giovedì 29 febbraio 2024

Caracas: la nostra recensione del film su una Napoli “tra sogno e realtà” scritto, diretto e interpretato da Marco D’Amore, con co-protagonisti Toni Servillo e Lina Camelia Lumbroso

 

Ci troviamo nell’aria, a molti metri dal suolo. Si apre lo sportello del piccolo aereo e con un unico tuffo un gruppo di paracadutisti si lancia nel vuoto, coordinato e compatto, con le mani e i corpi che si cercano e incontrano per formare coreografe ordinate, arrivare a una armonia perfetta di testa e di cuore. 

Il suolo si avvicina e uno del gruppo, di grossa stazza, si stacca mentre gli altri già aprono il paracadute. 

Aspetta, vuole stare ancora “sospeso”. 

Vuole ancora per un po’ provare il brivido dello schianto. Alla fine apre ma è già tardi, la velocità è troppa e l’atterraggio è scomposto. L’uomo ruzzola male al suolo, gli altri accorrono preoccupati ma lui si rialza da solo, accartocciato ma con calma. Quando si toglie il casco ha il volto coperto di sangue, ma sorride.

È quello stesso uomo “ardito” (Marco D’Amore) che di sera percorre le strade piccole, sporche e labirintiche di un quartiere popolare di Napoli, la zona “ferrovia”, ai cui angoli si assiepa una umanità multietnica che potrebbe provenire da tutte le zone povere del mondo. 

L’uomo si addentra nei cunicoli, quasi sotto terra. Giunge fino alla tana di un gruppo di suprematisti, riuniti intorno a un tavolo da tatuatore, mentre stanno marchiando un giovane adepto con una svastica. Anche l’uomo è stato marchiato, su un braccio. Prosegue in un corridoio ancora più stretto per poi accedere a una zona più larga, dove tra il gruppo riunito in assemblea imperversa la politica e si reclama l’azione, dura e immediata. 

L’uomo è di nuovo per strada, cammina sospeso senza ascoltare i suoni e rumori, come quando era in aria. Ai suoi lati i compagni con spranghe, fuoco e catene stanno radendo al suolo ogni auto, negozio e “straniero” che gli capiti davanti: stanno ripristinando un “ordine”. 

L’uomo però sembra non reggere questo equilibrio di forze, non ce la fa a reggere alla vista di soprusi e di quello che appare come un omicidio intenzionale davanti ai suoi occhi. Cerca di opporsi al suo compagno anche se il danno è ormai fatto e la lama ha fatto il suo corso nella carne. Rimane insieme allo straniero mentre tutti fuggono, mentre quell’uomo steso lo ringrazia della sua premura, prega con lui. L’uomo piange e si sente di colpo parte di una comunità diversa. Decide di abbracciare l’Islam e frequentare persone diverse.

Al contempo arriva alla stazione di Napoli Giordano (Toni Servillo), autore di libri e saggista anziano, che ha sempre raccontato storie di Napoli ma ora non ne può più, ha deciso di appendere la penna al chiodo. 

Percorre le strade della sua infanzia, il quartiere periferico di zona stazione, quando  si imbatte in un ragazzino che viene malmenato da un branco di coetanei. lo salva e questo di tutta risposta gli ruba la borsa. 

Giordano lo rincorre tra i vicoli, fino a una casa che in qualche modo gli “è familiare”, al cui interno trova però l’uomo convertitosi all’Islam, insieme alla donna che ora ama, la marocchina tossicodipendente Jasmine (Lina Camelia Lumbroso). 

Il bambino sembra sparito o forse non è mai esistito.

L’uomo, che presto Giordano scoprirà essersi dato il nome esotico di “Caracas”, è con lui all’inizio scontroso e gli dice di andare via: che nessuno lì dentro ha visto un bambino o una borsa. Ma lo scrittore tornerà più volte in quel luogo e con il tempo annoderà in modo sempre più stretto la sua esistenza con quella di Caracas, diventato al contempo il personaggio del suo nuovo e inatteso libro. Un libro di speranza dopo tanti libri di depressione. 

Magari un libro d’amore dopo troppi libri di rabbia.

Ma tra la realtà e l’immaginazione dello scrittore iniziano sempre più a crearsi zone d’ombra e di confusione, dove tutto si mischia, tra sogno e realtà. 

Forse come il bambino anche Caracas e il suo disperato bisogno di trovare “un equilibrio”, un posto nel mondo dove dare un senso alla sua rabbia, è solo un sogno partorito dalla fantasia di Giordano. 

Un personaggio e non una persona, un mosaico costruito ad arte perché simboleggi qualcosa: magari “Napoli stessa” o magari i timori e paranoie verso cui si sta spostando il mondo intero.

Riuscirà la storia di Caracas per lo meno a trovare un bel finale?


