giovedì 29 febbraio 2024

Caracas: la nostra recensione del film su una Napoli “tra sogno e realtà” scritto, diretto e interpretato da Marco D’Amore, con co-protagonisti Toni Servillo e Lina Camelia Lumbroso

 

Ci troviamo nell’aria, a molti metri dal suolo. Si apre lo sportello del piccolo aereo e con un unico tuffo un gruppo di paracadutisti si lancia nel vuoto, coordinato e compatto, con le mani e i corpi che si cercano e incontrano per formare coreografe ordinate, arrivare a una armonia perfetta di testa e di cuore. 

Il suolo si avvicina e uno del gruppo, di grossa stazza, si stacca mentre gli altri già aprono il paracadute. 

Aspetta, vuole stare ancora “sospeso”. 

Vuole ancora per un po’ provare il brivido dello schianto. Alla fine apre ma è già tardi, la velocità è troppa e l’atterraggio è scomposto. L’uomo ruzzola male al suolo, gli altri accorrono preoccupati ma lui si rialza da solo, accartocciato ma con calma. Quando si toglie il casco ha il volto coperto di sangue, ma sorride.

È quello stesso uomo “ardito” (Marco D’Amore) che di sera percorre le strade piccole, sporche e labirintiche di un quartiere popolare di Napoli, la zona “ferrovia”, ai cui angoli si assiepa una umanità multietnica che potrebbe provenire da tutte le zone povere del mondo. 

L’uomo si addentra nei cunicoli, quasi sotto terra. Giunge fino alla tana di un gruppo di suprematisti, riuniti intorno a un tavolo da tatuatore, mentre stanno marchiando un giovane adepto con una svastica. Anche l’uomo è stato marchiato, su un braccio. Prosegue in un corridoio ancora più stretto per poi accedere a una zona più larga, dove tra il gruppo riunito in assemblea imperversa la politica e si reclama l’azione, dura e immediata. 

L’uomo è di nuovo per strada, cammina sospeso senza ascoltare i suoni e rumori, come quando era in aria. Ai suoi lati i compagni con spranghe, fuoco e catene stanno radendo al suolo ogni auto, negozio e “straniero” che gli capiti davanti: stanno ripristinando un “ordine”. 

L’uomo però sembra non reggere questo equilibrio di forze, non ce la fa a reggere alla vista di soprusi e di quello che appare come un omicidio intenzionale davanti ai suoi occhi. Cerca di opporsi al suo compagno anche se il danno è ormai fatto e la lama ha fatto il suo corso nella carne. Rimane insieme allo straniero mentre tutti fuggono, mentre quell’uomo steso lo ringrazia della sua premura, prega con lui. L’uomo piange e si sente di colpo parte di una comunità diversa. Decide di abbracciare l’Islam e frequentare persone diverse.

Al contempo arriva alla stazione di Napoli Giordano (Toni Servillo), autore di libri e saggista anziano, che ha sempre raccontato storie di Napoli ma ora non ne può più, ha deciso di appendere la penna al chiodo. 

Percorre le strade della sua infanzia, il quartiere periferico di zona stazione, quando  si imbatte in un ragazzino che viene malmenato da un branco di coetanei. lo salva e questo di tutta risposta gli ruba la borsa. 

Giordano lo rincorre tra i vicoli, fino a una casa che in qualche modo gli “è familiare”, al cui interno trova però l’uomo convertitosi all’Islam, insieme alla donna che ora ama, la marocchina tossicodipendente Jasmine (Lina Camelia Lumbroso). 

Il bambino sembra sparito o forse non è mai esistito.

L’uomo, che presto Giordano scoprirà essersi dato il nome esotico di “Caracas”, è con lui all’inizio scontroso e gli dice di andare via: che nessuno lì dentro ha visto un bambino o una borsa. Ma lo scrittore tornerà più volte in quel luogo e con il tempo annoderà in modo sempre più stretto la sua esistenza con quella di Caracas, diventato al contempo il personaggio del suo nuovo e inatteso libro. Un libro di speranza dopo tanti libri di depressione. 

Magari un libro d’amore dopo troppi libri di rabbia.

Ma tra la realtà e l’immaginazione dello scrittore iniziano sempre più a crearsi zone d’ombra e di confusione, dove tutto si mischia, tra sogno e realtà. 

Forse come il bambino anche Caracas e il suo disperato bisogno di trovare “un equilibrio”, un posto nel mondo dove dare un senso alla sua rabbia, è solo un sogno partorito dalla fantasia di Giordano. 

Un personaggio e non una persona, un mosaico costruito ad arte perché simboleggi qualcosa: magari “Napoli stessa” o magari i timori e paranoie verso cui si sta spostando il mondo intero.

Riuscirà la storia di Caracas per lo meno a trovare un bel finale?


Marco D’Amore, prendendo spunto dal romanzo Napoli Ferrovia di Ermanno Rea, ci trascina nel ventre di una Napoli labirintica, una nuova Babilonia che trovatasi di colpo incapace di amare rimane sospesa tra il caos e la necessità di inseguire “simboli di ordine”, affascinanti e accoglienti quando spesso forvianti, autodistruttivi. Tra le vie della sua infanzia, lo scrittore stanco Giordano, interpretato da un Toni Servillo come sempre straordinario, incontra o forse solo immagina di imbattersi, tra tanti volti, in Caracas. Il personaggio, interpretato del sempre più “massiccio” Marco D’amore, è quasi un anti-eroe “metafisico”, un uomo perennemente arrabbiato della propria immobilità umana e alla ricerca di mondi lontani e “scopi più alti”, ma senza la voglia di allontanarsi mai veramente dall’unico luogo che lui chiama “casa”, che vivrebbe come una sconfitta. 

Un eroe che vive per questo “sospeso”, tra i pensieri più che tra le persone, viaggiando prima attraverso il mito di famiglia, patria e padre promesso dal Duce e poi attratto in egual misura dalla spiritualità e accoglienza dell’Islam. Ma in fondo prima di tutto un uomo che in cerca di amore trovando sempre strade nuove per negarselo, che lo scrittore cercherà di guidare come può verso questa meta, seppur tra mille avversità. Uno scrittore che rivive in qualche modo in Caracas la sua vita in un quartiere difficile, prima da bambino che cerca di sopravvivere, poi da adulto confuso come Caracas, infine da “padre” di un luogo che, seppur gli anni ne hanno mutato la forma, non è variato nella sostanza e nello spirito, spigoloso ma anche accogliente. 


D’Amore rimane fedele all’opera originale, ma cerca spesso nella scrittura di destrutturarla, complicarla e “polemizzarla”. Grazie anche al montaggio di Mirko Platania scompone a puzzle alcune sequenze, viaggiando sulla continua linea di confine tra reale ed onirico, sottraendo alcuni pezzi necessari per la ricostruzione della storia ma rendendo il racconto qualcosa di più viscerale e profondo. Quasi una circolarità esistenziale. Crea così nei suoi personaggi, tanto per l’eroe che per il suo scrittore, una complessità emotiva tragica: qualcosa che ce li rende in egual modo rarefatti, malinconici e sfuggenti, quanto intimamente autentici. 

La Napoli della “zona ferrovia diventa attraverso la fotografia di Stefano Meloni e alle scenografie di Fabrizio D’Arpino un non-luogo universale, una città/mondo che potrebbe trovarsi in Italia o in Messico o a Caracas. Il comparto sonoro curato da Rodrigo D’Erasmo lavora in sottrazione, sceglie di soffermarsi con grande trasporto “naturalistico” nella descrizione dei mille rumori e suoni di questo mondo, dalla poesia delle onde di un mare percepito sempre “troppo lontano”, al suono da “percussioni” delle randellate che esplodono nell’odio sociale. Dall’estatica calma della preghiera condivisa al rimbombo della vita notturna, dai monti di “calca politica” in cui sembra partire una nuova guerra ai momenti riflessivi e quasi muti in “equilibrio” con la natura. Tutto ha un suono, compresa un’emotività dei personaggi che prende a volte il suo “spazio di sospensione” attraverso il fischio interno di un acufene. 

