venerdì 30 settembre 2016

Dylan Dog speciale "Il pianeta dei morti" - numero 30 - "La fine è il mio inizio" - la nostra recensione!



- Breve sinossi: Siamo di nuovo nel pianeta dei morti, nella Londra del futuro dove i non-morti ormai camminano sulla terra e in cui un Dylan Dog brizzolato e con qualche ruga in più riveste il ruolo di ispettore nella fantomatica Polizia dell'Incubo. O almeno questo è quello che succedeva fino a che il nostro eroe non aveva deciso, al termine del numero scorso di andare a vivere tra gli Immemori, delle persone che grazie al fumo continuato di sostanze psicotrope speciali si dimenticano di parte della propria memoria, soprattutto quella riguardante gli zombie, abitano le gioiose casette di una specie di mondo artificiale, una copia di Londra in scala 1:1, protetta da guardie e alte mura, che il geniale costruttore Werner continua ad allargare ed espandere oltre la Londra Vecchia, con i fondi di chi vuole unirsi al suo gruppo. Scusate la quantità di informazioni strabordanti, vi consiglio di sedervi un attimo e di prendere un bicchiere d'acqua per metabolizzare tutto e poi riprendere con calma da questo punto, che passa la paura. Dagli eventi narrati nello scorso numero è passato un anno. Tra una fumata e l'altra Dylan si è fatto un'altra vita tra gli immemori e ha conosciuto Sybil, decidendo di mettere su famiglia con lei. Per sfoderare del fascino extra ha pure deciso di tingersi i capelli come Fantozzi e di trovarsi un lavoro, investigatore privato. Sta pure stringendo sempre più amicizia con Werner, il misterioso demiurgo di questa nuova Londra, quando succede l'imprevisto. Uno strano figuro dai tratti lombrosiani, che pare a prima vista un misto tra Dario Argento, George Romero e John Carpenter invecchiati male e fusi in uno, compare nei programmi tv della nuova Londra, tra una pubblicità di una tintura per capelli e l'altra. Il tizio, che dice di chiamarsi Herbert Simon, si dichiara scienziato e filosofo e dice al mondo londinese 2.0 di smettere di fumare, che il fumo fa male. E Dylan smette e subito i suoi poteri auto-cancellanti di immemore iniziano a vacillare. Lui inizia a ricordare delle cose, a fare collegamenti, si sente risvegliato. E così vuole andare a incontrare questo dottor Herbert Simon, per dirgli che gli ha cambiato la vita più della crema sciogli-pancia che pubblicizzano dopo i suoi programmi tv. E presto scopre che questo vive in una casa fatiscente. E che non lascia mai una piccola valigetta che pare la custodia di un clarinetto e che lui dice, in realtà, contenere una trappola esplosiva.
Nuovo numero per una delle migliori testate di Dylan Dog, un esperimento geniale che partito come episodio breve nel Color Fest si è trasportato con il tempo sullo storico e poi scomparso "Dylan Gigante", per poi approdare allo storico "Dylan Dog speciale". Una serie che nonostante tutti questi passaggi ha conservato la continuity più stretta e pregna di eventi, con "fatti, non.pugnette" (Paolo Cevoli dixit) che stanno andando a costruire uno dei Dylan più affascinanti di sempre.
- "Si', ok, ma come recupero tutta la storia?" Ogni volta che un nuovo numero del Pianeta dei morti si palesa in edicola si susseguono da parte del lettore classico dell'indagatore dell'incubo Bonelli, quello abituato ai numeri autoconclusivi, le solite scene di panico generalizzato: "dove trovo i vecchi numeri? Macchebastardi!! Il mio edicolante la volta scorsa stava in vacanza e non me lo ha tenuto da parte, cosa devo fare per non suicidarmi? Perché non è stato distribuito a Orrido, località nei pressi di Colico?". Niente timore! Come sempre qui ripeto, per obblighi di servizio autoimposti, tutta la saga è raccolta in un bel volume cartonato delle edizioni Bao da fumetteria/libreria, facilmente reperibile, intitolato appunto Il pianeta dei morti per poi continuare sullo speciale Dylan Dog numero 29 La casa delle memorie e su questo numero 30, che probabilmente saranno pure loro raccolti insieme in un cartonato Bao. La continuity, se la conosci puoi combatterla. Se la conosci non ti uccide. 


- Un nuovo viaggio nell'incubo futuro di Bilotta: continua con questo nuovo numero l'affascinante lavoro di distillazione dell'universo dylaniato in una forma nuova e compatta ad opera del bravo Bilotta. Un autore che davvero riesce tanto a legare le storie classiche quanto a portare il nostro anti-eroe in territori nuovi e finora inesplorati, vincendo la struttura gioiosamente anarchica quanto "tendenzialmente chiusa". Il suo Dylan ha una struttura solida e percorre un complesso percorso di vita senza però tradire il personaggio di Sclavi, conservandolo integro e libero. Un lavoro davvero complesso ma che secondo me riesce ad appagare tanto il lettore di vecchia data quanto il neofita, anche perché le citazioni più dirette provengono, almeno per ora, dal "bagaglio indispensabile" del lettore dylaniato, i numeri più noti, amati e ristampati. Il numero 29 ci presentava un mondo dei morti spaventosamente non troppo dissimile dal nostro, in cui i non morti erano forse un'altra faccia delle persone che in numero sempre maggiore cadono in stato di povertà a seguito della dilagante crisi sociale. Una under-Class vera e propria che dalle periferie minacciava di espandersi verso il cuore del mondo moderno, rappresentato in qualche modo dalla Londra del futuro. Il 29 era un numero in qualche modo politico, in cui le soluzioni alla minaccia zombie erano in sostanza due: affrontarla o scappare. La strenua sopravvivenza sul campo e una lotta del fenomeno all'interno delle istituzioni, con la polizia dell'incubo in prima linea nel recupero degli infetti con un apparato anche di tipo assistenziale (e anche qui si palesa il "Dylan assistente sociale" che fa più volte la sua comparsa anche sulla serie regolare). Oppure una fuga controllata dalla realtà dimenticando da principio il problema, eregendo delle mura, aderendo ai cosiddetti immemori e decidendo sostanzialmente di drogarsi fino a di dimenticare tutti i guai del mondo, ma forse anche se stessi. E' proprio da questa ultima soluzione che muove i passi il numero 30, che si caratterizza invece con un approccio più vicino a tematiche teologiche. Anche se politica e religione sono sostanzialmente facce della stessa medaglia, non è più una questione di "dove stare" (in prima linea o su un eremo) ma di "perché starci". Ci si domanda se la vera felicità possa davvero risiedere nell'essere immemori, il che significa una razionale/cinica scelta di vivere all'interno di una rassicurante bolla fisica quanto emotiva apparentemente posta fuori dal tempo (anche se per ingannarlo una tintura di capelli sembra un'arma spuntata), adagiandosi a un infinito ripetesi di eventi che, per restare immutabile, non permette in fondo di essere né felici né tristi, ma perennemente stunned.  Oppure se è preferibile levarsi questa corazza e affrontare il mondo avendo fede. Fede nella nascosta ma potenziale capacità dell'uomo di cambiare il mondo. Ma anche fede in un ordine sovra-ordinato che possa fornire la bussola di ciò che è buono e ciò che è cattivo. Una razionalità spietata che decide di non combattere una guerra già persa o una convinzione così forte nelle capacità umane da permettere di provare a combatterla. Senza contare che tra ragione e religione c'è spesso come terzo incomodo il caso, che agisce con regole tutte sue. Anche se una persona razionale lo farebbe rientrare in una statistica, pur minimale, e una persona religiosa leggerebbe in eventi incontrollabili e spiazzanti delle prove di fede. Ed è interessante come i personaggi di Bilotta si scambino di continuo le maschere della fede e della razionalità, pur rimanendo in balia del caso SPOILER quanto a livello simbolico si vede un Lucifero (Xabaras con le sue manie da "salvatore del mondo") che veste i panni di Prometeo (il dottor Simon, che offre il dono della conoscenza agli immemori) per "taroccare" una realtà meccanica che si sarebbe risolta da sola senza alcun intervento divino o diabolico (la guarigione del paziente zero). Quasi il simbolo di una spiritualità che non trova più posto nell'era moderna (e la cosa potrebbe anche non essere un bene, ve lo pongo come riflessione senza voler forzare alcun giudizio personale... perché ritengo che sia bello poter riflettere liberamente su queste cose ed è interessante che da un fumetto possano scaturire simili riflessioni)  e deve "forzare le cose" per mantenere il suo ruolo. FINE SPOILER Al di là di queste suggestioni che Bilotta spalma anche con sagacia e ironia, il numero ci offre nuovi punti di vista per capire il suo Dylan e fa delle rivelazioni piuttosto importanti che avranno sicuramente peso nel microcosmo del nostro antieroe anche nell'immediato futuro. Narrativamente è per me una delle letture più belle dell'anno. Camagni, che già aveva donato grande umanità al Napoleone di Ambrosini, evidenzia al meglio le debolezze e acciacchi del Dylan di mezza età. Un eroe fragile e impotente anche alla luce del complicato periodo di vita che sta trascorrendo, ma anche un uomo che sta cercando di rialzarsi, che vuole ancora riuscire a cambiare il mondo. Anche il resto dei personaggi in scena sono un po' soli, tristi e decadenti, non c'è molta azione anche perché non è a quella che il numero punta. Ma tutti i personaggi si muovono su uno scenario davvero di impatto, pieno di sfaccettature e suggestioni. Dal grande demiurgo Werner che letteralmente (ma è un trucco) cammina in aria sulla nuova Londra al dottor Simon, che si muove guardingo e spaventato tra vicoli oscuri. Dalla stanza contenitiva dentro la quale come ombra bestiale si muove il paziente zero, al museo di arte moderna dove i non morti all'interno di un cubo di vetro diventano un opera-zombie viva e morta insieme. Immagini che si scolpiscono subito in testa, cariche di simbolismo anche se spesso solo accennate, assoggettate al meraviglioso racconto di Bilotta.
- In conclusione: questo speciale numero 30 è per me un numero irrinunciabile, che continua con grande estro una delle storie di Dylan Dog più belle di sempre. Potrei forse dire che la storia in questo caso è più bella dei disegni, ma il lavoro dei professionisti coinvolti in questa storia è assolutamente strepitoso. Un fumetto davvero imperdibile se avete amato o ancora oggi amate questo personaggio. E' davvero una dolce tortura che per aspettare un numero nuovo ci tocchi aspettare ogni volta un anno intero. 
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mercoledì 28 settembre 2016

