lunedì 17 febbraio 2025

Fiume o morte: la nostra recensione del “documentario - punk”, scritto e diretto da Igor Brezinovic, sul periodo di Gabriele D’Annunzio a Fiume.


C’è stato un tempo in cui a Fiume si parlava italiano: è successo dagli anni venti, per qualcuno fino almeno agli anni sessanta dello scorso secolo. 

C’è stato un tempo in cui alberghi, scuole, piazze ed edifici recavano il nome di Gabriele D’Annunzio, anche se oggi questo nome per i locali dice poco. 

Il celebre locale dove la sera D’Annunzio amava cenare, ribattezzato dopo una azione di goliardia dal sodale Barone Weller “L’Ornitorinco” (il furto del suddetto animale impaginato da un museo di storia naturale), oggi è un salone per la cura delle unghie. 

Le camerate dei cosiddetti “legionari di D’Annunzio”, una milizia che è stata di 10.000 uomini, per lo più giovanissimi e cresciuti nel mito superomistico di Nietzsche, sono oggi sede di scuole pubbliche o ostelli universitari. Il palazzo del governatore, dove il poeta dimorava, è oggi aperto al pubblico come un museo sulla pesca. 

Lo ricordano davvero in pochi D’Annunzio, a parte i turisti italiani di passaggio. 

Chi ha lavorato in un museo, chi ha lontane discendenze italiane o chi è “abbastanza vecchio” lo ricorda per lo più come: “grande amatore”, “poeta”, “spendaccione”. Quasi tutti lo ricordano soprattutto come “fascista”, anche se di fatto D’Annunzio è venuto prima dei Fasci Combattenti, di Mussolini e la seconda guerra mondiale. Per certi versi però l’avventura a Fiume di D’Annunzio è stata una vera e propria “preview” di quello che sarebbe accaduto di lì a poco nella Storia: quindi un ricordo “non bellissimo”. Qualcosa di così incisivo e difficile da digerire che la Fiume di oggi ha preferito piuttosto dimenticare del tutto: dimenticare quando si parlava italiano, dimenticarsi del “poeta cattivo” (per citare il film di Gianluca Jodice) e del piccolo regno che a suo nome aveva eretto in casa loro intorno agli anni ‘20 del 1900. Un “regno del Carnaro” (come amava definirsi) immortalato negli archivi ufficiali e museali in oltre 10.000 foto e filmati, atti pubblici. Un regno di cui costruzioni del passato e vecchi segni a rilievo dei lampioni del centro cittadino riportano ancora, sbiadito, il simbolo: una aquila romana. Un’aquila ben diversa dall'“aquila a due teste” emblema del locale potere asburgico, al punto che D’Annunzio si era premurato di segare via da un monumento cittadino “quella testa in più” (una testa d’aquila in eccesso che ora si trova al Vittoriale). 

Era un regno di 21 km, con il sopra citato piccolo esercito personale (inizialmente identificato come “gli arditi”, poi a seguito diventato con diversa struttura di “legionari”), con una costituzione (sebbene mai entrata in vigore), celebrato anche da inviti in loco di personalità come Guglielmo Marconi, il futurista Marinetti, un giovane Mussolini. Un regno che di faceva lustro e vanto di spettacoli teatrali, grandi feste, “multe salatissime” per chi era dissidente. 

Tutto però, perlopiù, scomparso.


L’ironico e arguto documentarista Igor Brezinovic cerca così le “tracce della Storia” nel presente di Fiume: giocando con lo sterminato archivio su D’Annunzio ma pure andando a ritrovare lo “stato odierno” degli edifici del passato. Confrontando foto e cartoline d’epoca, con quanto può inquadrare oggi negli stessi luoghi la sua telecamera. 

Facendo rivivere nel presente, in modo dissacrante e per nulla epico, alcuni dei momenti più significativi di D’Annunzio a Fiume, usando come attori assolutamente non professionali persone prese dalla strada, amici, speaker radiofonici, storici, studenti del liceo, membri del gruppo che organizza il carnevale di Fiume. 

C'è almeno una decina di persone che “si passano il testimone” nell’interpretare il poeta nei suoi comizi, filmati. Persino in “momenti pittorici” in cui veniva ritratto nudo, avvolto in una bandiera, con in mano una spada. 

Tutto rivive tragicomicamente. La recitazione è amabilmente amatoriale. Riprese d’epoca di massa, con centinaia di persone, rivivono con tre persone in croce poste nello stesso squarcio paesaggistico dell’epoca: persone scelte spesso in quanto gli “abitanti attuali” di quella tale via o edificio.

Alcuni ragazzi sono stati vestiti da “legionari” e posti direttamente a girare nel centro di Fiume di oggi, con i passanti e turisti che gli chiedono durante le riprese chi siano, con un godibile effetto candid camera che ci ricorda il film Sono Tornato: quando Popolizio girava per Roma negli abiti del Duce.

Tutto diventa all’istante parodistico, ma la precisione storica degli eventi rimane assoluta: al punto che il regista si premura di “integrare” l’archivio storico, con le sue “ricostruzioni dal presente”, per raccontare eventi che pur nelle migliaia di documenti d’epoca non avevano trovato una singola foto. Come le scene delle votazioni “truccate” da D’Annunzio.  

Brezinovic fa rivivere anche gli eventi del cosiddetto “Natale di Sangue”, ma solo come un'eco del passato: usando rumori di fondo, di lotte e combattimento, abbinate alle immagini delle luci e del centro città del Natale del 2024 di Fiume. Rumori che sono ormai loro stessi fantasmi.

Molto belle le musiche di accompagnamento, dai toni rock-punk, alternati a brani di musica classica. Una menzione a parte va a “Giovinezza”, l’inno dei legionari che assume nel documentario più volte una importante funzione narrativa.

Fiume o morte racconta il viaggio a Fiume di D’Annunzio anche nei termini di una ossessione di grandezza, che si è fatta tragica realtà storica. Descrivendo questo aspetto il documentario, pur nella sua inebriante leggerezza espositiva, non manca di interessanti sfumature malinconiche, tragiche e fortemente critiche di quel periodo storico. Sfumature che sanno sempre, “con  una punta di amarezza”, farsi largo tra l’ironia generale.

Dissacrante, intelligente, divertente e “spericolato”, spesso amabilmente low budget e “fai da te”, il documentario di  Brezinovic è un prodotto che sa farsi amare dalla prima all’ultima scena. Un prodotto imperdibile per chi ama il particolare e sempre originale catalogo di Wanted, uno dei distributori indipendenti più interessanti degli ultimi tempi. 

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martedì 11 febbraio 2025

Sonic 3: La nostra recensione del film di Jeff Fowler, che prosegue le avventure cinematografiche del porcospino blu dei videogame Sega, introducendo un nuovo personaggio con la voce di Keanu Reeves

Siamo sempre dalle parti dei lussureggianti parchi naturali di Green Hills, nel Montana. Dopo le due sconfitte ai danni degli eserciti robotici del dottor Ivo “Eggman”Robotnik (Jim Carrey) e la formazione del “Sonic Team” (nome provvisorio), con lo scoiattolo a due code Tails (in originale con la voce di Colleen O’Shaughnessey) e l'echidna Knuckles (in originale con la voce di Idris Elba), è arrivato per Sonic (in originale con la voce di Ben Schwartz)  il fatidico giorno del “complearrivo”. 

Non essendoci un equivalente per lui del “compleanno”, lo sceriffo Tom (James Marsden) e sua moglie Maddie (Tika Sumpter), di fatto diventati i suoi “genitori terrestri adottivi”, in questo giorno hanno deciso di celebrare il momento in cui il nostro porcospino blu è arrivato sulla Terra, attraversando un magico anello dorato, in fuga dagli echidna. Il luogo della festa non è lontano dalla casetta sottoterra che si era scavato il porcospino per rifugiarsi nei primi tempi: piena di disegni, un divano, sogni. Tra tanta commozione e ricordi, arriva il momento centrale della giornata, prima della torta, striscioni e di tutto il resto. 

La prima edizione della gara per “il trofeo di famiglia”, nella quale sarà deciso, in via ufficiale e “superdefinitiva”, chi è il più super-veloce tra Sonic, Tails e Knuckles. Il tracciato è velocissimo, immerso nel verde, pieno di curve e tronchi da schivare stile overbike del Ritorno dello Jedi. Il posto ideale dove tutti e tre potranno dare fondo ai loro poteri super elettrico/cinetici/tecnologici, in totale sicurezza di animali, cose e persone. 

