sabato 29 gennaio 2022

Grand Isle: la nostra recensione di un piccolo thriller “sexy” con Nicolas Cage


America, intorno agli anni ‘80,cittadina di Grand Isle. Ma chi è così pazzo da voler riparare il cancelletto di casa, quello in legno, basso e verniciato di bianco stile Peanuts, attaccato con un paio di chiodi e lo sputo, quando è previsto che arrivi di lì a tre ore un maledetto uragano? Perplessità a parte, questo tizio paga 200 dollari ed è l’uomo giusto per quel bietolone in bolletta di Buddy (Luke Benward), che in un caldo pomeriggio si presenta per il lavoro sotto il porticato del reduce del Vietnam Walter (Nicolas Cage). Non è che i due “si prendano tantissimo”. Walter è un simpatico sociopatico che dopo i primi convenevoli si mette a giocare al tiro al bersaglio con il suo fucile, facendo esplodere bottiglie di vetro a pochi centimetri dalla testa di Buddy, perché lo trova “irritante”. Buddy di suo è in effetti un cretino irritante, perché si è presentato sul luogo di lavoro vestito come l’idraulico dei film porno e non fa nulla per non attirare “un po' troppo” l’attenzione della milf ultra-arrapata moglie di Walter, Fancy (KaDee Strickland). 

La situazione è tipo questa che segue. Con Francy che sculetta fino alla staccionata in lingerie trasparente dicendo a Buddy: “La vedo tutta sudato, se vuole gliela do”. Con Buddy che risponde: “è davvero molto succosa la sua…limonata”. Con Walter che subito dopo esplode qualche colpo contro le bottiglie, cercando di uccidere “per sbaglio” il bietolone. Il tono è questo fino a quando arriva “a sorpresa” l’uragano e il nostro Buddy è costretto a passare la nottata presso la allegra coppietta in una casetta che pare il set di Psycho. Riuscirà il nostro eroe a trombare o a farsi impallinare o un mix delle due cose?


Stephen Campanelli nel 2019 è al suo terzo film da regista ma è una specie di leggenda come cameraman fin dagli anni ‘80, diventando presto collaboratore fisso di Clint Eastwood, di tutti i suoi film dai Ponti di Madison County del 1995 fino all’ultimo Cry Macho del 2021. Nel 2019 il grande Nicolas Cage, tra il film con cui combatte con un coguaro su una nave (Primal) e quello in cui combatte contro un alieno a colpi di arti marziali in un bosco (Ju Jitsu), decide di partecipare a questo strano thrillerino “vagamente erotico” per interpretare un interessante pazzo misogino e malinconico, che appare da subito decisamente nelle sue corde. Walter è rabbioso, bipolare e sempre armato, forse proprio per compensare una vita davanti alla quale si sente impotente, tradito e abbandonato: “castrato dalla società”. Cage lo fa muovere nell’ombra come un mostro, quasi fosse un personaggio uscito da Non aprite quella porta, giocando sui continui sbalzi di “umore e amore” che costantemente scatena tra le quattro mura di questa villetta di campagna cigolante e piena di sinistri lucchetti alle porte. KaDee Strickland, attrice nota per lo più per serie televisive come Private Practics, interpreta un personaggio non meno di impatto: una moglie ambigua quando complice e “doppio perfetto” del personaggio di Walter. C’è grande intesa tra Cage e la Strickland e i due si scambiano sovente il ruolo di mattatori sopra le righe, per lo più ai danni del povero Luke Benward che davanti a loro appare sempre più come un topolino con cui giocare, da amare o spaventare a seconda del “modo scelto” per farlo impazzire. Cage esibisce i suoi fucili e il suo sigaro, la Strickland guêpière, vestiti trasparenti e un trucco da diva del burlesque. Fancy, sentimentalmente frustrata esprime con queste armi una carnalità incandescente e bulimica, alla continua ricerca di relazioni e contatti. Deve poter sedurre con lo sguardo, coccolare e abbracciare come una madre, muovere sberle come donna ferita, ma il film spesso non glielo concede. Francy viene perennemente castrata nella femminilità non solo dalla trama ma anche “artificialmente”, da un montaggio che letteralmente taglia le situazioni più spinte e cerca di adombrare le anatomie più birichine. La sensualità persiste ma sottotraccia, come i segreti che si celano tra gli scantinati della casa. L’ambientazione è molto bella, stimolante e visivamente ricca: frutto dell’indubbio bagaglio tecnico del regista. La componente horror/thriller arriva da suggestioni inizialmente pruriginose, un po’ come nella celebre fiaba di Barbablù, e per questo l’essere solo “vagamente erotico” è senza dubbio il peccato mortale della pellicola. Tra eros e thanatos, Grand Isle gioca su un senso di castrazione e insoddisfazione continua, che affligge la coppia protagonista e progressivamente si propaga al piccolo paesino fino a coinvolgerci come spettatori, in un finale che appare “per noi” anche “narrativamente castrato”, involuto quanto tragico. Un finale forse un po’ “tagliato via”, negli ultimi 10 minuti. 

Anche se può essere una scelta “creativa” coerente, seguire questa “strada della castrazione”, con un po’ più di scene erotiche e di azione Grand Isle poteva risultare un prodotto più completo, appagante e memorabile. Allo stato attuale la pellicola rappresentata più un esercizio di stile in attesa di futuri lavori più a fuoco, ma questo non toglie che la visione possa risultare gradevole. 

Campanelli porta in scena un piccolo thriller ben confezionato sul lato tecnico quanto forse un po’ acerbo nella narrazione, che ogni tanto procede a strappi e non sa appagare al meglio le aspettative dello spettatore. Sicuramente un b-movie, ma con buoni interpreti e un buon ritmo, con un Cage oscuro e straripante e una Strickland da sogno. L’intesa tra i due è un piccolo spettacolo che premia dei novanta minuti di visione. 

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Nota di Stile: Cage esibisce per il suo veterano del Vietnam sociopatico una pelata con capello lungo e baffoni da biker anni ‘70 da antologia.

domenica 23 gennaio 2022

Diabolik - la nostra recensione del film dei Manetti Bros sul personaggio creato nel ‘62 dalle sorelle Giussani


 

(sinossi fatta male) Siamo negli anni ‘60, in un luogo di fantasia collocabile idealmente sulla Costa Azzurra. Nella repubblica parlamentare di Clerville, tra la capitale e Ghenf, nessuno è più al sicuro, specie chi nasconde in cassaforte gioielli preziosi. Di notte una creatura maligna armata di coltello, un autentico “uomo nero” come quello delle fiabe del terrore, può farsi largo tra le ombre, penetrare in ogni struttura eludendo ogni allarme e sorveglianza, abbattere muri, impossessarsi del bottino e dileguarsi. Nessuno può fermarlo ed è disposto a uccidere chiunque si frapponga tra lui e il suo l’obiettivo. Lo chiamiamo Diabolik (e lo interpreta Luca Marinelli). Ormai le vittime non si contano più e i giornali hanno dovuto svelare al mondo l’esistenza di questo mostro. Il commissario Ginko (Valerio Mastrandrea) è sul piede di guerra. Ha perso già molti uomini in questa sanguinaria caccia al ladro e anche se il suo rivale non è stato ancora identificato, sente di essergli molto vicino. Presto Diabolik farà qualche sbaglio. 

La algida e bellissima lady Eva Kant (Miriam Leone), da poco vedova di un facoltoso uomo d’affari scomparso durante una battuta di caccia e già corteggiatissima da uomini eminenti della politica come il vice ministro della giustizia Caron (Alessandro Roja), è ora in città insieme al prezioso diamante Rosa. Potrebbe essere la prossima vittima di Diabolik, ma la donna non sembra affatto spaventata dal mostro, quanto piuttosto attratta. Come scorgesse a livello inconscio una sorta di legame magnetico con lui. La dama e l’uomo nero infine si incontrano e pure negli occhi glaciali dell’assassino sembra trasparire qualcosa di strano, una chimica inattesa. Potrà essere Eva Kant il “passo falso” che permetterà a Ginko di catturare Diabolik? 