Indivisibili - la recensione del film di Edoardo De Angelis



Sinossi un po' allungata: Siamo dalle parti di Castel Volturno. In una casina minuta, fatiscente ma piena di ogni comfort  (dal televisore al plasma allo.... "scalda castagne"), vivono, insieme allo zio (Marco Mario De Notaris), papà Peppe (Massimiliano Rossi) e mamma Titti (Antonia Truppo,  David  2016 per attrice non protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot),  le giovani Viola e Dasy (le esordienti Angela e Marianna Fontana). Due ragazze solari e carine che, come tutta la loro famiglia e tutti i personaggi della pellicola, parlano in stretto dialetto campano, al punto che il film è completamente sottotitolato, come il Baaria di Tornatore. Dasy è estroversa, ha un carattere forte, porta sempre da vera rocker dei mezzi - guanti neri come Madonna. Sogna di cantare in pubblico brani di Janis Joplin, di innamorarsi, di girare il mondo. Viola è timida, coccolona, molto religiosa, sempre con una parola gentile per tutti. Sogna di vivere felice insieme a persone che le vogliamo bene. Viola e Dasy, due anime allegre che  condividono per una piccola parte, a livello del bacino, lo stesso corpo. Gemelle siamesi, alla maniera delle gemelle Hilton protagoniste dello storico film Freak (anno 1931 di Tod Browning). Se non fosse per quel lembo di pelle spesso nascosto dai jeans o dalla gonna non si direbbe che sono unite, ingabbiate, condivise l'una con l'altra. Unite al punto che quando una delle due beve troppo, l'altra prova di riflesso l'ubriacatura. Viola e Dasy sono così da sempre, hanno accettato la loro diversità perché non hanno mai visto possibili alternative e sembrano felici. Con qualche difficoltà riescono pure a correre sulla spiaggia giocando con un pallone. Possiedono entrambe voci intonate per la gioia di papà Peppe, il poeta della famiglia, il cantante mancato che le ha istruite a dovere fin da piccole per farne un duo neo-melodico. Ma nonostante questo talento, la gente che accorre ai concerti oltre ad ascoltarle vuole "toccare quel legame", mettere mano a quel lembo di pelle misterioso che lega Viola e Dasy. Viola e Dasy in fondo, anche se "non se ne preoccupano", anche se sono coccolate e amate da questa strana famiglia (che in fondo è meno disfunzionale di altre), sono "mostri". Mostri nell'accezione più oscura e originale del termine: "corpi da mostrare", che vengono caricati di significato spesso e solo dagli occhi di chi li guarda. Occhi interessati alla loro diversità, al loro essere stranezze fisiche. Nella scena della comunione ad una bambina viene detto dalla madre, invitandola a toccare quel punto al bacino: "Tocca, tocca che porta fortuna!". In fondo per tutti Viola e Dasy sono dei "corpi". Corpi che fanno sentire i normali più fortunati e al contempo crudelmente curiosi. Un aspetto il  film rimanda a Marco Ferreri, amabilmente omaggiato,e al suo storico e scomodo La Donna Scimmia. Corpi che "per chi ci crede" forse sono segno di un intervento divino, i "diversi" visti come angeli, magari  in grado di compiere miracoli. Aspetto che ci rammenta invece uno dei passaggi più struggenti di Educazione Siberiana trasposto al cinema da Gabriele Salvatores. Tanto che la gente guardi le gemelle come cantanti che come sante, la loro famiglia coglie queste suggestioni al punto da superare e supportare, a modo suo, i limiti dell'handicap, arrivando però a fare troppo, arrivando quasi a "branderizzarlo". E' così diventato per la famiglia una bandiera e una piccola hit il brano di chiusura dei concerti delle gemelle:  "Indivisibili". Questo titolo viene usato anche come nome del duo, scritto in grande insieme al recapito telefonico sulla fiancata del furgone che porta il gruppo ai concerti e che guida sempre e solo papà Peppe. Le cose vanno bene, il brand funziona. Un grosso produttore (Gaetano Bruno) rimane affascinato e si sta già muovendo per farne le nuove Tantangelo.  Le gemelle sono ugualmente richieste dal parroco locale (Gianfranco Gallo), perché ci sono pure testimonianze di gente che ha toccato "quel lembo che le unisce" e che poi ha sentito "profumi mistici", ha ricevuto miracoli, ha cambiato la vita. Anche quello è un business, tutto fa business. La famigliola intera gravita nell'entourage di queste due  sante/neo-melodiche, tra un concerto per i 16 anni e uno per un matrimonio, con tutto il folklore che ci è noto (a noi che non viviamo in quella splendida e vivace area d'Italia) da film come Song'e'Napule dei Manetti Bros e dal fortunato programma di Real Time Il boss della Cerimonie. Poi qualcosa cambia. Mentre stanno sempre in giro con il loro furgone, sempre sorridenti, Viola e Dasy stanno per diventare adulte. E accade il "fattaccio", nella persona di un medico interpretato da Peppe Servillo (cantante degli Avion Travel che non a caso in Paura 3D dei Manetti interpretava un tipo pericoloso). Il medico vede le gemelle e subito è sicuro, lapidario: non ci sono organi in comune, le può dividere. Lo farebbe gratis. Lo farebbe però a Ginevra, per un pallino suo, e per il viaggio e la sala occorreranno ventimila euro. E visto che saranno tra poco maggiorenni la scelta di fare o meno l'operzione potrebbe essere tutta delle sorelle.  Dasy vorrebbe toccare il cielo con un dito. Potrebbe girare il mondo, innamorarsi, andare alle due di notte a prendersi un gelato, ubriacarsi senza avere il senso di colpa di aver fatto ubriacare Viola. Viola è spaesata, è emozionata o forse solo subisce l'emozione (attraverso il corpo) di Dasy,  ma ha più paura di restare sola rispetto ai molti vantaggi della libertà. La famiglia invece entra nel panico al punto che è lei a diventare il vero "mostro". Papà Peppe reagisce con rabbia, vede svanire i suoi sogni di autore musicale e il futuro delle sue bambine, perché è convinto che, in questo brutto mondo, senza quello strano legame fisico a "sponsorizzarle" e renderle uniche, le gemelle non le noterà più nessuno. Inoltre si rivela vittima del gioco d'azzardo e inizia a considerare ossessivamente le figlie una sua proprietà esclusiva. La mamma Titti di conseguenza diventa il fantasma di se stessa, si ripete autisticamente che separarle sia un male ma non sa cosa volere veramente. Teme più di tutto il confrontarsi con un marito che sta diventando sempre più ombroso. Il prete e lo zio, con quest'ultimo che proprio non tollera quando Daisy dice le parolacce perché "Non è da santa",  non vogliono rinunciare alle loro sante. Soprattutto ora che si deve porre la prima pietra della nuova chiesa, vederle separate è fuori questione. Che miracolo sarebbe? Chi ci viene più alla inaugurazione della chiesa poi? Nessuno si preoccupa di cosa vogliano davvero le gemelle e per le due c'è come unica possibilità solo una fuga, rocambolesca e sconclusionata, dalla casetta di famiglia. Da qui ha inizio un viaggio che ha i contorni della favola nera quanto di una prova iniziatica. Per la prima volta Viola e Dasy saranno sole nel mondo e non è detto che troveranno un mondo disposto ad aiutarle. Riusciranno a recidere quel prima accogliente e ora sempre più scomodo cordone ombelicale? 