Caracas di Marco D’Amore è un’interessante pellicola su uno scrittore stanco e tormentato (Servillo) che cerca la sua nuova storia tra una Napoli quasi metafisica, che ama e dalla quale al contempo vuole fuggire, tra estremismi e personaggi che lui costruisce quasi a mosaico (come il Caracas di D’Amore), sovrapponendo sugli stessi più “volti e luoghi”, a volte anche lontani tra spazio, tempo e ricordo.  

D’Amore, già convincente come attore, come regista e sceneggiatore (accompagnato da Ghiaccio) reinterpreta bene il libro di Rea, cercando di destrutturarlo e scomporlo in modi anche complessi, alimentando sulla scena quasi un senso di perenne sospensione emotiva e precaria “identità”. Un senso di smarrimento sottolineato anche visivamente da una Napoli “dai mille colori e persone” che diventa lei stessa un non-luogo tra presente, passato e futuro, universale e labirintico quanto sempre uguale a se stesso, al contempo “centro e periferia del mondo”, attraverso un uso visivo quasi “emozionale” di fotografia e scenografia. 

Molto validi tutti gli attori coinvolti, buono un comparto sonoro che fa un ampio uso di rumori ambientali. D’Amore sta diventando un autore sempre più completo e interessante. Al netto di alcune imprecisioni nella gestione dei tempi nella parte centrale, questo suo lavoro risulta lodevole per costruzione e direzione degli attori. 

Un film originale e pieno di spunti di riflessione. 

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mercoledì 28 febbraio 2024

La natura dell’amore (Simple comme Sylvain): La nostra recensione della nuova commedia sentimentale scritta e diretta da Monia Chokri, autrice canadese musa di Xavier Doland

 


Il rapporto tra la docente universitaria Sophia (Magalie Lepine Blondeau) e il suo finanziato Xavier (Francis-William Rheaume), intellettuale sempre in giro per conferenze a Ottawa, si è fermato alla pompa di benzina. 

Lui seduto in auto, lei alla pompa, a fissare una coppia più felice di loro a ruoli invertiti a pochi metri. 

Lui, finisco minuto e occhialetti rotondi, ha appena tacchinato una francese di nome Josephine e ora, a casa, sembra indubbiamente intenzionato a tradire la moglie, essendo cascato nel classico giochino psicologico femminile: “Mi tradiresti con questa tizia se tu e lei doveste essere gli ultimi uomini sulla terra?”. Lui è caduto nel tranello e ha risposto di sì, anche se gli sembrava impossibile sopravvivere per un mingherlino come lui, in un’era postatomica, rispetto al nascente popolo di “uomini medi /super atleti” dedito al crossfitness. 

Ma tanto è bastato per la crisi. 

A letto, in letti separati. 

La coppia inizia a vacillare.

Il giorno dopo lui parte per congressi e lei va a supervisionare lo stato dei lavori della loro nuova casa di campagna, affidata da un muratore del posto di nome Sylvain (Pierre-Yves Cardinal). Lui parla per ore di ripristinare tubature del 1942 e spera che il circuito elettrico regga. Lei vede un ragazzone affascinante enorme e barbuto in camicia a quadri da boscaiolo, ma dallo sguardo gentile. 

Gli piace, si sente “sola” e si sfoga. Lui mansueto la ascolta nei suoi drammi personali più che sulle richieste di un sottotetto con cappotto. La conversazione parte sul luogo dei lavori, passa nel folcloristico bar locale pieno di boscaioli e poi direttamente nell’auto piena di chiavi inglesi e attrezzi del muratore, con intenti sempre più peccaminosi. 

Dopo un paio d’ore fanno sesso direttamente in quella che sarà la nuova taverna. 

I giorni passano, ma Sophia sente sempre più bisogno di contattare Sylvain per parlare del cappotto termico. Un po’ a tutte le ore. 

La nuova relazione prosegue, mentre Xavier non se ne accorge anche perché ha problemi con il padre con l’altzeimer e la gestione di una madre super preoccupata per la discendenza della prole, che vuole nipoti già ora, subito. 

La suocera chiede anche a Sophia se è disposta per lo meno a congelare gli ovuli adesso, mentre è ancora fertile, nel caso dovesse protrarsi per troppo tempo la sua “mania carrieristica dall’insegnamento” per quel suo corso di filosofia per anziani che non servirà mai a niente e nessuno. La coppia originale piano piano si rompe del tutto, anche perché lei sa che di passione per il segaligno intellettuale non ne ha più e non ce ne era più già da tempo.

Basta salottini/conferenze per libri/ incontri chic con tizi che sproloquiano sulla fine del mondo, scenari da terza guerra mondiale, l’immigrazione e l’abbassamento dell’asticella del mondo verso il proletariato. Meno visite anche al fratello lunare di Sophia, il poliamoroso Olivier, come alla sua mamma perennemente depressa. 

Il marito Xavier  piange e se ne va con tutto il suo mondo. 

Ora Sophia frequenta i salotti più rumorosi e proletari di Sylvain, dove la gente urla, è promiscuamente attiva e le donne vengono trattate non troppo raffinatamente. 

La birra alla Alien ha in fondo spesso un sapore più buono delle bottiglie di vino di lusso. 

Ma in un attimo anche per il rude ma gentile Sylvain la gelosia pullula e galoppa. 

Accade per un vecchio giaccone di Xavier incautamente conservato da Sophia “solo perché comodo”. Il muratore in brevissimo mette fine alle gite sul gatto delle nevi, al nuovo sesso creativo sadomaso a base di collari, alle sue “sentite ma un po’ goffe” citazioni poetiche/amorose di autori controversi in odore di Xenofobia amati da lui. 

Sophia intanto cerca di venire a capo di quello che ha avuto e ancora vuole dall’amore, cercando di decifrarlo e comprenderlo nelle sue mille sfumature proprio a partire dagli insegnamenti dei filosofi che affronta in aula per i suoi studenti della terza età. L’insegnante sarà in grado di definire razionalmente la natura altalenante del sentimento confusivo e stordente che la sta travolgendo? 

O forse ciò che davvero sta cercando oggi è solo voglia di libertà? da ogni tipo di legame nei confronti di uomini così diversi ma in fondo ugualmente “tossici”?


Monia Chokri scrive e dirige una divertentissima commedia sull’amore e i suoi problemi tra “passione e quotidianità”, tra “cuore e cervello”, con al centro una irresistibile protagonista simpatica e stralunata con il volto della brava Magalie Lepine Blondeau. 

La nostra eroina riflette, si scervella, abbozza e soppesa ogni pro e contro, ma infine si muove come una palla impazzita tra ragione e sentimento. Dribbla i luoghi comuni tra borghesia e proletariato con un sincero “chissenefrega” di pancia, cambia stoicamente punto di vista.

Ma infine Sophia si invischia comunque nei casini di un troppo grande gioco di ruolo “sociologico/escatologico”, da lei stessa avviato ma forse più grande di lei, che in ultima istanza appare più tragico che erotico. 

Difficile non voler bene al personaggio della Blondeau, che in fondo è perfetta sintesi delle quattro donne di Sex and the City, specie quando sembra distaccarsi dal corso della trama e andare per una strada narrativa tutta sua, abbattendo i più triti luoghi comuni e dinamiche relazionali consolidate, in ragione di uno spirito più avventuroso che rivoluzionario. 

I suoi due “pretendenti” di contro, sospesi tra intellettualismo e machismo, sono entrambi destinati a soccombere dentro i cliché grandiosi che li muovono, autoparodizzati fino alla macchietta, tragicamente incapaci di reinventarsi guardando oltre al loro ego ed egoismo.

 Alla fine l’autrice di questa pellicola sembra quasi dire, con tutta la dovuta ironia del caso e tutta la forza della metafora, che chi mette la benzina nella propria auto è chi comanda davvero il suo destino, e forse deve pensarci più di una volta se caricarsi in auto un passeggero troppo ingombrante. 

