Malia, da qualche parte in Grecia, diventa a volte un piccolo mondo di discoteche e giovani a caccia di divertimento, tra uno spring breaker e una pausa post esami d’ammissione.
Il posto ideale per passare dall'adolescenza all’età adulta sperimentando “un po’ di tutto e tutto insieme”, compresi rapporti interpersonali molto ravvicinati.
A Malia arrivano in volo dall’Inghilterra tre inglesine graziose, con un carico infinito di bikini fluo e micro abitini da sera verde pisello fosforescenti. Ci arrivano giurando che a ogni domanda delle “autorità” risponderanno che hanno almeno 18 anni, per non precludersi quanto più alcol e svago possibile.
Tara (Mia McKenna-Bruce), che al collo porta una collanina con scritto “Angel”, è una biondina gioiosa, carina e un po‘ timida, ancora vergine, ma intenzionatissima a rimanerlo ancora per poco. I giorni delle vacanze a Malia sono pochi ma è convinta di trovare in loco, per la “pratica”, anche il grande amore: qualcuno di gentile, sensibile, interessante e magari ancora un po’ bambino come lei. Ha già individuato allo scopo, direttamente, davanti al balcone dell’hotel in cui alloggia con le amiche, Badger (Samuel Bottomley): un ragazzetto biondo finto, tatuato sulle braccia con disegni simili ad ali di angelo e delle finte labbra tatuale sul collo.
Tara è in cerca di amore e leggerezza soprattuto perché ha paura che gli esami non siano andati bene e che quella potrebbe essere l’ultima volta che sta insieme con Skye e Taz, le sue amiche di sempre, prima che loro partano per il college e lei magari finisca per fare la cameriera in un bar.
Skye (Lara Peake) è anche lei biondina, anche se più disincantata e dedita allo studio. Ha al collo una collanina con al centro la lettera “S”, è in cerca di festa e divertimento e si accontenterebbe di una compagnia casuale: va bene un rasta a caso oppure il muscoloso ma poco elegante Paddy (Samuel Bottomley) e la sua fallica Palma con noci di cocco tatuala sopra il capezzolo. Al di fuori di questa, che considera una parentesi giocosa della sua vita, è molto protettiva e quasi materna nei confronti delle sue amiche.
Em (Enva Lewis), qualche volta chiamata “Taz”, è una morettina dai capelli rasta in cerca di una compagna divertente e spigliata come lei. Incontra presto la muscolosa Paige (Laura Ambler) e si fa una storia tutta sua con lei h24.
Dormire di mattina a bordo piscina in costume o direttamente sull’acqua, con per materasso un galleggiante a forma di ciambella rosa.
Partecipare a giochi di gruppo con tanto di presentatori simpatici e “birbanti” e cori da stadio. Giochi di gruppo che riguardano sempre lo scolare lattine di birra da zone corporee equivoche di un’altra persona mezza o del tutto nuda.
Divertimento esagerato intervallato da piccole pause per smaltire.
Una mezz’ora sul campo di calcetto con in corpo più birra che sangue.
La sera il locale “Crusher”, con le sue luci psichedeliche blu profondo o rosa big bubble, dove scatenarsi saltando senza coordinazione al ritmo di qualcosa di indefinito e sempre uguale, debitamente alternato con shottini di grappe superalcoliche.
Tra uno sballo e un incontro più o meno romantico, compare spesso alle tre inglesine “l’amico vomito” e i giramenti di testa. Momenti che le portano a buttarsi a terra anche sulla strada principale di Malia, circondate da decine di altre ragazze e ragazzi a terra, sballati e vomitati ancora con la birra in una mano, magari alla quale attingere di nuovo nel post-vomito.
Poi tutto ricomincia il giorno dopo, nella gioia di un post-sbornia da giorno della marmotta. Si provano o scambiano nuovi vestitini aderenti, ci si prepara al nuovo giro di birre e calcetto e ci si ri-lancia, più convinzione, nella loro personale grande sfida al mondo”: affrontare la prova massima verso l’età adulta. Fare davvero sesso.
Ma come sarà, per la troppo fragile Tara, la prima esperienza con un ragazzo?
Nella sera che seguirà, Tara scoprirà che il romanticismo forse non esiste. Poi la sua mente, quasi pietosamente, cercherà di dimenticare i fatti relativi al suo primo rapporto: come se quello che avrà appena vissuto non fosse amore, ma qualcosa di più vicino a uno stress post traumatico.
Psichedelico, pruriginoso, molto disincantato e simile a mille situazioni da “festa devastata del liceo” che sono patrimonio genetico, spesso purtroppo indelebile, quasi per l’intera umanità,
Il film di esordio scritto e diretto della brava e forse un po’ “cinica” Molly Manning Walker guarda, quasi fisso negli occhi, spesso con il trasporto di un entomologo, il piccolo mondo di caos e sballo facile che coglie alla sorpresa i giovani. Lo guarda come chi come tutti ci è già passata, ma anche con quell’ironia per l’eccesso di un Todd Philipps (Project X - una festa esagerata più che The Hangover), con quel senso di noia forzata di Sofia Coppola (più Spring Breakers che Il giardino delle vergini Suicide), quei colori “sparati e blastati” da vita spericolata un po’ retrò, che amano ripercorrere visivamente Joe Begos (l’horror Bliss) e il “nostro” Giacomo Abruzzese (Disco Boy).