La donna scimmia neo-melodica: dopo il micro-cosmo di Perez, Edoardo de Angelis torna a raccontare come in Mozzarella Stories una storia corale con protagonista la campagna campana. Un luogo picaresco e senza tempo, brullo e dai colori accesi, molto kitch e molto spietato, ma qui dall'animo più gentile. Il soggetto di Nicola Guaglione punta dritto verso la favola e risulta lontano dal sangue e la carnalità fatta di dita mozze e teste recise varie della sua opera più recente e titolata, Lo Chiamavano Jeeg Robot, se non per una interessante/sconcertante soluzione nel finale, davvero "forte" e in grado di imprimersi nelle retine degli spettatori. Imprimersi come la bellezza acerba e strabordante delle sorelle Fontana, attrici che con il loro sorriso e forme avvenenti riescono a distrarci completamente dalla loro disabilità e a farci desiderare pulsioni non dissimili da quelle provate dal personaggio di "Marco Ferreri" della pellicola (interpretato da Gaetano Bruno). Il film non si spinge troppo nel grottesco, ma qualcuno potrebbe fantasticare sui loro corpi avvenenti "duplicati dalla natura" similmente come si facevano sogni strani negli anni 90 sulla prostituta marziana con tre tette di Atto di Forza di Paul Verhoeven. E questo crea uno strano corto-circuito nello spettatore che si sente in questo un po' sporco e morboso, alla maniera di Ugo Tognazzi ne La donna scimmia. Perché poi le Fontana sono davvero brave e autentiche nel rivelare il loro animo dolce, l'ingenuità propria delle bambine diventate solo da poco adulte, e anche noi ci sentiamo in qualche misura "mostri" ad averle guardate in quel modo, come oggetti di carne, alla maniera dei genitori e del prete e di tutto un microcosmo di personaggi che prima inconsapevolmente e poi volontariamente vuole che le due ragazze siano infelici. A peggiorare le cose, le due ragazze sono costrette a cantare, bene, le classiche canzoni smielate neo-melodiche che vomitano parole di miele su amori travolgenti e sul fatto che tutti hanno diritto di essere felici allo stesso modo e possono fare quello che vogliono. Quasi una tortura psicologica che se prima, quando l'operazione non era ancora possibile, veniva accettata, dopo diviene francamente insostenibile, un grido di dolore. 
Una favola nera: Il film gioca quindi sulla morbosità cui si associa l'esposizione della diversità/ mostruosità fisica, ma è una fisicità solo suggerita, quasi da favola e non certo con la volontà di replicare le suggestioni legate alle sorelle siamesi interpretate da Sarah Paulson di American Horror Story Freak Show. 
Ma anche se cerca di percorrere i territori della favola, questo non impedisce alla pellicola di essere una favola nerissima. Facile vedere nella fuga delle due gemelle la volontà dei giovani di andar via da una realtà, quella italiana, che in piena crisi dei valori fagocita tutto, brutalizza tutto, sembra quasi finalizzata a distruggere chirurgicamente i sogni dei giovani. La religione sembra un sempre più strano e confuso orpello del passato. La musica non solleva gli animi, ma mente idealizzando un mondo che non esiste o non è accessibile allo stesso cantante. La famiglia è un castello di carte che pur di stare ostinatamente in piedi preferisce incollare a sè i suoi componenti. Ogni possibile cambiamento dello status quo fa paura, è morta persino la speranza che le cose si possano migliorare. Rimane l'ironia a salvarci, ma è troppo poco e bisognerebbe avere la forza di sperare in qualcosa di meglio. Così le due gemelle scoprono come quella che potrebbe essere una notizia positiva sia in grado di diventare una maledizione e la morale della loro favola, la fine del loro viaggio alla scoperta del mondo, avrà dei risvolti curiosi sui quali non vogliamo rovinarvi la sorpresa. Un finale che si presta a diverse interpretazioni e che non lascerà indifferenti. 


Uno dei film più acclamati a Venezia: anche se fuori concorso, Indivisibili è piaciuto a Venezia ed è entrato anche nella short - list dei titoli italiani che potevano concorrere come migliore film straniero nella notte degli Academy Awards ( alla fine è stato scelto Fuocoammare). Un successo che riteniamo del tutto meritato. Molto bravi gli attori. Massimiliano Rossi interpreta un personaggio complesso, doppio, in grado di compiere slanci acrobatici tanto nella gioia che nella rabbia senza perdere una corazza ironica. Il personaggio di Antonia Truppo è ugualmente intenso. Una donna al limite con un animo troppo a lungo calpestato dalla vita e dallo stesso marito, che fatica a resistere alle infinite frecciate cattive che lui le invia considerandola alla stregua di una prostituta. Una donna in fuga dalla lucidità di una vita che non vuole avere, che non si dimentica, da qualche parte, di essere madre ma che non ha forza di reagire. Gianfranco Gallo interpreta un prete "che si è perso" e che sembra uno di quei predicatori americani esagitati. Vorrebbe quasi essere un anchorman e gli piace cantare con l'accompagnamento di bonghi africani davanti a una parrocchia in cui sono per la maggioranza stranieri, in processione lungo una spiaggia in cui la statua di un Cristo di legno rotto è abbandonata per terra ( e che lui sostanzialmente ignora). Più che delle sante vorrebbe degli elefanti, per rendere più pomposo il suo show. Lo zio Nando di Marco Mario De Notaris èun ossessionato solo apparentemente mite e tranquillo che è  così convinto che le gemelle siano/debbano essere delle sante da non sentire ragione, da redarguirle ogni qual volta escano dalla "immaginetta mentale" che ha cucito per loro. Il Marco Ferreri di Gaetano Bruno è un uomo che vive di eccessi, un esteta diventato quasi indifferente al mondo al punto da accumulare stranezze sul suo piccolo zoo galleggiante. 
Angela e Marianna Fontana, circondate da tutti questi "mostri", con la loro giovinezza e la loro voglia di "staccarsi" da questa famiglia allargata, rappresentano forse l'unico spiraglio di luce, gli unici personaggi positivi di questa favola. Hanno interpretato il "corpo condiviso" di Dasy e Viola con molta umanità, vulnerabilità e determinazione in una prova di recitazione difficoltosa tanto a livello fisico che emotivo, ma che si è rivelata in sala davvero interessante. Il regista è stato bravo nel costruire un mondo con poche pennellate, allontanandosi con classe dalle facili derive patetiche, usando bene l'arma dell'ironia e adottando un sorprendente registro action. Ma soprattutto si è dimostrato un ottimo direttore di interpreti. 
Non si può infine non parlare del lavoro di Enzo Avitabile per le canzoni. Dei brani che diventano quasi l'inconscio del personaggi e arricchiscono davvero il film, ne scrivono il DNA. 
Indivisibili è quindi un film notevole, che possiede diversi livelli di lettura e riesce come pochi ad incantare. Abbiamo di recente visto Il Racconto del Racconti di Garrone e il supereroe di Mainetti e dopo questa favola moderna di De Angelis ne vogliamo decisamente ancora. Vogliamo che il cinema italiano continui, come in passato, come con Fellini e con Ferreri, a raccontarci favole piccole e grandi. 
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mercoledì 21 settembre 2016