La natura dell’amore non è quindi un film sull’amore per gli altri, quanto sull’amore per se stessi. È prima di tutto una ironica e irresistibile pellicola sulla “crescita personale”. 

Ottimi i tempi comici, brillanti gli interpreti, una narrazione sempre gioiosamente sopra le righe, ma anche un interessante utilizzo del pensiero accademico (qui si parla di filosofia universitaria come in Supereroi di Genovese si parlava di matematica) che sa dare più di una stoccata intelligente e originale all’intreccio. 

Un ottimo film per imparare ad amarsi prima di cercare il vero “grande amore”, se mai esiste. 

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martedì 27 febbraio 2024

Night Swim: la nostra recensione dell’horror di Bryce McGuire con Wyatt Russell e Kerry Condon, prodotto dalla Atomic Monster di James Wan e da Blumhouse, su una piscina privata che risulta essere particolarmente spettrale sotto la sua superficie

 


Contea di Essex, anni '80. La piccola Rebecca (Ayazhan Dalabayeva) vive in una casetta con giardino e piscina insieme alla mamma e al fratellino malato Thomas. Una notte dall’acqua sembra riaffiorare la barchetta a molla rossa di Thomas, che si credeva perduta chissà dove. La barchetta vortica sull’acqua e Rebecca cerca di prenderla sporgendosi sulla vasca usando un retino. 

Di colpo cade in acqua sospinta da una forza misteriosa. 

A mollo sente una voce flebile, pensa per un istante di vedere al suo fianco Thomas. Risuona sussurrata nelle sue orecchie una parola strana e antica. Poi la luce si spegne. Poi la luce ritorna.

Di Rebecca rimane solo una ciabattina a forma di coniglietto a galleggiare sull’acqua. 

Passano gli anni, arriviamo ai giorni nostri. 

Costretto da un improvviso ritiro a causa di una malattia degenerativa, il giocatore di baseball Ray Waller (Wyatt Russell, figlio di Kurt Russell, che si è dimostrato particolarmente carismatico nell’action-horror Overlord di Julius Avery) si traferisce insieme alla moglie Eve (Kerry Condon, vista nella serie Better call Saul e nella pellicola Gli spiriti dell’isola) e ai due figli, proprio nella casetta accogliente e dotata di una bella piscina che un tempo era di Rebecca. Un'occasione unica, irrinunciabile, a basso costo. 

Lì l’ex giocatore può continuare più facilmente la sua ginnastica riabilitativa e tutta la famiglia è ben disposta e felice al fatto di aver cambiare vita, lavoro e scuola per il bene del loro papà. Sembra poi, alle rilevazione degli esperti, che la piscina nasconda in profondità una preziosa fonte termale e i benefici su Ray sono immediati: l’uomo in pochissimo tempo sta rifiorendo, a dispetto di ogni più rosea previsione medica. 

Un vero miracolo. 

Ormai tutta la famiglia è solita giocare in acqua insieme, magari lanciando delle monetine in successive sul fondo e sfidandosi a raccoglierle. Si può giocare a “mosca cieca”, adagiarsi nei pomeriggi assolati su un galleggiante a forma di fenicottero rosa, dedicarsi a una energica nuotata anti stress notturna. La piscina ha portato popolarità anche ai ragazzi e molti amici della nuova scuola o della squadra di baseball sono ben felici di organizzare feste a casa Waller. 

È stato un sacrifico trasferirsi, ne è valsa la pena, ma c’è come la sensazione che qualcuno o qualcosa osservi di nascosto la famigliola felice, da sotto la superficie dell’acqua. Eve una sera sembra aver visto mentre era in immersione, sul bordo della piscina, la figura di una bambina. E poco dopo una voce ha iniziato a sussurrale un nome: Rebecca. 

Bryce McGuire dirige e scrive, insieme a Rod Blackhurst, un horror di stampo classico, sviluppato a partire da un corto cinematografico da lui diretto nel 2014.

Nel cinema abbiamo avuto nel 1969 una Piscina “romantica” con al centro il divo Alain Delon, per la regia di Jacques Deray, che in qualche modo è stata omaggiata in seguito, nel 2003, da François Ozon con il suo Swimming Pool

Abbiamo avuto il drammatico La ragazza della Piscina, di Fernandez del 1986, con Mary Carrillo.

C’è stata una Lady in The Water, una giovane e bellissima Bryce Dallas Howard, che usciva fatatamente come donna-sirena proprio dalla piscina di un caseggiato popolare, nel film di genere fantasy di M.Nighy Shyamalan del 2006. 

Ma è soprattutto con il genere thriller/horror che le piscine hanno trovato un feeling tutto speciale, anche se al loro interno non erano presenti “minacce specifiche” come squali (Lo squalo 3) o Piranha (Piranha 3DD) o vecchietti (Cocoon). 

Abbiamo avuto l’horror-slasher tedesco The Pool del 2001, di Boris Von Sychowski, dove in una piscina comunale un gruppo di studenti “un po’ bevuti“ di Praga diventava vittima di un serial killer durante una sera di potenziali bagordi finiti male. 

Abbiamo avuto il tailandese horror-survival The Pool del 2018, di Ping Lumpraploeng, dove il divo Theeradej Wongpuapan si svegliava sul fondo di una piscina olimpionica senza acqua, impossibilitato a uscire con le proprie gambe per via di un infortunio, senza poter mangiare e con l’ingombrante compagnia di un coccodrillo gigante (per il sottoscritto “minaccia non-specifica”) in vena di mordicchiarlo . 

Abbiamo avuto film horror-comedy su piscine grandi come un intero parco acquatico, “pruriginose e stupidine” come una commedia sexy anni ‘70, come l’Aquaslasher del 2019 di Renaud Gauthier: ancora al centro ragazzini “bevuti”, che in una mega festa venivano uccisi da uno spietato quando pigrissimo killer: uno che si era limitato a innestato delle lame a fine corsa dei tubi degli scivoli d’acqua, lasciano che con la sola forza di gravità i ragazzini andassero a spiaccicarsi e finire a pezzi. 

Se poi consideriamo una cisterna d’acqua condominiale come una “piscina molto piccola”, ritroviamo in Dark Water di Hideo Nakata, il regista anche del seminale The Ring, un piccolo ma “denso” ambiente acquatico che secondo la tradizione asiatica si può rivelare il perfetto “conduttore” tra il mondo dei vivi e il regno dei morti, nonché una fruttosissima base per leggende urbane (come il caso misterioso di Elisa Lam). 

Era quindi solo questione di tempo prima che i produttori Jason Bloom e James Wan decidessero di indossare accappatoio, cuffiette e ciabattine giallo fluo, per immergersi nell’acqua addizionata al cloro di qualche piscina per una loro nuova pellicola.


Da buoni “pescatori di tesori indipendenti” il dinamico duo ha quindi “visto e approvato” il corto di Bryce McGuire, come in passato avevano già visto e approvato il corto The Gallows di Lofing e Cluff o il corto Light Out di David F.Sandberg o il corto Oculus di Mike Flanagan  (e tanti altri). 

Come sempre raccontano nelle interviste, li ha colpiti una idea semplice: il cosiddetto “high concept” che si può raccontare in due minuti e  che può essere prodotto con pochi spicci, affidandosi al loro stile produttivo “da etichetta” riconoscibile e amato. Un’idea che può attirare giovani attori o magnifici attori pazzi come Ethan Hawke (dio benedica Ethan Hawke e Nick Cage), che per un progetto “interessante” rinunciano anche ad alti compensi. Come qui è il caso per i giovani, bravi e lanciatissimi Wyatt Russell e Kerry Condon, promettenti “carneadi” ancora in cerca della consacrazione. 

