lo spettacolo”. Hanno scelto, in quelle notti da lucciole cariche di tensioni e botte, di trasformarsi, entrare sulla scena come sorridenti “vedette” dello spettacolo, tra tacchi vertiginosi, abiti luccicanti, piume di struzzo. 


Negli anni ‘70, in piena rivoluzione sessuale, la prostituzione per i transessuali  era anche un'attività ricercata da molti clienti, che accorrevano sulle migliori piazze proprio in cerca della loro diversità, i vistosi abiti di scena, il modo gioioso di sposare la vita con la teatralità. Erano clienti che arrivavano, come nel caso del film, a tributare loro il nome di “favolose”. Un riconoscimento che era anche un elogio, che superava le altre voci cattive che le trattavano alla stregua di “streghe”. I clienti più gentili ogni tanto sembravano anche andare oltre il “gusto del proibito” ed essere sul punto di innamorarsi, ma spesso sul più bello si ritraevano, nascondendosi sotto il guscio della loro famiglia convenzionale, come una sorta di “uomini-paguro”. Costringendo le favolose innamorate a ritornare sul marciapiede un giorno ancora per innamorarsi di nuovo, con un nuovo abito colorato e un nuovo sorriso, potendo contare solo le une sulle altre. Così in piccole case ai margini della strada si creavano colorate famiglie allargate che vivevano sotto lo stesso tetto, condividendo vestiti, gioie e dolori. Sognando che l’armadio che raccoglieva paiettes e costumi “di scena” fosse come un’astronave, in grado di portare in un mondo lontano più bello, come l’armadio delle Cronache di Narnia. Certo oggi questa narrazione appare come di un’epoca lontanissima, quando i diritti per la parità di genere e i movimenti lgbtq+ erano all’inizio, ma in fondo parliamo di solo una trentina di anni fa. Motivo per cui 
Roberta Torre, regista dei geniali musical sulla mafia e su Shakespeare, Tano da Morire e Riccardo va all’inferno (ma anche tra le altre cose regista teatrale dell’Aida, nonché voce del documentario collettivo All human rights for all) vuole dare vita a un docu-film con al centro persone reali che hanno vissuto davvero quei tempi, senza rimanerci fagocitate, senza perdere lustrini e amore per la vita nonostante le mille difficoltà cui sono andate incontro. Persone che hanno trasformato questa forza interiore in arte, diventando figure importanti nel mondo del teatro, cinema e musica. Ma anche persone con un forte impegno politico, che hanno combattuto per dare la possibilità alle nuove generazioni, non solo appartenerti alla galassia LGBTQ+, di vivere una vita migliore, promuovendo un radicale cambiamento delle Pari Opportunità. Il film della Torre racconta idealmente una storia comune alle protagoniste con tematiche ricorrenti a molta narrativa che tratta della diversità e trova eco anche nel cinema di François Ozon, come il recente Estate ‘85, (recensito anche su questo blog) tratto da Danza sulla mia tomba di Aidan Chambers. Ma Roberta Torre va oltre alla narrativa e inserisce momenti davvero autentici, umanissimi quanto struggenti, dove le protagoniste parlano di se stesse a livello personale, autobiografico. Una delle protagoniste è Porpora Marcasciano, dagli anni ‘70 una attivista storica del movimento LGBT, presidente onoraria del MIT (Movimento Identità Trans) e attuale presidente della Commissione per le Pari Opportunità del comune di Bologna. Ha scritto molti libri tra cui Favolose Narranti, che è alla base della sceneggiatura di questa pellicola di Roberta Torre. Ha istituito il collettivo NARCISO, che nel 1983 con la fusione con il movimento Fuori della sezione romana costituirà il Circolo Mario Meli (figura politica e umana centrale nel movimento a cui è stato dedicato un bel film, recensito anche sul nostro blog, Gli anni amari). Dal 2016 Porpora è stata insignita come Human Rights Defender da Amnesty International. Nicole De Leo, presidente attuale del MIT di Bologna, dopo gli studi al Piccolo teatro di Bari e al Duse di Roma ha lavorato come attrice tra gli altri per Matteo Garrone e Alessandro D’Alatri. Sofia Mehiel, la più piccola le gruppo, ha rappresentato l’Italia come cantante e attrice all’Europride dì Amsterdam nel 2016. Veet Sandeh, diventata giovanissima presidente del MIT è stata attivista, ha lavorato nel mondo della musica house, dopo un percorso di studi in India ha insegnato tecniche di meditazione, ha creato nel '97 a Torino il primo Sportello Trans presso la CGL. Nel film dice: “il mio corpo è un atto politico. Ogni qual volta esco di casa mi espongo al giudizio, alla critica e alla violenza”. 



Mizia Ciulini ha lavorato come bid e documentation manager alla Olivetti e si è dedicata al rock punk, diventando una delle voci nel New rock italiano iniziato nel 1979. Massimina Lizzeri, che si definisce “la regina della festa” si occupa come animalista volontaria della colonia felina di Anzio. Mina Serrano è un'artista visiva, performer e modella, artista di cabaret e scultrice. Antonia Iaia ha studiato scenografia e danza classica e dagli anni ‘80 ha lavorato come attrice per grandi registi come Mario Martone. Nel film queste donne non sfoggiano il ricco curriculum che vi ho sopra menzionato (e che può essere invece il giusto completamento della loro conoscenza) ma parlano in modo intimo di se stesse, danno voce a istanze universali come la difficoltà di avere una figlia, la necessità di sopravvivere alla depressione, vincere l’odio e la paura di non essere amate da Dio, guardare al futuro senza vivere solo di ricordi. Sono testimonianze profonde che le mettono davvero a nudo, prima che con un artificio scenico le nostre eroine si ricoprano di trucco e piume di struzzo per tornare sul palcoscenico, da grandi attrici. Le favolose è un piccolo film fatto con tanto amore e onestà che è un vero e proprio inno alla voglia di vivere e combattere la vita con il sorriso. Una pellicola che balenerà nelle sale dal 5 al 7 settembre e che per chi è particolarmente sensibile alle tematiche trattate è una occasione da non perdere. 

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