 


(Diabolik è un fumetto famoso) Diabolik è un fumetto popolare nato nel 1962 dalle sorelle Giussani, che si firmavano con l’iniziale del nome perché era strano che delle donne all’epoca realizzassero un’opera tanto trasgressiva quanto moderna, spiccatamente “cattiva”. Il personaggio è accreditato come il primo grande antieroe del fumetto italiano ed è stato apripista di una stagione molto fortunata per il genere noir. Ci sono fumetti che hanno omaggiato l’opera delle Giussani fin nella “K” finale di Diabolik nel proprio titolo (Kriminal, Satanik). Ci sono fumetti che ne hanno ripreso il peculiare formato di impaginazione “pocket” (gli Alan Ford), con la suddivisione a due vignette per pagina. Ne sono state tratte parodie (Dorellik, Cattivik), si sono fatti paralleli con l’iconografia di altri personaggi di fantasia come Bond o Batman, ha ispirato e si è ispirato a sua volta con la moda milanese. Dall’opera delle Giussani sono stati poi generati molti saggi, libri e graphic novel con al centro approfondimenti sulla psicologia criminale di Diabolik (Come Fenomenologia di Diabolik di Andrea Carlo Cappi) quanto sulla relazione di coppia tra lui e Eva Kant (da cui la versione a fumetti anche di Silvia Ziche, da poco raccolta nell’ironico Diabolik sottosopra). Esiste anche una versione per “un pubblico più piccolo” (il recente Kid : il ragazzo che voleva essere Diabolik”). Il personaggio naturalmente ha già generato un film, amabilmente imperfetto ma comunque ultra-cult per gli amanti dei poliziotteschi, per la regia di Mario Bava, nel 1968, quando il fumetto era all’apice del successo. Ma il mito non si è ridotto agli anni '60 e anzi ha sedotto più generazioni, con i giornaletti che spesso passavano di mano in mano anche attraverso il pubblico femminile (aspetto originale), di madre in figlia e rimanendo tutt’oggi, tra nuove e vecchie produzioni e generazioni, risultando tutt’oggi il terzo fumetto più venduto in Italia. Una coproduzione internazionale ha dato vita a una serie animata negli anni 2000, perché il personaggio è molto famoso anche all’estero. Nel 2012 doveva uscire una serie dal vivo anche per Sky, che non si è concretizzata, ma ora che Rai e 01 distribution hanno preso i diritti cinematografici si parla già di due pellicole sequel le cui riprese sono già iniziate. Un mio amico era venuto a conoscenza di alcune riprese con Miriam Leone vicino a dove abita ed è quasi svenuto: storia vera. C’era quindi molto interesse, oggi che i fumetti vanno particolarmente bene al cinema, nel fare le cose al meglio anche per questo orgoglio italico. Magari evitando le esperienze come il Dylan Dog con Brandon Routh. Certo il successo di Diabolik è un dato di fatto, anche se il fumetto non è magari così conosciuto e compreso dalle nuove generazioni, un po’ come accade ai primi due fumetti più venduti in Italia, Tex e Dylan Dog, magari ritenuti da molti ormai “roba da anziani”. Se Dylan Dog ha cercato negli anni di aggiornarsi, Diabolik come Tex ha sempre tirato dritto e forse c’è da riflettere su cosa può rappresentare davvero Diabolik oggi per il pubblico, anche in riferimento all’immagine che del personaggio delle Giussani si vorrebbe far arrivare attraverso questa pellicola dei Manetti.

 


(Che cos’è per me il fumetto di Diabolik e perché funziona). Seguono opinioni personali. Diabolik lo percepisco come un fumetto piuttosto preciso nelle regole e nella forma. È strutturato come una perfetta lettura “da tram” per tre elementi: a) parole scritte non  troppo in piccolo (per non far tirare la vista); b) narrazione corposa sul singolo foglio che non ti obbliga a giare le pagine ogni 10 secondi (cosa che sarebbe scomoda se sul tram sei appiccicato ad altra gente con poche possibilità di movimento); c) molte ricapitolazioni e pure un retro di copertina che “ricorda” chi è il co-protagonista della storia (perché metti che perdi passaggi della storia tra una fermata e l’altra). Per rendere possibile quanto sopra, tutto è super codificato in modo chiaro quanto immediato. Chiunque prende in mano un fumetto sa che Diabolik è un ladro che fa uso di maschere, possiede un’auto che gli permette di fuggire e accedere a un sistema di nascondigli segreti, ha sempre con sé un coltello per combattere, deve accedere a un bottino superando una serie di prove di abilità facendo uso di “trucchi ben spiegati e spiegabili” che il lettore deve essere in grado di comprendere al volo come i giochi della settimana enigmistica. Con queste limitazioni strutturali, unite alla necessità che i personaggi si muovano sempre con schemi riconoscibili (ma ci torniamo dopo), creare storie per Diabolik è un’arte estremamente complessa quando sottovalutata, proprio perché l’esito finale è creare una storia sempre subito intellegibile quando sempre nuova. Ed ecco che arrivano espedienti come “le scarpe a molla” o “i trampolini stradali”. Mi spiego. C’è una storia in cui, per far evadere di galera Diabolik, Eva gli spedisce in carcere delle scarpe a molla, con cui lui salta sopra le mura di recinzione durante l’ora d’aria. Sono cose “fanciullesche” o se vogliamo da “umorismo dadaista” (per dirla con più nobiltà) che possono funzionare solo su un fumetto come Diabolik e che accadono a fianco di pagine, dello stesso volume, in cui il nostro eroe prende a coltellate delle guardie (pur nel modo più asettico possibile). E si deve vedere con chiarezza sulla vignetta che ci sono delle molle sotto le scarpe!! Christopher Nolan ci farebbe un film sulla possibilità di evadere da una prigione con delle scarpe, dalla creazione delle stesse a livello progettuale ai test, i fallimenti, i nuovi test, il sistema di regolatore del balzo in ragione alla metratura da raggiungere fino all’atterraggio sicuro. Naturalmente poi parlerebbe a parte delle modalità per far entrare fisicamente le scarpe nella prigione in modo sicuro, magari reclutando guardie compiacenti, dividendole in pezzi riassemblabili, utilizzando le tubature dei bagni per farle arrivare in aree inaccessibili. A Clerville Diaboik apre in pacco e due scene dopo è saltato fuori dalla prigione, nell’ora d’aria, e lo stesso discorso di praticità e rapidità vale per le maschere facciali. 



In Mission Impossible ti creano una tecnologia a base di stampanti laser e scansione termo-ottica, in Face Off ti dicono che è più pratico e realistico se cerchi di “staccare e riattaccare la faccia” chirurgicamente e sempre a patto che la persona in cui vuoi trasformarti sia molto simile a te. In Diabolik il nostro eroe “c’ha la colla speciale” ed è un dato di fatto: il gioco, come per la storia dei trampoli, è capire quando il trucco potrà entrare in azione, molto più che capire come è stato fatto il trucco stesso. L’Idea è far scaturire la domanda: “Quale persona sulla scena può in realtà essere adesso Diabolik?” oppure “con quale trucco, caro lettore, per te Diabolik riuscirebbe a scappare dai poliziotti in questa situazione?”. Per questo i trucchi devono funzionare come il gioco “trova le 5 differenze” della settimana enigmistica, nel più esiguo e funzionale numero di pagine possibili. Tutto deve essere sintetico, anche le scene d’azione non possono rubare troppo spazio. Sul tram in una mezz’ora/quaranta minuti (qualcuno direbbe anche “al bagno”), il fumetto deve poter essere letto e compreso, dalla premessa all’epilogo, dai trucchi alla strategia per il furto e la fuga. Sto facendo delle semplificazioni, ma neanche poi troppo, perché il Diabolik letto in meno di quaranta minuti, idealmente “fuori dal tram”, ha un gusto molto diverso, come prendere un cappuccino al bar al tavolo o un caffè alla macchinetta. La formula vincente di Diabolik è per me al 70% in questa struttura con quel particolare ritmo e soluzioni narrative (che ha solo questo fumetto). Poi c’è il personaggio, che ha un indubbio fascino ma che può divergere anche per come ogni lettore lo “interpreta”. Piace moltissimo alle lettrici che vedono in lui un uomo forte ma anche una perenne anima in cerca di una redenzione (im)possibile grazie all’amore di Eva. Piace a chi lo vede come colui che spoglia dei “simboli di potere” persone che si sentono parte di una classe privilegiata, superiori solo perché ricche o corrotte. Piace a chi per una volta vuole “tifare per il cattivo”, anche perché può essere liberatorio, come “ora d’aria”, immaginare di fuggire dai mille recinti della morale comune saltando con dei trampoli. Diabolik sa essere un personaggio complesso e se vogliamo “tragico”. È psicologicamente una specie di “guscio vuoto” (un po’ come l’agente 47 di Hitman, che di fatto ha moltissimo in comune con lui anche sul piano della non/espressività e sul modo di apparire “rigido”), una macchia nera con le fattezze di un manichino di cui scorgiamo spesso come unico segno umano solo gli occhi.  La vita lo mette spesso alla ricerca continua di tesori più per l’ebbrezza della sfida che per l’accumulo. È una sorta di drogato di emozioni forti ed Eva Kant in qualche modo è il suo doppio, una che ha messo le ricchezze sopra le persone. Se sono diventate persone così fredde ci sono stati dei traumi precisi nel loro passato, alcuni dei quali hanno trovato risposta nella serie, ma sono traumi che in qualche modo li hanno uniti. Per me il cuore narrativo del fumetto risiede nel dubbio che queste due persone “infrante” sappiano amare davvero qualcuno, più che ambire alla collana o al pugnale coperto di lapislazzuli oggetto del “furto del mese”. Una tensione emotiva che crea un balletto infinito che è partito nel 1962, con la censura e il mondo del 1962, in cui faceva già scandalo che un uomo e una donna come Diabolik ed Eva stessero insieme pur non essendo sposati e le scene di nudo e violenza dovevano essere solo accennate pure nei fumetti “da adulti”. Diabolik ha superato la prova del tempo più di molte altre opere analoghe e continua anche oggi a imperversare, ma tutto quel mondo da “lettura sul tram” può essere tradotto efficacemente ancora oggi sullo schermo, con personaggio in carne ed ossa? Chi non ha mai letto Diabolik e si è fatto un’idea del personaggio “tutta sua”, magari immaginandosi da un costume nero e un trailer suggestivo un revival dei poliziotteschi (che ricordiamo avevano come marchio anche inseguimenti in auto veloci quanto difficile da rendere tali, se non molto “stilizzati” nella narrazione su carta) magari in salsa Argento che non guasta (che e oggi ispira anche James Wan), magari con Miriam Leone che fa le docce come la Fenech? Questi “non-lettori auto-suggestionati” (categoria a cui appartengono “grandissimi esperti di cine-fumetto” che mai hanno letto in vita loro un fumetto) potranno trovare comunque in sala qualcosa di interessante? 