Circa le strategie per “allungare il corto” e ri-fare colpo su Bloom e e Wan con qualcosa di “più strutturato”, il nostro McGuire ha detto che si sarebbe ispirato un po’ a La creatura della laguna nera, un po’ a Poltergeist, un po’ a Christine la macchina infernale, un po’ a La morte corre sul fiume con Robert Mitchum, e ovviamente un po’ anche all’imprescindibile The Abyss di James Cameron. Oltre a tutto questo, ha promesso di metterci dentro pure una sua mezza cosa autobiografica del periodo dell’adolescenza in Florida, come fanno i tizi che vanno al Sundance. 

Alla fine li ha convinti a spendere 15 milioni di dollari, che è pure tanto rispetto alla media Blumhouse, che con quei soldi ci fa almeno quattro Paranormal Activity. Vengono disposti una trentina di giorni di riprese nei mesi caldi. Una scorta di performanti telecamere subacquee per delle riprese da fondo piscina che saranno davvero suggestive. Il reparto trucco ha allestito un paio di “mostracci”, uno malinconicamente vicino agli horror asiatici e uno malinconicamente vicino agli horror Troma. Il reparto effetti ha rispolverato archeologicamente i programmi grafici di The Abyss, che giravano su un Olivetti 289 pimpato. Noleggiata la casetta con piscina e i cestini per la troupe, si partiva per fare tutto il popò di cose promesse di cui sopra. 

Come sarebbero potute andare storte le cose? 

Che cosa si nasconderà nell’acqua? 

Purtroppo poco più di semplice acqua. 

Ed eccoci al punto dolente. 


Blumhouse e Atomic Monsters sanno il fatto loro e hanno permesso a McGuire di avere un'ottima cornice produttiva, buoni attori e un discreto reparto tecnico generale. McGuire di suo ha pure dimostrato di essere bravo nel dirigere attori già di loro ben motivati, che si sono impegnati a fondo per non rendere i loro ruoli troppi banali, trovando in un paio di casi anche spunti interpretativi di pregio. Le telecamere acquatiche hanno fatto il loro lavoro e anche la fotografia, il montaggio e pure la scenografia si sono rivelate funzionali, puntuali ed efficaci alla messe in scena. Purtroppo narrativamente, ma anche con “ricadute” sul piano visivo, questa storia della piscina maledetta “fa acqua da tutte le parti”. 

Tristemente non è solo un gioco di parole, anche perché vengono alla luce tutte le peggiori fisime in cui sta incorrendo “l’ultima Blumhouse”, in lavori come la nuova saga dell’Esorcista. Film programmati per essere visti senza censure da tutte le età e per questo privi delle “malizie” dell’horror di genere come le mutilazioni splatter (al max un taglietto sul dito), il sesso/il sexy, il politicamente scorrettissimo. Film che puntano a una serietà che spesso stona programmaticamente come “seriosità”: come se l’ironia-farsa non fosse più uno dei linguaggi che vanno a braccetto a bilanciarsi con l’horror-tragedia. Aggiungiamo l’azzardo, alla Shyamalan, di identificare come nemico credibile e pericoloso una pozza d’acqua cristallina, nel quale le vittime possono occasionalmente “inciampare dentro”, bere cloro e imbattersi in una macchia di “ordinatissima e bio compatibile” colorazione nera, che fa un po’ l’effetto “chiazza gialla in piscina”. In questa costruzione del “mostro” decidono pure, un po’ da kamikaze, di non usare quasi mai i malinconici mostracci di cui sopra, che pure sarebbero stati utilissimi per inanellare dei facilissimi ed efficaci “jump-scare”, come se fosse una soluzione “troppo facile” e magari troppo gradita da un pubblico poco sofisticato. 

La visione di Night Swim risulta quindi, nonostante la buona prova degli attori e un impianto tecnico funzionale e a tratti anche ispirato, accattivante e spericolata quanto un bicchiere di acqua oligominerale sgasata. 

Magari una oligominerale di marca, con ottime qualità organolettiche e digeribilissima nell’oretta e mezza di durata complessiva della proiezione, ma comunque uno spettacolo sgasato. 

Night Swim per regole auto imposte non riesce mai a fare paura, non brilla mai di particolare tensione e non affronta mai a muso duro il tema Horror che sottende alla costruzione narrativa. 

Poteva essere un The Grudge sulla famiglia medio borghese americana, poteva giocare con i fluidi e gli incidenti come Final Destination e avere un animo “quantomeno action”. Non lo fa. Si gioca, e purtroppo malino, solo alcuni riflessi e suggestioni ascrivibili a note opere di Stephen King. Ogni tanto sbanda sul “supereroistico involontario” come il remake di Carrie - lo sguardo di Satana

Si gioca con stile invece una piccola parentesi “onirica” che lo avvicina per un istante, in un momento di vera grazia, a The Hole di Joe Dante. 

Da un certo strano punto di vista, McGuire cerca pure di dare un senso effettivo a quel listone di film che prometteva di usare come ispirazione per il lungometraggio, ma il lavoro generale risulta piuttosto acerbo. Viste invece le davvero buone capacità di regista, ci auguriamo che McGuire sia affiancato da un migliore team di sceneggiatori per le sue future opere.

Il potenziale c’è, ma la piscina termale di Night Swim non decolla, per lo più idrata, e si perde nel più classico “bicchiere d’acqua”. 

Peccato. 

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lunedì 26 febbraio 2024

Prima danza, poi pensa - Scoprendo Beckett: la nostra recensione del film di James March sulla vita del drammaturgo Samuel Beckett, impersonato da uno straordinario Gabriel Byrne

 


La massima onorificenza a coronamento di una carriera: il premio Nobel. 

Il grande drammaturgo Samuel Beckett (Gabriel Byrne) è seduto in platea, al fianco della moglie Suzanne (Sandrine Bonnaire), quando viene fatto il suo nome.

Partono gli applausi e gli sguardi si dirigono tutti verso di lui.  

“È terribile” è tutto ciò che riesce a dire e pensare Samuel in quel momento. Vorrebbe scomparire, magari riuscire a fare l’indifferente restando seduto, ma la folla chiama e reclama, lui deve alzarsi. Percorre la distanza verso il palco a testa bassa, sale verso il pulpito e non si ferma, con l’annunciatore che rimane sorpreso e perplesso. 

Prosegue verso le scale verticali in metallo oltre la scena, prima delle quinte, verso il soffitto del palco. Le sale, facendo maldestramente cadere un faro che esplode e fa sobbalzare la folla, arriva in cima, va oltre, fino a un passaggio stretto e surreale che si apre verso un pertugio oscuro. 

Varca il “confine” e si trova in un luogo oltre il tempo e lo spazio, una specie di nicchia contornata da pietre quasi megalitiche, al cui centro c’è…lui. 

Un “altro lui” (come in Godot), un altro se stesso, che si pone al dialogo come fosse in una sua opera teatrale: un Samuel Beckett che è suo doppio, forse la sua coscienza o forse la “morte stessa” che si burla di lui, mentre magari ha avuto un infarto seduto in platea. 

Samuel ci parla come fosse la sua coscienza e definisce subito la questione: non vuole quel premio, non se lo merita, non lui e di sicuro non “solo” lui . 

L’altro lo cerca di convincere: il Nobel comporta un premio in denaro, in fondo, e il drammaturgo potrebbe devolverlo a favore di una persona che davvero se lo merita, qualcuno a cui lui deve molto della sua fortuna, ma che non è mai riuscito a ripagare. 

Parte una sequenza di capitoli ognuno dedicato a una persona diversa “da encomiare al suo posto”, caratterizzati ognuno da toni e color differenti. 

La prima della lista è di sicuro l’austera e terribile madre, May (Lisa Dwyer Hogg), che quando era bambino (interpretato da Caleb Johnson-Miller) lo ha tormentato con lo studio e coperto di critiche feroci leggendo i suoi primi racconti, immedesimandosi con rabbia sempre nella “cattiva della storia”. Il padre William (Barry O’Connor) invece era tutto aquiloni rossi, spirito di libertà e frasi motivazionali come “combattere, combattere combattere”. Ma forse proprio senza la severità della madre Samuel non sarebbe andato da nessuna parte. 

