sabato 30 gennaio 2021

Pietà - il diciottesimo film di Kim Ki Duk



Corea, 2012. Nella zona periferica più povera, vicino allo smantellamento in ragione dei nuovi palazzi, Gang-do (Lee Jung-jin) riscuote prestiti con interessi al 1000x100 e spezza gambe e braccia perché l’assicurazione per l’invalidità permetta di pagare a chi non ce la fa più. I piccoli commercianti locali lo chiamano “il diavolo che illude la gente con i soldi”, ma sono i primi ad avere bisogno di lui perché lo stato non c’è e la gente che non muore di fame spesso si suicida. Non c’è futuro anche per chi si impegna. La prospettiva felice della nascita di un figlio deve fare i conti con la necessità disperata di rompersi una mano e diventare invalidi per avere i soldi di mandarlo a scuola. Gang-do sembra anestetizzato da ogni sentimento, vive solo, esegue il suo lavoro di carnefice e strozzino con rigore disumano. Solo la sera, nel suo piccolo appartamento fatiscente, dorme tormentato, alla ricerca di un po’ di calore carnale nell’autoerotismo. Ma non sembra più di un tic fisiologico. Gli affari comunque non vanno bene, non c’è più nessuno che abbia soldi e lo strozzino rincasa sempre più spesso solo con del pollame o un consiglio. Anche se ha incrementato il tasso di violenza con cui cerca di estorcere il denaro, questo non sembra funzionare e il boss locale lo rimprovera per la gente che riduce quotidianamente in fin di vita, incapace di produrre per questo altro denaro. Un giorno appare alla sua porta una donna (Jeon Mi-Seon), dice di essere sua madre. Si scusa di averlo abbandonato e lasciato crescere solo e cattivo in questo mondo, gli pulisce casa, gli prepara da mangiare. Il ragazzo la respinge, ma la donna torna più volte e quando gli regala una anguilla da mangiare, lui la caccia di nuovo ma tiene l’anguilla, la mette nell’acquario insieme al bigliettino con il numero di telefono della donna. Alla fine la richiama, la accoglie e per la prima volta nella vita lo strozzino prova cosa significhi avere una madre. Ma la donna serba dei misteri e forse una vendetta. Il suo avvicinarsi a Gang-do con la pietà materna potrebbe nascondere qualcosa di diverso.

Pietà classica


Nella Corea delle vendette psicologiche crudeli di Park Chan-wook (la nota trilogia) e dell’amore carnale e cattivo (Isola, sempre di Kim Ki-Duk), la Pietà è sempre l’arma più forte, quella che colpisce il lato umano delle creature anche più egoiste e brutali. È qualcosa che lega insieme la natura umana e quella matrigna gettandone i confini, un vincolo apparentemente frivolo e umile, ma potente, inesorabile nella crescita morale. Qualcuno direbbe che nasciamo nel dolore e l’amore materno è il primo a consolarci, nonché sovente l’ultimo pensiero che torna prima di morire. Una energia vitale da cui attinge a piene mani Kim Ki-Duk, regista il cui cinema ricerca la pietà da sempre negli angoli di un appartamento (Ferro 3),sotto i ponti dei fiumi (Coccodrillo), nel fluire dell’acqua (Isola), tra le pieghe del tempo (Primavera, Estate, Autunno, Inverno...e ancora primavera). Così i mille falliti che popolano i film di Ki-Duk partono tronfi, giocano con una donna come se fosse una preda, un oggetto semi-inanimato o decorativo, fino a scoprirne la bellezza, piegarsi a essa e riconoscersi umani. È un processo che parte dal sangue, dal dolore anche visivamente più disturbante e ingiusto, ma la cui dolcezza finale strazia, ricongiunge, pacifica.

Pietà sudcoreana


Questo 2020 ci ha portato via anche Kim Ki-Duk. Un maestro senza tempo. Pietà è un buon “starting point” per riscoprire il suo cinema. Non la sua opera più complessa, ma quella che più assomiglia ai revenge movie che con il tempo hanno dato la dimensione più innovativa del cinema coreani. In genere che Ki-Duk segue dai tempi di Coccodrillo, di Bad Guy. Se volete potete partire quindi da qui e poi scoprire la caustica e folle Isola, gli angoli architettonici e domestici di  Ferro 3, la filosofia orientale dei monaci di Primavera, Estate, Autunno, Inverno è ancora Primavera. È un regista difficile, criptico, duro. Va avvicinato con la voglia di superare la coltre di violenza, i tempi lunghi e infiniti silenzi dei suoi lavori. Ma è uno sforzo che appaga e ripaga, che ogni amante del cinema deve per me tentare. Ci mancherà tanto. 