 


(Come tradurre al cinema Diabolik) I Manetti Bros non hanno messo Miriam Leone sotto una doccia come la Fenech ed è un peccato, ma del resto una scena del genere anche nel fumetto poteva esserci solo se super accennata, di spalle e poco più. L’ho detto subito così via il dente e via il dolore… però la Miriam nazionale sfoggia in una scena già cult una vestaglia trasparente da sogno e per questo motivo la ameremo per sempre. Ma questo punto, ossia la “mancata scena Fenech” è comunque significativo dell’altissimo grado di aderenza alla materia originale che i due registi romani hanno deciso di esprimere con questa loro nuova opera, un po’ dalle parti di quello che ha fatto Robert Rodriguez per il Sin City di Frank Miller, anche se le premesse erano forse un po’ diverse. Quando Rodriguez prese di peso il fumetto Sin City di Miller come fosse uno storyboard e lo girò scena per scena, vignetta per vignetta, pari pari, ibridando le tecniche di ripresa ed effetti speciali fino a creare un “film bidimensionale in bianco e nero come il fumetto”, il mondo ebbe un sussulto. I fan del fumetto e i fan del film si unirono abbracciandosi. Miller aveva di base creato un noir dal forte linguaggio cinematografico e l’opera si prestava a una simile tradizione estrema al meglio. Come dicevo, “il mondo esultò, i fan si abbracciarono ecc.“ ma ora aggiungo “poi tre minuti dopo tutti si erano già rotti le palle di questa nuova formula”, soprattutto per le alterazioni visive più estreme che “appiattivano l’immagine”. Il grande pubblico non volle più saperne delle opere successive costruite con il “metodo visivo estremo by Sin City” (come The Spirit o Immortals o Sky Captain). Era come se fosse stata scardinata di colpo la grammatica cinematografia invisibile a cui erano abituati e questo distraesse dalla fruizione. Forse il grande pubblico non era ancora pronto a quel linguaggio visivo, anche se Miller lo aveva sedotto con una grammatica cinematografica. Ora immaginate la particolarissima grammatica del fumetto di Diabolik come espressa sopra nella metafora “del tram”, che è quanto di più lontano da un impianto facilmente addomesticabile al cinema. Immaginate quindi scene che rimangono pressoché statiche nell’inquadratura fino a quando i personaggi non hanno finito di dire la loro battuta. Immaginate sequenze d’azione “lente e quasi sospese” come apparivano su carta quando eravate in tram e non potevate girare pagina più velocemente perché eravate bloccati nei movimenti dagli altri passeggeri, con la cinetica delle tavole che diventa più un atto subliminale che visivo. Immaginate le ripetizioni dei concetti funzionali su carta al cinema, dove dovreste essere più attenti (anche se a dirla tutta oggi con i cellulari sempre accesi pure l’attenzione al cinema non è troppo diversa da quella che si può avere su un tram). Immaginate il tempo di lettura di quaranta minuti che forse al cinema può gonfiarsi un pochino, ma a patto di rendere la narrazione ancora più lenta. Ora però, da fan del fumetto Diabolik, immaginatevi il numero 3 della collana classica, che come storia è una maledetta bomba atomica. Il numero 3 è a mani basse una delle storie più belle, con alcune delle trovate più matte e per una volta con una trama che sposta emotivamente i nostri personaggi in modo differente dal precedente schema-ripetizione, creando anzi di fatto la situazione “archetipica” futura del fumetto. Il numero 3 offre una autentica miniera di suggestioni e anche scene come i trampolini o gli ingressi segreti ai covi, che ad alcuni faranno tornare alla memoria il Batman con Adam West, funzionano nel contesto surreale di insieme. Pensate inoltre che ci ha detto benissimo sugli attori, con un Luca Marinelli che ha trovato in una voce assente di tono (che nel fumetto ricordo è assente) una chiave per renderci Diabolik un personaggio più completo e sfaccettato, particolarmente sul fronte della vulnerabilità emotiva. Con una Miriam Leone che quando è in scena illumina a giorno anche una autostrada alle tre di notte, con tutta la sensualità, la carnalità e gli occhi sbriluccicanti che la Eva Kant su carta non poteva esprimere. Con l’ispettore Ginko di Mastrandrea che sa essere aggressivo nella caccia ma anche umano, qualche volta pure “confuso”. Purtroppo la trasposizione cinematografica del numero 3 a un certo punto “finisce” e il film decide per una quarantina di minuti extra di trama di trasporre un altro fumetto, più recente e scritto da Tito Faraci, che idealmente è proprio un seguito del “3”, che ha pure un buon finale, ma che per il novanta per cento del tempo “è un marone”. Passiamo dalle 300 idee matte del numero 3 a una surreale situazione in cui Diabolik è come congelato in una singola scena. La narrazione si avverte terminata da un pezzo e si ha quasi la sensazione di essere in ostaggio di un qualcosa che sembra un riempitivo poco ispirato. Mi dispiace per Faraci, autore che seguo molto e di cui amavo alla follia Brad Baron, ma la parte del film ispirata al suo fumetto per me non gira proprio e probabilmente la taglierò in toto ad una futura visione  in home video della pellicola . Solo che, se vogliamo, questa situazione è scaturita proprio dall’ossessione di offrire su schermo una copia 1/1 del fumetto, quando magari si poteva essere meno fiscali e magari aggiungere, al posto di questi 40 minuti extra, tre belle scene della doccia con protagonista Miriam Leone. 


Mi prendo qui un paio di righe anche per rispondere a quelli che nelle recensioni e nei commenti scrivono più o meno: “il cinema e il fumetto sono Media diversi e intraducibili: non operare adattamenti per passare da un media all’altro è un errore”. Ecco, per me tutti quelli che insistono sul calare sull’arte categorie rigide come “l’oggettività” o “l’aderenza necessaria a delle regole formali”, dovrebbero provare a lasciarsi un po’ distrarre dalla continua ricerca di “oggettività” e cercare di vivere espressioni come il cinema come una esperienza “in cui non hanno il controllo”. Perdere il controllo sulle proprie aspettative e farsi trascinare in mondi creati da altri, è l’unico modo per innamorarsi dell’arte e della vita, ma riconosco che sia alle volte difficile e che a qualcuno ogni tanto metta quasi paura. Bisognerebbe indagare su questa paura di lasciarsi andare, che spesso ha radici nell’infanzia e nel non poter più dedicare tempo all’immaginazione “"“da adulti”””. È utile che il cinema riesca a smascherare questo meccanismo emotivo fino a creare reazioni “di controllo formale”. Si può discutere della traduzione di un fumetto in un film sul lato del coinvolgimento emotivo, non sulla adesione o meno a regole formali su come girare, che peraltro sono state migliaia di volte già infrante nella “cinematografia sperimentale” (che parte per alcuni proprio con un italiano futurista, Bragaglia e il suo Thais) che da sempre si esprime sul connubio tra arte figurativa e cinema e si produce ancora oggi (vedi Amer di Cattet e Forzani, che potete trovare pure in blu ray e non in un museo), ma che certa gente che ha visto giusto due Kubrick e tre Nolan non conosce o magari non può concepire “estesa ai fumetti” o non è interessata a volerla vedere in toto. Scusate lo sfogo, ma quando leggo critiche sull’arte e sull’estetica corretta per rappresentarla, da gente che non ha nemmeno sfogliato le prime sei pagine di un qualsiasi libro d’arte e crede che tutto il mondo sia riconducibile alle 3 idee che hanno loro su come debbano andare le cose, confondendo “gusto personale” con “dogma universale” come i migliori inquisitori… mi sale lo sconforto. Tiriamo innanzi. 

Complessivamente comunque devo dire di sentirmi soddisfatto dalla messa in scena di Diabolik. Il fumetto vive all’interno di una sontuosa cornice ispirata al cinabitsliano degli anni ‘70 e risulta affascinante dall’oggettistica e dal trucco come dall’uso dei colori, dalle musiche malinconiche composte di Manuel Agnelli alle scelta delle location, dalla fotografia vintage ad alcuni dettagli camp gustoso come le scene del lancio del coltello accompagnate da un sibilo. Mi è piaciuta molto anche la filosofia dietro al costume di Diabolik scelto, che ne sottolinea la prestanza fisica e offre sulla maschera una resa “rigida”, quasi da “manichino” quanto vicino al “volto corazzato” e lucido di alcune armature da samurai. Anche se questa scelta ho notato che è stata un po’ divisiva nel pubblico, si sposa bene con l’interpretazione di Marinelli di un personaggio che non vuole far trapelare emozioni (ma che riesce a farlo invece quando si traveste, come nella scena in cui prova la voce del cameriere). 