Knuckles è così determinato che è quasi più rosso del solito. Tails è pronto per sfoggiare il suo nuovo Jetpack a reazione perché comunque il regolamento glielo consente. Sonic è tranquillo e rilassato come sempre. I tre scattano, Knuckles passa in testa, ma la competizione viene sospesa, con l’arrivo dal cielo degli uomini della G.U.N. 

Le vecchie conoscenze governative insistono perché il Team Sonic (nome provvisorio) parta subito alla volta di Tokyo, per far fronte a una minaccia aliena che può essere fermata solo con le loro speciali abilità combinate. Si parla di un porcospino di colore nero, molto simile a Sonic ma con occhi rosso fuoco, nome classificato “Shadow” (in originale con la voce di Keanu Reeves), in possesso di poteri altamente distruttivi che potrebbero presto altamente distruggere la capitale del Giappone.

Shadow però è un osso troppo duro.

Nonostante la potenza dirompente che permette a Knuckles di farsi largo a pugni tra ostacoli e palazzi. Nonostante la tecnologia di tracciamento e inseguimento a reazione di Tails. Nonostante la super velocità che può trasformare Sonic in una sfera rotante di energia ed elettricità. Lo scontro si fa largo tra le vie di Shibuya come in Fast’n’furious 3 e sale lungo la struttura verticale della Tokyo Tower. Si infrangono forza di gravità e suono, si scombussola l’area con strani fenomeni meteorologici tra tuoni e fulmini colorati e tutto finisce in un unico, grande boato. 

Il team del porcospino blu a terra e ammaccato. Il porcospino nero che si dilegua nella notte, con aria triste e sotto la pioggia, alla guida di una rombante moto nera. 

Il giorno dopo, il comandate Walters (Tom Butler) predispone per i tre sconfitti un meeting informale in centro città. Viene scelto un locale “molto kawaii”, pieno di pupazzi animatronici peluccosi, in cui il trio può passare del tutto inosservato mentre parla con un militare.  

Walters ha per loro una storia. 

Inizia negli anni ‘70 quando è caduto sulla Terra, dalle parti dell’Oklahoma, un meteorite con al suo interno proprio quel riccio nero alieno. Un alieno affabile, con cui il professor Gerald Robotnik, il nonno di Eggman (a interpretarlo è sempre Jim Carrey, invecchiato con il trucco), sentiva di poter realizzare degli esperimenti, per cercare di comprendere e magari utilizzare quello che lui stesso definiva “il potere del caos”. Shadow sapeva sprigionarlo correndo dentro una specie di tapis roulant hi-tech all’interno di un centro di ricerche segreto, stile area 51 ma con tutte le comodità e confort. 

Era lì che operava nella vigilanza il giovane Walters. Nel laboratorio, tra un esperimento e l’altro, Shadow aveva fatto amicizia con la nipote di Eggman Maria (Alyla Browne). Insieme guardavano film e correvano sui pattini a rotelle, ballavano e la sera guardavano le stelle. A Shadow non mancava più la sua casa. 

Tuttavia, dopo un misterioso incidente, Robotnik era stato imprigionato dalle autorità e Shadow posto in una sorta di cryo-sonno, per tanti anni. Fino a che di recente, all’improvviso, si era destato. Seminando il panico a Tokyo.

Il racconto di Walters termina bruscamente quando irrompe sulla scena l’agente Stone (Lee Majdoub), il “leccapiedi” di Eggman. A quanto pare il dottore non è esploso nell’atmosfera al comando del suo robot gigante come tutti pensavano. È vivo e forse un po’ sovrappeso, perché ama ancora ingozzarsi di tacos mentre guarda in tv telenovele messicane. Ma sembra che il rapporto con il suo vice sia migliorato: da “leccapiedi” ora lo definisce “leccamico”. L’incontro con Stone porta i nostri eroi in giro per il mondo in cerca di risposte:  su Shadow e su chi ha rubato a Eggman i suoi “ovetti robotici”. Ma soprattutto porta Eggman a incontrare per la prima volta nonno Eggman, ultracentenario ma “in formissima”, per rivivere con lui in un solo pomeriggio, in realtà virtuale accelerata, tutta l’infanzia perduta. Nonno Eggman è così gentile e affettuoso che Eggman subito lo rinomina “ninnanonno”. I due scoprono di ballare benissimo e coordinatissimi nelle loro nuove tute colorata in Spandex rosso.

Ma c’è il mistero di Shadow da risolvere a colpi di scontri superveloci con robot-ovetti, ci sono da affrontare intrighi degni di 007. Così l’azione si sposta nel cuore di Londra, patria degli 007, dove “sotto copertura” potranno intervenire ad aiutare i nostri eroi anche lo sceriffo e sua moglie, che lasciati soli a casa si stavano annoiando tantissimo. 

Una mega struttura celata sotto Tower Bridge sta per tornare alla luce e forse segnerà l’inizio della fine del mondo. A meno che i nostri eroi intervengano con un attacco combinato e super veloce. A meno che il cristallo che racchiude i poteri di Super Sonic, celato in un luogo segreto ma facilissimo da trovare, non torni alla luce. 


Tornano al cinema i personaggi creati per Sega da Yuki Naka, Naoto Oshima e Hrozaku Yasuhara, in una storia ancora diretta dal bravo Jeff Fowler e scritta da Pat Casey e Josh Miller, a cui si affianca questa volta anche John Whittington, autore di Lego Batman

Squadra che vince non si cambia e quindi ritroviamo ancora quasi tutto il cast vocale, gli attori e i tecnici che hanno finora lavorato alla amatissima serie come allo spin-off televisivo su Knuckles. 

Jim Carrey “raddoppia”, vestendo contemporaneamente i panni di Ivo e di Gerald Robotnik e avendo il via libera di “scatenarsi a piena potenza”, libero e anarchico come solo ai tempi di Ace Ventura. In una continua serie di invenzioni facciali e corporali esilaranti, accompagnati da doppi sensi e battutacce, Carrey riesce a rendere Ivo bambino e ottuagenario, tenero e terribile, eroe e anti-eroe. “Cartoon” sullo stile dei cattivi di Yattaman (di fatto tutto il brand di Sonic “profuma di Yattaman”), ma anche figura sorprendentemente tragica, profondamente umana. 

James Marsden e Tika Sumpter, ma anche Lee  Majdoub e in una piccola particina Natasha Rothwell e Shemar Moore, rimangono perfettamente sintonizzati con personaggi che sanno essere sempre buffi, divertenti e “adatti a tutte le età, così come per il cast vocale si segnala un Idris Elba in piena forma, in grado di conferire al suo echidna ancora più sfumature “epico-buffe”.

Ma soprattutto entra in scena il porcospino Shadow con tutte le sue “50 sfumature di dark”.  Un “dark alla Lego-Batman”, mutuato  dall’arrivo del nuovo sceneggiatore ma pure offerto dalla voce, bassa e profonda, di un Keanu Reeves che pur in “veste di porcospino” profuma della tragicità di John Wick come del carisma di Neo di Matrix. Un “dark” a cui contribuisce anche la fotografia di Brandon Scott Trost: già attivo sulla serie su Knuckles, ma anche dietro le “luci cupe” di Halloween II e Le streghe di Salem di Rob Zombie, dietro i colori psichedelici e “aspri” di Crank: High Voltage e di Ghost Rider: Spirit of Vengeance di Neveldine e Taylor. 


Shadow e il suo lungo flashback, il suo destino difficile e l’incredibile presenza scenica sarebbero in grado di “mettere in ombra” quasi tutto il resto, fagocitando il film in un modo originale, fresco e per nulla scontato. La pellicola potrebbe prendere benissimo il suo nome e nessuno si offenderebbe, ma c’è da dire che ancora una volta gli sceneggiatori, Ben Schwartz e la Industrial Light and Magic sono riusciti a dare vita a un Sonic che non gli è per nulla da meno. Un Sonic “più adulto”, passato ormai fa tenero “furry” pasticcione a supereroe per caso alla Spider-Man, per infine essere un leader, strampalato ma anche risoluto. Un personaggio in costante evoluzione che non vediamo l’ora di conoscere meglio nel nuovo capitolo della saga, per altro già confermato, in cui le sue avventure prenderanno forse una piega diversa, magari “più fantasy”. Un bel Dungeons & Dragons a tutta velocità magari. 