Dylan Dog n.360: Remington House


Una magione orrenda, claustrofobia, spettrale. Ad amplificare l'orrore pare di trovarci davanti alla casa infestata dell'incipit del nuovo Ghostbusters "quote rosa". Solo a citarlo mi viene già la pelle d'oca. Al suo interno si è svolta una elaborata e cruenta strage familiare così incasinata che per numero di armi, vittime e location pare una partita di Cluedo. Remington House è così diventata una delle case maledette di maggiore richiamo turistico. Tutto è stato conservato al suo interno come nel giorno della strage, con tanto di riproduzione del candelabro insanguinato sulla veranda in cui è stato ucciso il colonnello Mustard. Ci sono i poster, le magliette, le cartoline e le guide accreditate, con la giusta teatralità de caso, riproducono davanti a visitatori biglietto muniti, con voci spettrali e giochi di luci, i momenti salienti del massacro. Quale posto più bello per fare delle foto ricordo da inviare a Natale agli amici più cari? Tuttavia il business del "famoso e cruentemente estinto" non tira più come un tempo, si vede che siamo in Inghilterra e non in Italia. Il lavoro è poco e la concorrenza tra i dipendenti della casa maledetta davvero spietata. Una delle due guide vede vacillare il posto fisso e in clima di spending review c'è poco da ridere, anche perché la guida rivale è più brava, più teatrale, più simpatica. Ma un colpo di fortuna potrebbe cambiare le carte in tavola. Un imberbe e ancora non ex alcolizzato e vegano Dylan Dog, ancora con la divisa da poliziotto, viene scovato tra le foto storiche di Remington House. Lui c'era nel giorno della strage e potrebbe fornire dei dettagli nuovi sull'accaduto. Così la guida astuta, che naturalmente è un figone da paura, va a bussare al 7 di Craven Road e con qualche sotterfugio convince il nostro eroe a ripercorrere un doloroso amarcord. Ma appena Dylan arriva nella casa del Cluedo qualcosa di brutto e ancestrale si risveglia e pretende che la recita giornaliera sulla ricostruzione di quei fatti di sangue annoveri anche lui tra i suoi protagonisti. 
Paola Barbato "ci sta andando in fissa" con le case misteriose. Tra le case possessive e nostalgiche (simili alle macchinine abbandonate della Route 66 di Cars della Pixar) del numero 347 della collana, Gli Abbandonati, e le case cemento-organiche della Luino post-umana di Ut (prima o poi dovrebbe uscire un post in merito), la nostra amatissima Paola, un po' come Paola Marella, ci parla anche qui di come in tempi di crisi il mercato del mattone si faccia sempre più bizzarro. La casa diventa di nuovo la protagonista, in una ricetta che qui profuma di classicismo Hammer, miscelato con suggestioni del Craven ultima maniera, impastato con le "rancorose" fragranze orientali vicine alla cucina di Takashi Shimizu. Ciliegina sulla torta una meravigliosa dose extra/size di splatter anni 70-80, amabilmente "di marca", amabilmente "analogico" (fosse un film, non ci sarebbe computer grafica ma dei bei pupazzoni sanguinolenti uniti dal classico corredo di arti mozzati in pieno stile Tom Savini). L'orrore scaturito si fa ingranaggio crudele programmato per ripetersi all'infinito. La storia della Barbato riecheggia, per stigmatizzarle, le brutte pagine del turismo necrofilo. Ci fa immaginare con un mcguffin paranormale come tutta la bramosia oggi imperante per i fatti di sangue possa in qualche modo trasformarsi, facilmente, in un culto dell'osceno. Un trascendente deforme glorificato dalle mille pagine dei quotidiani e dei social che un giorno potrebbe venire a "chiederci il conto". La Barbato intercetta bene questo "spirito" per un numero che parte quasi come un'innocua partita di Cluedo, si trasforma in una tragicomica pantomima alla High Spirits e diviene infine una bella orgia di sangue stile Gli Invasati con quel tocco anarcoide ed esagerato delle sopra-citate trovate splatter di fine settanta. La storia è carina, fila dritta fino alla fine senza troppi colpi di scena, è divertente e dotata di un buon ritmo. E' chiaramente scritta al servizio dei disegni, che fanno la parte da leone, ma forse l'equilibrio poteva essere migliore. L'azione è concitata, pure troppo, e in fondo travolge tutto al punto che tre minuti dopo la fine della lettura già si dimenticano completamente i personaggi del racconto, un po' come fossero figurine interscambiabili. Ed è un peccato perché non sfrutta bene la possibilità di parlarci del "giovane Dylan", quello scontroso e scostante che abbiamo per la prima volta potuto "incontrare" nel celebre primo crossover con Martin Mystere e che rimane ancora inedito e interessante. Chissà che prima o poi la Bonelli affronti direttamente l'argomento, un po' come sta facendo ora per Nathan Never, presentandoci magari accanto alla collana Old Boy una Young Boy. Fatecelo vedere più rabbioso e meno maestrino, il nostro Dylan. Fatecelo vedere quando l'alcol per lui era diventato un vero problema, aspetto che ci viene detto da anni e anni al punto che deve essere qualcosa di "potente" e può far riflettere anche quel pubblico giovane che la casa editrice negli ultimi tempi cerca sempre più di intercettare. Ad ogni modo la storia fila ed è molto, ma molto gradevole alla vista, grazie al meraviglioso lavoro di Gerasi. Questo giovane disegnatore (dico "giovane" in quanto mi è quasi coetaneo) qualcuno della vecchia guardia  lo ricorderà anche su Lazarus Ledd. Mi era capitato per mano in tempi più recenti (forse tre anni fa) una volta pure un fumetto di Carlo Lucarelli disegnato da lui, e lì il suo stile era già molto buono. Come su questo numero 360, possedeva una ricca e complessa gestione della tavola, carica e "sovraccarica" di personaggi e dettagli di scenografia, ultra definiti e particolareggiati, una tavola tuttavia sempre limpida, esatta nella rappresentazione, intellegibile. Mi ricordo poi ovviamente anche il suo lavoro su L'ultima trincea, della collana Le Storie, che abbiamo trattato anche su questo blog. Veniva confermato il suo talento grafico e si palesava ulteriormente un'ottima predisposizione nella costruzione di scene action e orrorifiche. E per Remington House Gerasi crea dei momenti splatter-horror davvero d'impatto, facendo qualcosa di davvero favoloso per la caratterizzazione delle star incontrastate di questo numero, i "posseduti" . I loro corpi esteriori sono costumi di carne sgraziati e mutilati dal cui interno (e in genere da ogni cavità aperta) si muove, variando di dimensione ma in connubio con l'organismo, il fantasma che li comanda. L'effetto è molto "carnalmente Cronenberghiano", mi vengono in mente soluzioni visive di Videodrome, Inseparabili e la Mosca. Ricorda anche il Freddy Kruger di Nightmare 2 che cerca di uscire dalla pancia del protagonista allungandola come una gomma, ricorda un po' l'Edgard-Abito del primo Men in Black. Ma soprattutto cita a piena mani Society di Brian Yuzna, con le sue costruzioni sensuali e repellenti di  carni aggrovigliate. Quando scopro spulciando in rete, in un'intervista rilasciata a Lucca, che Gerasi ha pure scritto un racconto breve per Horrorama, una collana antologica proprio di Yuzna, il cerchio in qualche modo si chiude. Questi posseduti sono favolosi e se amate il filone più splatter e organico dell'horror dovete vederli e vederli in azione. Forse l'ho già detto sei volte, ma sono davvero spettacolari. Un plauso alla Barbato che ha lasciato a Gerasi tutti gli spazi possibili per espandere i suoi disegni.


In sintesi. Una storia che ha una costruzione di base interessate e uno svolgimento molto action (pre troppo) che permette a Gerasi di diventare con i suoi disegni mattatore assoluto del numero. Dateci ancora Gerasi su questa collana se potete, è il disegnatore giusto per Dylan Dog. Recchioni nell'introduzione dell'albo ci dice che a fine settembre uscirà un numero molto importate per la testata per festeggiare il trentennale. Sono per l'occasioni previste molte interessanti iniziative, anche legate a Radio 24, compreso un incontro a Milano presso il cinema Odeon (il 26, dalle 18 alle 24 pare) ricco di autori e proiezioni. E, incredibilmente, per accedere in sala dovrete solo avere con voi una copia di questo numero 360. Nessun biglietto. Se non ci va tutto il pianeta terra e riusciamo a combinare gli impegni, magari ci trovate anche me è il mio socio. 
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sabato 17 settembre 2016

Ut - la miniserie di Corrado Roi e Paola Barbato: parliamone un po'



Ut è un uomo dal volto bendato, un assassino crudele, un sognatore e forse un pazzo. Custodisce insieme a Decio, l'entomologo, la Mastaba, una costruzione che racchiude un essere misterioso, tenendolo lontano dal mondo. Anche il mondo in cui vive Ut è misterioso. Popolato da creature che non sono più uomini, pervaso dalla violenza e dal cannibalismo, incistato da sette che sorvegliano ogni strada e retto da padroni crudeli e occulti. Un mondo deragliato fuori dalla vita. Senza bambini, senza gatti. Un mondo senza cuore in cui i vivi e i morti hanno la stessa forma e lo stesso volto. Ma anche un mondo pieno di eccezioni. La prima delle quali è Ut stesso, che dichiara di non essere come tutti gli altri perché in fondo "mai nato". 
Ok. Questa non è la solita analisi strutturata (male) dal sottoscritto, quanto più una chiacchierata ideale con chi lo ha letto. Per me l'acquisto, in duplice copia (edicola - fumetteria... E se esce cartonato Bao pure una terza copia...) di Ut è sempre stato un imperativo categorico. Corrado Roi è "semplicemente" il motivo per cui sono passato dai fumetti di Topolino alle opere Bonelli. Nello specifico galeotto fu un numero di Martin Mystere disegnato da lui, in cui l'eroe veniva "smembrato e ricomposto" da una entità chiamata Baphomet; mi rimase impresso a fuoco nelle retine. Un senso dell'azione brutale, visi torvi e lombrosiani, delle ombre pazzesche. Mai visto all'epoca tanto sangue e smembramenti (ero piccino), non sapevo nemmeno che un fumetto potesse "far vedere" cose di quel tipo. Roi si è poi stabilito quasi in pianta stabile su Dylan Dog e io ho iniziato a leggere Dylan Dog, scoprendo quell'uomo immenso che è Sclavi. Il resto è un po' storia. Tagliando corto, Corrado Roi è sempre stato e sarà nel mio cuore e tutti i brutti disegnini che pasticciavo da ragazzino, prima di fumarmi l'anima con i manga, cercavano di copiare (miseramente) i volti espressivi e le pose aspre di Roi.
Ut nasce come sogno nel cassetto di Roi. Il personaggio gli è "cresciuto dentro" per anni, insieme allo strano mondo in cui vive, fatto di "esseri non umani", cannibali e filosofi, architetti e sognatori. Roi non lo aveva mai davvero "definito" ma immagino che Ut "urlasse" per uscire su carta. Aveva un legame profondo con lui, al punto che l'occhio dei più esperti ha subito scorto nelle sue schematiche scenografie persino degli scorci di Luino, città natale dell'autore. Il disegnatore finalmente ha accontentato Ut, volendogli donare non solo una forma ma anche una voce. E questa di fatto è la prima storia che Roi scrive oltre che a disegnare. Con estrema umiltà, fiducia e amicizia,Roi ha  voluto essere accompagnato nel viaggio da Paola Barbato, una delle penne più amate di Dylan Dog (ovviamente anche da me). Paola ha cercato di affiancarlo senza guidarlo troppo, lasciando quanto più pura possibile la magmatica materia di cui erano stati cullati per anni i sogni su Ut. Quello che ne esce, oggi che è su carta,  è spiazzante, sorprendente, originale e davvero molto, molto strano. Ut è un'opera che trasuda fascino scegliendo di rimanere ingarbugliata in una complessa rete tanto di disegni che di testi. La massima espressione di una mente vitale e non addomesticata dalle classiche regole di scrittura. 