 


(Come un “boomer” può reagire a Diabolik al cinema) Ho incontrato per la prima volta Diabolik che ero piccolissimo, a Milano, nel ‘81. Era il fumetto preferito di mia cugina e credo che qualche volta lei lo legga ancora, in tedesco. Il film dei Manetti è stato girato anche a Milano e una delle primissime scene mi ha ricordato (ma è più una “sensazione” perché quella sequenza specifica mi pare invece che abbiano detto essere girata a Bologna) una strada interna, proprio vicino all’ingresso dello scomparso cinema Astra di Corso Vittorio Emanuele. È un po’ come se Diabolik, con la sua Jaguar E, sbuchi da “quel cinema”, che è un po’ il simbolo di “quel mondo” che non c’è più e quel “cinema di genere” che non c’è più. Ma si può ancora tradurre questo mondo per le nuove generazioni? Non è un caso per me che i Manetti abbiano fatto un’opera quasi filologica, rivolta a chi il fumetto lo conosce o lo vorrebbe conoscere, stando sulle fonti e permettendo al personaggio di essere apprezzato così come è sempre stato, duro e puro, senza seguire a tutti i costi le mode. Chi saprà  apprezzare il film potrà così fiondarsi diritto sul fumetto, trovando al suo interno lo stesso mondo di gioielli, belle donne, trampoli e coltelli, magari da gustare sul prossimo tram mentre torna a casa (o “al bagno”, come dicevo sopra). Certo l’opera potrà non piacere a chi si aspetta un poliziottesco perché Diabolik, sorpresa, non è un poliziottesco. Potrà non piacere chi si aspetta un giallo alla Dario Argento perché, sorpresa, Diabolik non è un giallo alla Dario Argento. Non è assolutamente un film e un fumetto nato per derivazione per compiacere le mode: Diabolik le trascende le mode, come i generi, perché è un archetipo, qualcosa di “unico”. 

 


(Finale) Io mi sono tipo commosso nei primi minuti, mi sono innamorato di Miriam Leone ancora di più, ho adorato la scena in cui Diabolik “prova il timbro della voce” (altro “extra” interessante non producibile su carta), la scena del covo con le Maschere (che fa un po’ Profondo Rosso), la “parte fiale del numero 3”. Gli ultimi quaranta minuti li avrei invece saltati, il film poteva essere più corto e non ne avrei avuto troppo a male. Magari consiglierei per il futuro di trasporre una storia “più lunga di un numero classico”, ma la scelta di partire con il 3 è stata davvero ganza. Al netto di qualche difetto, l’esperienza del nuovo film dei Manetti è stata per me positiva e la testimonianza che per una volta il cinema italiano può provare a pensare un po’ più in grande, tornando a fare “con i soldi” quello che ai tempi d’oro è stato l’intrattenimento di genere, magari proprio partendo da Diabolik, che è un personaggio davvero in grado di “fare genere a sé“. Forse i cinema del passato come l’Astra non torneranno più, ma Diabolik potrà ancora guidare la sua Jaguar E in una distopia degli anni ‘60 grazie a pellicole come queste. 

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mercoledì 19 gennaio 2022

Scream - la nostra recensione del re-quel del 2022 del celebre horror di Wes Craven e Kevin Williamson

Woodsboro, 2021. 25 anni anni dopo gli eventi reali raccontati poi al cinema in “Stab”, c’è una nuova generazione di pazzerelli mascherati da Ghostface in giro, in attesa giusto di “girare” un nuovo capitolo di quella pellicola. I nostri “estremisti del film horror” non si sono fatti imbambolare dagli horror politico-sociali di Jordan Peele, dalla sessuofobia di It Follows, dalle angosce mistiche di Ari Aster e dai vari artistoidi Babadook sugli orrori della genitorialità difficile. I Ghostface vogliono ancora l’horror classico, quello che spaventa con il maniaco mascherato con il coltello che affetta la gente stupida, il Cult, quello che fa davvero paura.  

Ma come si fa a girare un nuovo film “all’altezza dell’originale” al giorno d’oggi? 

I film horror “originali”, quelli veri, duri e puri, ispirati a una “storia vera”, come la storia vera di Non aprite quella porta o il film sul fattaccio del 1996 di Woodsboro, scritto sulla base del libro della giornalista Gale Weathers (Courtney Cox), sono stati già girati. La protagonista della storia Sidney Prescott (Neve Campbell) è certo stata interpretata da Tori Spelling di Beverly Hills 90210, ma rimane IL classico. Poi quando Stab ha avuto successo sono arrivavati i suoi “sequel”, che continuavano più o meno la storia spesso cambiando strada (come il secondo Nightmare ma anche Venerdì 13), facevano parziale o totale re-cast per “rimpiazzare le vittime”, raddoppiando i morti e gli spaventi, ma senza la stessa verve. Più si seguivano nel tempo i sequel, più il valore produttivo calava, la storia strascicava e il cast originale era solo un ricordo (come in Jason X). Si è pensato allora per un attimo in qualche modo di “riaccendere la fiamma”: ri-girare il film originale per le nuove generazioni, aggiornando cast, tempi e temi, dando vita ad un “reboot”. Ma dei reboot, la storia del cinema insegna, ne esce bene solo uno su mille e in genere sono odiatissimi (tra i più odiati Nightmare on Elm Street), dai fan vecchi come dal pubblico nuovo. Stallo. Fino a che ecco l’illuminazione, la nuova frontiera: i Re-quel. Come i reboot ma in parte anche dei sequel, riprendendo nel cast vecchi e nuovi personaggi senza negare o sovrapporre le storie di nessuno, espandendo il “mondo narrativo” con correlazioni e diramazioni possibili, plausibili e spesso “nostalgiche”, trasformando in “epica corale”, kinghiana, la fonte di base. Ed ecco che “Stab 8” non avrà più il numero “8” a fianco del titolo ma solo “Stab”, da vero re-quel, come l’Halloween di Seth Gordon Green (la serie Scream si ispira sempre amorevolmente alla saga di Halloween di Carpenter, ma celebri Re-quel recenti sono anche Ghostbusters, Candyman). I nuovi “Ghostface” con questa idea in testa sono pronti a rivelarsi al mondo e compiere a Woodsboro una nuova strage da cui sarà tratto un film. Ma quanti saranno i “cattivi”: uno, nessuno o centomila? E quante saranno le vittime offerte dalle scuole locali e dalla cittadinanza? Il “vecchio cast” di sopravvissuti, aspetto che renderebbe vincente l’operazione, sarà pronto a tornare per farsi massacrare? Sarà all’altezza la nuova final girl o si rivelerà una raccomandata “Mary Sue” come la tizia di Guerre Stellari? Tanti problemi e tante cose da organizzare, ma bisogna fare tutto, il “meglio”, per realizzare la migliore pellicola possibile. Sarà di nuovo una bella strage? 


Wes Craven, il papà di Nightmare e Scream, ci ha lasciati e la pellicola è tutta a lui dedicata, ma la serie continua a essere prodotta sempre dal co-creatore Kevin Williamson e la maschera di Ghostface (creata nel 1991 da Fun World su ispirazione del viso molle e allungato dell’Urlo di Munch) non ha certo smesso di girare il mondo nei vari Halloween e rivaleggiare per popolarità con la maschera di Dalì della Casa di Carta e la maschera di V per Vendetta

Il primo Scream in qualche modo continuava la riflessione di Craven, che ricordiamo è stato professore universitario di lettere e filosofia prima di passare al cinema, sul “valore del cinema horror” nel raccontare la paura. Una riflessione partita dall’Ultima casa a sinistra, quasi un docu-film sullo stupro, e arrivata alla sublimazione con Nightmare - Il nuovo incubo, prendendo la forma quasi si una favola. In quel film, attraverso la lettura del classico per l’infanzia Hansel e Greatel, il regista ricollegava le storie di mostri e streghe ai racconti ancestrali da ascoltare intorno al fuoco delle società più antiche. Storie iniziatiche per aiutare i giovani ad affrontare le paure del mondo più che fiabe della buonanotte nel senso più modernamente disneyano o materiale da cronaca nera. Racconti per diventare adulti sapendo leggere e prevenire i pericoli, primo tra tutti il “non fidarsi degli sconosciuti”, ma che insegnavano anche a combattere, a difendersi dal male. Lo sceneggiatore Williamson era un super nerd appassionato di cultura pop, scrittore anche di Dawson’s Creek (il balcone di Scream anticipa di 2 anni il topico balcone di Dawson’s Creek) e presto autore anche del futuro rilancio del suo amatissimo Halloween (con Halloween H20). Quando Craven e Williamson si incontrarono per scrivere Scream, decisero una formula nuova per smontare chirurgicamente i topoi del genere horror e riportarne alla luce le “regole narrative ricorrenti”, svelando quanto la natura di questo tipo di cinema “di svago” fosse davvero vicina alla narrazione al racconto iniziatico, alla “fiaba”. Scoprirono che si poteva usare il “gioco”. La loro mossa vincente è stata giocare con il genere horror e le sue centinaia di pellicole e coinvolgere nel gioco il pubblico, trasformandolo in una specie di infinita caccia al tesoro meta-narrativa da cui trarre “regole di sopravvivenza” (esposte sulla scena dal personaggio dell’esperto di cinema Randy, interpretato da Jamie Kennedy) appassionanti quanto (cosa più importante ancora) in grado di alzare l’attenzione del pubblico su quanto stavano vedendo sullo schermo. 