Il secondo nome della lista è la figlia di Joyce (Aidan Gillen), Lucia (Grainne Good), che quando lui era ragazzo (interpretato da Fionn O’Shea) anche per dei brutti giochetti manipolatori della sua coppia di genitori, lo obbligava a ballare, mangiare gnocchi e fare passeggiate nel parco. Al posto di permettergli di stare a fianco del padre come apprendista e diventare scrittore, magari componendo il “suo” Ulisse. Ma la gioia e la pazzia di Lucia alla fine lo avrebbero forse ispirato più di ogni altra cosa e lettura.

Il terzo destinatario della somma di denaro al merito era poi, in graduatoria, sicuramente Alfred o “Alfy” (Robert Aramayo). Amico fedele e collega scrittore a cui Samuel sente di aver rovinato la vita, imbottendolo con sogni di libertà e patriottismo troppo elevati, convincendolo infine a morire in guerra tra le file della resistenza ai tedeschi, mentre lui stava nascosto a coltivare patate in una casetta nei boschi. 

L’amante Nora (Bronagh Gallagher), sua co-autrice, lettrice appassionati, complice e correttrice di bozze di lungo corso, meritava sicuramente pure lei un encomio, pur sempre in secondo posto rispetto a Suzanne.

La moglie Suzanne. “Suzanne del Tennis”, la “crocerossina” caritatevole che lo raccolse e ne aggiustò la vita, raddrizzandola dal degrado “bohemien”, dopo una aggressione notturna a base di alcol e papponi. La donna che coltivò con lui le patate durante la guerra, lo supportò nei momenti di crisi, cambio di case e allestimenti, fu sua musa e compagna di vita. Anche dopo la fine della passione, come manager e detentrice dei suoi diritti, dopo e oltre quel tradimento ingrato. 

Ma infine a tutti questi beneficiari, perché non considerare la possibilità di un fondo per giovani autori? In fondo il futuro non è più importante dei rimpianti? 

Perennemente distratto dalla vita, alla ricerca di un flusso geniale di coscienza che passa e non torna mai più, come quello cavalcato dal suo maestro Joyce con il suo Ulisse, Sam ha vissuto razionalmente forse troppo insoddisfatto di se stesso, per capire emotivamente quanto più di tutto deve a se stesso l’essere diventato quello che è. Forse ha troppo pensato e poco “danzato” con i sentimenti e le situazioni della vita. 

Tornerà sul palco a ritirare il premio, uscendo dal caldo ma disperato guscio interiore in cui si è confinato?


Il regista e sceneggiatore James Marsh, autore anche dell’ottimo La teoria del tutto, porta in scena una pellicola ispirata alla vita di Samuel Beckett che gioca con gusto e intelligenza con molti temi, ironia e suggestioni vicine al lavori teatrali dell’autore di Aspettando Godot

Gioca con il tema del “doppio”, con la centralità degli oggetti sulla scena (come L’aquilone rosso), con l’incomunicabilità “ironica“ dell’amore, con le disillusioni. E naturalmente mastica tutto con l’assurdo, di cui Beckett è stata una delle voci più originali e geniali. 

Byrne si impasta in Beckett e tutte le sue fisime in modo naturale quando leggero, impossessandosi dell’imponente ma ricurva fisicità dell’autore, rifuggendo “molto alla Woody Allen” ogni “gravitas” drammatica con la stessa leggerezza di cui era capace il drammaturgo.

La parabola umana, descritta attraverso gli incontri di Samuel con le persone che ne hanno influenzato la vita, ha un piglio quasi psicanalitico, quasi da psicologia archetipica di James Hillman. Sono infatti gli incontri, felici come meno felici, a plasmare l’animo dell’autore invitandolo a prendere delle direzioni emotive specifiche. Una madre severa e intransigente aiuterà a sviluppare, per contrasto, delle importanti capacità di ascolto e analisi. Un'amante, rinchiusa in una “gabbia emotiva” da cui non può scappare, lo aiuterà a ricercare un senso di gioia e libertà. Un amico devoto ed entusiasta lo farà scontrare contro la disillusione dei grandi valori sociali e morali dei tempi bellici. 


Marsh descrive questo percorso emotivo di crescita, con frustrazione annesse, attraverso piccoli quadri visivi con toni e sequenze sempre uniche nella forma e colori, ponendoci davanti quasi ad un film per episodi, che si rincorrono e scontrano l’un l’altro alla ricerca di un significato più strutturato del “senso della vita” del protagonista. 

Episodi che spesso ascendono visivamente in una sospensione estatica simbolica, come l’aquilone rosso o la luna piena. 

Pennellate di vita cariche di umorismo, di dramma come di sarcasmo ovviamente, come tradizione brechttiana impone, a cui contribuiscono attivamente e con slancio tutti i bravi attori coinvolti.

Una “cornice onirica” onnipresente, la cui origine ed epilogo rimandano a quella “stanza sopra il teatro” (ideale “stanza di psicanalisi”), che strizza l’occhio direttamente a un teatro classico, fungendo quasi da “tribunale dell’anima“ per il grande drammaturgo, calandolo quasi in una atmosfera da Settimo Sigillo.

Potente ma al contempo gentile, razionale quanto estroversa, la pellicola non perde mai un colpo nel suo montaggio perfetto, portandoci dalla stanzetta buia della casa tetra alle scenografie naturalistiche calde e aperte quanto un pomeriggio d’estate dell’infanzia. Dalle mille luci della città infinita, notturna quanto euforica, che accompagnano l’adolescenza fino ad arrivare alle piccole casette del periodo dell’isolamento. Dalla guerra, verso altre stanze sempre più piccole e segrete, d’albergo, del periodo di tradimento, in contrasto con i grandi teatri in cui sono rappresentati i suoi lavoro. Marsh, come l’ultimo Miyazaki,  gioca con gli spazi. Ci fa viaggiare attraverso le passioni da luoghi immensi a piccolissimi e viceversa, per poi farci tornare più volte al di là della stanza sopra il teatro, attraverso un passaggio elevato e stretto come un cordone ombelicale. 


In tutti questi passaggi “a imbuto” la telecamera, anche grazie alla fotografia di Antonio Paladino, si muove visivamente in modo così  “organico”, “sensoriale”, da ricordare il processo di continua “nascita e rinascita” di Povere creature! di Lanthimos. 

Ma quello che più affascina di questa pellicola è il modo di Marsh di cogliere appieno il “Beckettaino”, pur rinunciando quasi del tutto alla sua rappresentazione attraverso citazioni dirette ai suoi lavori, di cui comunque respiriamo aromi noti in più occasioni. Non è un film biografico tradizionale, non è una mera celebrazione. Diventa per il regista, pur nelle necessarie semplificazioni della messa in scena, il manifesto del pensiero specifico e potente, che è poi alla base del motivo per cui ancora oggi Beckett è Beckett: la scelta di porre al centro delle storie la vitalità dei personaggi prima del contesto. La volontà di vivere gli eventi, e anche le lunghe attese, senza farsi dominare dalla paura degli stessi. 

Un ottimo film per accedere a Beckett e poi avvicinarsi ai suoi lavori. 

Un rispettoso e gentile omaggio a un autore senza tempo, da una produzione e da un cast in stato di grazia. 

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mercoledì 21 febbraio 2024

How to have sex: la nostra recensione del film di esordio di Molly Manning Walker, vincitore a Cannes con il premio Un certain regard

Malia, da qualche parte in Grecia, diventa a volte un piccolo mondo di discoteche e giovani a caccia di divertimento, tra uno spring breaker e una pausa post esami d’ammissione. 

Il posto ideale per passare dall'adolescenza all’età adulta sperimentando “un po’ di tutto e tutto insieme”, compresi rapporti interpersonali molto ravvicinati. 