Sonic 3 ci ha convinto in tutte le sue sfumature, multicolor e dark. L’azione sullo schermo è sempre veloce e concitata, divertente e irriverente come nello spirito dei videogame a cui la pellicola si ispira. I personaggi sanno essere ancora una volta “buffi” ma al contempo iniziano a diventare  sorprendentemente “epici”, anche quelli più “inaspettati.” Un film adattissimo per il pubblico dei più piccoli, ma in grado di divertire anche i più grandicelli, nonché i vecchi nostalgici dei videogame. La dimostrazione che portare videogame al cinema oggi è “tutta un’altra storia”, rispetto all’epoca folle e stranissima del Super Mario con Bob Hoskins.

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venerdì 7 febbraio 2025

Noi contro loro (Jouer avec le feu): la nostra recensione del film drammatico di Delphine e Muriel Coulin, con protagonisti Vincent Lindon (vincitore per l’interpretazione della Coppa Volpi all’ultimo festival di Venezia), Stefan Crepon e Benjamin Voisin


Francia dei giorni nostri.

Pierre (Vincent Lindon) fa il ferroviere e lavora di notte alla manutenzione dei binari,  tra campi nel nulla avvolti nel buio più profondo, maneggiando un bengala segnaletico rosso o sopra un convoglio tecnico, per sostituire i cavi elettrici usurati o assestare i chiodi lungo il tracciato. 

Dopo la morte della moglie Pierre si occupa come può della casa, cerca di fare “il meglio possibile” per la crescita dei suoi figli: Felix (Benjamin Voisin) e Louis (Stefan Crepon). Felix, chiamato da tutti “Fus”, in onore della sua passione per il calcio (Fussbal, in tedesco), è un ragazzo solare e un discreto giocatore. Ha provato a studiare per fare il metalmeccanico e seguire le orme paterne ma senza grandi risultati. È iperprotettivo e quasi materno nei confronti del fratello più piccolo, che lui chiama “Loulou”. 

Louis è timido e così studioso che presto sarà ammesso alla Sorbona: sarà allora che Fus e Pierre dovranno cercare di convivere insieme senza scannarsi. Perché Fus è stato visto di recente dai colleghi di Pierre insieme a un gruppo di estrema destra, legato alla tifoseria calcistica. Un gruppo violento, che avrebbe alzato le mani su un corteo di lavoratori durante una manifestazione. 

Per Fus sono solo “amici con cui si diverte la sera”, non lo coinvolgono “in quelle cose”. In fondo li conosce da sempre, erano suoi compagni di scuola e di curva.  

Pierre troppo presto giudica Fus come “parte di un branco” e scontro dopo scontro inizia a perdere il rapporto con suo figlio. Fus torna sempre più tardi la notte o non torna per nulla. Appare spesso ubriaco e ascolta tutto il giorno musica disco a tutto volume, quando non la balla in qualche rave party. 

Inizia a esprimersi in modo livoroso con chiunque frequenti la loro casa per aiutare LouLou negli studi, specie i “bravi ragazzi dell’Università”: li giudica troppo distanti dai problemi della gente comune, “fighetti”. Pierre lo tiene costantemente a freno, spesso in modo brusco e autoritario. 

Alla fine tutto ciò che li tiene uniti è solo l’affetto per Louis e poco altro.

Un giorno Pierre segue Fus da lontano, in auto, dopo l’ennesimo litigio. Lo vede entrare in quella fabbrica abbandonata che spesso di notte guarda da lontano nei suoi turni di manutenzione ai binari.

Fus entra, Pierre lo segue e scopre un luogo brulicante di gente che si allena, balla e addirittura combatte all’interno di una specie di gabbia, a mani nude. Pierre si mette a un margine della gabbia e osserva il figlio tra la folla a bordo ring, sull’altro lato. Fus urla e sbava, inneggia alla morte del combattente più debole. Ha gli occhi iniettati di odio e lacrime. Pierre va via con lo sguardo assente, ormai considera suo figlio come morto.

Certo per il padre esistono ancora dei “riflessi di Fus”: nei momenti in cui stanno ancora tutto insieme a Louis, nei pomeriggio della domenica. Quando, un po’ ubriachi, giocando a calcetto nel piccolo campetto costruito in giardino, tirando rigori in una piccola porta di metallo costruita al fianco di un paio di altalene. Quando posano insieme sorridendo per le foto della festa per LouLou. Quando la loro squadra segna allo stadio per la grande partita per cui da tempo hanno preso i biglietti. 

Quando tutto insieme preparano i bagagli per il trasferimento di Louis in un appartamento in affitto vicino alla Sorbona la macchina di Pierre è così carica di mobili che non c’è spazio nemmeno per uno spillo: solo Pierre può accompagnare LouLou. Fus scherza cercando di rimanere attaccato alla portiera dall’esterno, per una decina di metri: vuole a tutti i costi andare via con il fratello e infine ruzzola buffamente,  lo saluta con la mano e con un sorriso mentre si allontana. 

Pierre rientra a casa e trova Fuz coperto di lividi e sangue. 

Pestato duro in una resa dei conti. 

Lo accudisce meccanicamente, ma in fondo lo sente già come un estraneo. 

Sangue e indifferenza continueranno a tenere sempre più distanti padre e figlio, fino a esiti molto drammatici. 

Fino a che pure uno dei ricordi della vita felice nel passato, la porta da calcio del giardinetto, viene anche lei trasformata in un oggetto di “lotta politica” tra “noi contro loro”: diventando una spranga d’acciaio. 


Con Jouer avec le feu, letteralmente “giocare con il fuoco”, le sorelle registe e sceneggiatrici Delphine e Muriel Coulin arrivano alla loro terza pellicola cinematografica. Molto legate alla produzione di documentari, con il loro primo film, 17 ragazze, uscito nel 2011 e ispirato a un reale fatto di cronaca, le due autrici confermano il loro interesse per i temi sociali più legati al presente, i più “urgenti” per comprendere la realtà che ci circonda. 

Il titolo italiano di quest’opera, Noi contro loro, sintetizza in pieno l’argomento centrale del film: specchio delle tensioni sociali figlie dell’attuale clima politico francese (ma pure italiano). Ci viene raccontato un mondo in cui non può che cadere nel nulla ogni ricerca di dialogo o di “possibile mediazione”, tra chi “la pensa politicamente in modo differente”. Che si invochino fantasmi del passato o si dia ascolto al “rispettivo gruppo di amici”, che ci si affidi alla nostalgia o al nichilismo, i personaggi dell’opera di Delphine e Muriel Coulin sono (pre)destinati a camminare da soli verso un futuro che li vede “divisi e nemici”, “Noi contro loro”. Pur di fatto facendo parte della stessa famiglia nucleare e quindi essendo loro tre insieme “un Noi”, come urla inascoltato il personaggio di Louis, in uno dei momenti più stringenti della pellicola. 

Pierre e Fuz vagano invece solo tra foto e ricordi, senza il coraggio di guardarsi negli occhi, con la convinzione reciproca di avere davanti l’immagine distorta, di un padre o un figlio, che si ritengono ormai “già morti”. 

Entrambi vivono un lutto struggente, quanto quasi inspiegabile. 

Le due registe non fanno sconti a entrambe le “fazioni in gioco”: la violenza fisica e psicologica è intesa equamente, ripartita tra chi “si crede buono” e chi storicamente “non può essere che il cattivo”. Le botte, gli insulti e il sangue arrivano da destra come da sinistra, con pari rancore, paranoia e “squadrismo”, come tra estremisti ultras di squadre di calcio. 

Allo stesso modo le fragilità emotive e le “buone intenzioni”, che hanno radici in un disagio sociale che il racconto prende in prestito direttamente dalla cronaca, sono ben ripartire tra tutti i personaggi sulla scena: mettendo bene in evidenza una complessità di vedute che le due registe sanno maneggiare con cura e rispetto di tutte le parti in causa. Come dovrebbero fare i migliori autori, ma anche i giornalisti.

Vincent Lindon, quasi per predestinazione, continua qui a interpretare personaggi complessi e dolenti, conferendogli grande umanità e umiltà, un animo tormentato quanto malinconico. Un personaggio splendidamente imperfetto, “vivo”.

