lunedì 28 agosto 2023

La bella estate: la nostra recensione del film di Laura Luchetti, tratto da un romanzo di Cesare Pavese, con protagoniste Yile Yara Vianello e Deva Cassel, la bellissima figlia di Monica Bellucci e Vincent Cassel


Torino, in una calda domenica che potrebbe essere del 1940. L’estate toglie il respiro e presso le sponde verdeggianti dei corsi d’acqua si assiepano con i cestini da pranzo, per cercare refrigerio e godere della brezza pomeridiana, persone che sembrano uscite da un quadro di Georges Seurat: Una domenica pomeriggio all’isola della Grande-Jatte. Sulla riva ci sono tutti, nobili e proletari, dame e operaie. C’è tra loro Ginia (Yile Yara Vianello), una giovane ragazza dall’aria gentile ma poco avvenente, che è partita dalla campagna per venire a lavorare alla maglia per una importante casa sartoriale torinese. Ginia è accompagnata da un'amica e dal fratellino Severino, che ogni sera accende le luci di ogni lampione della città per conto della società del gas. L’aria è festosa, piena di chiacchiere e risate, ma tutto quasi si tace quando da una barca si tuffa in acqua, con un vestito bianco lungo, Amelia (Deva Cassel). È una ragazza dai capelli scuri e dallo sguardo magnetico, sorridente e felice come una bambina. Riemerge sulla riva vicino a Ginia come una Venere, con l’abito ormai trasparente. Da un’atmosfera simile a un quadro di Georges Seurat di colpo sembra di trovarsi nella più seducente cornice della Colazione sull’erba di Manet. Le due giovani si scambiano uno sguardo e accade qualcosa di magico quanto seducente. È l’inizio di una relazione profonda quanto forse inopportuna, trasgressiva. Amelia è una modella che spesso si offre di posare nuda per i pittori che frequentano i locali più ricchi ed esclusivi di Torino. Ha avvenenza e per questo ha molti clienti ricchi e facoltosi, ma ama passare il tempo anche con i “veri artisti”, gli autori più giovani e scapestrati, bohémien che vivono tra alcol e assenzio, sesso e sregolatezze. È in una delle bettole adibite a studio da questi giovani passionali che Ginia incontra Guido e Rodriguez, iniziando insieme ad Amelia una frequentazione curiosa, sensuale quanto “disdicevole”. Ginia arriva sempre più tardi al lavoro e rischia di perderlo. Passa il tempo a camminare per le strade e i parchi di Torino insieme ad Amelia invece che rincasare. Finisce senza invito in feste di lusso e decide infine di posare anche lei nuda, per persone che si interessano a lei solo per il suo corpo. La modella, che ammira profondamente l’amica per la sua capacità di creare vestiti bellissimi, per la spontaneità di parlare e la sua bellezza semplice e genuina, inizia a metterla in guardia, dai fin troppi pericoli che quelle affascinanti frequentazioni e in genere  la vita notturna di Torino comportano. È disposta anche ad allontanarla da lei, se questo è l’unico modo per salvarla da una spirale sempre più autodistruttiva. C’è un prezzo alto da pagare, specie quando una stagione calda e spensierata come l’estate, come la giovinezza, finisce prima del tempo. 


Cesare Pavese pubblicava nel 1949, per l’editore Einaudi di Torino, una raccolta di tre racconti realizzati in diversi periodi temporali, che prendevano il titolo dal primo di questi, La Bella estate. Il libro, le cui storie raccontavano tutte in qualche modo la perdita dell’innocenza nel passaggio all’età adulta, incontrava molto successo di critica e pubblico e vinceva nel 1950 il prestigioso Premio Strega. La narrazione di questa opera, successiva alla produzione dell’autore legata al periodo bellico e alla resistenza,  era “leggera”, “al femminile”, ma non priva di asprezze, raccontando di una gioventù che dopo le guerre mondiali e le loro mille ristrettezze era “febbricitante”  nella sua voglia di cambiamento, festa e trasgressione alle regole. In nome è per conto di una libertà rimasta a lungo repressa. 

