André (André Dussolier) è un
imprenditore di successo, un famoso esperto d’arte, marito di una scultrice
talentuosa ma dall’animo “duro come il marmo” (Charlotte Rampling), padre di due figlie già grandi e sposate, Pascale (Geraldine Pailhas) ed Emmanuele
(Sophie Marceau). Ha 85 anni e di colpo un ictus lo porta in un ospedale e poi
gli contrae una parte del volto, “sciogliendola” come una candela, quasi
come un orologio molle di Dalì. Anche la mano è rigida, forse non si muoverà
più e questo non gli permetterà di tornare a suonare al suo amato pianoforte
insieme al nipote. Deve essere imboccato, spinto sulla sedia a rotelle,
affiancato da una presenza costante per ogni impellenza. Deve iniziare una
riabilitazione che potrebbe essere un percorso infinto, che potrebbe durare per
sempre. Non prova più passione guardando i cataloghi delle mostre, non vuole
più vedere nessuno che ama, tutto ha perso di significato. André vuole farla
finita e vuole farlo “legalmente”, in Svizzera. Emmanuele gli sta vicino,
conserva in frigo il panino al salmone che il padre ha solo morso il primo
giorno del ricovero perché spera che in breve il genitore torni a casa o che
magari almeno il suo umore si aggiusti. Mentre si trova in metropolitana aiuta
un turista inglese a districarsi tra i percorsi parigini e con la mente
torna a quando da bambina il padre le insegnava a leggere una mappa
stradale grande come una tovaglia. È giunto il tempo che sia lei a fargli da
guida, anche se il rapporto con il padre non è sempre stato rose e fiori e il
suo carattere spesso sarcastico ed egoista non ha certo aiutato nella
relazione. André ora insiste, nello stesso modo egoista in cui sempre imponeva
le sue decisioni, che sia proprio Emmanuele a chiamare “la Svizzera”. È
lei la figlia designata, forse perché la ritiene più “forte”. Così la ragazza
invita a Parigi una signora misteriosa dall’aria serena e compassata (Hanna Schygulla), un ex magistrato che ora si occupa di accompagnare chi vuole
intraprendere il percorso di suicidio assistito. In un albergo del centro la
donna presenta a Emmanuele una procedura di “fine vita” complessa, che deve essere attuata mentre la persona è ancora capace di intendere e
volere, che in Francia è illegale e comporta importanti conseguenze penali in
capo a chi la agevoli, che necessita di un’ambulanza e supporto medico per il
trasferimento a Berna, che deve essere organizzata in una data precisa e
richiede altre mille faccende minori. Emmanuele chiede alla dama misteriosa se qualcuno si è mai ritratto dalla procedura, cambiando idea magari all’ultimo
minuto e la donna le racconta di un uomo che vedendo la donna che amava in
vestito rosso, la sera prima del suicidio, aveva ritrovato la voglia di vivere.
Emmanuele da allora decide di vestirsi di rosso e cerca di procrastinare quanto
più possibile la data stabilita, cercando di tenere stretto il padre alla sua
famiglia e amici, coccolandolo con amore e attenzioni. Il padre sembra stare
meglio fisicamente ma gli rimane come il chiodo fisso di quella decisione estrema:
quasi fosse un necessario momento di auto-consapevolezza della sua vita che
deve porsi al di sopra di ogni altra cosa.
Avevamo recensito un film di Francois Ozon sul blog, nel 2021, con la storia adolescenziale Estate ’85, e ritroviamo oggi il regista alle prese di un contesto diverso anche se ancora una volta “intimo”, drammatico quanto romantico, ancora guidato come fonte originaria da un libro che in questo caso è l’autobiografico È andato tutto bene della scrittrice Emmanuele Bernheim. Ozon ama anche qui soffermarsi sulla complessità nei rapporti, portando in scena i chiaro-scuri che stiracchiano le relazioni familiari fino quasi a romperle. Le madri rimangono figure strane e distanti, spesso indecifrabili. Charlotte Rampling qui interpreta una madre-scultrice silenziosa, malata e glaciale che vive in un mondo dalle tonalità di grigio. Non è troppo lontana dalla madre-eccentrica di Valeria Bruni Tedesci di Estate ’85, quella che prima insisteva per “fare il bagnetto” anche a ragazzi di sedici anni per poi saper odiare, in modo quasi ossessivo, quelle stesse persone, quasi come una strega. I padri sono invece figure assenti e autoriferite, spesso incapaci di provare sentimenti perché si precludono alle emozioni, relegandosi a un'immagine sociale di se stessi che li castra. I figli (in questo caso “le figlie”) devono continuamente “mediare”, cercando di cogliere il bene e mettere sotto traccia le asperità di questa genitorialità sfuggente, sapendosi districare in situazioni che mutano in un istante da abbracci alla lotta nel fango e al contempo cercando il loro posto nel mondo. La Emmanuele della Marceau è in continua lotta con un padre malinconico interpretato da Dussolier e un monolite materno incarnato dalla Rampling (creatura descritta come “già morta dentro”) e si aggrappa spesso “per tirare avanti” ai ricordi, che nella pellicola costituiscono le scene più forti quando eteree, con la fotografia dai colori più accesi. È quella fiamma di colori del passato che la riscalda e a cui si aggrappa nei momenti difficili, come si aggrappa a quel vestito rosso fuoco con cui spera, solo indossandolo, che il padre di nuovo “la veda” e ri-trovi la voglia di vivere. È una lotta titanica quanto impari, che si scontra con una forte voglia di “non vivere più” snervante, ostinata, quasi ottusa o “capricciosa”. Una intenzione che appare incomprensibile anche per via di quella tragica maschera facciale contratta da ictus che non svela più molte delle emozioni del padre, costringendolo a usare una voce atona, lenta e bassa. Una voce che nelle poche sfumature concessele tuttavia riesce ogni tanto a esprimere un taglientissimo sarcasmo (quasi da humor nero), quanto sinceri afflati di gioia, quasi vicini al sorriso di un bambino. Ed è forse per questa ingenuità senile, che avvertiamo nella forma e corpo di un padre che va accudito come un bambino e sa emozionarsi alla sola idea di andare al suo ristorante preferito, che appare più forte e “crudele” il tema del “fine vita”, con tutti i sui protocolli, leggi, dilemmi morali e quel pensiero fisso rivolto al padre, che aleggia nella testa degli spettatori per tutto il film fino a palesarsi, come deus ex machina, sulle labbra del classico “uomo della strada”: “Ma perché vuoi morire? La vita è bella!!!”. Ed è lì che Ozon picchia più duro, con un tocco da maestro delle emozioni che sa rendersi poco accomodante quanto riesce a restare sincero, un regista aperto alle sfumature al di là dei “toni grigi” tra il bianco e nero, tra il giusto e lo sbagliato, cantore di una policromia della vita che passi anche attraverso la satira (un po’ alla Dardenne), ma anche intrisa dell’autoironia e gusto dell’assurdo proprio del cinema francese di maggiore successo.
È andato tutto bene affronta con garbo e molta umanità un tema davvero difficile quanto attuale come il “fine vita” e riesce a costruire una storia familiare malinconica quanto tenera, carica di sfumature e umilmente “irrisolta”. Molto bravi gli interpreti, belle le sequenze ambientate nel passato, quasi da film horror la parte “procedurale”. Amaro quanto stratificato, è film ideale per stimolare il dibattito.
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