Dal punto di vista dei disegni Roi continua ed estremizza il suo percorso di destrutturazione della tavola. Negli anni ha sempre più puntato a mettere al centro del disegni le figure umane, tendendo a rendere stilizzati e simbolici (se non proprio ad annientare) i fondali. Corpi che così dominano la scena, che appaiono tridimensionali, scolpiti, con occhi così penetranti da bucare la quarta parete e scrutare il lettore. In Ut il suo mostruoso studio sui volti viene valorizzato al 1000% mentre il il tratto usato per delineare le figure umane sembra mutare, dall'impostazione ultra-realistica bonelliana, verso qualcosa di più estremo e simbolico, simile per certi versi ai lavori dei giapponesi Tsutomu Nihei e Hirohiko Araki. Accanto ai fondali più tradizionali e stilizzati (nella loro funzione sempre più accessoria, simili più a rapide pennellate espressioniste ) Roi inventa qualcosa di "altro", fondali che hanno quasi dell'alieno. Strutture con le pareti spesso solo formate da corpi-statue ammassati e assemblati.  Visi giganteschi che si sciolgono dai lineamenti come il trucco delle donne a contatto con l'acqua o con le lacrime. Visi incorniciati in affreschi bio-organici alla R.H. Giger. Dei non-luoghi "vivi", avulsi da ogni tipo di geometricità o prospettiva, a soppiantare la consuetudine di case fatte da muri e cemento. Come se per Roi il livello più essenziale della architettura si possa ricavare nella scultura umana. Ciliegina assurda, buffa, su tanta organicità per lo più lugubre, dei dettagli come "il sole con faccina manga" o "i volti di gattini disegnati sul vestito e la maschera di Ut (maschera che in certi frangenti, così agghindata, pare quasi un pannolino per bambini colorato). Cagnolini che sembrano Snoopy (per quanto inquietanti). Dettagli che paiono usciti da un manga umoristico di Jacovitti o Toriyama, che di colpo alleggeriscono le tavole, le caricano di sole, ma di un sole malato e straniante. Il "sapore" delle tavole di Ut è strano quanto il suo personaggio principale. Una creatura coperta di bende come uno slave sadomaso. Con la bocca cucita da una cerniera zip in una unica espressione, fissa, ma in grado di sorridere o arrabbiarsi a seconda di come vengono disposti i due laccetti della lampo che si trovano ai bordi delle labbra. Una creatura con gli occhi enormi e fuori dalle orbite, scheletrica e ricurva, dalle movenze accentuate. Un mostro armato di roncola che spesso in scena uccide altrettanti mostri strani strappando loro gli arti con l'onomatopea "Zock" che risuona di continuo sulle tavole. Ma anche una specie di Pinocchio, a guardarla con le lenti giuste. Un non-uomo-bambino, che finito uno squartamento e amputate un paio di dita, si ferma a contare le stelle e accarezza affettuosamente il gatto Leopoldo e si intrattiene di nascosto con Yersinia (anche se raramente la chiama con questo nome). Il micio e la bambina, l'unica di un mondo di adulti, che vive solo nutrita da Ut "con le favole", sono lo strano cuore emotivo che da calore tra tanto splatter grafico in bianco e nero. Ut sembra graficamente ed emotivamente una copia insanguinata del Piccolo Principe, con immagini orrorifiche che si concentrano su coltelli e occhi come nel migliore Dario Argento. Da disegni che sembrano fuoriuscire da un libro illustrato per bambini, direttamente alle teste mozzate. Ogni personaggio vuole essere un'allegoria. Alcuni sono chiari, altri più criptici, ma tutti e tutto diventano incredibilmente complessi e complicati nella scrittura.


La storia è ugualmente difficoltosa da descrivere. E' una favola senza inizio e senza fine, innamorata del suo indefinito "esistere". Roi sembra dirci che non importa comprendere un mondo intero per starci dentro. E Ut si "muove", osservato nella sua natura da un entomologo. Ut ha le "sue ragioni", che possono essere anche "piccole" quanto umorali, ma sono per lui importanti al punto da prendere spesso anarchicamente il posto del buon senso e il filo del racconto. Sembra quasi dirci che per sopravvivere al mondo bisogna quasi pensare in piccolo, purché "il piccolo sia di valore", che sia connesso con l'insopprimibile bisogno umano della affettività. Forse l'unica scriminante tra i vivi e i morti, tra gli uomini e le bestie. Certo questo spiazza chi si aspetta l'epica o la tragedia che, pur presenti negli altri personaggi, si ammantano sempre di vana gloria, chiuse in un infinito ripetersi di fallimenti e (pochi) successi umani. Come spiazza chi si aspetta logica e risposte universali da questo fumetto. Ut, in tutte le sue pindariche fascinazione e complicazioni, è più piccolo e semplice di quanto qualcuno vorrebbe. Tutto il contorno narrativo oltre alla "fiaba" (e Ut prima di tutto vuole essere questo) è "rimandato a dopo", indefinito e "inquieto". Ogni tanto pare pure di stare in un anime come Ergo Proxy, con cui condivide malinconia e pulsioni spirituali, ma l'opera manca (soprattutto perché "non la cerca") di una svolta finale che "sistemi le cose". Una seconda stagione, con una seconda favola magari, potrebbe aiutare chi avverte nell'opera di Roi un certo senso di incompiuto, più che una ostinata allergia definitoria riguardo a eventi e personaggi del racconto. Ma il fascino in effetti c'è, così come le buone intenzioni.  E forse il senso del tutto riconducibile all' "All you need is love" dei Beatles. Posso capire però i detrattori. La trama è un po' contorta ma per me non pecca nemmeno per un secondo di carisma, con vette di scrittura davvero notevoli. Parlo della favola di Ut raccontata a puntate alla bambina, dei bambini-stele, della campana sorda con un braccio per batacchio, del filosofi che all'interno del loro corpo nascondono la verità, del popolo degli omini piccoli che teme di essere mangiato dai più grandi, dei corpi impiccato a grappolo come marionette abbandonate da un oscuro pupparo, delle "case che hanno una propria volontà e provano persino paura" (che mi rimandano a un numero di Dylan Dog, proprio a firma Barbato, che qui assume quasi una traccia interessante di lettura, il 347 "Gli abbandonati"). Ut è un fumetto denso, criptico, scomodo, probabilmente incompleto secondo i "canoni". Spesso i personaggi sembrano girare su se stessi, spesso la trama bara con salti temporali e logici. Graficamente è fin troppo surreale e indefinito, con passaggi narrativi e logici che rimangono oscuri tra una tavola e l'altra, con personaggi secondari spesso solo accennati e spesso dispersi, con "costruzioni" che barano nella loro struttura non fornendoci un chiaro senso dell'azione. Sono tanti difetti, ma che nonostante tutto non vanno ad intaccare i moltissimi pregi grafici e narrativi dell'opera. E molti dei momenti più evocativi forse non sarebbero stati possibili in una trama più liscia e in un disegno più ordinato. Ut possiede la forza dirompente di piegare gli schemi, ma  tuttavia rimane quindi "ferito" nell'impresa. L'opera può non piacere a tutti, l'opera può rimanere non capìta e abbandonata perché molte delle "risposte che servono " arrivano solo al quinto numero di sei. Qualcuno potrebbe pure fraintendere la buona fede di Roi, vederci un'ambizione che è del tutto estranea a un autore umile come lui. Ed è un peccato perché Ut è innanzi tutto un'opera intima le cui molte sfumature appartengono a un intero mondo interiore sommerso, fiori di una sensibilità unica. Ad andare di sintesi più brutale ammetto pure io di non aver "colto tutto", ma di essere pur rimasto affascinato dal viaggio. Così come affascinante è stato il modo in cui Bonelli ha proposto l'opera. Con le strane copertine ruvide come liste irregolari di pietra, con le variant da fumetteria realizzate da alcuni degli artisti più importati del panorama italiano e le note di approfondimento. Ho sentito che Roi vorrebbe andate avanti, magari con una nuova miniserie. Sono già fremente di leggerla, anche se ci volesse molto tempo. Perché Ut è un'esperienza davvero unica e non vedo l'ora di essere nuovamente sorpreso, confuso e intrigato da questo strano mondo narrativo. Talk0

mercoledì 14 settembre 2016

Suicide squad - la nostra ultra-ritardataria recensione! (e già che ci siamo anche Paradise beach)


-sinossi fatta male: Terzo film del nuovo universo condiviso DC comics. Si parte direttamente dall'epiligo di Batman v Superman. Dopo l'arrivo del generale Zod a bordo di una astronave aliena in piena Metropolis l'asticella di "pericolo" rappresentata dai cosiddetti Meta-umani si è alzata. Cosa fare, dopo la faccenda Doomsday, se a una semi-divinità, che pur il giorno prima aiuta gattini a scendere dagli alberi, gira la mosca al naso? Il buon Luthor aveva le idee chiare: che fossero proiettili alla Kryptonite o giochini mentali collaudati, l'uomo doveva inventarsi un sistema per contrastare/controllare i meta-umani qualora se ne fosse trovata l'occasione. Dello stesso parere è anche la misteriosa eminenza governativa di nome Amanda Waller (Viola Davis, carismatica e luciferina) e i suoi metodi per ottenere la sicurezza del paese non sono meno radicali. Vuole prendere i meta-umani di cui lo stato dispone in quanto sotto la sua custodia, ossia i per la maggior parte supercriminali portati in galera da Batman e compagni e allettarli a lavorare per lo zio Sam con qualche diminuzione di pena. Vuole iniettare loro, come a Jena Plissken, qualcosa di brutto a livello sottocutaneo per obbligarli a eseguire i suoi ordini sul campo, magari qualcosa che li faccia esplodere se non eseguono gli ordini o tentassero di scappare. Vuole intrupparli nella "squadra x", un manipolo di black Ops capitanato dal roccioso soldato Rick Flag (Joel Kinnaman - che ha sempre la faccia da cretino e la recitazione da cernia che sfoggiava in Robocop), specializzati in complotti e storiacce politiche che "non sono mai accadute". Vuole mandarli a combattere contro roba tipo il Gozer del primo Ghostbusters e in genere entità ultraterrene "evocate per sbaglio" dall'esercito stesso, in missioni in cui il numero delle vittime va dall'assurdo all'incalcolabile. Il succo è: "Ehi, a questi tizi piace uccidere la gente! Se li facciamo scontrare contro un esercito di mostri loro allo stesso tempo si sfogano e svolgono pure una specie di servizio sociale. Cosa può andare male?". Può andare male il fatto che se qualcuno non vuole fare quello che vuoi tu, ti tocca costringerlo. E Amanda Waller non perde troppo tempo a far irritare "l'incantatrice" (Cara Delevingne), una entità paranormale di migliaia di anni per il cui contenimento utilizza una specie di bambolina voodoo. Lei ne avrà a male e terrorizzerà una città intera. Per affrontarla sarà mandata la prima squadra di galeotti meta-umani disponibili e sacrificabili. Un cecchino velocissimo e infallibile di nome Deadshot (Will Smith, che funziona sempre bene e qui è un po' il protagonista), una super combattente svitata come Harley Queen (Margot Robbie, magnifica e bravissima a rubare la scena a tutti), un pyrocineta conosciuto come El Diablo (Jay Hernandez, che poi è il ragazzo del primo Hostel, non il fesso tatuato a vita che si vede in 47 Ronin), un grosso e cattivo mutante squamoso come Killer Croc (Adewale Akinnouye-Agbaye che lo rende meno peggio di come mi ero immaginato) una ninja armata di Katana che si chiama... ehm... Katana (Karen Fukuhara) e un australiano hooligan che usa dei boomerang e va in giro con il pelouche di un unicorno rosa  (Jay Courtney... Che è divertente ma ha un personaggio davvero senza senso). Insomma. Ce la faranno un tizio che spara bene, una tizia che mena duro, un coso grosso squamoso, la stereotipata asiatica con la spada, il depresso uomo fiammifero e il coglione con i boomerang a far fronte a una minaccia stile Gozer dei Ghostbusters che ha zombificato e armato un'intera città e minaccia di distruggere il mondo? Non è già evidente che hanno fatto una cazzata nella selezione dei nostri eroi?