[…]A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che succedesse qualcosa, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all'improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline […]

Pavese parlava di frenesia ma anche della disillusione che “segue alla festa”, del drammatico e doloroso ritorno al reale e al “socialmente accettabile” che gli uomini e le donne subiscono a volte anche solo meccanicamente, con l’arrivo delle stagioni meno radiose della propria esistenza, come delle malattie. Momenti di ristrettezza dalle libertà che devono in ogni caso essere accettati e accolti come un passaggio naturale. 

[…] della mia infanzia non restava altro che l’estate. Le vie strette che spuntavano dai campi da ogni parte, di giorno e di sera, erano i cancelli della vita e del mondo […]

Ma tra tante “luccicanti” parole di frenesia e pari afflati di malinconia, l’opera diveniva ulteriormente interessante quando trovava la sua sintesi positiva tra “illusione e disillusione”, tra la “libertà di trasgredire” dell’età giovanile e il “senso del dovere” dell’età adulta. Ciò avveniva attraverso un non banale sviluppo delle due protagoniste, che diventavano (anti)eroine in grado di utilizzare la loro forza per smarcarsi e smascherarsi dai rispettivi ruoli sociali. Descrivendo questo aspetto di crescita ed emancipazione Pavese risulta ancora oggi estremamente moderno, attuale e fresco e pertanto assolutamente degno di essere nuovamente celebrato da una pellicola .


La bella estate è un’opera scritta e diretta da una regista molto giovane e dal linguaggio moderno, di recente distintasi per una serie tv originale come Nudes. Ma forse proprio in virtù della modernità dell’opera di Pavese non sembra strano che la Luchetti si sia convinta a dirigere quella che è di fatto un’opera in costume. 

Un’opera che, dove non può godere della capacità espressiva unica del poeta, si ammanta della bellezza di scenografie e costumi che trasformano la vicenda (che rimane molto simile alla sua forma originale) in una serie di “quadri“, che richiamano Seurat come Manet, come altri grandi autori. Sul piano della scelta delle interpreti, la giovane figlia di Vincent Cassel e Monica Bellucci si dimostra particolarmente felice. La sua Amelia fin dalle sue primissime scene è in grado con estrema eleganza e naturalezza di catalizzare su di sé tutti i riflettori. Quando lei è sulla scena la pellicola di Laura Luchetti letteralmente risplende. Il personaggio di Deva Cassel riesce a essere eterea come una musa, sfrontata come una cortigiana, emancipata e indipendente come una donna moderna, dolente e timorosa come una donna matura e ferita. La sua è una evoluzione sorprendente, che affascina anche nel modo in cui i suoi molti cambiamenti sembrino accompagnare il passare delle stagioni, in una Torino post bellica in bilico tra industrie e luoghi d’arte, luoghi di potere e case di operi come quella di Ginia. In qualche modo è come se Amelia stessa diventasse una rappresentazione dei molti volti della città. Gli altri personaggi sulla scena ruotano un po’ come astri intorno a lei, di fatto rafforzandone desideri e timori, ma il personaggio di Genia, interpretato dalla brava Yile Yara Vianello è l’unico che in qualche modo riesce a svelare il volto più autentico di Amelia, permettendole di essere una persona al di là di un simbolo. Succede perché il viaggio interiore di Genia, sebbene più discreto, va a ripercorrere, con spirito di libertà e scoperta, ma anche con affetto sincero, alcune delle molte “tappe” della vita di Amelia. È un percorso parallelo e non giudicante che davvero mette un personaggio nei panni dell’altro, permettendo all’altro di specchiarsi nella sua vita per la prima volta. Yile Yara Vianello e Deva Cassel trovano sulla scena la giusta chimica perché questo avvenga in modo naturale, quanto realistico e doloroso. Il dialogo che si instaura tra le due ha qualcosa di magico, infantile quanto sincero, come quello degli sfrontati e seducenti Dreamers di Bertolucci. Un po’ intercambiabili gli interpreti dei due pittori Bohemian, che perennemente in bilico tra libertà artistica e necessità economica si trastullano svogliatamente, con perenne insoddisfazione e cinismo, tra una donna e l’altra. Simulacri di un’arte sfarzosa quanto per lo più vuota, i due non riescono mai a evolvere al di là delle loro pulsioni. Più interessante ma poco esplorato il personaggio del fratello di Ginia, figlio come lei di una famiglia nata lontano dalla città, ora contribuisce allo sviluppo economico della tecnologica Torino del futuro. 