Benjamin Voisin, che impersona Fus, dimostra di essere un giovane attore davvero straordinario e versatile, raccontandoci qui un personaggio in continua trasformazione: tra il ragazzino e l’adulto, tra l’ingenuità e la ferocia. 

Il personaggio del bravo Stefan Crepon ha un ruolo più piccolo ma determinante: è quasi un “collante sociale” tra il fratello e il padre. Una voce sempre gentile e premurosa, ma che proprio per questa gentilezza, in una storia che racconta con disincanto la realtà attuale, non può che essere una voce sussurrata. Tragicamente poco più che una “comparsa inascoltata”, all’ombra di un conflitto ideologico.

L’ultima pellicola di Delphine e Muriel Coulin è molto cruda e struggente, “pragmatica” ed essenziale come il miglior cinema sociale del fratelli Dardenne. 

Interpreti molto bravi, una messa in scena sempre realistica, ma che in alcuni frangenti sa essere anche evocativa, quasi “mistica”: come nelle scene notturne, tra binari illuminati da bengala rossi e rave party dal colore blu elettrico. 

È un film duro, che fa molto riflettere e conquista facilmente l’attenzione degli spettatori.

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giovedì 6 febbraio 2025

Terra incognita: la nostra recensione del documentario di Enrico Masi, scritto con Stefano Migliore, che esplora il “futuro del pianeta”, tra lo sviluppo dell’energia nucleare e la volontà di un ritorno alla natura


Cosa siamo noi rispetto alla vastità del cosmo? Forse le stelle si possono osservare meglio quando ci appaiono “più vicine”, magari vivendo su una montagna.

Forse invece qualcosa di simile al potere delle stelle oggi lo possiamo “imbrigliare”, attraverso l’energia atomica.

Una famiglia tedesca dei giorni nostri, i Keyenburg, ha lasciato ogni comodità moderna per andare a vivere sulle montagne, in alta quota, “più vicino alle stelle”. 

Non sono i soli, ci sono testimonianze di diversi nuclei familiari intenzionati oggi a cercare un esodo fuori dalla realtà urbanizzata, per vivere in assenza di elettricità, in sinergia con gli animali e quanto la natura ha da offrire.

Per i Keyenburg è una condizione provvisoria stare sulle Alpi Svizzere, si stanno solo “preparando” a qualcosa di più grande: il Canada, dove sognano di fondare un'ampia comunità energeticamente autonoma.  

Il capofamiglia, Gerd, è un artista famoso per il suo impegno nel campo ambientale. È segaligno, ha capelli bianchi, occhi azzurri e il sorriso triste. Ama “piantare alberi”, come dice di lui parte della stampa. Ma è interessato anche nel ripristino di vecchi strumenti musicali, è affascinato dallo scoprire sempre nuovi utilizzi di strutture tecnologiche del “passato recente”: come un sistema missilistico svizzero smantellato, dal quale oggi, guarda il caso, si è ricavato un osservatorio per le stelle. Ormai la Terra è per Gerd piena di ruderi tecnologici, iniziati nel ventesimo secolo e abbandonati come strani dinosauri, oggi ricoperti dal verde. 

La moglie Annegret ama parlare di scienza e filosofia, spesso creando con estrema facilità complessi discorsi che spaziano tra più discipline. Ha un animo un po’ anarchico e per lei la vita ad alta quota è anche un “sottrarsi dai capi e sedicenti insegnanti”: è una sfida a imparare da soli a stare in equilibrio con la natura e quindi con il mondo. Sa costruire ogni cosa da sola, intagliando legna e piantando chiodi.

I figli sono giovani e forti, la più grande è affascinante e bionda come una valchiria e spesso si occupa personalmente dei cavalli. Tutta la famiglia spesso guardando il cielo entra in discorsi che affrontano il piano metafisico: ma tutti sono concordi che se esiste il paradiso ha la forma del luogo in cui si trovano ora.

La vita che hanno scelto è dura, forse maggiormente per i più giovani, ma “ne vale la pena”. Anche quando a volte animali e uomini si devono arrampicare portando enormi zaini e sacche, su sentieri stretti e a strapiombo.

Anche quando le condizioni climatiche sono rigidissime e cambiano molto velocemente, di fatto rinchiudendoli in casa davanti al fuoco. I pericoli dovuti a una frana o dal corso più impetuoso di un fiume sono sempre dietro l’angolo, ma loro con l’esperienza hanno imparato a saperli prevenire o gestire. 

Così i Keyenburg vivono a contatto con la natura, cantano e suonano insieme e sono in armonia con gli animali: quasi degli elfi silvani, sotto un cielo stellato. 

A Cadarache, nella Francia del Sud, si sta invece tenendo il complesso esperimento ITER, per il collaudo di un nuovo reattore termonucleare che darà al mondo il “potere delle stelle”. Un potere quasi illimitato ma per qualcuno “pericoloso”, se l’uomo di pari passo non imparerà a gestirlo “migliorando a livello umano”.

Al progetto partecipa anche uno scienziato nato tra gli Amish, in assenza di ogni tipo di tecnologia. Da quando ha lasciato il villaggio per andare al college si è dedicato alla ricerca della tecnologia massima del “domani”: una “fusione nucleare” pulita e infinita. Come l’energia delle stelle, ma da ricrearsi nel cuore della terra, assemblando insieme ad altri scienziati varie componenti tecnologiche, attraverso fabbriche e macchinari giganteschi, quasi fantascientifici.

Se dalle cime dei monti risuona la forza della natura e la musica dei nuovi “abitanti dell’alta quota”, in valle riecheggia uno strano rumore di fondo, elettrico e cupo, continuo. Un rumore che rimbalzando tra mille tralicci si fa largo tra cavi, scale, acciaio, andando a convogliare l’energia degli atomi che per qualcuno è stata già ribattezzata “divina”. Ma che per qualcun altro non ha davvero nulla di religioso: Dio se c’è è altrove. 


La lavorazione di Terra Incognita è durata sei anni e ha coinvolto molti esperti e scienziati, ha portato alla realizzazione di interviste e riprese che hanno avuto luogo in Francia, Germania, Svizzera, Stati Uniti, Spagna e Italia. Il film è stato presentato in anteprima al Festival dei Popoli, ricevendo una accoglienza calorosa.

L’idea di Masi nasce da una riflessione legata al concetto di “Antropocene”: il termine che indica l’attuale “era geologica”. Un’epoca caratterizzata dal fatto che l’essere umano sia infine riuscito, con le sue attività (tecnologiche, produttive, estrattive), a “mettersi al centro del mondo”, arrivando ad apportarvi modifiche territoriali, strutturali e climatiche, capaci di incidere enormemente sui processi geologici stessi. È ormai l’uomo il “fattore geologico” e le sue scelte diventano centrali per la natura. 

Le esigenze di “approvvigionamento energetico”, devono per forza combinarsi in modo da garantire la “sopravvivenza globale” ma c’è di più: se l’uomo è oggi in grado di “prodotte energia”, oltre alle ricerche sull'“energia nucleare” dovrebbe impegnarsi anche nella ricerca di “energie” che migliorino la  “condizione umana”, magari che lo portino a essere un “uomo migliore”.  

Da qui l’idea dei due estremi: la famiglia moderna che sceglie di vivere senza “il progresso energetico”; lo scienziato Amish che sceglie di vivere immerso nella tecnologia del futuro, spesso intabarrato in maschere, respiratori e tute antiradiazione, pur cercando di creare un'energia pulita. 

Un “dibattito a distanza”, dicotomico e non per forza antitetico. 

Due “modi di essere” affascinanti, strani quanto misteriosi, che evocativamente vengono raccontati dai magnifici scenari naturali delle Alpi quanto dai “fantascientifici” componenti e mega-strutture della ricerca atomica, insieme alle fatiscenti fabbriche/dinosauri del passato. Immagini che rimangono impresse nello spettatore: per la maestosità della fotografia digitale quanto per i toni quasi spirituali ed “elettronici” di una sonora cui hanno preso parte i Keyenburg stessi.

  


Terra Incognita è un film difficile, denso, carico di sfumature e significati che si dipanano meglio visione dopo visione, andando a costruire un piccolo ecosistema semantico peculiare, unico e che invita all’approfondimento. 

A volte può sembrare un lavoro quasi “compiaciuto” nel suo essere difficile, richiedendo una “non scontata” soglia di attenzione e preparazione che permettano di muoversi tra digressioni filosofiche e letterarie, conoscenze tecnologiche e approfondimenti storici. 