A Malia arrivano in volo dall’Inghilterra tre inglesine graziose, con un carico infinito di bikini fluo e micro abitini da sera verde pisello fosforescenti. Ci arrivano giurando che a ogni domanda delle “autorità” risponderanno che hanno almeno 18 anni, per non precludersi quanto più alcol e svago possibile.

Tara (Mia McKenna-Bruce), che al collo porta una collanina con scritto “Angel”, è una biondina gioiosa, carina e un po‘ timida, ancora vergine, ma intenzionatissima a rimanerlo ancora per poco. I giorni delle vacanze a Malia sono pochi ma è convinta di trovare in loco, per la “pratica”, anche il grande amore: qualcuno di gentile, sensibile, interessante e magari ancora un po’ bambino come lei. Ha già individuato allo scopo, direttamente, davanti al balcone dell’hotel in cui alloggia con le amiche, Badger (Samuel Bottomley): un ragazzetto biondo finto, tatuato sulle braccia con disegni simili ad ali di angelo e delle finte labbra tatuale sul collo. 

Tara è in cerca di amore e leggerezza soprattuto perché ha paura che gli esami non siano andati bene e che quella potrebbe essere l’ultima volta che sta insieme con Skye e Taz, le sue amiche di sempre, prima che loro partano per il college e lei magari finisca per fare la cameriera in un bar. 

Skye (Lara Peake) è anche lei biondina, anche se più disincantata e dedita allo studio. Ha al collo una collanina con al centro la lettera “S”, è in cerca di festa e divertimento e si accontenterebbe di una compagnia casuale: va bene un rasta a caso oppure il muscoloso ma poco elegante Paddy (Samuel Bottomley) e la sua fallica Palma con noci di cocco tatuala sopra il capezzolo. Al di fuori di questa, che considera una parentesi giocosa della sua vita, è molto protettiva e quasi materna nei confronti delle sue amiche.

Em (Enva Lewis), qualche volta chiamata “Taz”, è una morettina dai capelli rasta in cerca di una compagna divertente e spigliata come lei. Incontra presto la muscolosa Paige (Laura Ambler) e si fa una storia tutta sua con lei h24.

Dormire di mattina a bordo piscina in costume o direttamente sull’acqua, con per materasso un galleggiante a forma di ciambella rosa. 

Partecipare a giochi di gruppo con tanto di presentatori simpatici e “birbanti” e cori da stadio. Giochi di gruppo che riguardano sempre lo scolare lattine di birra da zone corporee equivoche di un’altra persona mezza o del tutto nuda. 

Divertimento esagerato intervallato da piccole pause per smaltire. 

Una mezz’ora sul campo di calcetto con in corpo più birra che sangue. 

La sera il locale “Crusher”, con le sue luci psichedeliche blu profondo o rosa big bubble, dove scatenarsi saltando senza coordinazione al ritmo di qualcosa di indefinito e sempre uguale, debitamente alternato con shottini di grappe superalcoliche. 

Tra uno sballo e un incontro più o meno romantico, compare spesso alle tre inglesine “l’amico vomito” e i giramenti di testa. Momenti che le portano a buttarsi a terra anche sulla strada principale di Malia, circondate da decine di altre ragazze e ragazzi a terra, sballati e vomitati ancora con la birra in una mano, magari alla quale attingere di nuovo nel post-vomito. 

Poi tutto ricomincia il giorno dopo, nella gioia di un post-sbornia da giorno della marmotta. Si provano o scambiano nuovi vestitini aderenti, ci si prepara al nuovo giro di birre e calcetto e ci si ri-lancia, più convinzione, nella loro personale grande sfida al mondo”: affrontare la prova massima verso l’età adulta. Fare davvero sesso. 

Ma come sarà, per la troppo fragile Tara, la prima esperienza con un ragazzo? 

Nella sera che seguirà, Tara scoprirà che il romanticismo forse non esiste. Poi la sua mente, quasi pietosamente, cercherà di dimenticare i fatti relativi al suo primo rapporto: come se quello che avrà appena vissuto non fosse amore, ma qualcosa di più vicino a uno stress post traumatico.


Psichedelico, pruriginoso, molto disincantato e simile a mille situazioni da “festa devastata del liceo” che sono patrimonio genetico, spesso purtroppo indelebile, quasi per l’intera umanità,  

Il film di esordio scritto e diretto della brava e forse un po’ “cinica” Molly Manning Walker guarda, quasi fisso negli occhi, spesso con il trasporto di un entomologo, il piccolo mondo di caos e sballo facile che coglie alla sorpresa i giovani. Lo guarda come chi come tutti ci è già passata, ma anche con quell’ironia per l’eccesso di un Todd Philipps (Project X - una festa esagerata più che The Hangover), con quel senso di noia forzata di Sofia Coppola (più Spring Breakers che Il giardino delle vergini Suicide), quei colori “sparati e blastati” da vita spericolata un po’ retrò, che amano ripercorrere visivamente Joe Begos (l’horror Bliss) e il “nostro” Giacomo Abruzzese (Disco Boy). 

Ogni tanto How to have sex strizza pure l’occhio ai sarcastici reality trash, quelli pieni di vitelloni nudi alla continua cerca di dove infilare il loro arnese nei modi più o meno arditi e scomodi, da Jersey Shore a Ex on the Beach. L’ironia è tragicamente qui più negli occhi dello spettatore che in protagonisti che sembrano agire come marionette pilotate dai propri ormoni.

Ma Molly Manning Walker non si perde mai in tutto questo disagio sociale, colori sparati, ostentazioni muscolari e creme solari, momenti vomitarelli e fiumi di birra correlata o meshata. 

Dietro tutto, all’ombra di questo sabbatico rito di passaggio all’età adulta ripreso nella sua essenza pneumatica, c’è qualcosa di più grande. Qualcosa che si annida dietro agli sguardi tristi delle protagoniste, quasi costrette a un gioco che più che voler fare “devono fare”. Anche a testa bassa, anche con la sabbia che prude e va ovunque dopo un abbraccio forzato sulla spiaggia, anche con un vomito più spesso del necessario condiviso con chi sta intorno. 


È come accettare di introiettarsi a forza, in endovena, la natura animale dell’uomo in tutta la sua spietata logica biochimica, dopo una fanciullezza piena di angeli, sogni di grandi amori e carte Pokémon che sembrano ormai sogni impossibili da bambini. 

È come ritenere possibile diventare grandi in tre giorni bevendo l’equivalente di tre anni di un avventore del bar medio, con tutti gli scompensi cerebrali che a questo consegue, ritenendo che sia quello il “modo giusto” per accorciare i tempi. 

È come voler scoprire la parte più basica e triste del sesso, quella in cui una persona diventa il “buco di piacere” di uno sconosciuto, saltando l’affetto, le carezze e un “amore da cioccolatini” che nel mondo adulto, in questo mondo adulto di oggi, è evidente che non possa esistere.

Nell’antichità il passaggio dall’essere bambino ad adulto avveniva con una prova di forza e di coraggio nella foresta, per diventare cacciatori e difendere il villaggio. Oggi diventare adulti sembra accompagnarsi alla voglia di detonare quelle due o tre certezze sul futuro, preparandosi a un mondo da “futuri falliti”, senza amore ma solo sesso occasionale e magari attaccandosi quanto prima a una bottiglia.

Questa è la visione che sembra proporre la regista Molly Manning Walker,  che guarda questa innocenza infranta e ce la trasmette in tutta la sua asprezza e brutalità. 

Svela il grande inganno sulle “feste pazzesche” facendoci camminare a fianco delle protagoniste nelle mattine che seguono alle “feste dei giovani”, dove la città è vuota come in uno zombie movie, ma dove ovunque ci sono cumuli di lattine e pozze di vomito. 

Ci mostra, quasi come un esperimento sociologico, i più assidui “piccoli  arrapatelli” che una volta “spento” il momento di sperimentazione del loro nuovo muscolo, gestito in modi mai troppo eleganti o gentili, si rannicchiano a letto in posizione fetale come i bambini piccoli. 