La bella estate è un film che ha il difficile compito di portare sullo schermo la magia della prosa di un autore senza tempo come Pavese. Ci riesce con una sceneggiatura fresca ma che non tradisce la fonte originale, con delle scenografie e dei costumi simili a dei quadri, con una fotografia che trasforma Torino in un luogo magico, ma soprattutto con una interprete straordinaria come Deva Cassel. Brava anche Yile Yara Vianello, mentre gli altri attori risultano molto più in ombra e i loro personaggi, seppur “adeguati al ruolo”, non brillano troppo per introspezione. 

Il film di Laura Luchetti è un'opera interessante, rispettosa e moderna, che mette in luce le capacità di una giovane regista che con il tempo sta diventando sempre più brava. 

Talk0

sabato 26 agosto 2023

La lunga corsa: la nostra recensione della favola “carceraria” della Tucker Film, diretta da Andrea Magnani

Siamo nell’Italia del nord est, in un luogo surreale e sospeso nel tempo. Tra le mura del carcere “63”, dove il sole arriva solo attraverso finestre con le sbarre e i detenuti e guardie vivono in perenne attesa ”di qualcosa di diverso” nasce con il nome di un fiorellino il piccolo Giacinto. È un bambino dai capelli neri e lo sguardo solare, molto affettuoso e che subito viene amato da tutti. Da tutti tranne che dai suoi genitori, una coppia di detenuti senza scrupoli che farebbero di tutto per evadere e che infatti, appena possono, usano il figlio per “rapirlo” e scappare, dandosi alla macchia. Giacinto viene invece riportato a vivere in carcere, perché in fondo è lì la sua casa e lì risiede la sua strana “famiglia allargata”. Gli vogliono bene gli agenti come, a debita distanza, gli vogliono bene anche i detenuti. È una specie di mascotte e viene ricoperto di attenzioni e pupazzetti. Tutti i tentativi di portarlo in una casa famiglia sono disastrosi, con il piccolo Giacinto che, pur di tornare velocemente tra le mura penitenziarie, arriva ad assestare controvoglia un bel pugno sul naso a un incredulo e panciuto poliziotto locale, che nel posto più pacifico del mondo pattuglia il territorio su una monoruota. Giacinto torna in carcere, ne esce il giorno dopo e cerca lo stesso poliziotto per dargli un nuovo pugno, fino a che una guardia (Giovanni Calcagno) decide di dargli tutti i mezzi per poter vivere in carcere senza “dare pugni”: instradandolo a diventare una guardia carceraria. La guardia, che da sempre ha preferito anche lei il carcere al mondo esterno, è contenta e Giacinto cresce indossando l’uniforme (ha ora il volto di Adriano Tardiolo, già visto nel 2018 in Lazzaro felice), diventa anche lui guardia e subito viene accettato nei ranghi dalla bizzarra direttrice “da un occhio solo” (Barbara Bobulova). Anche la direttrice è contenta di lui, ma vuole che ogni tanto il ragazzo esca dal carcere per fare qualcosa di diverso, anche solo per tenere compagnia all’anziano padre con cui lei non riesce più ad avere un rapporto. Giacinto vive questi momenti di trasferta all’inizio indossando un’uniforme antisommossa, ma poi toglie la corazza e si affeziona all’uomo. Inizia il lavoro “vero” e le ronde, specie quelle notturne, vedono Giacinto avvicinarsi anche ai detenuti pericolosi come “Rocky” (Nina Naboka), una donna di un braccio isolato e tetro che viene dai paesi dell’est ed è confinata lì da tempo immemore. È un incontro che avviene quasi per caso, mentre il ragazzo inizia a seguire una linea rossa tracciata sul pavimento della zona di detenzione. Ha così tanta curiosità di arrivarne “alla fine” di questo misterioso filo di Arianna, che all’improvviso si trova a correre. Corre nell’incredulità generale delle altre guardie che lo seguono dalle telecamere di sorveglianza , fino a che finisce trafelato davanti a Rocky che subito lo riconosce, perché in fondo lo aveva già incontrato più volte, quando lui era ancora un bambino e in fondo anche lei da quel momento, un po’ come tutti, si è sentita per lui una “nonna”. È anziana e malmessa. Ha sulle spalle dei delitti crudeli, è rinchiusa in un corpo che la rende simile a un'enorme roccia e porta lo sguardo sempre verso il basso, torvo e  triste. I suoi occhi sono vitrei, l’espressione del volto contratta. Sa mettere soggezione Rocky, ma in un attimo riesce anche a trasmettere con pochi gestì tutta la dolcezza e fragilità del mondo. Vuole molto bene al ragazzo da quando lo rivede quel giorno e i seguenti “correre”. Giacinto corre così bene che Rocky vorrebbe che usasse tutta quella energia e spensieratezza per “evadere davvero”. Vorrebbe che potesse andare via, magari a vedere un mare che dista a pochi chilometri dal carcere ma che lei può vedere solo nei ricordi. Vorrebbe che lo facesse… “di corsa”. Così Rocky iscrive di nascosto Giacinto a una gara podistica e il giovane per la prima volta decide di “correre via” dal carcere 63 per osservare il mondo con uno scopo, per una volta senza paura. Ma Giacinto, una volta “fuori dalla sua casa”, cosa deciderà di fare? 