- Il culo di Blake Lively ci salverà: Blake Lively è protagonista del film che viene proposto nella sala a fianco di Suicide Squad nel multisala dove mi reco di solito. Si chiama tipo The Shallows o Paradise Beach o quello che è e parla di lei che va a fare surf, finisce sul dorso di una balena morta vicino alla spiaggia, incontra uno squalo che non vuole che torni più a riva, conosce un gabbiano di nome Steven Seagal (ma è un nome d'arte, non è interpretato dal noto artista marziale vestito da volatile, anche se sarebbe stato fantastico,  ma un gabbiano vero che si chiama in realtà Stevie Seagal, come si apprende dai titoli di coda). Il film con Blake Lively sono 80 minuti in cui si vede unicamente questa dea bionda arrapante in bikini a nuotare tra i flutti facendo garini con uno squalo digitale tra una boa, uno scoglio e una tavola da surf. E naturalmente parla con Steven Seagal, che emana carisma da ogni piuma. Blake e': "Oh mio dio!!". Gambe chilometriche, gli occhi azzurri penetranti, culetto con la sabbia ancora appiccicata per effetto dell'abbronzante, l'acqua che va a valorizzare e rendere lucenti le sue forme, il bikini che nasconde un seno invitante quanto Venere, prima nascosto da una muta e poi rimesso alla luce dei giusti. Tutto su maxi-schermo. 
Ma perché vi parlo di questo?

Perché ho letto in rete tanta di quella merda su Suicide Squad che mi davo quasi del fesso ad andare a vederlo in sala. Così ho deciso di affrontarlo in "double vision" con Paradise Beach subito a seguire al film supereroistico. Almeno sarei tornato a casa con qualcosa di memorabile. Paradise Beach è un film del cazzo nella sostanza, ma nella forma vi posso già confermare che è uno sballo totale. Cioè, lei è "lo sballo totale" e regge da sola 80 minuti. E recita pure bene! Poi c'è una fotografia pazzesca, una regia convenzionale ma discreta, qualche bel momento di tensione e pure un momento alla The Blair Witch Project. Rimane una "cavolata" ma è godibilissimo. Insomma, prima di vedere Suicide Squad avevo già pronto il piano b.



- (premessa alla mia visione, lunga noiosa e contorta e che tira in ballo Batman v Superman, studios cattivi, fan miopi e bla bla bla... Saltare pure se non interessa)  torniamo nell'inferno della DC Comics e lo scopriamo meno peggio di come ce lo ricordavamo.
Il marketing sta distruggendo il cinema. Da sempre. Più il film è ricco e legato a personaggi importanti per uno sfruttamento commerciale, più c'è gente  ai piani alti che "deve dire la propria". E non tutti dicono la propria allo stesso momento. Così, ipotesi, metti che in Batman v Superman devi pubblicizzare una jeep e il produttore vuole che la fai vedere su schermo almeno tre minuti. Allora Batman deve usarla questa Jeep. Perché Superman vola e quindi "il campo si restringe". Quindi Bruce Wayne, mentre è in atto una invasione aliena con morti e feriti ovunque, deve prendere quella jeep di merda e arrivare a Metropolis per fare con lei lo slalom tra i palazzi che cadono, saggiandone la tenuta di strada, per poi arrivare davanti al palazzo della sua ditta e vederlo distruggersi. Batman poteva trovare 60 modi diversi di fare qualcosa di più utile, ma il marketing aveva vinto. Oppure mettiamo che in Batman v Superman ci fosse Aquaman. Perché, cacchio, ci poteva benissimo essere!! La Kryptonite rubata da Lex e poi arrivata a Batman viene trovata in fondo al mare e Aquaman poteva essere lì, poteva seguirla fino a Metropolis, scambiando informazioni con qualche tonno - spia (o poteva semplicemente nascondersi sul cargo con la roccia aliena). Aquaman poteva vedere dall'acqua  il combattimento tra Batman e Superman e alla fine portare lui l'arma sul campo di battaglia contro Doomsday, dopo che Lois Lane aveva gettato la lancia nell'acqua. Poi (sto immaginando) arriva un produttore DC che negli ultimi sei mesi era stato al cesso. Dice che Aquaman non può apparire in Batman v Superman e ritaglia per Mamoa la scenetta in cui il suo sirenetto esce da una grotta marina a uno del canale youtube di Lex Luthor sui meta - umani. Così per tappare la trama Lois Lane deve tuffarsi in acqua, rischiando l'annegamento, per riprendere la lancia che ha appena gettato in una delle più clamorose scene di schizofrenia che il cinema ricordi. Se penso a quante menate ha detto Jason Mamoa di Aquaman negli ultimi tempi faccio davvero fatica ad immaginare che non abbiamo almeno girato mezz'ora di Batman v Superman con lui (in luogo di quello spot stile Zoolander che al cinema sostituisce il suo intero contributo). Questa di Aquaman in Batman v Superman è una mia sega mentale, ma potrebbe avere un senso. Come, sensatamente, per permettere più spettacoli giornalieri nelle stesse sale, i produttori hanno tranciato 30 minuti di trama a Batman v Superman a pochi giorni dall'uscita, rendendo alcune scene, come quella dell'attacco alla base dei terroristi all'inizio e quella del tribunale, del tutto incomprensibili. Ora non è che Batman v Superman diventa di colpo un capolavoro se vengono corretti questi errori. Momenti "grossolani" come la famosa "Scena Martha" o il fatto che Clark Kent da giornalista non sappia nulla di nulla di Batman e Bruce Wayne, che vivono a mezz'ora da casa sua, rimangono. E mettiamo un velo pietoso sul fatto che il superudito di Superman senta l'aumento del battito cardiaco di Lois a 10.000 km ma non gli permetta di trovare sua madre rapita che strilla a manco un chilometro di distanza. Il film alla fine è pure godibile, "passa". Visivamente è da orgasmo, la musica è spaziale e le botte (l'unica cosa sulla quale alla fine si fa zapping con l'home video...) clamorose. Ma con Batman v Superman si è alzata per me un po' troppo l'ingerenza del marketing su di un film, a tutti gli effetti considerato più come un prodotto che come una storia. Il film è troppo lungo? Taglialo. Il film è troppo tenebroso? Mettici delle scenette comiche. L'attore ha litigato con la produzione? Taglia tutte le scene che lo riguardano, fanculo il pubblico e la coerenza. Pretese che i piani alti avanzano con la stessa noncuranza con cui si chiede di aggiungere il portabicchiere sul cruscotto di una Panda. Ora, a un certo punto il film deve uscire nelle sale. In un mondo perfetto tutti si accorgerebbero che "il re è nudo", come nella famosa favola. Solo che arrivano i fan 2.0 dell'era moderna. Quelli internet muniti e dalla mente aperta quanto i cacciatori di streghe. Ne ho parlato una settimana fa: i critici dicono che il film è brutto, i fan (che ancora non l'hanno visto) sollevano i forconi e vanno a dare fuoco alla redazione dove è nascosto quel vile miscredente. Cacchio quanto vorrei poter scrutare nell'animo umano!! Perché bisogna difendere con le unghie e con i denti un film che è brutto per tante ragioni? Forse Perché si ha una ancestrale paura che se si ammette che un film su Batman è orribile si teme che nessuno ne girerà più un altro? Forse perché se non si fanno film sui supereroi gli appassionati degli stessi non possono invadere i siti cinematografici con i loro straordinari commenti? E perché si fanno i paragoni con i film della "casa concorrente", come in seconda asilo, per dire "tanto quelli sono più immaturi e più brutti" quando il film che si difende è semplicemente osceno? Non è un discorso di Marvel vs DC (e ognuna ha fatto dei passi infelici). Non è un problema di preservare i film futuri a Batman, perché Batman in 30 anni è apparso già 9 volte in sala e nel futuro continuerà sempre ad esserci. Non è nemmeno un problema di "esserci in rete", perché si possono commentare anche film non sui supereroi. I fan dovrebbero mettersi contro ad un prodotto fatto male, sapendo che qualcuno in grado di fare meglio esisterà sempre. 