Ci mostra il rimpianto di qualcuno di essersi “buttati via”, unito alla umana solidarietà di chi c’è già passato e che quindi può tendere una mano di conforto a chi piange: forse l’unica vera manifestazione di affetto reale di tutta una “vacanza” che pare un gioioso incidente stradale. 

Molly Manning Walker dimostra di avere talento e tatto. Un occhio quasi da documentarista distaccato viene smorzato da tanti piccoli dettagli sui volti e  sulle mani, alla ricerca di un linguaggio non-verbale ricco più di mille parole. 

Molto brave tutte le giovani attrici e gli attori nell’interpretare al meglio i confusi adulti-bambini della storia.

Interessante il lavoro sulla fotografia e la colonna sonora, finalizzato a offrire un senso di ciclicità e continua ripetizione di atti e liturgie, pur dilatata di tempi e ritmi emotivi: non sarà certo Ozu ma funziona nella descrizione nitida di quello che la regista intende come  “banalità del divertimento”.

La scenografia passa da locali rosa confetto e piscine da cartolina a scenari post-festa quasi da 28 giorni dopo di Danny Boyle, in un contrasto che riesce comunque a essere credibile.

Un film divertente per i colori e gli eccessi ma anche amaro, cinico nel descrivere il “viaggio all’età adulta”, ma anche romantico nel raccontare l’amicizia tra donne, gentile quanto crudele nel rappresentare l’adolescenza nel suo quasi autodistruttivo atto finale. 

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martedì 20 febbraio 2024

Finalmente l’alba: la nostra recensione del film di Saverio Costanzo sui “sogni e bisogni” di una Cinecittà del passato tra mito e realtà, tra Babylon e Eyes wide Shut

Roma, più o meno ai tempi gloriosi della “dolcevita”. 

La signora Elvira (Carmen Pommella) porta le figlie Mimosa (Rebecca Antonacci) e Iris (Sofia Panizzi) a vedere al cinema “Sacrifcio”, un film sul secondo conflitto mondiale ambientato nella capitale. Un soldato americano, interpretato dall’attore inglese Sean (Joe Keery), salva la vita a una ragazzina mentre la città viene liberata dal nazi-fascismo e gli ultimi atti di violenza e sopruso sono ancora in corso. La madre della piccola, interpretata dalla diva  Alida Valli (Alba Rohrwacher) non è riuscita a fuggire alla mattanza, ma la paura è finta. Sullo schermo, nella scena finale, piazza di Spagna è quasi “magica”, del tutto diversa da quella reale, che si trova non molto distante dal cinema dove si tiene la proiezione. 

È sospesa nel bianco e nero, deserta “nell’alba” alle prime luci del giorno, quasi intima nell’incorniciare l’incontro di due sguardi, la ragazzina e il soldato, riuniti in una unica carezza. 

Il soldato si dilegua, titoli di coda. 

In platea sono tutti a piangere ma anche a ricordare che “una volta i film erano più belli”. 

Iris è ancora incantata e sogna di avvicinarsi a questo mondo fatato, quando quasi per caso è invitata da un ragazzo molto convincente ed “esperto” a partecipare a un casting, che si tiene il giorno dopo. 

Cercano comparse per un film americano di stampo epico, quei “peplum” che a Roma chiamavano anche “sandaloni”, con protagonista una grande diva come Josephine Esperanto (Lily James) nel ruolo di uno spietato quanto storicamente oscuro faraone donna. E poi nel cast c’è alche Sean, il bellissimo Sean di Sacrificio. 

Iris sogna in grande e prepara il vestito più bello e il trucco: anche se mamma e papà non sono decisamene d’accordo sui primi momenti, infine cedono a tanta passione. Mimosa neanche ci pensa, è ancora più difficile per lei sognare Cinecittà perché già fidanzata in casa, con un buon partito, magari un po’ impacciato e bruttino ma che di sicuro la porterà all’altare senza problemi, per poi farne un'ottima donna di casa. 

Arriva il giorno delle audizioni e per circostanze particolari partecipano al casting sia Iris che Mimosa, mentre la madre aspetta fuori dalle porte. 

Le ragazze sono in coda, hanno un numero, poi arriva il loro turno. 

Davanti a una specie di piccolo plotone di esecuzione, distaccato quando intento a scrutare corpi e volti al microscopio con dei fari, le due ragazze sono chiamate, in momenti diversi, a spogliarsi dei loro vestiti. In pubblico, per la prima volta nella loro vita. 

Gli egiziani erano nudi, non lo sapevate? Le ragazze non sapevano di questa richiesta, anche perché chi le ha portate lì è in fondo un tipo “improvvisato”, un amico di un amico che non aveva idea dei dettagli del provino. 

Iris si spoglia e va avanti nel casting, al trucco e verso una scena di massa. 

Mimosa non ci riesce, viene chiamata ad allontanarsi ma incrocia nei corridoi Josephine, la grande diva di Hollywood, la “faraona”. Il loro sguardo si incontra per un istante, come quello di Sean e della piccola protagonista di Sacrificio. Josephine ha indosso un elmo dorato e un trucco pesante che ne copre ogni espressione, Mimosa brilla nella sua timidezza e spontanea tristezza per il brutto momento di umiliazione appena patito. 

La diva è colpita. 

Mentre Mimosa vaga ancora verso la porta di uscita, cercando di capire che fine abbia fatto sua sorella o dove le aspetti sua madre, qualcuno richiama la ragazza appena scartata ma ora improvvisamente ripescata per volere di Hollywood. 

Subito in sala trucco, perché la star la vuole al suo fianco nel ruolo di ancella, in primo piano e ben lontana dalla folla oceanica delle comparse mezze nude tra cui c’è Iris. 


Siamo ancora a Roma ma di nuovo non è più Roma.

Cinecittà tra scenografie sontuose, abiti e trucco, centinaia di comparse, luci e sabbia si trasforma in un istante nell’antico Egitto. 

Sean è un principe di un paese straniero che sceglie alla adulazione della sovrana l’amore della giovane principessa, interpretata dalla stella nascente di Hollywood Nan Roth (Rachel Sennott), ponendola al di sopra del suo esercito e dei suoi uomini. La regina egizia, tradita e abbandonata, interpretata da Josephine, lo annichilisce uccidendo gli uomini del principe davanti ai suoi occhi, con un ordine che ha il sapore della vendetta. 

La sua ancella, Mimosa, assiste alla scena e piange. Il trucco del suo viso incipriato di bianco si scioglie lasciando il posto alle lacrime. Josephine la guarda e al contempo si commuove lei stessa. La scena è perfetta. Il momento è perfetto e unico.

Le riprese finiscono ma Josephine non vuole in alcun modo abbandonare Mimosa: vuole che sia ospite sua e di Sean per la sera, tra ristoranti e una festa molto esclusiva che si tiene in una villa in riva al mare. Una festa sontuosa è immensa, piena di ospiti come Alida Valli e cantanti di grido (Michele Bravi quasi in versione David Bowie). Per Mimosa è un'occasione imperdibile, ma quel luogo è stato di recente anche tristemente noto per misteriosi fatti di cronaca. In tutto quel caos Mimosa troverà però un amico, il galante e sensibile albergatore Rufo Priori (Willem Dafoe).


Saverio Costanzo scrive e dirige un film frenetico e drammatico, sfarzoso quanto inquietante, che ci pone all’interno di una “dolcevita felliniana” gargantuesca e luccicante ma piena di pericoli e insidie, dove la natura umana dei personaggi è più volte svilita e schiacciata, dalle passioni e dalle pulsioni che si rincorrono lungo una notte infinita di eccessi e traumi, dove le logiche di potere e sopraffazione valgono più dei sentimenti. 

Quasi un film horror, dove la fragilità del personaggio meraviglioso interpretato dalla brava Rebecca Antonacci viene costantemente posto a contatto e in sfida ad autentiche “tigri di celluloide”, donne aride e crudeli (quanto intimamente parimenti fragili) disposte a tutto pur di entrare o emergere come figure dominanti, di un piccolo dorato mondo dello spettacolo che invece Mimosa attraversa con una classe e naturalezza quasi aliene, incantando pubblico e critici con la sua espressività. 