Si partiva nel modo più diretto possibile, con un assassino che telefonava alla vittima proponendo una specie di quiz sui suoi horror preferiti e la puniva quando sbagliava le domande. Fu una svolta. L’horror veniva guardato in modo diverso, più attento  e più divertito, proprio attraverso le “regole di Scream”. Il pubblico andava a fine visione nelle videoteche a saccheggiare “ludicamente” tutto il reparto horror che prima era il territorio di darkettoni e lettori di Dylan Dog, perché questo cinema iniziava a essere interessante anche per persone che non andavano in giro con una maglietta dei Metallica o parlavano di pessimismo cosmico. Questo approccio, ironico e al contempo critico, quasi “collezionistico”, fece benissimo al cinema di genere, lo fece “respirare”, diede impulso ad altre opere meta-narrative come Cabin in the hood ma anche Zombieland, Shaun of the dead e Final girls, aprì a nuove frontiere (perché solo dove può girare un po’ di pubblico possono aprirsi nuove frontiere..) come i mocumentary e tutto il pantheon di James Wan e Blumhouse e creò migliaia di nuovi appassionati (tra cui moltissime donne) che presto si sarebbero raccolti sui social. Merito della formula di Scream ma anche merito di un un film pressoché perfetto in ogni comparto. L’impianto narrativo permetteva una recitazione dalle mille sfumature e permise di lanciare la carriera di giovani attori di successo. La struttura investigativa era articolata e così piena di colpi di scena da “giallo” da attirare anche i fan di Agatha Christie. Una bella colonna sonora “country” opera di un ispirato Marco Beltrami, location della provincia americana che sembravano tratte da un romanzo di Stephen King e soprattutto una nuova e magnifica figura di villain: i Ghostface. Armati di un coltello lucente, con quella maschera “munchana” e vestito lungo nero dietro cui può nascondersi chiunque e con cui è facile inciampare muovendosi, i Ghostface sono i massimi cultori del genere horror quanto i suoi più esagitati sacerdoti. Sono un “branco”, un “mostro dalle più teste”, per lo più matte. Si muovono spesso nel gruppo dei protagonisti recitando una parte da “possibili vittime” per nascondersi, amano il caos e le grandi entrate in scena, ambiscono più alla fama che allo spirito di autoconservazione e amano alla follia, come bambini, le truculenze. Perennemente eccitati, agitati ed esaltati, gesticolano con le mani in aria, sbattono contro le porte, cadono dalle scale, si prendono un sacco di pugni, calci e proiettili da chiunque eppure continuano a incedere correndo sbilenchi, come kamikaze ridenti, vivendo come fine ultimo la sola ebbrezza del massacro e pensando in quel momento di estasi di essere immortali come in un videogame. Immortali e irresponsabili emotivamente delle loro azioni, compiute più per “esigenze di trama” in quello che appare come un elaborato quanto matto gioco di ruolo. Gli si vuole bene, nella loro totale follia e nel loro essere a volte, a seconda del film, omicidi solitari, di gruppo o mine impazzite. Come ci si affeziona istantaneamente alle final girl della disincantata Neve Campbell e della prezzemolina Courtney Cox, allo sbadato sceriffo Linus di David Arquette. Anche i film che si sono susseguiti hanno goduto di un buon successo, così come è stata interessante la serie tv, pur con qualche alto e basso il livello medio è sempre stato alto. Il gioco meta-cinematografico è continuato e Scream ha trovato oggi l’idea dei “re-quel” per tornare a giocare con il genere horror, con i nuovi Ghostface pronti a lanciare qualche frecciatina al cinema di oggi, specie all’horror più “commercialmente intellettuale”, con quel piglio tipico da vecchi fan “dei tempi passati” che non capiscono o non vogliono capire la modernità. I boomer-Ghostface, direbbe qualcuno.



Anche nel 2021, incredibilmente, la formula  funziona ancora benissimo, quasi meglio dei sequel. Il nuovo film confezionato da Williamson e dalla sempre sodale New Line deve di sicuro qualcosa anche ai molti “pazzi in maschera figli di Scream” di Christopher B.Landon, da Auguri per la tua morte a Freaky (che se amate Scream dovete recuperare per forza), come alle Notti del giudizio di Del Monaco, ma lo smalto originale non è sbiadito. I registi Matt Bettinelli-Olpin e Tyrell Gillett vengono dagli ottimi antologici V/H/S e Southbound e dall’illuminante survival Ready or Not (Finché morte non ci separi), dove hanno lanciato la nuova grande protagonista degli horror-movie Samara Wearing. Gli si può perdonare giusto La stirpe del male, visto l’alto valore delle altre produzioni tra cui mettiamo di sicuro anche questo nuovo Scream. I personaggi di Williamson riescono a muoversi al meglio grazie agli sceneggiatori James Vanderbilt (che ha scritto oltre a Ready or Not e al divertente White House Down anche Zodiac per Fincher) e Guy Busick (sceneggiatore di Ready or Not, del folle Urge, della serie tv Castle Rock e accreditato per il prossimo Final Destination). Le musiche del veterano Brian Tyler (che nell’immenso curriculum ha anche Fast’n’furious ma pure Auguri per la tua morte) funzionano e appena possono danno il giusto spazio “d’onore” a Beltrami, la fotografia di Brett Jutkiewicz (Ready or Not ma anche Stranger Things) cita a mani basse, fin dallo studio delle location dell’ospedale e della villa, il lavoro per il primo Scream di Mark Irwin. Il vecchio cast è presente e non ha paura a mostrare tutte le sue rughe e autoironia, da Neve Campbell alla “ex-coppietta anche nella vita” David Arquette e Courtney Cox, che si erano conosciuti sul set del primo Scream (trivia: quando si sono sposati c’era ancora Friends in tv e tutti i membri del cast, oltre quindi a Courtney Cox, nella sigla di testa hanno aggiunto in una puntata il “doppio cognome” Arquette) e si sono separati sul set del quarto Scream. È bello vederli ancora insieme come è bello rivedere “in qualche modo” pure qualche personaggio misterioso della saga. Il cast dei “volti nuovi” è simile a un elenco telefonico e si sposa bene con la “funzione ludica” di molti personaggi, ossia essere un bel numero di vittime da dare in pasto al killer o “possibili assassini” su cui il pubblico può scatenare le sue doti investigative. Tra di loro segnalo la nuova “esperta di horror” Mindy (Jasmin Savoy Brown, vista anche nella serie The Leftovers), il “neofito dell’horror” Richie (Jack Quaid, che è Hughie nella serie The Boys), la nuova protagonista dall’oscuro passato Sam (Melissa Barrera) con la sorella Tara (Jenna Ortega) che agli horror del passato “preferisce Babadook”. Da autentico re-quel, il nuovo Scream gioca nel re-immaginare scene topiche del film originale del 1996, con esiti a volte esilaranti. In uno dei momenti più riusciti  l’esperta di horror Mindy si trova sul divano con dietro il killer in agguato a vedere Stab/Scream, nel momento in cui l’esperto di horror del primo film sta guardando sul divano Halloween di Carpenter con dietro di lui il killer in agguato, nella scena in cui Jamie Lee Curtis non vede il killer in agguato dietro di lei. Tutti a urlare “è dietro di te Jamie Lee!!! come fai a non vederlo?”. Esilarante. Ed è un gioco di specchi continuo quanto così ben costruito da non sembrare mai una ripetizione, facendoci quasi aspettare alcuni colpi di scena futuri (aspetto che è particolare interessante a livello narrativo specie in un horror). 


Per gli amanti delle “scene di sangue” Scream offre un vastissimo campionario splatter, ai vertici della saga per truculenza, senza dimenticare mai il suo lato ironico, da commedia nera.

Vorrei raccontarvi dei dettagli in più, ma vi rovinerei il gioco di scoprirli da soli in sale. Sappiate solo che questo capitolo, a tutti gli effetti autoconclusivo quanto celebrativo del franchise, funziona davvero molto bene anche autonomamente e forse potrebbe pure aprire a possibili sequel. Se non siete ancora fan di Scream, forse questo è il momento per entrare in famiglia. Talk0

giovedì 13 gennaio 2022

Crudelia - la nostra recensione

(Sinossi fatta male) Londra, anni ‘60. Estella Miller è una bambina dall’animo doppio, in qualche modo “esplicitato” fin dalla nascita dal doppio colore dei suoi capelli, da un lato bianco e dall’altro nero. La madre Catherine (Emily Beecham), dai capelli castani, ha in qualche modo assecondato questa doppiezza, dando un “nome” alla parte più aggressiva e problematica della bambina: Crudelia. “Estella, non devi fare Crudelia!” dice la madre quando vede la figlia accapigliarsi con dei bulletti, essere richiamata dal preside, rispondere in modo non troppo riguardoso. Estella cerca così di reprime continuamente Crudelia, anche quando avrebbe tutti i motivi per arrabbiarsi e difendersi da un mondo che non è che la tratti troppo con i guanti. Un giorno, mentre la madre si trova a un ricevimento nel castello della misteriosa Contessa Von Hellman (Emma Thompson), “Crudelia viene fuori” e fa partire una serie di eventi che culminano con la morte della madre. Rimasta orfana e destinata per questo ad un istituto, Estella tinge di castano i capelli che la rendono tanto riconoscibile e inizia a vivere per strada, per lo più di piccoli furti e truffe, fino a che diventa una giovane donna (interpretata da Emma Stone). Nella sua piccola “banda” si uniscono a lei fin dall’inizio il corpulento e ingenuo Horace (Paul Walter Hauser) e il riflessivo e segaligno Jasper (Joel Fry), ma il sogno di Estella non è tanto fare a vita la criminale, quanto la sarta. Tutti i travestimenti e oggetti speciali che il trio usa per le sue scorribande sono infatti realizzati da Estella, che nel loro covo riesca a realizzare autentici capolavori. Jasper si accorge di questo “dono” e la incoraggia a cambiare vita, andando a lavorare per un grande negozio del centro. Da lì il passo verso la maison di alta moda della Contessa è breve, anche perché Estella ha talento e riesce presto a diventare assistente personale della donna. Ma le angherie cui la sottoporrà la Contessa, unite a misteriose rivelazioni sul suo passato, faranno sì che Crudelia rispunti dal suo inconscio, più agguerrita che mai. Mentre Estella con una parrucca castana continua a subire dalla sua capa, una Crudelia, mascherata e con i capelli di nuovo e finalmente bicolore, si impone come nuova star della moda londinese. Irrompe negli eventi mondani più esclusivi con effetti speciali e abiti incredibili. Strega la carta stampata con il suo stile rivoluzionario ed eccentrico. Farà imbestialire così tanto la Contessa da trovare in lei una nemica mortale. Chi sarà la più spietata e favololsa star dell’alta moda anni ‘70? 

