Torino, in una calda domenica che potrebbe essere del 1940. L’estate toglie il respiro e presso le sponde verdeggianti dei corsi d’acqua si assiepano con i cestini da pranzo, per cercare refrigerio e godere della brezza pomeridiana, persone che sembrano uscite da un quadro di Georges Seurat: Una domenica pomeriggio all’isola della Grande-Jatte. Sulla riva ci sono tutti, nobili e proletari, dame e operaie. C’è tra loro Ginia (Yile Yara Vianello), una giovane ragazza dall’aria gentile ma poco avvenente, che è partita dalla campagna per venire a lavorare alla maglia per una importante casa sartoriale torinese. Ginia è accompagnata da un'amica e dal fratellino Severino, che ogni sera accende le luci di ogni lampione della città per conto della società del gas. L’aria è festosa, piena di chiacchiere e risate, ma tutto quasi si tace quando da una barca si tuffa in acqua, con un vestito bianco lungo, Amelia (Deva Cassel). È una ragazza dai capelli scuri e dallo sguardo magnetico, sorridente e felice come una bambina. Riemerge sulla riva vicino a Ginia come una Venere, con l’abito ormai trasparente. Da un’atmosfera simile a un quadro di Georges Seurat di colpo sembra di trovarsi nella più seducente cornice della Colazione sull’erba di Manet. Le due giovani si scambiano uno sguardo e accade qualcosa di magico quanto seducente. È l’inizio di una relazione profonda quanto forse inopportuna, trasgressiva. Amelia è una modella che spesso si offre di posare nuda per i pittori che frequentano i locali più ricchi ed esclusivi di Torino. Ha avvenenza e per questo ha molti clienti ricchi e facoltosi, ma ama passare il tempo anche con i “veri artisti”, gli autori più giovani e scapestrati, bohémien che vivono tra alcol e assenzio, sesso e sregolatezze. È in una delle bettole adibite a studio da questi giovani passionali che Ginia incontra Guido e Rodriguez, iniziando insieme ad Amelia una frequentazione curiosa, sensuale quanto “disdicevole”. Ginia arriva sempre più tardi al lavoro e rischia di perderlo. Passa il tempo a camminare per le strade e i parchi di Torino insieme ad Amelia invece che rincasare. Finisce senza invito in feste di lusso e decide infine di posare anche lei nuda, per persone che si interessano a lei solo per il suo corpo. La modella, che ammira profondamente l’amica per la sua capacità di creare vestiti bellissimi, per la spontaneità di parlare e la sua bellezza semplice e genuina, inizia a metterla in guardia, dai fin troppi pericoli che quelle affascinanti frequentazioni e in genere la vita notturna di Torino comportano. È disposta anche ad allontanarla da lei, se questo è l’unico modo per salvarla da una spirale sempre più autodistruttiva. C’è un prezzo alto da pagare, specie quando una stagione calda e spensierata come l’estate, come la giovinezza, finisce prima del tempo.
Cesare Pavese pubblicava nel 1949, per l’editore Einaudi di Torino, una raccolta di tre racconti realizzati in diversi periodi temporali, che prendevano il titolo dal primo di questi, La Bella estate. Il libro, le cui storie raccontavano tutte in qualche modo la perdita dell’innocenza nel passaggio all’età adulta, incontrava molto successo di critica e pubblico e vinceva nel 1950 il prestigioso Premio Strega. La narrazione di questa opera, successiva alla produzione dell’autore legata al periodo bellico e alla resistenza, era “leggera”, “al femminile”, ma non priva di asprezze, raccontando di una gioventù che dopo le guerre mondiali e le loro mille ristrettezze era “febbricitante” nella sua voglia di cambiamento, festa e trasgressione alle regole. In nome è per conto di una libertà rimasta a lungo repressa.
[…]A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che succedesse qualcosa, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all'improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline […]
Pavese parlava di frenesia ma anche della disillusione che “segue alla festa”, del drammatico e doloroso ritorno al reale e al “socialmente accettabile” che gli uomini e le donne subiscono a volte anche solo meccanicamente, con l’arrivo delle stagioni meno radiose della propria esistenza, come delle malattie. Momenti di ristrettezza dalle libertà che devono in ogni caso essere accettati e accolti come un passaggio naturale.