Avrà la forza di lasciare il suo nido con le sbarre e perdersi nel mondo? 


Dopo il colorato road movie Easy, Andrea Magnani fa tutto l’opposto e racconta una storia che si trova (quasi) “tutta nello stesso posto”, tra le mura di un carcere e nella testa dei personaggi. Personaggi rinchiusi o (auto)confinati, per pace pubblica e pace interiore, tra le mura grigie tutte uguali di un labirinto sociale, nel quale cercare un senso alla propria vita che diviene simile a un filo di Arianna. Il Giacinto di Adriano Tardiolo, tratteggiato felicemente a mezza via tra L’uomo di acqua dolce di Antonio Albabese e Forrest Gump di Hanks (e in fondo anche “fratello” del suo Lazzaro felice), diventa per gli altri personaggi sulla scena un po’ quel filo di Arianna: tutti cercano in qualche modo di essergli di supporto, garantendosi al contempo da lui un piccolo “sostegno”, e questo crea meccaniche interessanti in quanto il nostro eroe, nato in prigione e senza voglia di uscirvi, è sempre “imprevedibile” nella sua sconcertante costanza e gentilezza, quanto nel modo impacciato, da eterno bambino, con cui affronta anche gli aspetti più piccoli della sua strana vita, “confortevolmente ciclica” quanto grigia. I personaggi di Giovanni Calcagno e di Barbara Bobulova cercano per “proteggerlo” di sommergerlo di regole e responsabilità, la detenuta impersonata dalla straordinaria Nina Naboka cerca di incanalare (e rimirare) ogni scintilla di libertà che Giacinto riesce spontaneamente a liberare. La lunga corsa è idealmente il “lato opposto della medaglia” rispetto alla coloratissima e ariosa pellicola precedente di Magnani, ma è al contempo di nuovo un film sulle radici e sulla ricerca di affetto, anche se forse dall’animo più “psicanalitico”, personale e onirico. Un film velato di una gustosa patina surreale quanto “fiabesca” che in più aspetti, descrittivi ma a volte pure visivi, ricorda felicemente i luoghi e personaggi da “libro di illustrazioni” del cinema di Wes Anderson. Colori  e personaggi che vengono debitamente “fusi” in un'atmosfera stilizzata, quasi da commedia surreale orientale, che rendono La lunga corsa “simile a un manga” quanto ad alcune pellicole dell’estremo Oriente. 