A volte l’opera di Masi può invece all’opposto apparire quasi come un “viaggio sensoriale”, una immersiva esperienze sonora e visiva che ci trascina, tra rumori ossessivi e cori in un mondo di confine quasi “fantasy” e in larga parte ancora inesplorato dai media tradizionali.

Tra queste due anime prende il passo un documentario (quasi) “senza didascalie” che aiutino a contestualizzare/semplificare le persone e i luoghi, dare ordine agli eventi. Masi ama stimolare lo spettatore più che dirigerlo verso soluzioni di comodo, che blocchino un flusso di coscienze e immagini che deve infine essere quanto più “personale”. Una scoperta.

Quando le persone sulla scena ci parlano di complicate teorie filosofiche e Geopolitiche, religione e scienza nucleare, lo fanno quasi “bisbigliando sottovoce”. Come i depositari di un linguaggio magico, antico e ambiguo. Un “Whispering” degno delle favole che viene parlato da un piccolo popolo “modernamente-antico”, autoconfinatosi sulle vette delle montagne.

È tutta da scoprire attraverso le immagini anche la “sottotrama” sui “componenti per il CERN”, che partono da più fabbriche anonime, tra cui anche porto Marghera, via nave, per poi essere assemblati e far parte del grande reattore circolare, di fatto “l’energia del futuro, che rimbomba sotto la terra”. Un racconto che si può solo intuire da una serie di progetti tecnici, grandi argani che spostano materiali con carrucolo, ingranaggi complicati e uomini coperti di tute anti-radiazione. Dati da masticare e magari comprendere/decodificare, se non si è addetti ai lavori, solo dalle note di approfondimento ricavate in rete. 

C’è quindi complessità e spiritualità, ma non manca all’opera un po’ di “sana umanità”. 

Ad accompagnarci (e forse “giudicarci”) c’è lo sguardo triste e il sorriso malinconico di un artista affascinante quanto buffo, che di colpo inizia a strimpellare con la chitarra e poi con il piano: e lo fa umanamente malissimo, stonatissimo.

Si parla poi del lavoro sinergico, insieme uomini e animali, ma Masi non ci nasconde i pericoli evidenti di questo stile di vita, in scene anche dal forte impatto visivo ed emotivo. 

Masi confeziona un prodotto molto “carico”. Carico di trascendenza e  psichedelia. Carico di montagne generose, quanto a tratti fredde sotto la pioggia battente, ma pure di architetture umane/scheletrico-scientifiche ardite. Carico di cori cupi alternati a rumori di fondo elettrici e intrusivi, gergo tecnico, addirittura “simbologie iraniane” e ritualità bibliche, tutte frullate insieme in un unico folklore semantico. Un’opera carica della poesia di strumenti musicali in legno, da curare e accordare,  perché danno un suono “vivo” e per questo contrastano con “cadaveri di reattori” che sembrano cuori artificiali avvizziti e marci, con tubi contorti come arterie rinsecchite. Vediamo la poesia, simboleggiata da quella bellissima giovane ragazza (la figlia dell’artista), che simile a una valchiria accompagna con la madre i cavalli sul ruscello ad alta quota, immergendosi nelle acque. Si parla non a caso di paradiso e il documentario è uno strumento cinematografico molto originale per descriverlo. 

Certo la sintesi di un lavoro di 6-7 anni può apparire complicata,  in un’ora e mezzo di visione e l’opera vuole comunicarci forse anche proprio “l’inespresso”, di un viaggio simbolico tra progresso e umanità.

Un viaggio difficile, molto filosofico quanto scientifico, a tratti sociologico, politico, religioso, ma sempre interessante. Specie per chi dal cinema vuole anche la complessità: nello specifico “tanta complessità”, a tratti troppa. Ma interessante anche per chi vuole intraprendere un viaggio onirico e psichedelico dentro questo strana “fantascienza del reale”. 

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giovedì 30 gennaio 2025

The Brutalist: la nostra recensione del film di Brady Corbet, con protagonista Adrien Brody, prodotto da A24, che racconta la storia di un moderno “costruttore di piramidi”

Sinossi: All’inizio è solo buio e rumore.

Uomini che in massa urlano e piangono, strisciando in avanti, facendosi largo tra i corpi accalcati lungo le pareti di un tunnel stretto, simile a un budello. Nella testa di László Toth (Adrien Brody) rimbombano però, più forti, le parole delle lettere della moglie Erzsébet (Felicity Jones). Parole di coraggio che si sovrappongono al caos. 

Una sirena irrompe e avvolge ogni altra voce o pensiero. Gli antidolorifici spostano László verso una luce vicina, oltre la soglia. Il viaggio in nave è finito, c’è il sole, la brezza marina. 
Ha davanti ai suoi occhi, maestosa, una specie di “divinità moderna”, la cui figura è opera dello scultore Auguste Bartholdi insieme all’architetto Gustave Eiffel: Statua della Libertà.

È immensa e accogliente, ma al primo colpo d’occhio a László appare come “al contrario”, “girata”, “storta”.

Forse un presagio.

Ma intanto László ride, urla e piange come un bambino venuto al mondo, nel “nuovo mondo”. La sua voce si unisce al coro di tutti gli altri che sono lì e come lui hanno alle spalle un campo di concentramento, pur trattenendone le cicatrici. Sono felici e sovrastano le sirene. 
Il 1947 segna un nuovo inizio e una nuova vita, ma da trascorrere ancora “in attesa”: il momento in cui anche sua moglie, ancora prigioniera, potrà ricongiungersi a lui. I contatti saranno difficili quanto trovare degli intermediari: servirà molto tempo.

László prende intanto un accogliente autobus per Philadelphia, che lo porta a casa del cugino Attila (Alessandro Nivola): nel vicino futuro un letto caldo e un negozio di forniture per ufficio da gestire insieme.

La moglie di Attila, Audrey (Emma Laird), americana e cattolica, non è però molto contenta di questo nuovo ospite, segaligno, dall’aria strana e trasandata. Attila stesso sull’insegna del negozio usa un nome “camuffato”: bisogna “integrarsi” e un po’ nascondersi ancora, sebbene dietro ai sorrisi del sogno americano.

László era comunque un noto architetto della Bauhaus, con tanto di opere presenti e osannate su libri e riviste.

Il suo nome attira ancora l’attenzione e arriva così a Harry (Joe Alwyn), figlio primogenito del grande industriale Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce). Insieme alla sua sorella gemella Maggie (una Stacy Martin un po’ taciturna), Harry sta organizzando una sorpresa per il compleanno del padre: la ristrutturazione completa del suo studio con biblioteca, posto nell’area più periferica di un’autentica reggia.

Carta bianca, quasi nessun limite di spesa e la possibilità di disporre dei migliori materiali e operai. Tempi di realizzazione strettissimi.

Per Attila è l’occasione di una vita. Per László la possibilità di creare di nuovo qualcosa con la sua testa e le sue mani.

Sperimentando con punti di luce “a strapiombo” e vani a scomparsa.

Incorporando gli spazi con lo stile “essenziale”, quasi “scheletrico”, delle moderne sedie per ufficio, “ora in vetrina”, anche nel negozio di Attila.

I due dedicano giorno e notte ai lavori. Spostano personalmente e forse distruggono accidentalmente mosaici, rivoluzionano l’ambiente trasformandolo in una enorme trincea, ridono e sgobbano, bevono. Ogni tanto, di nascosto, László riprende quegli antidolorifici che durante il viaggio lo hanno aiutato e lo fanno ancora stare bene. Lo fanno sentire più lucido nella creazione e l’opera trova una sua forma, personale quanto “potente”.

È in piena notte che irrompe nel piccolo cantiere Harrison Lee Van Buren. L’uomo vede ovunque solo caos e disordine, si sente personalmente “offeso” dalla presenza di stranieri che stanno lavorando per lui la notte.

László gli risulta subito scortese anche perché lo trova non esattamente “in sé”. Vuole cacciare tutti all’istante, ma prima devono sistemare, riordinare e chiudere tutto. Non è felice, vorrebbe che tutto tornasse esattamente come prima, ogni libro al suo posto. Ma non è possibile. Così sbraita e agita i pugni.

Di fatto i lavori erano quasi ultimati e vengono portati a termine già la mattina dopo, ma con nessuna paga né rimborso, a monte di un investimento già sostanzioso, minacce di cause legali di risarcimento danni.