Suicide Squad non sgarra a questa impostazione "merceologica". La DC chiedeva inizialmente un film adulto o per lo meno "vietato ai minori", per saggiare il nuovo mercato aperto con i vari Kick Ass e confermato "valido" con Deadpool. Ayer confezionava un film di bromance e sangue sulla linea delle sue sceneggiature per Trainig Day e Sabotage, con il senso di "sporco" del suo Fury. Poi i test non sono andati bene. Sarà perché hanno pure tagliato una mezz'ora con il Joker per vederla nella edizione estesa del film in 8k. Scene aggiunte con gag per alleggerire il tono, ma non sembra bastare. Poi il trailer non è andato bene pure lui. Trailer nuovo con effetto pop e musica dei Queen. L'effetto è un po' Guardiani della Galassia, piace. Gli expendables DC della Suicide Squad vengono paragonati ai losers intergalattici Marvel, che porta bene. I dirigenti vedono di tagliare gli aspetti più cruenti del film, metterci più musici a e divertimento. Fanculo "film per adulti". Sembra incredibile ma il film già girato e montato viene affidato dalla DC alla stessa casa di produzione che si è occupata dell'ultimo trailer. Che smonta, smembra e stravolge tutto. Che decide, perché è funzionato con la saga di Rocky, di sviluppare intere sequenze, quasi l'intera prima ora del film, sulla sola base della colonna sonora di sottofondo. Compra cazzute colonne sonore di sottofondo per questo. L'idea è: "Devo presentare un personaggio manipolatorie? Ok, mettiamo che questo esce dall'auto al rallentatore mente spariamo a palla Sympathy for the devil del Rolling Stones". Un po' didascalico, ma chissenefrega. Anche un po' ridicolo in quanto spesso a una scena musicale ne seguono altre tre, ma cacchio, se la musica è il meglio del meglio, incredibilmente questo trucchetto, entro certi canoni, può pure funzionare!! E poi fa molto "anni 80", pare Brivido (Maximum Overdrive) con gli AC/DC!  

Non vi nascondo però che nonostante tutto questo "modo sbagliato di fare le cose" io in questo film sono riuscito a cogliere qualcosa di valido. E mi sono pure divertito! Rimane però davvero un curioso mostro di Frankenstein, che proverò a descrivere come posso nei capitoletti che seguono.



-( buio in sala): qual e' la differenza tra i buoni e i cattivi, se tutto è sviluppato tramite "pensierini" di seconda elementare?
Tra gli aspetti negativi del marketing supereroistico DC ho poco sopra, tra gli altri, menzionato il mio supposto "complotto Aquaman", un concetto che si può anche leggere in termini di "Avidità". I personaggi ci sono, sono anche molto fighi, ma sono volutamente solo "abbozzati". Uno spara bene, una picchia bene, uno c'ha il fuoco, uno è il cretino con il boomerang. Non sappiamo molto altro di loro, la DC non vuole che noi sappiamo altro ma non è vero che non ci serve saperlo. Perché alla fine un villain è molto più complesso di un supereroe, è il "seme sbagliato della società" che lui deve combattere. Certo fa bene nascondere sotto la coperta le cose brutte per mettere in scena l'apologia di uno stato cattivo che stupra la libertà dei più deboli e spesso li mette in catene, ma qui andiamo forse un po' in zona ipocrisia. Se non sono importanti e pericolose le motivazioni di un villain, che senso ha che un supereroe intervenga per due ore di film per fermarlo? Oppure abbiamo tutti sei anni e ci accontentiamo di vedere tizi mascherati dai valori morali intercambiabili che si picchiano per poi fare la pace, giocare insieme e fare merenda? Alla fine SS sembra inoltre il trailer dei futuri film in solitaria di questi anti-eroi, che di "anti" hanno davvero poco. Film che faranno davvero fatica a renderli cattivi dopo averceli presentati come dei tipi simpatici. Film che forse comunque tenteranno almeno di spiegarci qualcosa di loro, perché di fatto SS perde un numero folle di minuti per "presentarceli", ma solo attraverso delle scene action che riguardano la loro cattura da parte di Batman o Flash e senza fare davvero nulla per scavare nella loro psicologia. Una volta che "ci sono tutti" ed è passata quasi un'ora e non si è visto mezzo minuto in cui interagiscano uno con l'altro "sbam", secondo tempo, tutti intruppati per la missione che durerà fino a fine pellicola. Un'ora e passa dove si spara e basta. Certo fa piacere che, in un mondo dove Batman e Superman ci mettono un film intero di 3 ore a menarsi prima di lavorare in squadra, dei supercriminali fanno gruppo in tre minuti e si scambiano in contatto di whatsapp. Fa piacere avere più azione e meno menate. Ma fa ancora più specie che nessuno di loro venga davvero visto dallo spettatore come pericoloso. Deadshot si vede che spara, nel suo breve flashback, ma a dei criminali (e in questo universo pure Batman e Superman uccidono i criminali, anche se non hanno un ritorno economico). E ama tantissimo suo figlio. Harley Queen, allo stesso modo, è una squinternata ma a parte qualche furtarello la vediamo essere cattiva sempre e solo con altri criminali. Ed è una donna innamorata e solare. Gli altri sono ladruncoli da quattro soldi o dei freak che si sono "auto-incarcerati" per il senso di colpa di aver fatto del male a qualcuno per via dei loro incontrollabili poteri. Cosa hanno di cattivo, a parte ripetere di "essere cattivi"? Perché il film non ci fa mai vedere che fanno effettivamente qualcosa di percepibile come davvero cattivo, salvo un certo giustizialismo nei confronti di chi "è cattivo come loro"? Peraltro nella seconda parte del film li vediamo combattere insieme all'esercito, tutti ordinati, non contro civili, donne e bambini (di fatto la ragione perché esistono dei black ops... Fare azioni che moralmente l'esercito di facciata non può permettersi) ma contro una specie di zombie orribili. Per di più dimostrando eroismo e altruismo. Ma siamo pazzi? Questi sarebbero criminali sociopatici pericolosi? Ci può stare che nel gruppo ci sia qualcuno che si è trovato dall'altra parte della giustizia per vicissitudini sue e abbia un senso di "rivalsa", ma tutti, e ripeto TUTTI, no. Senza che li conosciamo, senza che siano un minimo sviluppati, li percepiamo tutti come positivi, volenterosi, poveri disgraziati presi di mira per i motivi sbagliati e che il governo brutto e cattivo sfrutta. E' assurdo!! Capisco che questo rientri in una visione dei cattivi che è concepita per un pubblico di ragazzini, così come che la DC voglia tenersi caro quel pubblico nonostante si dichiari ogni tre minuti "più adulta e dark" della Marvel. Capisco e appoggio la visione speranzosa che tutti possano avere una seconda possibilità e che sappiano sfruttarla. Ma a tutto c'è un limite di buon senso. Paiono quasi stronzi i supereroi ad averli catturati. Ok, faccio una piccola eresia, vi parlo dei "cattivi redenti" che conosco, i Thunderbolts della Marvel. Probabilmente accade lo stesso con la Suicide Squad cartacea. Il Barone Zemo (introdotto in Captain America Civil War al cinema) è un folle con una sua visione distorta della giustizia. Vuole fare del bene, ma ricade sempre nella sua pazzia perché, cacchio, rimane un "cattivo"! E lo stesso accade a Norman Osborne quando arriva ad essere lui a capo del gruppo, tormentato dalle visioni del Green Goblin. Si vede che entrambi "si sforzano" e hanno anche le migliori intenzioni al mondo, si tifa per loro ma si sa che sono comunque destinati a fallire (vi consiglio il ciclo dei Thunderbolts di Warren Ellis, lo trovate in volume da fumetteria). Ci sono personaggi che davvero vogliono redimersi, come Songbird, ma devono "dividere la cameretta" con gente come Bullseye, che se non viene sedato un istante dopo il termine della missione inizia a sparare su poliziotti e civili. Tutte queste tensioni emotive in questa pellicola non ci sono, se non nella speranza che prima o poi il Joker , il "budino" di Harley, arrivi a scatenare un po' di anarchica carneficina. In sostanza, vuoi per sfruttare il loro background per film futuri, vuoi per il pg 13, i "bad-boys" di questo film non sono poi così bad e sono quasi indistinguibili nello spirito dai Guardiani della Galassia (che invece hanno un film in cui sono sviluppati meglio). Rimangono colorati e divertenti da vedere, ma in sostanza un po' "vuoti". Delle figurine.


- la cosa chiamata "trama"
Un primo tempo di immagini al rallentatore mute accompagnate da brani rock da paura. Come una serie di videoclip. Finisce un pezzo, cambia il personaggio. Ogni personaggio è presentato con una specie di scheda, parte il pezzo, parte il suo "blocco". Sarà che sono cresciuto ascoltando musica e trovo carino che i pezzi si sforzino di adattarsi alla descrizione delle scene che trattano, ma alla fine questa scelta stilistica dello "studio che ha prodotto il trailer di SS" non è così male. Alla fine del primo tempo parte qualcosa di confuso che ci porta dritti alla seconda parte.
Un secondo tempo di elicotteri che cadono, città prese d'assalto da zombie che sembrano fatti di sacchi della spazzatura, tutto al buio, tutto di notte, tutto sotto la pioggia. C'è pure un momento che ricorda la poetica di Ayer, la scena del bar in cui il gruppo si confronta. Forse uno dei momenti più riusciti del tutto. Ma dura troppo poco perché la pellicola subito ci conduce verso un'azione forsennata verso un nemico vago che vuole fare cose vaghe e che non troveranno mai un perché. Per di più un nemico contro il quale sfugge completamente il senso per cui è stata mandata la SS. Sono tipi cazzuti ma non vanno troppo oltre il militare superaddestrato e anche se dispongono di super forza non potrebbero mai logicamente contrastare una divinità. Alla fine il modo in cui si risolvono le cose in qualche modo funziona, ma appare davvero forzato. Così come appare forzato che diventino tutti amicissimi in due minuti.