Un Oriente  che ogni anno arriva nel nord est dell’Italia tramite il Far East Film Festival di Udine, evento dal quale è nata la casa di produzione di questa pellicola, la Tucker Film. Una Tucker che anche in ottica di “scambio culturale” è passata dal distribuire pellicole di Johnnie To e Tsui Hark a creare questi straordinari ibridi, tra il cinema del nord est e quello del “far” est, che sono a tutti gli effetti una ventata di aria fresca, forse il cinema del futuro. Nei suoi 88 minuti La Lunga Corsa si dimostra un’opera carica di idee e dalla personalità unica, ma nella seconda parte il film non riesce a trovare la giusta chiave che lo accompagni sino al finale, con il personaggio di Tardiolo che forse per troppo tempo (magari per indecisioni di trama) rimane quasi una sfinge indecifrabile. Il messaggio di “libertà e identità” arriva forte grazie soprattutto all'interpretazione eccelsa di Nina Naboka, un’attrice che solo con lo sguardo si dimostra in grado di trasmettere storia, dolore, rabbia e fragilità. I momenti in cui lei è sulla scena sono particolarmente intensi e rimangono impressi nella memoria anche a fine visione. La lunga corsa non è un film esente da difetti ma è pieno di idee, di grandi attori, di voglia di raccontare attraverso linguaggi nuovi. È un’ulteriore lodevole dimostrazione della volontà di Tucker film di tracciare coordinate nuove nel cinema italiano e la conferma che anche in Italia si possono trovare storie originali e interessanti. 

Talk0

venerdì 25 agosto 2023

Wolfkin (Kommunion): la nostra recensione dell’horror sulla “fanciullezza delle creature feroci”, diretto da Jacques Molitor e in uscita il 24 agosto

Bruxelles, ai giorni nostri. Martin (Victor Dieu) morde. Forse perché è piccolo e sta ancora mettendo i denti, forse perché non riesce ancora a comunicare o difendersi in altro modo dagli altri bambini, ma il risultato non cambia. Quando è a scuola si isola, si nasconde nelle zone buie dell’area giochi o della palestra, tra palline colorate e pupazzi. Aspetta e tende lì degli agguati: sul collo, silenziosamente, voracemente, quasi senza pietà. Morsi “non per gioco”, che strappano la pelle e puntano alla polpa. Dopo i primi casi non è più un modo di scherzare o socializzare: è per Martin quasi sopravvivenza, fame.

Da dove viene però questa fame? Il padre, scomparso misteriosamente dopo aver scoperto che la compagna era incinta, era un uomo libero incontrato per caso, che amava la pace e la natura e odiava la sua famiglia. La madre, Elaine (Louise Manteau) è una persona ordinaria e per bene, una amorevole e sola ragazza-madre sempre presente, attenta, premurosa e preoccupata. I medici parlano di qualcosa di strano in Martin, forse a livello genetico, così Elaine decide di incontrare per la prima volta la famiglia Urwald, i suoceri che il padre non voleva farle conoscere, l’austera Adrienne (Marja-Leena Junker) e il silenzioso Joseph (Marco Lorenzini). Questi vivono insieme al brutale figlio Jean (Jules Werner) alla fine di un lungo viaggio tra il verde, in una residenza che pare un castello, fuori dal tempo e lo spazio. Dei nonni nobili, molto religiosi, dai modi di fare strani quanto quasi inquietanti. Degli sconosciti per un figlio che ora a Elaine appare altrettanto sconosciuto, indecifrabile. Amano la caccia e i fucili, considerano le donne quasi al pari di animali, vestono il pizzo insieme allo sguardo torvo, indossano il lusso con eleganza e sdegno. Cucinano però un ottimo e misterioso pasticcio di carne, che è quanto il ragazzino riesce a ingurgitare restando poi per qualche ora quasi normale, riuscendo a sopprimere quella sete che lo porta a mordere di continuo gli altri esseri umani. C’è anche un medico “di corte”, che assiste gli Urwald nei momenti più difficili e terrificanti che la loro “maledizione”, o “corredo genetico”, li porta ciclicamente a vivere. Con il suo aiuto, strumenti chirurgici e strani infusi, si riescono a togliere dalla bocca del bambino dei denti abnormi e aguzzi come quelli di un orso. I nonni sembrano conoscere bene la doppia natura del nipote. Sembrano anche amorevoli nei suoi confronti, come Elaine vorrebbe. Ma i pochi giorni che la madre passa al castello sono spaventosi: quelle persone non sembrano solo “strane”, sembrano non essere “umane”. La donna scappa e cerca di riportare in fretta il figlio alla realtà, dopo che lo trova per l’ennesima volta tra le stanze del castello dei nonni, legato, in quella che sembra una camera per le torture. Madre e figlio corrono via mentre gli Urwald sorridono e dicono di “stare calmi”, che “va tutto bene”. Tornati madre e figlio a Bruxelles senza essere inseguiti, nella loro vera casa, la pace dura poco. Il bambino non mangia, le cure del medico “di famiglia” non fanno più effetto, la fame torna a esplodere. Elaine deve fare infine i conti con la reale natura del figlio e su quanto è disposta a fare per continuare ad amarlo. Servono di nuovo i nonni e il loro magnifico pasticcio di carne, le cure e l’aria del castello. Tutto, purché il bambino torni a essere tranquillo. Almeno per poco.