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giovedì 28 gennaio 2021

Shadow in the cloud - trailer “natalizio”, perché i Gremlins fanno sempre Natale



La regista Roseanne Ling scrive, insieme al nostro amato Max Brooks, e dirige, nello splendore della fotografia “vintage” di Kit Fraser, un action thriller che fin dai primi rumors ci ha mandato in fibrillazione. Protagonista assoluta della scena, nei panni di una cazzutissima pilota di un bombardiere B-17 della seconda guerra mondiale, Chloe Grace Moretz, la vera lolita nerd del nuovo millennio. la “Hit-Girl” di Kick-Ass. La seguiamo con amore dagli esordi di quando era bambina in Desperate Housewife, passando per Hugo Cabret di Scorsese, un remake forse troppo “X-Men” e forse “meh” di Carrie, un curioso Dark Shadows di Burton fino a diventarmi erotica dancer in Suspiria di Guadagnino. Temiamo di vederla presto (ma speriamo tardissimo, meglio mai) in Tom & Jerry, ma intanto e con gioia la abbiamo di nuovo qui, più Kick-Ass che mai, sulla fortezza volante, a sparare all’impazzata ad una montagna di aerei nemici, manco fossimo in 1943 di Capcom, e pure a picchiare a cazzottoni i temibili Gremlins che stanno smontanto l’aereo dall’esterno. La mente non può che tornare a quel film a episodi sulla Twilight Zone con un John Lithgow al finestrino di un aereo notturno in un giorno di pioggia e con la paura del volo, da cui sarebbe nato il classico natalizio di Joe Dante. Oltre da quanto abbiamo visto finora non possiamo andare. Ci immaginiamo un one-girl-show, magari un Gravity in salsa piccante. Così come si affaccia ai ricordi quel promettentissimo, ma un po’ spento, action in salsa nazi-Zombie di nome Overlord che proprio nei suoi primi minuti, con i soldati che colavano a picco in un aereo in fiamme, aveva sparato tutte e troppo presto le cartucce della pellicola. Cloe è nei nostri cuori, il trailer parla di spettatori entusiasti ai massimi livelli, noi nel nostro piccolo speriamo bene e incrociamo le dita. La regista è promettente, Landis ha il potenziale (Chronicle) ma ogni tanto sborda (American Ultra). Siamo ufficialmente curiosi e sempre innamoratissimi della piccola e cazzutissima Choe Grace Moretz. 

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P.S.: intanto, dai tempi in cui avevamo programmato questo post, il film è passato tra le maglie della critica internazionale che l'ha giudicato un po' troppo "tiepidino"... incrociamo le dita che almeno a noi possa piacere e ci aggiorniamo dopo la visione.


martedì 26 gennaio 2021

Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma - il nuovo film di Giulio Base su Rai Play in occasione del 27 gennaio, lgiornata della memoria, e in onda su Rai 1 sabato 6 febbraio alle 22.50

 


(27 gennaio, giornata della memoria). Rai Play, in occasione della giornata della memoria, mette a disposizione una serie di contenuti video dedicati al tema della Shoah, tra cui quattro documentari (tra cui segnalo per la forza del progetto Alle radici del male di Israel Cesare Moscati, co-autore del film di cui parliamo oggi) e la pellicola che vi presentiamo qui, diretta da Giulio Base. Un film che sceglie di rivolgersi a un pubblico molto giovane per raccontare il presente della comunità ebraica romana quanto una delle pagine più difficili e crudeli della storia italiana, la “giornata nera”. Quel giorno le SS entrarono nel ghetto di Roma portando via più di 1000 persone, adulti e bambini, mentre altri riuscirono a scappare e trovarono un rifugio momentaneo presso privati e istituti religiosi .  

(Sinossi) Sofia è una ragazza adolescente romana dei giorni nostri. Sta per finire il liceo e da grande vuole suonare come suo padre, un musicista di fama internazionale. La mamma un po’ preoccupata da questa scelta la assilla, le chiede di prepararsi un “piano b” nel caso non arrivi il successo, scegliere intanto di iscriversi all’università. Un giorno, per sfuggire all’ennesima litigata con la madre, Sofia sale in soffitta, dove trova all’interno del rivestimento di una valigia rotta, comprata al mercatino, una lettera con una foto. La persona che scrive si rivolge affettuosamente a Sara Cohen, una bambina soccorsa da un convento di suore durante la “giornata nera”. Sofia e i suoi compagni di classe volgono in qualche modo cercare Sara Cohen per consegnarle la lettere e cercano sue informazioni presso la comunità ebraica di Roma. Non senza qualche difficoltà iniziali, questa ricerca diverrà l’occasione per conosce alcuni ragazzi della scuola ebraica e portare in scena insieme a loro uno spettacolo teatrale basato su quanto scopriranno del passato e presente di Sara Cohen. Cercando di mediare tra le rispettive culture un dialogo spesso non facile, a cui contribuisce la diffidenza dei genitori e il peso del passato, i ragazzi cercheranno di diventare amici.



(Una storia d’amore e amicizia, tra presente e passato, che abbraccia in un piccolo volo di telecamera il centro di Roma con il ghetto ebraico). C’è il cibo kosher, la discendenza materna, le regole dello Shabbat, la circoncisione, la scelta di non disperdere la famiglia al di fuori della comunità e molte altre regole. C’è poi il dramma della Shoah, ancora attuale. Cose piccole e grandi alla base di un bagaglio identitario forte e che dall’esterno, da una cultura diversa, possono apparire severe, qualche volta intransigenti. C’è di contro la volontà reciproca di conoscere e comprendere chi sta al di là e al di qua delle porte della comunità ebraica, uscire da un auto-isolamento, superare i confini reali e spirituali che impediscono ai protagonisti di riconoscersi tutti come semplici “romani”, nel bene e nel male, nei sogni e difficoltà. Dando voce a queste due anime contrapposte, il film di Base punta a creare tra loro un dialogo, un ponte ideale. Sceglie di essere diretto e chiaro come i suoi giovani protagonisti, riflette sulle difficoltà dell’integrazione della comunità ebraica di oggi e rievoca una dolorosa storia passata frutto di una inconcepibile divisione ideologica per farne patrimonio di dolore condiviso. La lettera di Sara Cohen evoca i fantasmi del passato, il dolore della Storia, ma fa partire una caccia al tesoro “necessaria” quanto “identitaria”, il cui esito felice è far incontrare e confrontare i ragazzi, forse anche a far sbocciare l’amore. Ma ecco che il film non si accontenta e decide di essere “scomodo”, facendo emergere i problemi di integrazione che esistono e non possono essere hollywoodianamente nascosti sotto il tappeto. 