Maggie prende la palla al balzo per far buttare fuori di casa il cugino strano del marito: insinua che abbia allungato anche le mani su di lei.

Attila chiude la porta della sua casa e László inizia a vivere di fortuna e miseria, tra i poveri della città, dormendo in casermoni per l’accoglienza dei senza tetto, trovando lavori occasionali da manovale. 
Ogni tanto entrando in una sinagoga, per avere informazioni della moglie attraverso una rete di conoscenze.
Incontra nel suo quotidiano sempre più gli antidolorifici, ma trova anche un amico: Gordon (Isaach de Bankole’), un operaio di colore che dorme a fianco della sua branda in dormitorio, cercando a stento di far sopravvivere, con gli avanzi della mensa, un bambino di pochi anni che tiene sempre stretto al petto.

Nel futuro di loro due c’è la costruzione di un Bowling e a László non dispiace: ha in passato realizzato altre opere pubbliche come piscine, scuole, biblioteche, ma mai un Bowling. 
Ma ecco che ricompare davanti a lui Harrison Lee Van Buren.

È raggiante.

Lo studio nuovo che non voleva e non ha pagato, realizzato da questo “famoso architetto ungherese sopravvissuto ai campi di concentramento”, è stato fotografato e messo su una rivista d’arte. 
L’industriale ammette di aver “agito di impulso”, in quanto affranto per il grave stato di salute della madre Margaret, che proprio in quella notte scellerata stava morendo. Invita l’architetto a casa sua per un evento di gala e riconoscimento pubblico del suo valore artistico, in cui lo presenterà a tutta la principale élite di Philadelphia. Anticipa dei soldi.

László accetta, stringe mani, sorride.

Durante la festa Harrison Lee Van Buren conduce tutti i suoi ospiti sul ciglio di una collina.

Lì dichiara di voler costruire un enorme monumento dedicato alla madre scomparsa. Un centro polifunzionale con chiesa, piscina, palestra, stadio, biblioteca e sale per incontri. Sarà enorme e aperto a tutti, complesso e moderno, ma anche qualcosa di profondamente bello rispetto ai classici casermoni dell’edilizia americana: “artistico”. László sarà incaricato personalmente del progetto e scopre la cosa sul momento, su quella collina.

Non può sottrarsi, è tutto già predisposto, compresa una casa per lui e la moglie, appena riusciranno a portarla in America.

Erzsébet arriva nel nuovo mondo presto, ma ridotta a uno straccio a causa della osteoporosi: su una carrozzina sospinta dalla nipote Zsófia (Ariane Labed), a sua volta rimasta muta dopo l’esperienza nel campo di Dachau.

Cose che si potrebbero aggiustare con il tempo e le giuste cure. Il tempo passa.

Il rampollo Harry jr inizia a girare con insistenza intorno a Zsófia e non è contento di essere respinto: come se la generosità fosse gratis.

I contatti di Harrison Lee Van Buren permetterebbero a Erzsébet di tornare a lavorare come giornalista, sui maggiori quotidiani di New York, ma questo diventa motivo di litigi continui con il marito.
Fino a che l’architetto ungherese non ha più tempo per gli affetti, gli screzi, giochi di soldi e poteri. 
Ormai sospinto solo dalla morfina, vive subendo ogni ritardo e intoppo dei lavori come una ferita lancinante e personale: vuole pagare di persona tutti gli intoppi ed errori di quei lavori, a costo di non guadagnare niente. L’industriale cinicamente acconsente.

Ormai Laszlo è sempre più irritabile e assente. 

Non pensa ad altro se non alla costruzione di quella che, giorno dopo giorno, ha sempre più l’aspetto di una moderna piramide in cemento. Il suo tributo a un moderno faraone, dispotico e umorale come quelli della Bibbia, ma anche la sua opera più maestosa, “essenziale”, imponente.

Vorrà ricoprirla di marmi di Carrara personalmente scelti nel cuore della montagna.

Vorrà legare insieme le strutture con un dedalo di gallerie sotterranee.

Vorrà che l’edificio appaia, a chi lo visita, stretto e altissimo, non solo imponente ma “trascendente”.

Predisporrà che la croce della chiesa appaia dall’alto, direttamene sull’altare, disegnata dal riflesso fuggente del sole, spostandosi a determinate ore del giorno.

Il significato di tutto questa dedizione e sacrificio personale sarà forse spiegato, un giorno, sui libri di architettura moderna.

 


La costruzione artistica di un colossal: Nel 2018 iniziava la produzione del nuovo film di Brady Corbet, dopo il successo della sua seconda pellicola, Vox Lux. Ad affiancare il regista nella sceneggiatura c’è ancora la sua compagnia Mona Fastvoid.

C’è molto interesse intorno al progetto e giravano diversi nomi di grandi star: l’opera puntava a offrire uno sguardo visionario sulla deriva moderna del sogno americano, con afflati quasi “biblici”. 
I lavori inizialmente previsti per il 2020 slittarono all’estate del 2021 e poi slittarono di nuovo, fino alla seconda metà del 2022. Il corona virus mieteva molte vittime tra tutti coloro che sono coinvolti nella lavorazione e la pellicola iniziava a mutare, acquisendo quasi l’aria di un film maledetto. 
Le riprese iniziarono ufficialmente a Budapest solo nel 2023, nel mese di marzo, per poi spostarsi in Toscana, a Carrara e finire a maggio.

Per le immagini si sceglieva un formando difficile e affascinante come il VistaVision: 35mm, ma anche con copie nell’estensione di lusso a 70mm. Secondo il regista per avere lo stesso fascino “panoramico” delle pellicole degli anni ‘50 come Ben-Hur, ma pure il formato voluto da Tarantino per il western Hateful Eight. Come Hateful Eight, The Brutalist sarebbe stato proiettato con una pausa tra il primo e secondo atto, di quindici minuti, con in sottofondo un accompagnamento musicale, come avveniva stilisticamente nei cinema per i grandi film del passato. 
La fotografia del britannico Lol Crawley, anche lui assiduo collaboratore di Corbet, puntava a mettere in risalto un’America in perenne costruzione e trasformazione, “fatta e disfatta” di cantieri, binari e ciminiere, brulicante di “men at work” e all’ombra di una natura “fangosa”, “maligna”. Un mondo di “luce riflessa”, artefatto, cemento plumbeo e grigio, sgraziato e ingentilito solo dai tramonti e le luci artificiali della sera. Un mondo in netto contrasto con la solarità e geometria delle “montagne scavate” di Carrara: quasi un luogo metafisico, di scambio, artistico e di comunione, direttamente con le radici “più benigne” della natura. 
La colonna sonora di Daniel Blumberg, nella rosa dei candidati agli Academy Awards, che sarebbe stata in seguito definita “elegante e muscolare”, sceglieva un ampio uso di sonorità jazz di trombe e pianoforte, mischiando questo stile con tamburi e corni (se vogliamo non lontani dalle sonorità dei lavori di Christopher Nolan), alla ricerca di un senso epico quando avvolgente, da “vecchia Hollywood”. 
Per i primi dieci minuti del film veniva composta una potente overture con sonorità alla Stravinskj.


Daniel Blumberg è un artista poliedrico e in questo caso, oltre alla colonna sonora, prendeva parte, insieme al dipartimento artistico, anche alla costruzione visiva delle “architetture brutaliste digitali” del film.

La post-produzione e il montaggio opera di Dávid Jancsó sono lunghi e accurati, durano oltre un anno. 
Uno specifico programma di intelligenza artificiale è stato implementato sui disegni tridimensionali, per calcolare, in un modo realistico e sostenibile nel mondo reale, la fisica delle strutture più imponenti.

Perché di fatto, nonostante la magia del cinema, la fedeltà e accuratezza storica della pellicola di Brady Corbet, László Toth “non è mai esistito”. La pellicola non è una biografia.

László Toth non è mai esistito: il protagonista della nostra storia, l’architetto ungherese “brutalista” László Toth, è a detta dei realizzatori un personaggio di fantasia, modellato però sulle vite e opere di artisti reali, molti dei quali collegati direttamente con la Bauhaus, ma con in comune, in alcuni casi, anche l’origine ebraica, quanto tristemente la circostanza di essere stati deportati nei campi di concentramento. Vengono citati da Corbet Marcel Breuer, Paul Rudolph, Erno Goldfinger e László Moholy-Nagy, che in qualche modo qui “convivono insieme” nello stesso corpo, descrivendo in modo affascinante un unico percorso, umanamente quanto artisticamente coerente.