[…] della mia infanzia non restava altro che l’estate. Le vie strette che spuntavano dai campi da ogni parte, di giorno e di sera, erano i cancelli della vita e del mondo […]
Ma tra tante “luccicanti” parole di frenesia e pari afflati di malinconia, l’opera diveniva ulteriormente interessante quando trovava la sua sintesi positiva tra “illusione e disillusione”, tra la “libertà di trasgredire” dell’età giovanile e il “senso del dovere” dell’età adulta. Ciò avveniva attraverso un non banale sviluppo delle due protagoniste, che diventavano (anti)eroine in grado di utilizzare la loro forza per smarcarsi e smascherarsi dai rispettivi ruoli sociali. Descrivendo questo aspetto di crescita ed emancipazione Pavese risulta ancora oggi estremamente moderno, attuale e fresco e pertanto assolutamente degno di essere nuovamente celebrato da una pellicola .
La bella estate è un’opera scritta e diretta da una regista molto giovane e dal linguaggio moderno, di recente distintasi per una serie tv originale come Nudes. Ma forse proprio in virtù della modernità dell’opera di Pavese non sembra strano che la Luchetti si sia convinta a dirigere quella che è di fatto un’opera in costume.
Un’opera che, dove non può godere della capacità espressiva unica del poeta, si ammanta della bellezza di scenografie e costumi che trasformano la vicenda (che rimane molto simile alla sua forma originale) in una serie di “quadri“, che richiamano Seurat come Manet, come altri grandi autori. Sul piano della scelta delle interpreti, la giovane figlia di Vincent Cassel e Monica Bellucci si dimostra particolarmente felice. La sua Amelia fin dalle sue primissime scene è in grado con estrema eleganza e naturalezza di catalizzare su di sé tutti i riflettori. Quando lei è sulla scena la pellicola di Laura Luchetti letteralmente risplende. Il personaggio di Deva Cassel riesce a essere eterea come una musa, sfrontata come una cortigiana, emancipata e indipendente come una donna moderna, dolente e timorosa come una donna matura e ferita. La sua è una evoluzione sorprendente, che affascina anche nel modo in cui i suoi molti cambiamenti sembrino accompagnare il passare delle stagioni, in una Torino post bellica in bilico tra industrie e luoghi d’arte, luoghi di potere e case di operi come quella di Ginia. In qualche modo è come se Amelia stessa diventasse una rappresentazione dei molti volti della città. Gli altri personaggi sulla scena ruotano un po’ come astri intorno a lei, di fatto rafforzandone desideri e timori, ma il personaggio di Genia, interpretato dalla brava Yile Yara Vianello è l’unico che in qualche modo riesce a svelare il volto più autentico di Amelia, permettendole di essere una persona al di là di un simbolo. Succede perché il viaggio interiore di Genia, sebbene più discreto, va a ripercorrere, con spirito di libertà e scoperta, ma anche con affetto sincero, alcune delle molte “tappe” della vita di Amelia. È un percorso parallelo e non giudicante che davvero mette un personaggio nei panni dell’altro, permettendo all’altro di specchiarsi nella sua vita per la prima volta. Yile Yara Vianello e Deva Cassel trovano sulla scena la giusta chimica perché questo avvenga in modo naturale, quanto realistico e doloroso. Il dialogo che si instaura tra le due ha qualcosa di magico, infantile quanto sincero, come quello degli sfrontati e seducenti Dreamers di Bertolucci. Un po’ intercambiabili gli interpreti dei due pittori Bohemian, che perennemente in bilico tra libertà artistica e necessità economica si trastullano svogliatamente, con perenne insoddisfazione e cinismo, tra una donna e l’altra. Simulacri di un’arte sfarzosa quanto per lo più vuota, i due non riescono mai a evolvere al di là delle loro pulsioni. Più interessante ma poco esplorato il personaggio del fratello di Ginia, figlio come lei di una famiglia nata lontano dalla città, ora contribuisce allo sviluppo economico della tecnologica Torino del futuro.
La bella estate è un film che ha il difficile compito di portare sullo schermo la magia della prosa di un autore senza tempo come Pavese. Ci riesce con una sceneggiatura fresca ma che non tradisce la fonte originale, con delle scenografie e dei costumi simili a dei quadri, con una fotografia che trasforma Torino in un luogo magico, ma soprattutto con una interprete straordinaria come Deva Cassel. Brava anche Yile Yara Vianello, mentre gli altri attori risultano molto più in ombra e i loro personaggi, seppur “adeguati al ruolo”, non brillano troppo per introspezione.
Il film di Laura Luchetti è un'opera interessante, rispettosa e moderna, che mette in luce le capacità di una giovane regista che con il tempo sta diventando sempre più brava.
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