In questo aspetto la pellicola di Base è simile a un altro importante film dell’anno passato, che parla anch’esso di giovani e integrazione: Crescendo. Make music not War di Dror Zahavi (già recensito su questo blog). Problemi piccoli e grandi, ruggini “moderne” inaspettate, un differente modo di guardare le cose che ha radici generazionali e apparenti “vittorie culturali” a discapito di una parte (come quella che conferisce un sapore amaro all’ultima parte della pellicola), vengono trattate con un’innocenza e garbo davvero preziosi nella filmografia attuale. Un approccio genuino, basato su un lavoro di ricerca che ha coinvolto molti studenti in una serie di dibattiti sul tema, che può stimolare negli spettatori principali cui l’opera è rivolta, ragazzi a loro coetanei, la curiosità quanto la voglia di un confronto attivo. Un dialogo culturale che va a intessersi per piccoli ma significativi passi, come i pochi passi che separano il resto di Roma dal ghetto ebraico, che per questo film ha aperto le sue porte in modo non solo metaforico. Il film non vuole essere quindi solo la dolorosa celebrazione di una pagina storica che non deve essere dimenticata, ma cerca di dare anche un importate messaggio di inclusività. Qualche dettaglio tecnico contribuisce attivamente a veicolare questi temi. Le scene ambientate nel passato in bianco e nero, accompagnate da suoni spaventosi come il rullo della ruota degli orfani del convento, rivivono e si “sovrascrivono” attraverso la rappresentazione teatrale dei ragazzi, dove le “suggestioni del trucco di scena” volte a disumanizzare le SS, coprendone il volto con delle maschere, sembrano strizzare l’occhio alla poetica delle rappresentazione artistiche di Roger Waters, dove in male non ha volto, quanto alla cultura videoludica (perché una maschera rappresenta il cavaliere dell'Apocalisse “Morte”, personaggio della serie di videogame Darksiders). Culture diverse, presente e passato, si uniscono anche visivamente in alcune scene-chiave grazie alla scelta di usare dei droni per le riprese di Roma dall’alto. Uno sguardo “tecnologico”, quello dei droni (ma non l’unico, visto che le chat di Whatsapp svolgono nella trama più volte la “funzione di ponte” tra le persone), che riesce a unire in un unico orizzonte visivo il perimetro della comunità ebraica con San Pietro sotto quel “cielo condiviso che non deve Crollare”, evocato anche dalle parole di Tutto quello che un uomo di Sergio Cammarire, canzone scelta dalla colonna sonora e che unisce, abbraccia e sintetizzare le anime della pellicola. Un momento di “intima spettacolarità” che rimane anche dopo la visione, facendoci sentire tutti più piccoli, chiusi nelle nostre differenze, davanti alla grandezza del mondo.