Un po’ come il neo realismo che gli americani ci hanno sempre invidiato. 


Mimosa come Cappuccetto Rosso finisce presto vittima di un ambiente sadico quanto pregno di rituali relazionali quasi “pagani”, da setta elegante alla Eyes wide shut, immergendosi in un labirinto emotivo carico e caotico in egual misura di lusinghe e trappole mortali dal quale non potrà salvarsi, se non perdendo un po’ della sua ingenuità, tirando fuori anche lei gli artigli. Molto brava Lily James nel vestire i panni di una diva complessa quanto crudele nella costante paura che i riflettori su di lei possano spegnersi da un momento all’altro, perennemente in cerca di vittime sacrificali per allentare la sensazione di essere lei stessa vittima del sistema in cui abita. Molto bravo Joe Keery nel rivestire i panni di un uomo che malinconicamente ha scelto di abbandonare i suoi sogni e i suoi freni inibitori non riuscendo a essere l’uomo perfetto che avrebbe voluto essere, abituandosi a rivestire il ruolo di estetico ma un po’ vuoto “figurante” anche fuori dalla scena. 

Straordinario Willem Dafoe e il suo amico-tuttofare-altolocato, che riesce a guardare la bellezza del mondo del cinema perdonando gli eccessi e drammi interiori al suo interno, guardando paternamente bonario e misericordioso i piccoli attori disperati che lo abitano, ricordando loro che nonostante tutto, per moltissime persone, loro “sono stelle”. 

Cinecittà e il “mondo che la contiene” è maestosa  nelle ricche scenografie di Laura Pozzaglio, nei centinaia di costumi di Antonella Cannarozzi. Il piccolo mondo riverbera dei colori brillanti della fotografia di Sayombhu Mukdeeprom (apprezzato anche per Suspiria di Guadagnino), che più volte reinventa Roma tra la finzione del cinema e il “reale“, facendo dialogare le due grandi facce della stessa capitale in scenari iconici come piazza di Spagna. 

Le musiche di Massimo Martellotta giocano tra la modernità e il classico, conferendo un senso avvolgente di glorioso disincantato che cita e reinterpreta un passato glam anche grazie alla sfiziosa voce di Michele Bravi .

Il film corre veloce, il montaggio di Francesca Calvelli prima ci inebria in modo estatico del grande pathos febbricitante del set intorno al film peplum, poi ci trascina in un labirintico mondo notturno noir, poi sa tornare alla lentezza e alla contemplazione degli “attori senza le maschere” nell’ultima parte, malinconica quanto “liberatoria”. 

Grande cinema, da apprezzare al meglio in una grande sala. Un cinema non conciliante ma concitato, gustosamente sarcastico ma che non perde occasione per trasportarci con le sue inquadrature ricche e avvolgenti dentro Il romano sogno di celluloide che da sempre affascina la nostra settima arte. Per chi ama il cinema, ma anche per chi non lo ama troppo. 

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lunedì 19 febbraio 2024

Smoke sauna (Sisterhood): la nostra recensione del documentario estone, scritto e diretto da Anna Hints, che ci mette a contatto e “a nudo” con le emozioni, la spiritualità e i sogni, di un gruppo di giovani donne, avvolte nel buio e nel calore di un luogo “segreto” quanto intimo

 


Estonia dei giorni nostri. 

Isolata tra boschi innevata pieni di erbe balsamiche, a pochi passi da un laghetto incontaminato e circondata da un freddo invernale che trapassa le ossa, si trova in una casetta isolata una piccola sauna. 

Ad alimentarla con legna, occuparsi della giusta temperatura alambiccandosi con secchi d’acqua e pietre, nonché provvedere in un locale attiguo apposito alla affumicatura di alcuni prosciutti, ci sono alcune delle donne che lì si sentono “più a casa”. 

A nudo e in equilibrio con il mondo, senza peli sulla lingua e filtri per il rispettivo status sociale, questo piccolo gruppetto tutto al femminile si racconta a una particolare intervistatrice, l’attrice Kadi Kivilo, di fatto l’unica figura femminile il cui volto vedremo “per intero” in questo viaggio. Coperte dal buio e dai fumi, le donne a bassa voce si confessano e confrontano, ridono e piangono. Lasciano che il vapore e il sudore le purifichino, permettendo loro di essere più leggere per tuffarsi poi nell’acqua fredda, percorrendo nude con i calzini il piccolo campo che le separa dal laghetto dove torneranno a contatto con una natura-madre. 

Come rinascere.

Ma prima di rinascere c’è la penombra, dalla fotografia quasi “caravaggesca” offerta dalla fioca fiamma che illumina l’interno della sauna. Una piccola luce attraverso la quale ognuna di loro può raccontare la propria storia. 

Storie di corpi considerati brutti fin da bambine. 

Corpi deflorati da uomini crudeli per passatempo spezzando sogni d’amore.

Corpi che hanno conosciuto più volte la gravidanza e come veloce conseguenza “accettabile” l’aborto.

Corpi che hanno scelto una sessualità diversa e per questa temendo ripercussioni, sperando che qualcuno le ritenesse “importanti” anche solo per la prima volta, di sicuro più che per la rispettiva madre. 

Il calore sale, arrivano i lamenti, la rabbia, le risate e poi tutto si uniforma e disperde, in canti che partono dal cuore e arrivano alla bocca in modo sciamanico, mentre tutte loro iniziano a usare il proprio ventre come un tamburo, mentre i piedi tengono il tempo, ritmando l’aria sul pavimento in legno, in una jam session dell’anima.

Ci sono tra loro, ancora nella pancia o appoggiare placidamente ai semi, delle piccole vite. Creature che da poco hanno aperto i loro occhi azzurri al mondo. 

Un futuro che sperano tutte “più felice”, da festeggiare e celebrare in armonia con la natura, l’acqua e il fuoco.


Smoke Sauna è stato il documentario Estonia rimasto fuori dai giochi degli Academy Awards per poco, ed è un peccato, perché da molto è definito il miglior film estone 2023. 

La pellicola di Anna Hints ci porta in un viaggio unico, quasi straniante ma anche universale. Un viaggio ovattato e fumoso, caldo e in penombra, che somiglia a un sogno ultraterreno del limbo, quasi il ritorno nell’utero materno, un ritorno alla natura e all’origine. 

Un viaggio che è grande cinema, potremmo dire quasi “verista”, ma che al contempo non assomiglia quasi a nessuna esperienza cinematografica che si può “esplorare”, trasportandoci di continuo dalla fredda cronaca del documentario ai canti e cori del teatro greco, fino a momenti quasi psichedelici, magici come sciamanici, 

Solo una donna si vede in volto, la brava Kadi Kivilo che fa da transfert emotivo a tutti i corpi in penombra, dispensando sorrisi e comprensione in modo quasi materno. Unica nostra guida in un mondo caldo e buio, simile a un enorme ventre materno, ma nel quale è possibile perdersi tra le mille storie, senza provare mai la sensazione che serva “qualcosa di più” alla perfetta sintesi visiva e sonora qui rappresentata. 

Erbe balsamiche per purificare da “tintinnare sui corpi” che raccontano nel buio le loro vite. Immersione a zero gradi in una meravigliosa realtà incontaminata ai confini del mondo, per “morire e poi subito rinascere” avendo dimenticato e messo da parte ogni sofferenza. 

Sporadici momenti in cui una fisarmonica si alterna ai canti sciamanici. 

E questo basta. Zero uomini, esclusi dalla “sorellanza” che domina la scena senza rancore. 

Un film spirituale e unico, che Wanted porta in Italia con la consueta attenzione nei riguardi di un “cinema di confine” che può allargare sempre più gli orizzonti di chi vuole immergersi nella sala buia di un cinema. Per scoprire qualcosa di intimamente antico, quanto nella forma ancora nuovo. 

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