Cosa ci rende davvero “figli”: la genetica o l’amore? È con questo interrogativo, che secondo le dichiarazioni stampa scava anche nella storia personale del regista, che Jacques Molitor confeziona una favola horror, gotica quanto delicata, introspettiva e intelligente quanto, sorprendentemente, nelle fasi finali, splatter, crudele e disperata come un film di Mario Bava. Ci sono i castelli ma anche le cameriere con l’accetta, l’amore libero quasi da “figli dei fiori” e la vita randagia, le grandi tradizioni nobiliari come la caccia alla volpe ma anche “l’orrido pasto” dell’ultimo banchetto al castello. In una cornice così continuamente ondivaga tra sogno e incubo Molitor ci parla di bambini, uomini e “lupi” in un modo simile a quello scelto da Tomas Alfredson per “reinventare” i vampiri in Lasciami entrare


I “mostri” classici del genere horror diventano con un linguaggio semplice e comprensibile anche ai più piccoli (ma non per questo edulcorato come negli young adult) lo strumento migliore per raccontare una storia di inclusione ed esclusione sociale, dove gli “spettri” di un’Europa che in parte non si è ancora affrancata dai sogni di grandezza della “razza” e del “sangue” diventano attuali. Anche a dispetto di una modernità che spesso li nasconde fin troppo bene sotto il tappeto, raccontandoci (specie nei prodotti in streaming)  di un mondo spesso “troppo bello” per essere reale, dove non esistono conflitti, caste e confini e tutto è specchiato e politicamente corretto. È interessante quindi che siano usciti in cartellone negli ultimi mesi, nelle “sale giuste”, film come Animali Selvatici, Ad Bestas e questo Wolfkin, che pur in modi diversi ci presentato una umanità ancora (propedeuticamente) confusa, irrisolta e per questo intenzionata oltremodo a “farsi domande”, partendo “quasi dal principio”: esplorando nel 2023 i confini tra l’umano e l’animale. È quindi l’amore materno, che spesso è elemento che accomuna di fatto uomo e animale, il cuore pulsante di una vicenda che, come Babadook, non si vergogna a mettere in scena famiglie problematiche, crudeli e bizzarre, quanto nei fatti sorprendentemente reali. È un amore che, nei rivoli della trama, può di volta in volta essere confuso con la “proprietà esclusiva” di una persona. È un amore che combatte contro una malattia terribile e apparentemente senza uscita (orchestrata da effetti speciali che ricordano in positivo il lavoro di Rick Baker in Un Lupo mannaro americano a Londra). È un amore che cresce tra impotenza, compromessi, piccole gioie e dolori (per certi versi quasi sposando la filosofia del Wolf Children di Hosoda). È un amore che viene al meglio raccontatoci grazie ad attori molto azzeccati come la brava Louise Manteau e il giovane e silenzioso Victor Dieu, a tutti gli effetti una piccola diade, un’isola (quasi) felice in un mondo quasi prosciugato dall’amore, dove il “cuore” è solo un muscolo che deve pompare tanto sangue, garantendosi meccanicamente e unicamente sopravvivenza e discendenza. Un mondo pieno di mostri tutti spaventosamente convincenti, che vivono ricoperti da sorrisi gentili. Mostri dai quali è sempre giusto guardarsi bene, come Cappuccetto Rosso insegna. L’opera di Molitor affascina, fa riflettere ed è presentata in una buona cornice, al netto di uno spettacolo lento ma nell’insieme riuscito, pur risultando in molti aspetti visivi e narrativi “derivativo”. Gli “omaggi” al più celebre lupo mannaro di Landis (ma non solo) sono diversi, anche se apprezzabili. Molto bravi tutti gli attori coinvolti, splendide le location, riuscita l’atmosfera da film horror anni '70/'80. Una bella favola nera della buona notte belga. 