Marco D’Amore, prendendo spunto dal romanzo Napoli Ferrovia di Ermanno Rea, ci trascina nel ventre di una Napoli labirintica, una nuova Babilonia che trovatasi di colpo incapace di amare rimane sospesa tra il caos e la necessità di inseguire “simboli di ordine”, affascinanti e accoglienti quando spesso forvianti, autodistruttivi. Tra le vie della sua infanzia, lo scrittore stanco Giordano, interpretato da un Toni Servillo come sempre straordinario, incontra o forse solo immagina di imbattersi, tra tanti volti, in Caracas. Il personaggio, interpretato del sempre più “massiccio” Marco D’amore, è quasi un anti-eroe “metafisico”, un uomo perennemente arrabbiato della propria immobilità umana e alla ricerca di mondi lontani e “scopi più alti”, ma senza la voglia di allontanarsi mai veramente dall’unico luogo che lui chiama “casa”, che vivrebbe come una sconfitta. 

Un eroe che vive per questo “sospeso”, tra i pensieri più che tra le persone, viaggiando prima attraverso il mito di famiglia, patria e padre promesso dal Duce e poi attratto in egual misura dalla spiritualità e accoglienza dell’Islam. Ma in fondo prima di tutto un uomo che in cerca di amore trovando sempre strade nuove per negarselo, che lo scrittore cercherà di guidare come può verso questa meta, seppur tra mille avversità. Uno scrittore che rivive in qualche modo in Caracas la sua vita in un quartiere difficile, prima da bambino che cerca di sopravvivere, poi da adulto confuso come Caracas, infine da “padre” di un luogo che, seppur gli anni ne hanno mutato la forma, non è variato nella sostanza e nello spirito, spigoloso ma anche accogliente. 


D’Amore rimane fedele all’opera originale, ma cerca spesso nella scrittura di destrutturarla, complicarla e “polemizzarla”. Grazie anche al montaggio di Mirko Platania scompone a puzzle alcune sequenze, viaggiando sulla continua linea di confine tra reale ed onirico, sottraendo alcuni pezzi necessari per la ricostruzione della storia ma rendendo il racconto qualcosa di più viscerale e profondo. Quasi una circolarità esistenziale. Crea così nei suoi personaggi, tanto per l’eroe che per il suo scrittore, una complessità emotiva tragica: qualcosa che ce li rende in egual modo rarefatti, malinconici e sfuggenti, quanto intimamente autentici. 

La Napoli della “zona ferrovia diventa attraverso la fotografia di Stefano Meloni e alle scenografie di Fabrizio D’Arpino un non-luogo universale, una città/mondo che potrebbe trovarsi in Italia o in Messico o a Caracas. Il comparto sonoro curato da Rodrigo D’Erasmo lavora in sottrazione, sceglie di soffermarsi con grande trasporto “naturalistico” nella descrizione dei mille rumori e suoni di questo mondo, dalla poesia delle onde di un mare percepito sempre “troppo lontano”, al suono da “percussioni” delle randellate che esplodono nell’odio sociale. Dall’estatica calma della preghiera condivisa al rimbombo della vita notturna, dai monti di “calca politica” in cui sembra partire una nuova guerra ai momenti riflessivi e quasi muti in “equilibrio” con la natura. Tutto ha un suono, compresa un’emotività dei personaggi che prende a volte il suo “spazio di sospensione” attraverso il fischio interno di un acufene. 

Caracas di Marco D’Amore è un’interessante pellicola su uno scrittore stanco e tormentato (Servillo) che cerca la sua nuova storia tra una Napoli quasi metafisica, che ama e dalla quale al contempo vuole fuggire, tra estremismi e personaggi che lui costruisce quasi a mosaico (come il Caracas di D’Amore), sovrapponendo sugli stessi più “volti e luoghi”, a volte anche lontani tra spazio, tempo e ricordo.  

D’Amore, già convincente come attore, come regista e sceneggiatore (accompagnato da Ghiaccio) reinterpreta bene il libro di Rea, cercando di destrutturarlo e scomporlo in modi anche complessi, alimentando sulla scena quasi un senso di perenne sospensione emotiva e precaria “identità”. Un senso di smarrimento sottolineato anche visivamente da una Napoli “dai mille colori e persone” che diventa lei stessa un non-luogo tra presente, passato e futuro, universale e labirintico quanto sempre uguale a se stesso, al contempo “centro e periferia del mondo”, attraverso un uso visivo quasi “emozionale” di fotografia e scenografia. 

Molto validi tutti gli attori coinvolti, buono un comparto sonoro che fa un ampio uso di rumori ambientali. D’Amore sta diventando un autore sempre più completo e interessante. Al netto di alcune imprecisioni nella gestione dei tempi nella parte centrale, questo suo lavoro risulta lodevole per costruzione e direzione degli attori. 

Un film originale e pieno di spunti di riflessione. 

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