(Raccontare la Storia con il cinema: la lettera di Sara Cohen) Il cinema è da sempre un’arma potentissima per raccontare e interpretare il passato e il presente. Le vicende umane legate al dramma della Shoah sono state raccontate in molti modi diversi. Un modo di raccontare parte dalle piccole cose perdute come un cappotto rosso, giocattoli e in genere gli oggetti di una vita personale distrutta, fotografati sulla scena nel celebre e recentemente ritrovato documentario di Alfred Hitchcock, The Night will fall, come in Schindler’s list di Steven Spielberg. Un altro approccio, molto originale, di raccontare la Shoah al cinema, è la strada intrapresa da La vita è bella di Benigni, che attraverso l’occhio del comico scompone e “riduce” la follia nazista interpretandola sulla base delle sue leggi razziali e le regole del campo di concentramento. Regole che appaiono umanamente e moralmente così brutalmente ridicole da sembrare uno scherzo, un gioco. Negando parimenti la cruda realtà dei fatti storici legati all’epilogo bellico, usando una prospettiva di tipo “distopico”, Quentin Tarantino con il suo Bastardi senza Gloria crea una fantasia escapista dove la sala cinematografica stessa, armata delle sue vecchie pellicole al nitrato d’argento altamente infiammabile, diventa fisicamente e spiritualmente “arma della memoria”: l’arte che rilegge il tempo, criticandolo e riscrivendolo. Un film sulla Shoah come Il bambino con il pigiama a righe, per la regia di Mark Herman, adattamento del bel libro di John Boyne, scegliendo un approccio che conferma i meccanismi della psicologia infantile, descrive la futilità e contorsione delle persecuzioni analizzando i suoi effetti nefasti sulla base di un pur piccolissimo passaggio generazionale. È la natura umana che vince sull’ideologia, per la circostanza “biologica” che “chi viene dopo” può trovare difficoltà a comprendere le “ragioni dei padri”. Nel film le “ragioni dell’età” vogliono che un bambino, innocente e confuso davanti alle brutture della guerra, abbia voglia di giocare con un altro bambino, anche se uno è ariano e l’altro ebreo. In modo simile in Jojo Rabbit di Taika Waititi due ragazzi, uno tedesco e una ebrea si incontrano e diventano amici, superando la paure reciproche per il proprio “nemico naturale”, instillate in specie da una comunicazione faziosa degli organi di stampa. Qui la propaganda nazista convince il bambino ariano che gli ebrei sono dei mostri che vivono nei muri, con la preoccupazione legittima della ragazzina ebrea che ogni bambino ci possa credere. È solo il dialogo, con la conoscenza effettiva dei due che cambia la prospettiva. Nel film di Base la Shoah è racchiusa in una lettera nascosta nella fodera di una valigia, che viene scoperta nel 2021 e diviene “presente”. Con la “parola presente” che come insegna il maestro del Kung fu Panda significa “attuale” ma anche “regalo”. Non è “solo” una maledizione come la videocassetta di The Ring di Koji Suzuki, ossia un messaggio di dolore che va consegnato ai posteri per evitare ulteriore dolore, ma è una lettera di amore che nasce sì in un’epoca di indicibile odio, ma che è in grado di generare, in quanto scritta per amore, nei cuori dei giovani protagonisti, una energia positiva dilagante. Superando le remore, diffidenze e paure “che vengono raccontate” ai giovani da genitori e scuole di culture diverse, questa energia fa leva su un reale dialogo, tra pari, in grado di togliere proattivamente le etichette con cui si è soliti per “comodità e orientamento” avvolgere le persone “diverse da noi”, in ragione di una memoria condivisa  Per svelare la banale verità che siamo tutti esseri umani. 



(Un film che parte dall’oggi, aprendo le porte e i cuori che abitano il ghetto romano). Il ghetto di Roma è un luogo che ancora per molte persone sembra racchiudere un mondo misterioso, separato, fatto di regole, modi di pensare e lingue tutti strani. Un mondo forse ostile, anche per come la Storia e il folklore lo ha sempre raccontato, passando dallo stereotipo crudele del Mercante di Venezia di Shakespeare fino ad arrivare alle leggi razziali e continuando oggi nel racconto giornalistico, non sempre adeguato, del conflitto israeliano-palestinese. Il film di Giulio Base pone quindi i riflettori su quelle strade di Roma e sul modo in cui è possibile oggi affrontare un dialogo tra la comunità ebraica e il territorio “esterno”, raccontando principalmente i “confini immaginari” di chi è oggi più lontano dai tempi delle leggi razziali evocati dalla “giornata nera”: i giovani. Per questo sono state aperte alla produzione, grazie al contributo della comunità ebraica di Roma e del rabbino capo Riccardo Di Segni, le porte della Sinagoga come del liceo Levi. Per questo la sceneggiatura si è formata sulla base del confronto con la comunità, ascoltando l’opinione delle sue persone più autorevoli quanto dando voce ai giovani in un dialogo generazionale ma anche multiculturale, facendo parlare le anime più timorose come le più aperte sul tema dell’integrazione. 

(Dialogo tra padri e figli di schieramenti avversi): i giovani e il loro rapporto con la Shoah era un tema molto caro al recentemente scomparso Israel Cesare Moscati, autore alla base del progetto che ha dato corpo a questa pellicola. La sua è stata una ricerca di anni e si è svolta coinvolgendo in workshop multimediali giovani provenienti da tutta l’Italia. Il percorso ha fatto uso di libri e film, si è avvalso di incontri con testimoni e dibattiti e ha messo in luce un caleidoscopio di opinioni ricco e sfaccettato. Si può dire che Moscati fosse un “ingegnere“ con a cuore la manutenzione dei “ponti della memoria e tra le culture“, un intento espresso come autore e regista anche nei suoi documentari del 2014, Viaggio nell’anima dei figli della Shoah, del 2016, Suona ancora. Il coraggio dei figli e nipoti della Shoah è stato quello di vivere, e del 2017, Alle radici del male. Questi documentari sono disponibili oggi anche su Rai Play e si consigliano come corollario alla visione di questa pellicola. Nel documentario del 2016 in particolare si racconta del confronto generazionale in seno ad alcune famiglie di musicisti di origine ebraica (ritorna forte il tema della musica intesa come via espressiva del dialogo tra popoli, come nel sopra già citato Crescendo, Make music not War),dislocate oggi in giro per il mondo, da Tel Aviv a Berlino, ma accomunate dal fatto di aver subito la Shoah. Nel documentario del 2017 si va anche oltre al conflitto generazionale, si mettono a confronto genitori e figli di soldati nazisti con genitori e figli di ebrei, per trovare una “linea di dialogo e riflessione comune” non dissimile da quella voluta, in un ambito differente ma non troppo, da Nelson Mandela in Sud Africa con la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, alla fine dell'Apartheid. Moscati approfondiva e ampliava tutti i punti di vista ed era appassionato a far sentire tutte le voci, secondo quanto racconta Giulio Base nella conferenza stampa del film. Per cui è toccato a Base trovare una sintesi, specie dopo la scomparsa di Moscati, coadiuvato dalla comunità ebraica romana, tra cui ha svolto un ruolo-chiave anche il rabbino capo Di Segni. Così il film somma il lungo lavoro “sulla memoria delle nuove generazioni” di Moscati, che si può approfondire con i documentari presenti si Rai Play, con il dialogo di Base con le voci più eminenti della comunità romana, per costruire quella che è di fatto una storia di comprensione e amore reciproco. I giovani coinvolti nelle riprese sono alcuni dei tanti ragazzi che per anni hanno partecipato alle ricerche di Moscati, i testimoni del “futuro” che tanto aveva voluto incontrare.