(Crudelia, dopo Elsa e Malefica,  “”principessa”” Disney del nuovo millennio) Parla di moda, di genio e follia, il film live action di Disney Pictures. La Crudelia di Emma Stone diventa nel corso della pellicola il simbolo della rivoluzione culturale che c’è stata davvero negli anni ‘70 e per certi versi c’è ancora, nello spirito degli artisti inglesi. Crudelia è un’artista che incarna il punk, nuota nel glam, si nutre di street art e shock art contemporanea. Dal trucco agli eccessi dello Ziggy Stardust di Bowie (citato anche nel look di Artie, personaggio interpretato da John McCrea) alla guerrilla art estemporanea di Banksy (a questo ho pensato per il fastoso abito di spazzatura), nel solco punk della stilista Vivienne Westwood (che per qualcuno, sui capi più caratterizzati da bicromie, ricorderà il mondo di Tim Burton). Crudelia è anche e da prima di questa pellicola l’immagine della donna (finalmente) di potere con “omini/servetti buffi”, che vive nello stesso immaginario della Miss Doronjo di Yattaman. Per lo più bramando riconoscimento e potere, ma a tempo pieno intenta a schiacciare con i suoi tacchi a spillo le teste di due (non) maschi alpha. È un personaggio forte, Crudelia. Tormentato ma geniale, riflette l’immagine della donna che si è “corrotta come l’uomo” alla sete infinita di potere. Quando nel classico Disney come in questo film vediamo Crudelia abbassare il livello di rabbia e la sete di potere, per lo più alla presenza della sua unica vera amica Anita (qui Kirby Howell- Baptiste) troviamo una donna che ancora “ci prova” a credere in qualcosa oltre alla “smania”. È interessante anche il modo in cui l’ossessione per i cani dalmata, nonché il motivo per cui il personaggio sarà il cattivo della Carica dei 101, nella pellicola di Craig Gillespie trovi un significato ancestrale, incarni uno spaventoso trauma evolutivo. 


(Una Crudelia “buona”?) Ma arrivati a questo punto della discussione, prima di passare al “tecnico”, non posso esimermi dall’elefante nella stanza che mi fissa e un po’ aleggia nelle teste di molti spettatori insinuando la domanda scomoda per eccellenza: “ma questo è un film su Crudelia, la cattiva della Carica dei 101 che voleva spellare i teneri cuccioli di dalmata per fare pellicce di alta moda a costo di distruggere il mondo?“. La mia risposta diplomatica può essere “sì e no”, aprendo la prospettiva di una ri-lettura del personaggio più interessante e “tridimensionale”, ma abbastanza alternativa, come nel caso della Malefica di Angelina Jolie. La mia risposta non diplomatica invece, che si rifà al mio amore sconfinato per il musica Wicked ed è forte di un Crudelia 2 già annunciato, è invece che “può essere Crudelia nella sua forma più vera”. È un mio punto di vista e può benissimo essere che verrò smentito nei fatti, me ne rendo conto, ma vorrei dividerlo ugualmente con voi. Wicked, dal 2003 a Broadway, di Schwartz e Holzman, parla di Elphaba, la strega verde del Mago di Oz ed è stata interpretata sul palco da Idina Menzel. Idina Menzel è stata poi la voce originale di Elsa di Frozen, se volete iniziare a ragionare su “personaggi femminili di potere potenziali villain” e fare “due più due”. Wicked inizia anni prima del Mago di Oz, ripropone parte del mago di Oz senza variarne alcunché e continua dopo con un colpo di scena fino al finale. Trasformando il celebre romanzo di Lyman Frank Baum, in una trasposizione similare al film di Victor Fleming, in un secondo atto credibile del musical, dove Ephaba è una “anti-eroina” e non una villain.

Senza fare alcuno spoiler, questo film su Crudelia ha una storia che non arriva agli eventi della Carica dei 101, fermandosi solo a un “Crudelia origins”, per dirla come il Batman di Nolan. 

Il 90% delle critiche alla recente pellicola Disney che ho letto stanno tutte nel non riconoscere nella Crudelia di Emma Stone la Crudelia della Carica dei 101. Sostengono che Emma Stone “è troppo buona” per trasformarsi in Crudelia, nonostante il disturbo di personalità del personaggio sia palesata da subito (pur in modo super-schematico). Quello che può capitare (e si spera sempre che non capiti mai) a una persona con disturbi di personalità, è che sotto particolari situazioni di stress possa sviluppare un disturbo schizoide, che è molto vicino allo stato mentale che mostra Crudelia nel Cartone Animato della Carica dei 101. Il disturbo schizoide non è permanente e anche se può essere oltremodo distruttivo “si può uscirne” e tornare lucidi. Conoscendo anche solo dal trailer la Crudelia di Emma Stone, può essere che i 101 cuccioli le potrebbero servire (in questo eventuale seguito del film) per un “attacco d’arte”. Il fatto di “trasformarli in vestiti” non implicava per forza torcergli un capello/ucciderli o togliere loro la pelliccia, quanto una “””metafora””” resa sinistra a parole da uno stato mentale alterato (cosa che capita in modo abbastanza chiaro anche in un momento specifico della pellicola). Altro aspetto su cui non si sofferma quasi mai nessuno è che “a parole” la Crudelia del cartone animato vuole uccidere dei cuccioli, ma di fatto non ne uccide nessuno e potrebbe benissimo essere che messa davanti alla possibilità concreta di fare loro del male, al di là della ossessione di “averli”, lei si possa di fatto pentire. La pretesa non è riscrivere le regole di un classico Disney, come Wicked non aveva la pretesa di riscrivere Il mago di Oz, quando giocare simbolicamente con i suoi personaggi. Cosa che ogni tanto il cinema fa e che tipo “sempre” fa il teatro. Non c’è da ricostruire una “lore” della Carica dei 101, poi rispettosa della Carica dei 102 e dei film con Crudelia Glen Close (qui peraltro produttrice), quanto considerare con occhi diversi quella che è a tutti gli effetti una icona, da un punto diverso. Un po’ come il Joker con Phoenix che un po’ ci sussurra: “ehi, guarda che ogni tanto un po’ di Joker c’è in tutti noi almeno quanto ci crediamo Batman”.  


C’è indubbiamente “meno cattiveria” nella nuova visione di Crudelia proposta dalla Disney. C’è tanto politically correct di questi tempi nei blockbuster che Crudelia ha dovuto rinunciare, per policy aziendale, alla sua passione per il tabagismo. Ma c’è anche, come per Malefica, come per Elsa, la possibilità di ragionare sul perché le persone possano diventare o si trovino a essere considerate delle “villain”. Si toglie dal piedistallo quell’immagine anni ‘30 della eroina Disney perfetta quando decorativa, si fanno largo antieroine con artigli al posto di mani affusolate, occhi glaciali al posto di cuoricini e il carisma di un’artista/imprenditrice post moderna al posto del “fascino indiscreto della casalinga”. E la canzone “Crudelia Demon” ci sta tutta, per celebrarla come una rockstar trasgressiva prima che come una “rompiscatole”. Tutto questo mi piace molto, lo trovo stimolante e mi piace affiancare questa immagine di Crudelia a quella del cartone animato. Non come una sovrapposizione ma come un modo di giocare con l’archetipo in chiave moderna. L’arte per me non si nutre di sovrascritture, non ricerca mai il “vero assoluto” e si sposta tra variazioni sul tema. Ma comprendo che per qualcuno questo film non rappresenterà mai la “vera” Crudelia e pace.  