Quello che segue nel paragrafo è quindi un breve, semplificato e superficiale, “percorso orientativo for Dummies”, per poter apprezzare alcune delle “suggestioni e suggerimenti visivi” offerti dalla pellicola, anche strettamente funzionali a fini narrativi. Uno “spunto sgangherato”, per poi esplorarle in proprio, nelle sedi più consone, qualora il tema risulti interessante.

Le opere di László Toth relative al design di interni, nello specifico le sedie dello studio di Harrison Lee Van Buren, sono probabilmente ispirate ai lavori dell’architetto modernista Marcel Breuer. Come László era ungherese, ma approdò in America prima, nel 1937. Le sue sedie, la Wassily Chair e la Cesca Chair, formate da sottili tubi di metallo piegati e integrati con stoffe a taglio rettangolare, eleganti quanto perfette per una produzione industriale in serie, sono state collocate negli studi della IBM e diventate di fatto parte dell’estetica moderna degli uffici contemporanei. 
Le imponenti e rigide linee esterne degli edifici, geometriche e spigolose, che quasi sembrano costruite con “enormi mattoncini lego ante-litteram” (di fatto blocchi prefabbricati che arrivavano via treno, da assemblare in loco), possono ispirarsi a opere come il Yale Art & Architecture Building, di Paul Rudolph. Un architetto, pittore e musicista, figlio di un prete metodista itinerante nell’America del Sud, che spesso lo faceva girare con sé. Viaggi visivi ed emotivi che hanno stimolato la sua curiosità verso la fusione di diversi stili architettonici, dai più antichi ai moderni, fino a volerli “sintetizzare insieme”.

László potrebbe invece condividere con Ludwig Mies Van der Rohe la sua passione per le rocce e i marmi. Per Mies un retaggio dal lavoro paterno, per il personaggio creato da Corbet il simbolo del legame con un amico scultorie di Carrara. Da qui l’utilizzo nell’architettura del marmo come componente di “tramite”, tra uomo e natura, passato e presente. Si dice che spesso, per descrivere i suoi lavori, Mies usasse gli aforismi “less is more” e “Dio è nei dettagli”: due frasi che hanno molto in comune con il modo di affrontare la vita e l’arte di László.

Con Erno Goldfingher il nostro protagonista potrebbe invece condividere la verticalità vertiginosa, che legava i popolari “Tower Block” del primo con, nella finzione, “la torre centrale” del monumento dedicato a Margaret.

Infine, il nostro architetto potrebbe condividere con László Moholy-Nagy l’idea ancora sperimentale per quei tempi di “art of light”: se vogliamo una “rivisitazione” dell’uso della luce del mosaico, ma che si affida solo alla “luce naturate” e istallazioni in grado di “filtrarla”, (facendo di fatto entrare la natura nell’elemento artistico), proiettandola sulle superfici con la logica delle ombre cinesi. 

Soprattutto nella descrizione narrativa di queste ultime suggestioni artistiche, relative a Meis, Erno Goldfingher e László Moholy-Nagy, il regista arriva infine a delineare, sul finale del film, un’idea specifica e profonda del “progetto artistico” dì László. Un progetto che ci viene “svelato” nella sua ispirazione umana e ambizione “sociale”, insieme a una definizione puntuale del termine “brutalismo”, in un modo molto originale quanto diretto, struggente. Un modo che in fondo ricollega l’arte, alla vita dell’artista, in modo profondo.

Una “definizione” che ci porta a una comprensione nuova del personaggio stesso, ma che starà allo spettatore scoprire in sala, in uno dei finali più originali, inaspettati e intriganti.



Uomini e dei:
The Brutalist presenta una terna di attori principali che hanno già puntualmente ricevuto le candidature come Miglior Attore (Adrien Brody), Miglior ruolo di supporto maschile (Guy Pearce) e Miglior suolo di supporto femminile (Felicity Jones). Ma del resto The Brutalist ha già fatto incetta di tantissimi riconoscimenti, premi e nomination.

Brody, che ha avuto un insegnante personale di ungherese per parlare con l’accento più corretto, torna a impersonare un uomo complicato e solo, che riesce per lo più a esprimersi attraverso la sua arte, come ai tempi de Il pianista di Polanski.

László lotta costantemente con le sue visioni: preferisce “dialogare con gli assenti” piuttosto che affrontare le persone nel presente, sembra preferire la matematica alla politica. Sempre più spesso, fugge cinicamente dalle sue responsabilità “umane”, in modo compulsivo quanto doloroso. 
Il personaggio di Felicity Jones ci viene presentato come un angelo dalle ali spezzate, che il nostro protagonista può ancora accogliere e accudire, ma che non è più in grado di amare. László la sospinge da dietro la sua carrozzina, senza di fatto quasi mai incrociarne sguardo e parole. Si sottrae ai pochi momenti di dolcezza che lei teneramente richiede, vede come pericolose per lei tutte le occasioni di uscire di casa o sottrarsi al riposo. Lei è più di un angelo spezzato e Felicity Jones ce la descrive tanto fragile quanto tenace: vuole combattere, perché ha ancora molto da dire e forse ha le stesse motivazioni del marito. Se László si è ridotto a parlare “solo con la sua arte e con nessun altro”, lei da giornalista ha bisogno di tornare a scrivere, denunciare le iniquità, dare un senso a tutta la sofferenza che ha subito, ma anche all’ipocrisia della “accoglienza americana”. La sua arma, tragicamente spuntata ma potente, rimane il dialogo. 

Sono come due pianeti distanti, riuniti alla corte di un imprenditore/padrone ambiguo, gigantesco quanto vanaglorioso, affamato dei “monumenti e riconoscimenti” che “insieme” possono offrirgli.

Guy Pearce ci ha già abituati a personaggi che hanno incarnato sul grande schermo l’idea di un potere assoluto quanto corrotto, come il Peter Weyland della saga di Alien. Creature mosse da pura ambizione, quasi capaci di amare e odiare allo stesso tempo e con pari “ferocia”, paterne e maligne, perennemente irrisolte, aristocraticamente “superiori” per privilegi di sangue. Il suo Harrison Lee Van Buren si muove sostenendo un sorriso cordiale di facciata alla Walt Disney, che trattiene a fatica, perennemente in lotta con un destino che non lo vuole “al centro dell’universo”, nonostante tutti gli sforzi che lui mette in atto per farsi amare. Si crede sinceramente una specie di divinità e il suo primo sacerdote è genuinamente il figlio Harry, interpretato dal bravo Joe Alwyn. Rubicondo quanto arrogante, goffo quanto cattivo, Harry vive nell’ombra, tra un rimprovero e l’altro, purché quell’immagine paterna non venga infranta e lui possa continuare a godere della sua vicinanza. Ma Harry alla fine non possiede una sua identità: è più simile a “un braccio del padre”, pronto a colpire, nel caso qualcuno lo minacci. Una “sua estensione”, una marionetta. Il resto dei personaggi è simile a un coro silenzioso, per lo più come il personaggio traumatizzato di Zsófia. Ma un coro subito pronto a prendere voce come nelle tragedie greche, “farsi branco”, appena le circostanze lo permettono e il sorriso di condiscendenza non fa più parte del loro dress-code: soprattutto quando uno straniero rifiuta di sottomettersi, cambiare nome e usanze e abbracciare “l’american way” come unico modello culturale. Come nel caso di Attila e Audrey.

All’ombra del grande sogno americano, che promette a tutti indistintamente progresso e possibilità infinite di emergere, troviamo quindi tutti gli elementi più classici della tragedia greca: fusi insieme con originalità e una grande messa in scena dal sapore simbolico: in uno spettacolo che prima di tutto riesce a parlare di arte, in modo nuovo quanto accattivante, profondo.

Finale: The Brutalist è una esperienza cinematografica monumentale: per la sua incedibile durata di 3 ore e 35 minuti, per la grandiosità dei paesaggi descritti nella bellezza dei 70mm panoramici come Ben-Hur, per le scene enormi e brulicanti di persone al lavoro come Metropolis di Lang, per le musiche avvolgenti e prolungate come la prima overture, all’inizio del film, che dura oltre 10 minuti da sola e ci “proietta nell’azione come in un quadro”, come l’incipit di Salvate il soldato Ryan.