- però è divertente da guardare!
Pur nelle assurdità della caratterizzazione dei personaggi, pur nella insensata costruzione della sceneggiatura che comprime lo sviluppo e storia principale a una striminzita seconda ora, pur in ragione di alcuni non -sense (tipo un cattivo semi-divino che da una scena all'altra diventa una pippa assoluta, tipo "dove sono finiti i cittadini della città x"? Ecc.), io questo film lo promuovo come il migliore dell'universo condiviso DC uscito finora. 
I personaggi sono abbozzati ma resi bene dagli attori. Will Smith si diverte un sacco a fare la macchina di morte, ma cita pure "l'attacco triangolo" di Phil Jackson (uno dei masterpeace del discorso motivazionale) ed è sempre simpatico e battutaro. Margot Robbie ci crede un sacco ed è simpatica e schizzata quanto serve, nonché bellissima. Il suo rapporto con il Joker di Leto è qualcosa di nuovo, cinematograficamente, per questo personaggio. E nemmeno così stucchevole come ho letto in giro. La Amanda Waller di Viola Davis è perfetta e crudelmente determinata, davvero un gran personaggio. Joel Kinnaman è triste come era triste nel remake di Robocop, deve avere un agente più bravo di lui. L'azione è confusa, buia, sotto la pioggia. Ma ha un certo tasso di appagante frenesia, è divertente e piena di robe che esplodono e "zombie" infiniti che cadono sotto diecimila proiettili, spade maledette e boomerang esplosivi. La musica come già detto va alla grande. Ma soprattutto non c'è il disordine assoluto di scrittura di Batman v Superman. C'è al suo posto un disordine relativo che si riesce a reggere chiudendo un occhio qui e là. Per lo meno qui non ci massacrano di retorica.  E' comunque una Zarrata. Un film ultra-tamarro e grezzo e che se non siete amanti di un particolare gusto coatto del cinema potrebbe indisporvi fin da subito.  Sta un po' dalle parti di Deadpool, anche se il budget qui è più sostanzioso. Gli effetti speciali stanno in zona Gods of Egypt. Siamo lontani per tenuta e cura generale dal prodotto Marvel medio che porta nelle sale bambini e genitori (ma la cosa potrebbe pure piacere anche per questo). 

Partivo da aspettative bassine, e in genere è questo il modo giusto per apprezzare un film. Molte scene sembrano assemblate con la motosega (leggi: l'intero primo tempo) e sembra molto credibile che la pellicola sia stata maldestramente squartata e svilita rispetto alla visione del regista dell'ottimo Fury. 
Qui i voti non ne diamo in genere. Ma mi rendo conto che "salvo" la pellicola (che è piena di difetti) per la simpatia dei personaggi, per un certo gusto visivo eccessivo, per la gioia orgiastica di sentire in sala dei pezzi rock di livello e per una ben gestita azione squinternata nella seconda parte. Se vi è piaciuto il DC cinematic universe finora penso comunque che ormai lo abbiate già visto tutti. Se cercate un film divertente per una serata a mente spenta va benissimo. Se pensavate di trovare da Ayer l'equivalente supereroistico del tragico, anti-eroico e intenso Fury, troverete magari qualcosa di bello tra i ritagli, ma in genere uscirete dalla sala piuttosto depressi. Perché il marketing ha anche qui colpito e colpito duro. Ma a noi bastano le pistolettate, le battutine e il culo di Margot Robbie (unito in combo nella stessa serata con il culo di Blake Lively in azione di "rinforzo"), per essere felici. Spero però che arrivi presto il giorno in cui gli addetti del marketing si occuperanno unicamente di pubblicizzare un prodotto sulla base di una sceneggiatura approvata fin dall'inizio. Che i cineasti facciano cinema e i pubblicitari si dedichino agli spot. Sarebbe bello. 
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domenica 11 settembre 2016

Rings - il trailer del nuovo film con Protagonista Samara / Sadako



Da quando Gore Verbinski prese in mano il Ringu di Hideo Nakata, la saga con protagonista la "rancorosa" Sadako/Samara è diventato una delle mie ossessioni. La storia la conoscete tutti, o almeno io presumo che la dovreste conoscere anche se un po' di anni sono passati e il Giappone organizza periodicamente pure oggi contest cinematografici in cui si menano a uso ridere in 3D  Sadako e la sua omologa donna fantasma di Ju-oh... Mimiko? Non ricordo bene...
The Ring, un vero brand con un numero sterminato di libri, videogame, fumetti e film orientali e non,  gira tutto intorno alla urban legend su una videocassetta, cioè una specie di scatola di plastica su cui un tempo si registravano dalla tv i film...una sorta di dvd che non spixellava ma si poteva comunque "strappare"... ed era un vero casino da aggiustare a quel punto. Cacchio quanto sono analogico... insomma c'è questa cassetta che si può trovare vicino al classico videoregistratore - baraccone (l'oggetto che serviva collegare alla tv per registrare e vedere le cassette, pregando che non le ingoiasse male per sputare fuori il nastro che "sai dopo le bestemmie" di cui sopra...), per lo più in anonime mezze-pensioni giapponesi situate in posti sperduti. Così che se piove e ti rompi le palle ti vedi qualcosa di regisistrato, che tanto la tv di suo non prende mezzo canale. La videocassetta è senza scritte e custodia, anonima. Metti sfiga che la pigli pensando che sia "Milan - Juve 1-6 del 1997 e "devi" vederla. Se la vedi, alla fine di un sacco di immagini strane di pozzi, altalene, gente che si pettina e mosche ti arriva una telefonata. Anche se hai il silenzioso. Una voce di bambina annuncia "7 giorni" e se in sette giorni non fai qualcosa finisce che muori. A ricordarti che "devi fare qualcosa, a non ti dico cosa" il fantasma di una bambina affogata di nome Samara (Sadako in originale), forse la stessa bimba che hai sentito al telefono, inizierà ad apparirti ogni tre minuti facendoti una paura fottuta. Tutto il resto è accessorio e di contorno, scritto e riscritto in un lore incasinato a base di veggenti, promesse non mantenute, suggestioni post-bomba atomica, rappresentazioni teatrali (giuro!). Sta di fatto che vedere la cassetta equivale a schiacciare una mina e se dopo sette giorni non si risolve la cosa si salta per aria: nello specifico ti compare Sadako per l'ultima volta e ti spaventa a morte guardandoti storto con un occhio strano. Tenendo buono "il nocciolo" Verbinski ha spogliato la storia delle assurdità più nipponiche (perché il primo film jappo di Ring, mitico quanto volete, è inutilmente criptico), creando all'epoca un horror davvero spaventoso nonché una critica molto interessante sulla nostra sudditanza dal media-televisione. Il budget faraonico della Dreamworks ha permesso i trucchi di Rick Baker in luogo degli spassosissimi faccioni spaventati dei giapponesi (che fanno oggi ancora più ridere). Sadako diventava la "americana Samara", assumendo una fantasmaticità digitale Cronenberghiana spaventosa. Naomi Watts era bellissima, bravissima e bellissima. Il remake a stelle e strisce funziona tantissimo, così come il suo sequel, per l'occasione con alla regia lo stesso Nakata, che gioca un po' dalle parti di The Omen (e di Dark Water... che godrà anche lui di un remake Usa). Io nello specifico adoro un corto contenuto nel dvd del secondo film di nome Rings in cui la cassetta diventa virale. Mi immagino che possa arrivare a essere un'arma, che si possano narrare mille nuove storie. Quella videocassetta maledetta subito entra di diritto nella mia personale collezione di feticci diabolici multimediali preferiti, che con il tempo ha annoverato il Death Note di Obata / Oba e Il Libro delle anime di Glen Cooper (andato poi in merda nei libri successivi). Solo che l'onda dei J-horror cala sul mondo e tonnellate di ragazzine con i capelli sul volto come Samara/ Sadako iniziamo a spuntare come funghi. Arriva Ju-Oh che diventerà nella versione americana The grunge, arrivano i Pang Brothers con The Eye, Miike con The Phone e Audition, la serie J-Horror Theater (con i vari Premonition, Infection, Re-incarnation ecc.), il magnifico Dark Water. Roba discreta con punte di "molto buona" ma di cui il mondo fa presto indigestione e si rompe anche un po' le palle perché: "Ehi! Pure qui c'è un tizio/tizia con i capelli neri sulla faccia?". Così Hollywood mette in cantina The Ring fino a oggi, cerca di tutelarlo dall'effetto comico istantaneo scaturito dai mille nocivi Scary Movie e ora che ho visto il trailer vi comunico quindi le mie più immediate "vibrazioni". 


F. Javier Gutierrez come regista è una Carneade, ma il nome di Akiva Goldsman è di quelli che contano e il cast interessante. La produzione sembra di lusso e gli effetti speciali convincenti. Torna l'acqua scura, il legame del tutto orientale tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Scompare, mannaggia, la videocassetta VHS, sopperirà dall'oggi più immediato "filmato youtube", in un'opera di ammodernamento dei film sulle maledizioni, dall'analogico al digitale, che passa per forza da Kairo The Pulse (pure lui remakizzato) di Kiyoshi Kurosawa. Anche Samara usa oggi la banda larga. Però direi che "ci siamo". Il tormentone dei "7 giorni" è ripartito, così come i giochi di specchi in cui l'infernale ragazzina si diverte un sacco. Bella la scena dell'aereo. Povera Samara, che deve allungarsi sotto uno schermo ultrapiatto... Ci piace! E non vediamo l'ora di vederlo in sala. 
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