(Il diavolo veste dalmata) Ci sono i dalmata, c’è una ultra colorata e sfarzosa Londra anni ‘70 della Carica dei 101 con i “cani che assomigliano ai loro padroni”, c’è una atmosfera quasi da heist movie (o “Lupin Movie” per essere più precisi) ma film di Gillespie è prima di tutto un confronto tra donne. Il rapporto tra Crudelia e la Baronessa è simile a quello tra la Hathaway e Meryl Streep. Ma ricorda anche il rapporto tra Biancaneve e la Matrigna nel racconto originale di Biancaneve, dove la ragazza ruba la scena alla regina “togliendole” il potere, anche se qui non avviene alla maniera di Robin Hood quanto su un piano di scontro artistico. Una rivalità alla Eva contro Eva (verrebbe dire alla Emma contro Emma, per fare una battuta), se vogliamo citare il classico di Mankiewicz con Bette Davis e Anne Baxter. O se vogliamo stare sul gossip, simile alla rivalità sempre della diva Bette Davis nei confronti di Joan Crawford. Emma Thompson dona alla sua baronessa un gustoso distacco aristocratico, occhialoni da sole per coprire le occhiaia e scarpe strette che sanno di un gran mal di piedi. Legge articoli di auto-elogio, vuole la perfezione fin nelle piccolo cose come il numero delle foglioline nell’insalata, non sopporta dover dividere un palcoscenico anche solo con la sua ombra. È un personaggio assurdo fino a sembrare buffo, ma possiede un lato davvero cattivo e imprevedibile spesso mascherato da una innocenza teatralmente ostentata. È abbastanza raro vedere la bellissima e dolce Emma Thompson, che io la amo particolarmente negli adattamenti da Shakespeare ma anche in Angels in America, in un ruolo da “cattiva”. Ma sembra proprio che si diverta un mondo, alla maniera dell’Hopkins che con lei ha sperimentato la parte del cannibale Hannibal dopo tanto teatro classico e Jane Austin. Potrebbe essere anche più crudele e credo che si divertirebbe pure di più, ma il suo personaggio funziona e riesce a duettare alla perfezione con la Stone. Emma Stone sa donare alla sua Crudelia tutta la dolcezza ed eleganza della Mia di La la land, la sfacciataggine della Wichita di Zombieland, l’erotismo composto della Grace di Gangster Squad. Ha lo sguardo disincantato e deluso dalla vita della sua Sam di Birdman, vuole “tirare dritto nonostante tutto” come la sua Abigail de La Favorita. Non ha mai perso il suo fascino da ragazza dalla porta accanto nonostante sia una delle attrici più belle di Hollywood, ma è interessante vederla qui, nonostante un fisico incedibile e vestiti pazzeschi, come una creatura così introversa, fragile, scorbutica e “infranta”. La Crudelia del cartone animato è una donna ricurva su se stessa, dal corpo nodoso e i nervi tesi, la bocca serrata e lo sguardo pronto a infiammarsi. La Stone sta intraprendendo quella trasformazione gradualmente, ma riesce a convincere, ci mette la giusta “rabbia”. Sarà davvero interessante lo step successivo, nel prossimo film. 


Cambia ma non troppo anche il rapporto tra Crudelia e i suoi “minions”, che vediamo quasi come una tenera famiglia in lenta disgregazione a causa della sempre più crescente “smania” di Crudelia. In ruoli minori, quasi “nascosti”, anche i due protagonisti della carica dei 101, che probabilmente  saranno più centrali nel prossimo film. 

Visivamente e a livello di colonna sonora Crudelia è un film magnifico. Se amate il luccicante mondo della moda o la storia della musica anni ‘70 la pellicola straborda di mille chicche. La storia è convincente e presenta un buon ritmo, molte le scene d’azione, spettacolari i momenti delle “sfilate” con chi si sfidano le due stiliste. 

(Finale). Crudelia è uno dei migliori film Disney live action basati su un loro classico animato, divertente e convincente quasi in ogni reparto. Forse per qualcuno il nome “Crudelia” è troppo ingombrante in quanto nel film, nonostante sia da intendere come una prima parte di un progetto più ampio, il personaggio principale può apparire troppo distante dal modello originario. 

Qualcuno in rete ha commentato che i cattivi non dovrebbero apparire “tanto buoni” o si snaturerebbe la loro valenza drammaturgica. Trovo questo rilievo molto interessante, ma dal mio punto di vista non è sbagliato trovare connessioni ed empatia con un personaggio ritenuto “cattivo”, specie quando “l’umanizzazione” introduce dei motivi plausibili per mettere in luce quanto sia vicino il confine tra il giusto e lo sbagliato, tra il bene e il male. Un mondo in cui c’è del buono anche nei cattivi e del cattivo anche nei buoni risponde anche ad una precisa istanza zen, che trova asilo in molta filosofia e cinema orientale, che da sempre apprezzo in quanto visione più reale del mondo. Mi piace che la favola con i suoi archetipi rimanga, così come mi piace che a questa si affianchino nuove interpretazioni narrative in grado di parlare a un pubblico diverso dai bambini. Diciamo che io sono per capire le motivazione del drago prima di avere il desidero atavico di abbatterlo, ma questo è solo un mio punto di vista. 

A mio avviso, davvero un film niente male. 

Talk0


giovedì 6 gennaio 2022

Ravage: la nostra recensione del rape & Revenge scritto e diretto da Teddy Grennan con Annabelle Dexter-Jones

 


La fotografa naturalista Harper (Annabelle Dexter-Jones) è sulle tracce di un misterioso serpente rosso che bazzica tra i campi desolati di un paesino di provincia della Virginia, situato in una zona d’America tristemente nota per un passato di violenza ed emarginazione. Le cose sono andate male e la ragazza si trova in ospedale, coperta di bende dalla testa ai piedi, con ustioni gravissime su tutto il corpo, a raccontare a un detective una vicenda grottesca a base di torture medioevali, di una opinabile difesa del territorio dalle “avide mani straniere” e di variegata pazzia maschilista, alla quale (forse) ora è finalmente sopravvissuta. 


Ravage dura 82 minuti scarsi, non inventa molto in termini narrativi ed è il più classico dei film di “genere horror” con protagoniste delle donne prima in fuga e poi carnefici di uomini orribili. Non è politico/sociologico come The Woman di Lucky McKee, non ha compiacimenti erotico/grandguignoleschi come un epigono della serie “antologica” I Split on Your grave, non mostra delle Final girl quasi supereroistiche come You’re Next di Adam Wingard o Revenge di Coraline Fargeat. Ravage è essenziale, ma fa tutto bene. È intelligente, spietato, carico di un’inquietudine che non ti lascia anche una volta che il film è terminato. Ha per protagonista Annabelle Dexter-Jones, che dà vita a una donna forte e piena di risorse come non mai, bellissima quanto cazzuta ma (umanamente) vulnerabile, sola e disperata. Tra i villain figurano due personaggi memorabili per disgusto come il lercio e odioso contadino interpretato da Robert Longstreet e l’invasato “vecchio saggio” interpretato da Bruce Dern. L’atmosfera da folk horror fa il resto, nutrendo ogni foglia e manto fangoso di inquietudine e incertezza, tra racconti popolari sull’onore e la necessità delle torture volti per lo più (idealmente) a contrastare una natura “femmina” quanto “maligna”, e per questo quasi nemica naturale dell’uomo. Annabelle Dexter-Jones, in quanto donna e in quanto “inesorabile” come la natura, diventa per il gruppetto di piccoli e cattivi redneck che la “inseguono” quasi immagine della “natura stessa”. Una creatura non solo in grado di sovvertire e ribaltare i loro piani di controllo e dominio, ma anche un essere in grado di “rinascere” (in una scena idealmente metaforica, ma  che può essere “vera” solo grazie alla poetica splatter propria del cinema horror) superando tanto i loro limiti umani che intellettuali. È questa la marcia in più della pellicola. Per il resto molte sequenze “di esecuzione” ossequiano il genere di riferimento in modo liturgico, facendo provare allo spettatore le classiche doppie valenze di vittima/carnefice e percezione maschile/femminile. La pellicola inoltre non punta troppo sulla chiave erotica dello scontro (altro marchio di fabbrica di molto rape & Revenge), che rimane solo accennata, anche se la protagonista irradia una straordinaria bellezza anche quando è ricoperta di sangue e fango. È interessante come anche la scansione narrativa classica venga qui in qualche modo sovvertita, a vantaggio di un finale originale quanto potente, davvero suggestivo, che innalza Il film di Grennen allo status di piccolo gioiello. Un film per adulti, un film assolutamente non adatto ai più impressionabili, forse un film in alcuni snodi prevedibile. Non un capolavoro, ma anche un film davvero ben costruito a livello simbolico e recitato in modo molto convincente. Ruvida, sporca e magnifica la fotografia, che gioco molto sui toni di verde e il giallo, calandoci nell’atmosfera calda quanto appiccicosa di un paesaggio lussureggiante quanto ostile, paradisiaco quanto marcio. Se vi piacciono gli horror e avete 80 minuti, lo trovate in streaming su Amazon Prime o in videoteca in dvd grazie ai ragazzi di Blue Swan. Poi fatemi sapere. 

Talk0

 

mercoledì 5 gennaio 2022

King’s Man - le origini: la nostra recensione del nuovo capitolo della saga cinematografica di Mark Millar e Mattheu Vaughn

 