(Un film per i giovani) Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma è una pellicola pensata per i più giovani. Si avvale di un cast di adolescenti, usa il linguaggio e le chat con cui si ritrovano, adotta una trama che punta a definire in modo chiaro il contesto, solleva i dubbi più ingenui (nel significato positivo del termine “ingenuo”, quello di vivere candidamente senza preconcetti, che deriva dal latino “essere uomo libero”) quanto legittimo sul tema della memoria e dell’integrazione. Con questo spirito deve quindi essere correttamene inquadrato il film e al netto della inesperienza di parte del cast, c’è dietro tanta buona volontà. La regia di Base è sobria e nei momenti più interessanti gioca con il bianco e nero delle scene del passato, sovrapponendole nella reinterpretazione teatrale dei ragazzi, con i costumi neri e con i mascheroni per rappresentare le SS sullo stile di The Wall dei Pink Floyd. Molto appropriata la canzone di Cammariere come punto di unione emotivo della vicenda, interessante l’uso dei droni come punto di unione dell’orizzonte “fisico” che separa di pochissimo il ghetto di Roma con il centro della città. Non è il film accomodante che potreste pensare nei primi minuti, è un film vivo e critico. Sarebbe bello che lo guardassero i ragazzi e ne discutessero magari in classe, nella speranza che le classi tornino presto a non essere più luoghi solo virtuali. 

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domenica 24 gennaio 2021

Dragonero il ribelle n. 15 - L’inaccessibile fortezza - la nostra recensione!

 



Cosa serve ancora alla rivoluzione, dopo gli alleati, i covi, i cavalli, il servizio di spedizione veloce con pietre sonore, i palloni tecnocrati, gli artefatti che potenziano i maghi e la nebbia mistica che nasconde tutto agli imperiali? Ma ovviamente un sistema di illuminazione stradale mistico truffaldino tipo quello dell’autostrada pedemontana! Tu fai la tua strada, il navigatore tace, finisci all’improvviso nella luci blu di quella strada pedemontana maledetta e ti arriva a casa la multa. Cosa potrebbe far incazzare di più Leario di finire anche nell’Erondar nella trappola della pedemontana, perdendo di colpo gran parte dei fondi imperiali per colpa delle multe? Il nostro Dragonero si fa sempre più diabolico. Sarà colpa del sangue di drago?

Ad ogni modo tocca tirare i cavi per convogliare l’elettricità mistica della pedemontana e Briana e il ragazzetto elfo vanno in zona per fare l’allaccio abusivo. Ma non hanno fatto i conti con l’ENEL, l’Ente Nani Erondariani Liberi. I ribelli sono mesi che usano i passaggi sotterranei dei nani scroccando a ufo il loro servizio di comunicazione di qualità e l’ottimo servizio clienti: è ora che almeno sottoscrivano l’abbonamento plus premium, con cui Gmor potrebbe anche vedere Masterchef. A scopo di caparra precauzionale, un mini-esercito nanico (ma non facciamo ironia...) decide di rapire Briana e il ragazzetto, in attesa che Ian effettui la sottoscrizione presso un centro accreditato ENEL, a tasso vantaggiosissimo. Di contro, con abilità a mercanteggiare + 6, Ian propone ai nani di danneggiare con la loro collaborazione il loro principale operatore concorrente del servizio di gallerie sotterranee. Si decide così di assaltare la fortezza sotterranea di Dundan, unica città del sottosuolo creata non dai nani. Anche per una questione “”morale“”, diciamo. Se tutto va bene ci scappa pure tre mesi di banda larga tecnocrate, ma la città è presidiata da maghi militari in grado di alterare la realtà e rendere il viaggio un incubo proiettato su schermo in in wi-fi disposti tra i mille Rivoli dei labirinti cittadini. Se la caveranno?

