Bruxelles, ai giorni nostri. Martin (Victor Dieu) morde. Forse perché è piccolo e sta ancora mettendo i denti, forse perché non riesce ancora a comunicare o difendersi in altro modo dagli altri bambini, ma il risultato non cambia. Quando è a scuola si isola, si nasconde nelle zone buie dell’area giochi o della palestra, tra palline colorate e pupazzi. Aspetta e tende lì degli agguati: sul collo, silenziosamente, voracemente, quasi senza pietà. Morsi “non per gioco”, che strappano la pelle e puntano alla polpa. Dopo i primi casi non è più un modo di scherzare o socializzare: è per Martin quasi sopravvivenza, fame.
Da dove viene però questa fame? Il padre, scomparso misteriosamente dopo aver scoperto che la compagna era incinta, era un uomo libero incontrato per caso, che amava la pace e la natura e odiava la sua famiglia. La madre, Elaine (Louise Manteau) è una persona ordinaria e per bene, una amorevole e sola ragazza-madre sempre presente, attenta, premurosa e preoccupata. I medici parlano di qualcosa di strano in Martin, forse a livello genetico, così Elaine decide di incontrare per la prima volta la famiglia Urwald, i suoceri che il padre non voleva farle conoscere, l’austera Adrienne (Marja-Leena Junker) e il silenzioso Joseph (Marco Lorenzini). Questi vivono insieme al brutale figlio Jean (Jules Werner) alla fine di un lungo viaggio tra il verde, in una residenza che pare un castello, fuori dal tempo e lo spazio. Dei nonni nobili, molto religiosi, dai modi di fare strani quanto quasi inquietanti. Degli sconosciti per un figlio che ora a Elaine appare altrettanto sconosciuto, indecifrabile. Amano la caccia e i fucili, considerano le donne quasi al pari di animali, vestono il pizzo insieme allo sguardo torvo, indossano il lusso con eleganza e sdegno. Cucinano però un ottimo e misterioso pasticcio di carne, che è quanto il ragazzino riesce a ingurgitare restando poi per qualche ora quasi normale, riuscendo a sopprimere quella sete che lo porta a mordere di continuo gli altri esseri umani. C’è anche un medico “di corte”, che assiste gli Urwald nei momenti più difficili e terrificanti che la loro “maledizione”, o “corredo genetico”, li porta ciclicamente a vivere. Con il suo aiuto, strumenti chirurgici e strani infusi, si riescono a togliere dalla bocca del bambino dei denti abnormi e aguzzi come quelli di un orso. I nonni sembrano conoscere bene la doppia natura del nipote. Sembrano anche amorevoli nei suoi confronti, come Elaine vorrebbe. Ma i pochi giorni che la madre passa al castello sono spaventosi: quelle persone non sembrano solo “strane”, sembrano non essere “umane”. La donna scappa e cerca di riportare in fretta il figlio alla realtà, dopo che lo trova per l’ennesima volta tra le stanze del castello dei nonni, legato, in quella che sembra una camera per le torture. Madre e figlio corrono via mentre gli Urwald sorridono e dicono di “stare calmi”, che “va tutto bene”. Tornati madre e figlio a Bruxelles senza essere inseguiti, nella loro vera casa, la pace dura poco. Il bambino non mangia, le cure del medico “di famiglia” non fanno più effetto, la fame torna a esplodere. Elaine deve fare infine i conti con la reale natura del figlio e su quanto è disposta a fare per continuare ad amarlo. Servono di nuovo i nonni e il loro magnifico pasticcio di carne, le cure e l’aria del castello. Tutto, purché il bambino torni a essere tranquillo. Almeno per poco.
Cosa ci rende davvero “figli”: la genetica o l’amore? È con questo interrogativo, che secondo le dichiarazioni stampa scava anche nella storia personale del regista, che Jacques Molitor confeziona una favola horror, gotica quanto delicata, introspettiva e intelligente quanto, sorprendentemente, nelle fasi finali, splatter, crudele e disperata come un film di Mario Bava. Ci sono i castelli ma anche le cameriere con l’accetta, l’amore libero quasi da “figli dei fiori” e la vita randagia, le grandi tradizioni nobiliari come la caccia alla volpe ma anche “l’orrido pasto” dell’ultimo banchetto al castello. In una cornice così continuamente ondivaga tra sogno e incubo Molitor ci parla di bambini, uomini e “lupi” in un modo simile a quello scelto da Tomas Alfredson per “reinventare” i vampiri in Lasciami entrare.
I “mostri” classici del genere horror diventano con un linguaggio semplice e comprensibile anche ai più piccoli (ma non per questo edulcorato come negli young adult) lo strumento migliore per raccontare una storia di inclusione ed esclusione sociale, dove gli “spettri” di un’Europa che in parte non si è ancora affrancata dai sogni di grandezza della “razza” e del “sangue” diventano attuali. Anche a dispetto di una modernità che spesso li nasconde fin troppo bene sotto il tappeto, raccontandoci (specie nei prodotti in streaming) di un mondo spesso “troppo bello” per essere reale, dove non esistono conflitti, caste e confini e tutto è specchiato e politicamente corretto. È interessante quindi che siano usciti in cartellone negli ultimi mesi, nelle “sale giuste”, film come Animali Selvatici, Ad Bestas e questo Wolfkin, che pur in modi diversi ci presentato una umanità ancora (propedeuticamente) confusa, irrisolta e per questo intenzionata oltremodo a “farsi domande”, partendo “quasi dal principio”: esplorando nel 2023 i confini tra l’umano e l’animale. È quindi l’amore materno, che spesso è elemento che accomuna di fatto uomo e animale, il cuore pulsante di una vicenda che, come Babadook, non si vergogna a mettere in scena famiglie problematiche, crudeli e bizzarre, quanto nei fatti sorprendentemente reali. È un amore che, nei rivoli della trama, può di volta in volta essere confuso con la “proprietà esclusiva” di una persona. È un amore che combatte contro una malattia terribile e apparentemente senza uscita (orchestrata da effetti speciali che ricordano in positivo il lavoro di Rick Baker in Un Lupo mannaro americano a Londra). È un amore che cresce tra impotenza, compromessi, piccole gioie e dolori (per certi versi quasi sposando la filosofia del Wolf Children di Hosoda). È un amore che viene al meglio raccontatoci grazie ad attori molto azzeccati come la brava Louise Manteau e il giovane e silenzioso Victor Dieu, a tutti gli effetti una piccola diade, un’isola (quasi) felice in un mondo quasi prosciugato dall’amore, dove il “cuore” è solo un muscolo che deve pompare tanto sangue, garantendosi meccanicamente e unicamente sopravvivenza e discendenza. Un mondo pieno di mostri tutti spaventosamente convincenti, che vivono ricoperti da sorrisi gentili. Mostri dai quali è sempre giusto guardarsi bene, come Cappuccetto Rosso insegna. L’opera di Molitor affascina, fa riflettere ed è presentata in una buona cornice, al netto di uno spettacolo lento ma nell’insieme riuscito, pur risultando in molti aspetti visivi e narrativi “derivativo”. Gli “omaggi” al più celebre lupo mannaro di Landis (ma non solo) sono diversi, anche se apprezzabili. Molto bravi tutti gli attori coinvolti, splendide le location, riuscita l’atmosfera da film horror anni '70/'80. Una bella favola nera della buona notte belga.
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