Talk0

lunedì 21 agosto 2023

Passages: la nostra recensione del film di Ira Sachs

Parigi dei giorni nostri, nei pressi di una accademia d’arte cinematografica. Il tedesco Tomas (Franz Rogowski) è un ragazzo sulla trentina nervoso e passionale, umorale quanto malinconico, sempre alla continua ricerca di stimoli e stress, che cerca di combattere correndo con la sua bici da corsa per le strade della città, spesso tra il traffico notturno. È un giovane regista di successo e sente gli obiettivi e aspettative di tutti perennemente puntati su di lui. Si trova al centro della scena e cerca di dirigerla spesso “sopravvivendo”, tra mille equilibrismi, manipolazioni e ricatti morali. Trovandosi scomodamente a essere un punto di riferimento per gli studenti quanto per i suoi attori, Tomas si appoggia da sempre al suo compagno di vita, il riservato e tranquillo tipografo di origine inglese inglese Martin (Ben Whishaw), ma non riesce mai a stare fermo, è alla continua e bulimica ricerca di passioni forti. Così una sera, sfoggiando una maglia trasparente di colore nero e risentendo della stanchezza del suo partner, Tomas finisce con sedurre la giovane insegnante francese Agathe (Adele Exarchopoulos). Tra i due nasce una passione che presto diventa irresistibile, consumandosi prima di nascosto tra gli angoli dell’Accademia e poi in modo sempre più esplicito, fino a che il regista arriva a incontrare la famiglia della ragazza. Nel frattempo Tomas però non rinuncia alla vita di coppia, noiosa quanto “salvificamente” riservata, che ancora intrattiene con Martin. Martin gli dà spazio, Agathe no. Martin è il suo “ex” e al contempo il suo salvagente, ma presto la situazione è destinata a cambiare. Quando le relazioni dopo un continuo ping pong andranno a collidere e il giovane regista non riuscirà più a dirigere la sua vita, con le stesse alchimie e trucchi con cui comanda fermamente dietro alla macchina da presa. Tomas per la prima volta si troverà a non essere più il protagonista assoluto delle sue storie e questo finirà quasi per distruggerlo.