Mi immagino il buon Vietti nel momento di concepire questa scoppiettante vicenda, che prende le mosse dal classico intreccio del “film di rapina”, mentre come me cerca di capire qualcosa del nuovo abbonamento internet, resosi necessario per esplosione della vecchia linea. Mi vedo come lui che saltello tra tre installatori che mi invadono casa e mi riempiono la testa di cifre, codici d’accesso, abbonamenti vantaggiosi che non ho chiesto ma, oh, sono nel “pacchetto base”. Sono momenti in cui un Varliedarto al proprio fianco può fare la differenza. Ad ogni modo in questo nuovo numero il popolo degli amabili scavatori baffuti torna in cattedra, insieme alle loro magnifiche città dalle architetture geometriche dall’aspetto austero e imponente, insieme alle loro asce e armature pesanti. Vediamo i nani e i nostri eroi ficcarsi dentro un’avventura che si srotola nel sottosuolo, tra canali d’acqua nascosti, cunicoli labirintici oscuri, torri di guardia allertate ovunque e stanze del tesoro inespugnabili. Se avranno il bottino dovranno poi “portarlo via” e la soluzione per farlo nel modo più silenzioso e indolore possibile e la sub-quest dentro la quest (perdonate i termini da tecnicismo nerd. Sapete, sto riprendendo in mano Zombicide e... ne riparleremo sul blog!). L’unico rammarico sul piano della storia è che l’azione entra nel vivo solo a metà volume, dopo una sequela infinita (pur suggestiva) di trekking tra un luogo e l’altro (Clerks 2, cit.), al netto di un bellissimo flashback dedicato a Briana, depotenziando il timore dei fantomatici e più volte minacciati maghi militari. Questi possono creare una specie di limbo onirico legato alla conformazione di Dunmon, ma tale prodigio tanto atteso si apre e chiude in modo frettoloso, anche se “intenso” in una precisa sequenza onirica, con queste truppe che cadono quasi subito senza riuscire a entrare in scena (ma in una sequenza visiva bellissima, quasi da illustrazione di Manuale di D&D, ad opera del bravissimo Fabrizio Galliccia). Tuttavia il divertimento come sempre, anche se un po’ compresso, non manca!

Sul piano grafico, il numero si avvale come i precedenti del talento di più disegnatori. 

Emanuele Gizzi illustra gran parte della prima metà del racconto conferendo ai personaggi uno stile dinamico ed espressivo, descrivendo un mondo per lo più a toni scuri illuminato fiocamente da bracieri. In più punti risplendono per ricchezza di dettaglio le costruzioni sotterrane dei nani, ma le tavole più belle sono per me quelle dedicate a un fugace momento “all’aria aperta”: una corsa notturna a cavallo, all’ombra delle fronde di una sterminata foresta e sotto l’occhio vigile di uomini armati di arco. 




Fabrizio Galliccia ci porta sui corsi d’acqua che affluiscono nella città sotterranea di Dunmon. La poca luce riflette i contorni delle armature dei nostri eroi scoprendone nelle sfumature i dettagli. Il luogo è claustrofobico, l’acqua appare torbida, plumbea, le architetture antiche come il mondo, quasi l’interno di una creatura gigantesca. 



Fabio Babich si occupa delle suggestive scene, tra il sogno e l’incubo, scaturite dalla magia che evoca il limbo di Dunmon. I bordi delle favole si contornano di nero, gli ambienti si fanno trasparenti lasciando emergere una fisicità ed espressività dei personaggi che ricorda molto i lavori di Magnus. 



La copertina di Pagliarani è molto bella e per me ricorda il livello delle torri di Super Ghouls’n’Ghost su Super Nintendo 



La ribellione sta crescendo e numero dopo numero stiamo entrando nel cuore dell’azione, con le fila degli eserciti che si espandono e con un livello di tensione sempre più forte. Arriveremo presto a un mega scontro. Forse. Intanto questo numero di Dragonero risulta una lettura piacevole e ricca di bellissime tavole. 

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sabato 16 gennaio 2021

Lamù la ragazza dello spazio - la nuova versione in blu-ray by Anime Factory e Yamato Video del grande classico humor-sentimentale-fantasy di Rumiko Takahashi, Mamoru Oshii e Kazuo Yamazaki

 


Giappone, inizi anni ‘80. Il paese è assaltato costantemente da gentaglia chiassosa e rombiballe per lo più venuta dallo spazio e dal mondo del paranormale (Urusei Yatsura, il titolo originale dell’opera, significa per un gioco di parole tanto “gentaglia casinista” che “tipacci dal pianeta Uru”. Un pianeta che di fatto non compare mai nell’opera, appunto perché è un gioco di parole). Epicentro di tutti i casini sembra essere un liceale di nome Ataru Moroboshi, una specie di Fantozzi pervaso da un perenne stato di sfiga secondo solo al suo arrapamento verso ogni forma del genere femminile. I genitori sono per lo più assenti e reticenti davanti alle malelingue che ricadono normalmente sul figlio, la fidanzata Shinobu è una ragazza ultra-seria che spera invano di trasformarlo nell’uomo ideale a furia di schiaffoni. Ma Ataru è un eroe, proprio come lo era Fantozzi. Così un giorno per un caso del destino viene scelto come campione della Terra contro una razza di invasori demoni extraterrestri provenienti dal pianeta degli Oni. La sua avversaria è Lamù, una ragazza demone dai capelli azzurri, due piccole corna e un bikini tigrato, in grado di volare e lanciare fulmini. La sfida è riuscire a toccarle le corna. Ataru incredibilmente vince e Lamù si piazza a casa sua, innamoratissima di lui, convinta per un equivoco che Ataru abbia chiesto di sposarla. Innamoratissima e gelosissima, al punto da punirlo con scariche continue di fulmini, ogni volta che Ataru prova a tornare da Shinobu o posa gli occhi su qualche altra ragazza. Elettroshock dopo elettroshock, Ataru vuole sempre più scappare da lei e da tutto il carrozzone di personaggi bizzarri che da quando la ha incontrata infestano la sua vita. Il bonzo menagramo Sakurambo e la sua nipote esorcista/infermiera sexy (stile Fenech) Sakura. Il terribile bambino sputa-fuoco cuginetto di Lamù Ten, l’ex fidanzato bifolco/mostro gigante Rei, l’ex amica di infanzia vendicativa Ran, la signora dei ghiacci Kurama, la sadica principessa Kurama e mille altri. Ce n'è un casino e sono tutti pazzi, con i terrestri che di contro non sono poi meglio di loro. Ma Ataru di sconfitta in sconfitta, di figuraccia in figuraccia, svilupperà  una capacità di sopravvivenza straordinaria e inaspettata e forse sarà in grado di prendere in mano la situazione. Forse.