Ogni tanto How to have sex strizza pure l’occhio ai sarcastici reality trash, quelli pieni di vitelloni nudi alla continua cerca di dove infilare il loro arnese nei modi più o meno arditi e scomodi, da Jersey Shore a Ex on the Beach. L’ironia è tragicamente qui più negli occhi dello spettatore che in protagonisti che sembrano agire come marionette pilotate dai propri ormoni.
Ma Molly Manning Walker non si perde mai in tutto questo disagio sociale, colori sparati, ostentazioni muscolari e creme solari, momenti vomitarelli e fiumi di birra correlata o meshata.
Dietro tutto, all’ombra di questo sabbatico rito di passaggio all’età adulta ripreso nella sua essenza pneumatica, c’è qualcosa di più grande. Qualcosa che si annida dietro agli sguardi tristi delle protagoniste, quasi costrette a un gioco che più che voler fare “devono fare”. Anche a testa bassa, anche con la sabbia che prude e va ovunque dopo un abbraccio forzato sulla spiaggia, anche con un vomito più spesso del necessario condiviso con chi sta intorno.
È come accettare di introiettarsi a forza, in endovena, la natura animale dell’uomo in tutta la sua spietata logica biochimica, dopo una fanciullezza piena di angeli, sogni di grandi amori e carte Pokémon che sembrano ormai sogni impossibili da bambini.
È come ritenere possibile diventare grandi in tre giorni bevendo l’equivalente di tre anni di un avventore del bar medio, con tutti gli scompensi cerebrali che a questo consegue, ritenendo che sia quello il “modo giusto” per accorciare i tempi.
È come voler scoprire la parte più basica e triste del sesso, quella in cui una persona diventa il “buco di piacere” di uno sconosciuto, saltando l’affetto, le carezze e un “amore da cioccolatini” che nel mondo adulto, in questo mondo adulto di oggi, è evidente che non possa esistere.
Nell’antichità il passaggio dall’essere bambino ad adulto avveniva con una prova di forza e di coraggio nella foresta, per diventare cacciatori e difendere il villaggio. Oggi diventare adulti sembra accompagnarsi alla voglia di detonare quelle due o tre certezze sul futuro, preparandosi a un mondo da “futuri falliti”, senza amore ma solo sesso occasionale e magari attaccandosi quanto prima a una bottiglia.
Questa è la visione che sembra proporre la regista Molly Manning Walker, che guarda questa innocenza infranta e ce la trasmette in tutta la sua asprezza e brutalità.
Svela il grande inganno sulle “feste pazzesche” facendoci camminare a fianco delle protagoniste nelle mattine che seguono alle “feste dei giovani”, dove la città è vuota come in uno zombie movie, ma dove ovunque ci sono cumuli di lattine e pozze di vomito.
Ci mostra, quasi come un esperimento sociologico, i più assidui “piccoli arrapatelli” che una volta “spento” il momento di sperimentazione del loro nuovo muscolo, gestito in modi mai troppo eleganti o gentili, si rannicchiano a letto in posizione fetale come i bambini piccoli.
Ci mostra il rimpianto di qualcuno di essersi “buttati via”, unito alla umana solidarietà di chi c’è già passato e che quindi può tendere una mano di conforto a chi piange: forse l’unica vera manifestazione di affetto reale di tutta una “vacanza” che pare un gioioso incidente stradale.
Molly Manning Walker dimostra di avere talento e tatto. Un occhio quasi da documentarista distaccato viene smorzato da tanti piccoli dettagli sui volti e sulle mani, alla ricerca di un linguaggio non-verbale ricco più di mille parole.
Molto brave tutte le giovani attrici e gli attori nell’interpretare al meglio i confusi adulti-bambini della storia.
Interessante il lavoro sulla fotografia e la colonna sonora, finalizzato a offrire un senso di ciclicità e continua ripetizione di atti e liturgie, pur dilatata di tempi e ritmi emotivi: non sarà certo Ozu ma funziona nella descrizione nitida di quello che la regista intende come “banalità del divertimento”.
La scenografia passa da locali rosa confetto e piscine da cartolina a scenari post-festa quasi da 28 giorni dopo di Danny Boyle, in un contrasto che riesce comunque a essere credibile.
Un film divertente per i colori e gli eccessi ma anche amaro, cinico nel descrivere il “viaggio all’età adulta”, ma anche romantico nel raccontare l’amicizia tra donne, gentile quanto crudele nel rappresentare l’adolescenza nel suo quasi autodistruttivo atto finale.
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