Il regista, sceneggiatore e produttore cinematografico americano Ira Sachs, porta in scena una pellicola intelligente quanto cruda, per sua ammissione dai tratti molto autobiografici, in cui esprime la sua voglia di portare in scena, anche dolorosamente,  alcune meccaniche del suo rapporto di coppia con il pittore Boris Torres. Ne esce un film controverso e controcorrente che nel momento storico di maggiore “etichettamento dei sentimenti”, dove ogni dichiarazione di affetto e scelta di orientamento sessuale è narrativamente quasi un manifesto politico, naviga coraggiosamente e spericolatamente in senso opposto, portando sotto il riflettore, tra contraddizioni e fragilità umane, il fatto che in amore il caos è sempre “possibile” quanto imprevedibile, creativo quanto distruttivo. È un caos inevitabile nella misura in cui le persone stesse sono fallaci, caotiche e spesso confuse, dal modo in cui l’amore travolge le loro vite trovandole magari impreparate, immature o ingenue. Anche nel caso che queste persone siano di fatto degli ottimi “architetti di relazioni”. Così, dopo aver  assistito in sala, poco tempo fa, al divertente e malinconico, bellissimo e ironico, Peter Von Kant di Francois Ozon, ora, con il nuovo film di Ira Sachs,  torniamo su una storia che parla di registi, sospesi tra arte e realtà, finzione e passione. Franz Rogowski, recentemente  apprezzato nel Disco Boy di Giacomo Abbruzzese e in Freaks Out di Gabriele Mainetti, seduttivo ma forse troppo magro, dagli occhi quasi febbricitanti, dà vita a un personaggio iperattivo, scostante, mentitore quanto ossessionato dal controllo della sua vita. È un uomo fragile che si ammanta di una instabile sicurezza, coperta dalla sua capacità di incantare gli altri e fargli credere di essere il loro centro del mondo. Almeno fino a che il trucco tiene. A differenza del Von Kant interpretato da Dennis Menochet, il Tomas di Rogowski è però un personaggio più cupo e meno autoironico, al limite dell’anaffettivo. Un personaggio costantemente spinto dalle sue pulsioni a passare da una relazione all’altra, quasi che questi “passaggi” costituiscano una sorta di droga, una costante sfida per trovare piacere.  Tomas è perennemente in fluttuazione, precario, sospeso tra la casa di Martin, interpretato da Ben Whishaw come un uomo silenzioso e passivo, e Agathe interpretata da Adele Exarchopoulos come una donna passionale quando parecchio “arrabbiata” dalla piega degli eventi. Tomas sceglie per molto tempo di “non scegliere” e motiva la sua perenne corsa in bici, tra la casa di Ben e Adele, per lo più solo come una ricerca tossica di sesso. Più che “fluidità” si potrebbe parlare di piacere egoistico a tutto tondo, perché Tomas non costruisce mai qualcosa nelle relazioni, ma anzi cerca solo la sua soddisfazione personale ad essere desiderato. I “grandi progetti di vita” vengono sempre e comunque dopo i suoi personali film da regista, con Adele e Ben che quasi diventano intercambiabili, almeno fino a che “esplodono”. I due esplodono, ma non possono forse fare altrimenti quando scoprono di essere stati trattati per lo più come affascinanti gusci vuoti. Nella scrittura di Sachs c’è molta amarezza per questa condizione umana e l’autore non fa sconti (autobiograficamente neanche a se stesso), così come Rogowski sceglie con la sua interpretazione di non edulcorare la pillola, presentandoci un personaggio affascinante ma anche sgradevole, che gira su se stesso più volte, alla continua ricerca di attenzioni e sesso. Il sesso è quasi l’unica “struttura emotiva/relazionale” chiara al personaggio di Tomas, perché nelle conversazioni interpersonali il nostro protagonista annaspa, quasi irritandosi davanti alle domande dei futuri “suoceri” e fallendo miseramente in ogni tentativo di mediazione tra Ben e Agathe. Il sesso “va bene” ed è per questo quanto ci viene rappresentato dal film nella forma più chiara e compiuta, anche grazie alla fotografia di Josee Deshaies, che in questi frangenti si fa subito calda e accogliente, in diretto contrasto con i colori freddi che caratterizzano la maggior parte delle scene, con colori che diventano quasi metallici quando accompagnano Tomas nei suoi viaggi notturni in bici, tra voglia di sfogo e fuga dai problemi del reale, alla ricerca della nuova “fluttuazione”, di un nuovo tossico “passaggio” emozionale. 


Passages è un film sensuale, notturno, freddo, ruvido, poco accomodante e problematico, crudo e “disilluso”. È un film sulla difficoltà di amare, se non proprio sulla impossibilità di amare in assenza di una adeguata maturità emotiva. È un film sulla illusione ed ebbrezza di poter vivere sospinti tra continue passioni travolgenti, trattando gli altri alla stregua di oggetti di piacere, senza fare mai i conti con i reali sentimenti delle persone. Il film di Ira Sachs, tra caldi amplessi e glaciali rappresentazioni umane, riempie di domande e sa stimolare: invita a riflettere, seduce e assesta un bel pugno in pancia a chi crede troppo nelle favole che dicono che l’amore è fatto di sola passione. Ottimi gli interpreti, algidi gli scenari della Parigi notturna in cui sono ambientati gli eventi, bollenti i colori che accompagnano le passioni più forti che condividono i protagonisti. Passages è un viaggio emotivo e visivo in una terra fatta di troppa passione e poco amore reale. È un film duro, ma di cui c’era bisogno.  

Talk0