Negli anni ‘80 prendeva forma un autentico capolavoro dell’animazione giapponese, grazie alla combinazione di autentiche eccellenze. Un fumetto spassosissimo e pieno di trovate geniali, iniziato nel 1978, a firma dell’astro nascente Rumiko Takahashi, mamma in seguito anche di Maison Ikkoku, Ranma 1/2, Inuyasha. Una serie lunga, 195 puntate da due episodi l’una (quindi quasi 400 storie), correlata da 6 film e 12 OAV. La prima regia, dal 1981 al 1983 ad opera di uno dei futuri padri della animazione moderna Mamoru Oshii, dietro agli adattamenti anche di Patlabor e Ghost in The Shell, curata dallo Studio Pierrot che oltre alle “maghette” avrebbe di lì a poco realizzato Macross. La temporalmente successiva, 1983-86, regia di Kazuo Yamazaki, direttore dell’animazione di Gundam, regista in seguito anche di Maison Ikkoku, curata dallo studio Deen, costola Sunrise nata dopo Raideen (da cui il nome), dietro in seguito anche a Ranma e Fate Stay/Night. All’epoca della messa in onda il successo è stato travolgente in patria e si è trasportato anche sui nostri lidi grazie alla programmazione sulle emittenti locali. Quando la bolognese Granata Press ha iniziato a pubblicare manga in Italia, il fumetto della Takahashi è stato tra i primi ospitati sul leggendario mensile antologico Mangazine. 

Personalmente ho sempre amato alla follia Rumiko Takahashi, i cui disegni, insieme a quelli di Akira Toriyama, Go Nagai e Mitsuteru Yokoyama, sono stati per anni oggetto dei maldestri scarabocchi con cui riempivo la Smemoranda. Dopo gli anni ‘80 il mio ritorno all’anime di Lamù era avvenuto con una VHS edita da Yamato Video, una delle prime della casa di Milano, per la pubblicazione del secondo film di Lamù: Beautiful Dreamer. Un manifesto del genio e complessità di Mamoru Oshii, un’opera carica di mille sfaccettature, adulta, anarchica, visivamente strepitosa.

Oggi Lamù con la sua serie, i film, gli OAV torna a nuova vita con i blu-ray nati dalla collaborazione di Yamato Video e Anime Factory. La qualità dell’immagine è ottima, i colori sono accesi e precisi, le musiche perfette e l’opera sembra non risentire quasi per niente dei suoi quasi 40 anni. Un vero plauso ai realizzatori. Dal punto di vista dei contenuti, la serie risulta ancora fresca, divertente e surreale. Un Helzapoppin che spesso appare come la versione più adulta e sotto acidi di Doreamon, un manifesto alla sfiga titanica pari solo a quella patita dai cattivi di Yattaman. Ma non c’è solo questo. C’è molta tenerezza, sentimento e voglia di leggerezza. C’è una continua spinta verso la sperimentazione visiva, la ricerca dell’approccio sempre più originale, spiazzante, appagante. 

Rivedere nel 2020 in alta definizione Lamù, anche con gli occhi da adulti, è un regalo inatteso, una boccata di aria fresca in un momento storico che reclama a gran voce la sublime leggerezza e voglia di divertire di un’opera come questa. 

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martedì 12 gennaio 2021

Dragon Ball Fighterz, aggiornamenti- Katsunoko batte Go1 e diventa il nuovo campione del Giappone, Super Baby Vegeta e Gogeta SSJ4 pronti ad arrivare nel roster

 


In anticipo di un mesetto, ma con molte più tappe del DBF World Tour, si chiude il Dragon Ball Fighters National Championship. È stato un campionato diverso dal solito, a distanza come prevede questa infelice “era covid”. Da spettatori ci sono mancati i collegamenti dagli stadi, i cori ed entusiasmo del pubblico, la telecamera che scruta i campioni nelle loro complessità e fragilità. Quindi è mancato l’urlo di gioia ed esaltazione che ha accompagnato l’apparizione del Cell di Fenritti, lo sfogliare del suo quaderno magico per trovare la concentrazione di GO1, il cosplay peloso di Sonic Fox, la compostezza da pianista di Wawa. 