A una messa in scena “faraonica” non potevano che corrispondere toni e personaggi non da meno: dalla caratura “biblica”, da tragedia greca. Personaggi complessi e spigolosi, titanicamente disperati, anche perché Shakespearianamente anche in lotta con i propri fantasmi, ossessioni e ambizioni.

A questo Bradley Corbet aggiunge la creazione di un mondo stimolante ed “erudito”, dove l’espressione artistica è di fatto centrale a tutto: un “potere”, che alimenta “sogni di immortalità” ma in grado di farci accedere anche alla dimensione inconscia, trasformandosi in “memoria” e “speranza”.

È difficile avvicinarsi a The Brutalist senza venirne affascinati.

Ogni comparto tecnico e artistico riesce a esprimersi al meglio, mettendosi al servizio di una “visione” di cinema unica, originale, complessa quanto imponente.

Ma “l’imponenza della messa in scena” è una caratteristica che va sempre mediata: con la sensibilità dello spettatore, ma anche materialmente nei termini “pratici”, di tempo e impegno, che uno è in grado di “offrire all’opera”.  

Certo è tempo ben speso.

Se cercate un film “gigantesco in tutte le sue parti”, di “quelli da Oscar”, qui lo avete trovato. 


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mercoledì 29 gennaio 2025

Le occasioni dell’amore (Hors-saison): la nostra recensione del film romantico/drammatico di Stephane Brize, con protagonisti di Guillaume Canet e Alba Rohrwacher

Francia dei giorni nostri. L’attore cinquantenne Mathieu (Guillaume Canet) raggiunge un hotel a cinque stelle sulla costa della Bretannia (il film è girato a Morbihad e dalle parti della penisola di Quiberon), per una vacanza di tutta salute. Camera singola, spa, piscina, una spiaggia quasi tutta per lui a pochi passi e per vicini di stanza solo alcuni vecchietti. Tutti i vantaggi di un soggiorno “fuori stagione” per assaporare malinconicamente  quel “mare d’inverno” celebrato dalla Berté. 

Tempo per riflettere e magari capire come funziona quella strana “macchinetta del caffè espresso” che insieme ad arance di benvenuto è a sua disposizione in camera:  una creatura dispotica e rissosa, che bolle senza elargire caffè. 

L’importante è un po’ morire/dormire, forse sognare. Soprattutto “dimenticare” la storiaccia di quel one-man show a teatro, scritto, prodotto e interpretato da lui, ma che lui all’ultimo, poche ore prima, ha disertato per una strana, ancestrale paura. 

Lui è un attore amatissimo che viene dal cinema e forse ritrovarsi a teatro, per la prima volta, davanti al pubblico e senza poter rifare una battuta sbagliata, lo ha atterrito. O forse lo atterriscono i primi capelli bianchi che con insistenza stanno invadendo la sua testa. 

Dal cellulare arrivano continui vocali della segretaria, della produzione, della moglie. Tutti felici e propositivi sul fatto che “tutto si riaggiusta, ti aspettiamo, tieni duro!”. Mathieu non vuole rispondere a nessuno e magari, tra una maschera al cetriolo e la piadina con le bolle, palestra e il rilassamento sensoriale,  esplorare il piccolo paesino caratteristico a due passi della struttura. Che tanto per una volta non ci sarà nessuno, a chiedere autografi, strette di mano, “come va, campione?!!” e selfie. 

Purtroppo per l’attore, la sua fama è granitica pure nel cuore dell’inverno più solitario in un paesino di vecchietti, disperso nel nulla e nella nebbia. 

Un selfie condiviso su Instagram mentre sta facendo un massaggio drenante e si attiva una rete di intelligence, che in mezza giornata porta davanti alla camera del suo albergo una sua ex, Alice (Alba Rohrwacher).

Ex promessa della musica, ex ragazza della porta accanto quando ancora non era famoso, quindici anni prima. Ora la musica lei la frequenta solo come insegnante, per bambini un po’ restii e arcigni nei confronti di un pianoforte. Vivendo magari “piccoli rancori” nei confronti di un futuro che non è andato per il verso giusto, giusto con un “piccolo velo” di disperazione. 

Ma intanto c’è la gioia di rivedersi, sorridere, ripensare ai ricordi felici e magari provare ad avvicinarsi di nuovo. 

Mathieu non si sottrae, anche perché ha capito, dopo due giorni, che a stare a fissare il mare d’inverno, cercando di cavare un caffè da una macchinetta dispotica e distopica, ci si rompe un po’ le palle. 

È noioso pure incontrare sulla spiaggia un tizio che ignora il fatto che sia l’attore più famoso di Francia, a pensarci! E allora coccole siano, seppure un po’ amare, tra un bicchier di vino e un caffè, tirando fuori “i vari perché” lui si trovi lì, “adesso”, davanti a una ex: sorridente quanto infelicemente sposata, carina ma un po‘ sfiorita. 

Il piano giornaliero, messo da parte l’acqua -gym con i vecchietti, diventa “coccole, riflettere e magari rileggere”: specie quella piccola sceneggiatura che voleva tanto interpretare e ha messo in un cassetto.

L’attore riprova a sorridere e apprezza l’occasione di ricaricarsi, seppur “di entusiasmo riflesso”. 

Ci sono “solo lui e lei”, nelle serate di ballo liscio dei vecchietti ospiti dell’albergo.

Almeno fino a che, inevitabilmente e irrimediabilmente, la donna del suo passato gli attribuirà tutte le colpe dirette e indirette della vita deprimente che sta vivendo ora. 

Il fatto di averla lasciata, di essere uno che butta via le persone come fazzoletti di carta, il fatto che in fondo a lui “non freghi niente di niente”, che sta pure invecchiando male…

Compresa la colpa massima : “averla fatta sognare”, quando stavano insieme. 


Il Mathieu del bravo Guillaume Canet ha lo stesso sguardo vacuo e “perso” dello Stephen Dorff dì Somewhere, film del 2010 di Sofia Coppola.

Incarna l’attore in pieno “spleen alla francese”. Un po’ triste, un po’ meditativo e un po’ malinconico, si trascina come un “bambolotto assonnato”, tra la spa e la piscina, facendosi “fare di tutto”: dalla maschera al cetriolo ai massaggio più dolorosi. Certo la location è da cartolina e in fondo pure lo spettatore inconsciamente vorrebbe “annoiarsi come lui” o come Bruno Barbieri in 4 Hotel. Poi però incontra il personaggio di Alba Rohrwacher, che ha lo stesso “fascino pressante/respingente” di Glenn Close in Attrazione Fatale di Adrian Lyne. Lei è carina, subito cordiale, subito disponibile, subito sensibile, altruista, super positiva, energizzante, trascinante… L’ideale per ricaricarsi, se stai in uno stato di ultra spleen alla francese, ma “appena ricaricati“ qualcuno da cui fuggire a gambe levate, senza mai voltarsi, perché sicuro ti insegue armata e forse con l’intento malcelato di “impagliarti”: per tenerti sempre a casa sua nel soggiorno.  

La chimica e i “pericoli” cui incorre questa “gioiosa coppia” sono un po’ questi, ma l’ambientazione, noiosissima ma confortevole fino al paradosso, “aiutano” e Stephane Brize infine confeziona qualcosa di simile a una love story, con momenti anche molto divertenti. 

Una love story “fuori tempo massimo”, ma che diventa interessante e “tenera” anche grazie alle musiche composte dal bravo cantautore Vincent Delerm. 

Mathieu e Alice si incontrano così dopo 15 anni e ci appaiono quasi felici, mentre provano sciarpe colorate prese al mercatino locale, tra i tantissimi vecchietti sorridenti che li circondano. 

Attori carini e affiatati, una location interessante anche per farci delle vacanze, musiche romantiche alla “Love Story” e una storia semplice, rassicurante, ma piena di piccoli spunti che rendono la pellicola la scelta adatta per un pubblico in vena di “romanticherie”: tranquille e un po’ attempate.

Se vi ritrovate nella definizione e cercate un momento di romantico distacco dai problemi della quotidianità, Le occasioni dell’amore è il perfetto film rilassante e rassicurante, da vedere sorseggiando una cioccolata calda, in una giornata di pioggia. Magari vi ritroverete in una sala piena tanti vecchietti che sorridono felici. Magari è l’occasione per fare nuove amicizie.

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