C’è stato un tempo, difficile crederlo, in cui non esistevano i supereroi. I bambini allora fantasticavano su cose come Re Artù e la maga Morgana, spade e onore cavalleresco. Così, in un giorno all’inizio del 1900, mentre il piccolo Conrad (Alexander Shaw) attendeva in auto che i suoi genitori, appartenenti a un'associazione caritatevole, compissero la loro missione in una terra devastata dalla guerra e la povertà, lui se li immaginava così: come la versione moderna dei cavalieri di Britannia. Il suo papà, il duca di Oxford (Ralph Fiennes), sempre coraggioso e forte, doveva  essere senza dubbio Re Artù. Mamma Emily (Alexandra Maria Lara), così bella e dolce, non poteva che essere la regina Ginevra e il fido Shola (Djimon Hounson), sempre così saggio e pieno di risorse, un perfetto Mago Merlino. Con loro al comando, giusti e gentili, “eroici” quanto umili, supereroi prima dei supereroi in quanto “cavalieri”, le guerre sarebbero finite in un attimo. Il "bene” avrebbe vinto sul “male”. Sempre. Solo che all’epoca non esistevano più o “non ancora” i cavalieri. Non c’erano in giro draghi e stregoni malvagi e la “Ginevra” di Conrad era destinata a morire di lì a pochi minuti, davanti a lui, per un colpo anonimo e asettico di arma da fuoco, sparato da una mano che rimarrà ignota, “inelegante”. Dopo quell’evento il padre del bambino, il “suo Artù”, chiuderà il  cuore al figlio trasformandosi in una specie di fantasma, un “padre assente” e costantemente preoccupato. Un uomo solo più che l’uomo più vicino alle leve di potere che muovono occultamente il mondo. Ma Conrad non smetterà mai di credere nei cavalieri e ci crederà ancora una volta adulto (in questa fase interpretato da Harris Dickinson), anche alle porte di una guerra terribile nata in modo meticoloso quanto incredibile, per uno strano miscuglio di giochi di palazzo e invidie parentali. Il ragazzo deciderà di farsi lui stesso cavaliere, rinunciando ai benefici di esenzione dalla leva del suo stato di lord, per andare a combattere in trincea, tra le prime file della difesa inglese, tra il fango e i miasmi delle nuove armi chimiche, a costo di offrire una falsa identità. Da questa volontà ferrea di Conrad di essere “eroe e gentleman” prenderà corpo, come per maglia, guidata proprio da suo padre, una nuova era di cavalieri e stregoni. Un’epoca in cui Oxford, Shola e Miss Polly (Gemma Arterton), armati di spada e pistola, coraggio e un po’ di pazzia, incroceranno le armi con creature tra il sogno e la realtà (ma che possono nel caso dare luogo a scandali politici quantomeno attuali pure nel 21esimo secolo) come la ammaliatrice Mata Hari (Valerie Pachner), lo stregone Rasputin (Rhys Ifans) e il terribile e misterioso “pastore”. È tempo che la sartoria Kingsman apra i battenti per vestire una nuova generazione di gentleman.


 
Amo le super-spie di Millar e Vaugh da quando, nel film del 2014, il personaggio ultra- glam di Galahad, interpretato da un incredibile Colin Firth, irrompeva in quella chiesa piena di fedeli resi folli-zombie-assassini (come “uccisori”, se siete fan di Dylan Dog) dal perfido tecno-villain di Samuel Jackson. C’era in quella singola scena la classe del Bond di Connery, il vintage “groovy” fatto bene alla Austin Powers, le coreografie di combattimento estremo e da sogno di Bradley James Allan del Jacky Chan Stunt Team, lo splatter dissacrante di un film Troma e in sottofondo Free Bird dei Lynyrd Skynyrd. Wow. E dire che il film era stato venduto all’inizio, dai trailer, come una specie di Harry Potter in salsa Spy Movie!!! Tutto fino a quella scena funzionava bene, con un Taron Egerton protagonista semi-esordiente ma già perfetto, un Michael Caine sornione quanto super carismatico e un Mark Strong da antologia (che di fatto rifarà lo stesso personaggio un anno dopo nello scemissimo ed irresistibile Grimsby a fianco di Sasha Baron Cohen, e sarà ancora più surreale in Kingsman 2), una pazzesca Sofia Boutella sensuale anche con le gambe d’acciaio. Ma con la scena della chiesa si alzava l’asticella della follia a mille e in un niente si arrivava oltre, in un crescendo inarrestabile come un ottovolante, alla sequenza con centinaia di teste che esplodevano coreograficamente  sulle note della marcia Pomp and Circumstance di Edward Elgar, in un contesto straniante quanto raffinato ed elegante da sembrare uno spettacolo pirotecnico abbinato al liturgico concerto viennese di capodanno. Questa pazzia si manteneva alta anche nel secondo film, in cui era “normale” se all’improvviso poteva arrivare sulla scena a colpi di arti marziali, tra cani-cyborg armati di lanciamissili, pure Elton John coperto di piume di struzzo (sembra anzi che l’incontro tra Elton e Egerton sul set abbia convinto il cantante a volerlo per interpretare se stesso nell’ottimo musical autobiografico Rocketman). 


Ne volevamo ancora di Kingsman e appena sono arrivate le prime informazioni su questo prequel della saga (con in futuro già programmati uno spin off “americano”, un sequel della saga ufficiale e una serie tv)  l’immaginazione ha iniziato a galoppare, anche perché si poteva esplorare un aspetto “nuovo”, ancora inedito per il Mark Millar “sceneggiatore cinematografico”, ma tipico del Mark Millar “autore di fumetti”: la grande passione per la Storia. 

Quando un giovane Mark Millar approdò in DC comics fece una cosa matta come Red Son, una mini serie del 2003 che proponeva un Superman alternativo nato e cresciuto in Russia, in un periodo distopico della cosiddetta “guerra fredda”. Pochi anni dopo in Marvel, nel 2006, l’autore re-inventava gli Avengers, sulla collana Ultimates (la base su cui costruiranno il Marvel Cinematic Universe), partendo dalla seconda guerra mondiale vissuta da Capitan America e immaginando un Thor uscito dal periodo dei figli dei fiori. Quando a Millar un anno dopo saranno consegnate le “chiavi dell’universo Marvel intero” per un mega crossover, l’autore inscenerà la sua versione supereroistica della “Civil War” americana. Con i primi due Kingsman cinematografici l’autore inglese aveva giocato con il mondo delle “spie alla 007” degli anni ‘60, cercando di “attualizzare i cattivi” come terribili imprenditori 2.0 del ventunesimo secolo che volevano rendere il mondo schiavo di tecnologia e stupefacenti, ma con King’s Man Millar trova oggi l’occasione ghiotta di tornare alla Storia, per parlarci, con toni satirici quanto sarcastici, della “sua versione” della prima guerra mondiale. Come è partita la miccia che l’ha fatta scoppiare, come era costituita la strana rete parentale che legava ai tempi chi dominava l’Europa, le figure storiche per l’opinione pubblica più curiose e controverse, le nuove armi e strategie belliche, la nascita “dal basso” di una originale rete di intelligence. Lo stile con cui è gestito questo mondo proto-007 è sempre sopra le righe, ma articolato, complesso e intrigante. Un world building che se da un lato non va a discapito di tutta l’azione roboante caratterizzante dei con Firth e Egerton, forse sceglie una linea narrativa più tragica e “seria” dello “stile kingsman”. 


Millar e Vaughn sembrano trovare nella prima guerra mondiale la stessa epica surreale incrociata da Sam Mendes nel suo capolavoro 1917. Lo stesso inferno dantesco delle battaglie di trincea che qui il Conrad di Dickinson (molto bravo) affronta tra il buio, le urla e la paura, confrontandosi male armato con soldati tedeschi carichi di lame e col viso disumanizzato dalle maschere antigas. È una scena forte quanto terribile, volutamente centrale nella narrazione e che “non ci abbandona” neanche quando vediamo poi Ralph Fiennes destreggiarsi “fieramente in mutante” in un elegante balletto-duello contro Rasputin (personaggio in assoluto più divertente della pellicola) o lo vediamo scalare una montagna “saltando da una pecora all’altra” (come in un videogame a piattaforme). Tutto torna gioiosamente esagerato, folle ed esaltante, ma è come se il tono, dopo quelle trincee, sia cambiato e si voglia “ridere di meno”. E’ una scelta coraggiosa, che magari non tutto il pubblico potrebbe accettare, ma che aggiunge un nuovo “gusto” alla saga cinematografica di Millar. 

Ralph Fiennes è perfetto nella parte e il suo Oxford ci rimanda all’istante, per movenze e completo impeccabile, al 1998, quando interpretava al cinema l’agente speciale John Steed nell’adattamento cinematografico della serie tv Avengers al fianco di Uma Thurman, di fatto se non il prototipo di Kingsman una forte fonte di inspirazione per Millar. In quel film c’era a confrontarsi con Fiennes, che in seguito avrebbe interpretato “M” nei film con lo 007 di Craig, anche il “primo Bond”, Sir Sean Connery. L’ombra di Bond cala anche sulla scelta di inserire nel cast di King’s Man la sempre splendida Gemma Arterton, già Bond Girl in Quantum of Solace del 2008 (era la ragazza “coperta dal petrolio”: il “nuovo oro” dell’epoca post-Goldfinger). È un vero peccato che la bellissima interprete di Tamara Drew e Hansel & Gretel: Witch Hunters sia un po’ finita fuori dai radar negli ultimi anni e anche qui sia relegata a una particina, seppur “importante” e ben riuscita. Nel ricco cast figurano in piccole parti anche molti attori noti e di talento come Charles Dance, Daniel Bruhl, Aaron Taylor Johnson, Tom Hollander, Stanley Tucci e la sensazione è che tutto questo “ben di dio” possa essere usato in modo più proficuo in un sequel già molto auspicabile. L’azione rimane il momento più fico dell’esperienza visiva della serie e non poteva essere altrimenti. È sempre spericolata, fumettosa, esagerata e quando il mix di arti marziali, pistole e splatter arriva all’apice c’è solo da tirare fuori i pop corn e chi vuole un bel film d’azione per passare una serata disimpegnata tra botti e spacconate avrà quello che cerca. Con in più quella nota malinconica e agrodolce di cui vi dicevo, che cambia magari un po’ il gusto finale ma che potrebbe anche piacere, seppur per qualche fan della prima ora possa risultare strana. Molto gustoso il continuo gioco di rimandi storici e “interpretazioni libere” sul tema, con un finale che ci lancia verso scenari futuri elettrizzanti.

Tra gioco ed epica, King’s Man diverte e potrebbe pure far nascere in qualcuno la curiosità di rispolverare qualche libro di storia. Non male per un popcorn movie. 

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