I bei tempi passati con Sonic Fox


Da amanti del fighting game Bandai Namco abbiamo avuto pane per i nostri denti, una vera kermesse di abilità che ha messo in luce come Fighterz sia ancora vivo e vegeto, in continua evoluzione e ricalibrazione della sfida. I giocatori hanno in parte confermato i loro combattenti abituali più “iconici”, tenendo anche conto del roster di vecchia data che ha subito le migliori implementazioni recenti. Goku Base e Vegeta Base sono più scelti di prima, Gotenks è ancora più potente, Kid Buu sempre presente, il granitico Broly (ambo le versioni, ma più la “classica”) risulta sempre sorprendentemente agile, c’è ancora amore per Vegetto (meno per Gogeta). Pur ridimensionato nel meta, Goku GT, versatile e terribile, rimane una scelta centrale, ma la sorpresa è tutta per i nuovi arrivati, i complessi Goku Ultra Istinto e Master Roshi. Con questi ultimi due personaggi i programmatori Ark System si sono davvero sbizzarriti nel percorrere strade nuove per il gameplay, rischiano di scontentare chi predilige personaggi dall’approccio più diretto, ma hanno vinto in pieno la sfida e ora rilanciano con gli ultimi DLC della stagione 3. Ma prima di parlare dei prossimi personaggi mi duole constatare la perdita di centralità dei personaggi più avvezzi all’incontro ravvicinato come C16 (che era fisso tra i campioni nei primi tornei), Majin Buu e Jiren, La sfiducia nei combattenti “doppi” come Videl e C18, dei lunga distanza come Freezer, Piccolo. Inspiegabile il sotto-utilizzo di Hit o Kefla. 

Il nuovo campione giapponese Kazunoko, un uno dei suoi massimi apici di gioia


Ma il gioco è in continua mutazione e queste non sono che peculiarità del momento, pronte a essere girate nel prossimo meta, che hanno saputo interpretare bene i campioni. Così la piccola trottola sayan di Katsunoko Ha saputo con i suoi fantasmi avere la meglio sul Goku GT di Go1, mentre entrambi hanno fatto uso del quasi onnipresente Goku Ultra Istinto, in particolar modo forte se abbinato anche a Roshi. È stata una finale sofferta e ricca di capovolgimenti. Personalmente da fan di Fernitti mi è dispiaciuto un po’, come in generale constatare che questo campionato a distanza e prolungato ha forse eroso lo spirito di molti campioni, fiaccandoli sul piano della resistenza. Chissà se nelle brevi pause tra i match i campioni avevano qualche rito scaramantico, abusavano di Gatorade, facevano qualche training autogeno. Certo ci sono stati bei momenti anche nei campionati spagnolo, francese e americano, ma il Giappone ha dato come sempre il meglio per mio parere personale.

Ed ora i nuovi combattenti, come consueto annunciati dopo la proclamazione del vincitore con consegna della cintura di campione direttamente dalle mani, opportunamente e spietatamente coperte da guanti anti-covid, della dolce (e sempre più sexy) Producer Tomoko Hiroki, nel mini studio a distanza sociale scenario della premiazione.  

Tomoko Hiroki, come appare ai fan di DragonBall Fighterz

C’è stato il colpo di scena, peraltro gradito. Se i rumors parlavano da mesi e mesi di Omega Shenron, andando a pescare tracce audio da un aggiornamento di sistema fino ai rebus sui social della sezione Latina di Bandai Namco, ci hanno depistato benissimo. Da pochi giorni le scan clandestine di V-Jump hanno strombazzato e imbalzato dappertutto l’imminente arrivo a super sorpresa di Super Baby, ma andando al season pass 3 ancora uno slot con probabilità mille di essere rivelato nella finale del campionato, tutti credevano si parlasse per scontato di Omega Shenron comunque. E invece no, pochi secondi prima della fine del trailer ed ecco il super annuncio di Gogeta SSJ4. Ancora niente sul move-set, giusto la possibile intro pre-gara, ma tutti già a bocca aperta per nuovo materiale su di lui e un’uscita che sembra già papabile intorno o poco più la data del 15 marzo 2021, momento in cui ci sarà uno show online dedicato ai giochi di Dragon Ball competitivi di Bandai Namco (Legends, Heroes e ovviamente Fighters, con buona pace di Xenoverse). Considerando che abbiamo avuto Vegetto con il primo season pass e Gogeta Super con il secondo, constatando che Kefla è donna e quindi “non è la stessa cosa” per molti masculi pre-puberali, non era inaspettato vedere il peloso e arancione mix definitivo GT di Goku e Vegeta. Ma eravamo già in palla con Shenron, ci aspettavamo al massimo lui e siamo come fandom (parlo dei 6 che conosco che seguono con me il gioco) un po’ sorpresi e un po’ contenti. L’impressione comune (a me e i 6 di cui sopra) è che “il cerchio non si è ancora chiuso”, Omega Shenron, nemico finale della serie GT, deve ancora arrivare “per forza” e per questo a marzo, insieme all’uscita di Gogeta arancione, si parlerà di un nuovo season pass per il gioco. Vuoi mettere non avere un personaggio disponibile per il Goku Day di maggio? Vuoi mettere sognare di vedere nella stagione 4 i molti eroi ancora assenti ma richiestissimi come Radish, Toppo, Darbula, Pikkon, Zarbon, Mister Satan e compagnia? Vuoi smettere di far sognare chi attende anche lottatori  magari più naif come Majin Vegeta, Turtles,  Gohan del futuro e senza un braccio, Ribrianne, Bergamo, Tapion, Hatchijack, Fu, Mira, Towa, Cumber...Ecc.?

La scan della mitica rivista V-Jump dedicata al nuovo personaggio di Fighterz


Credo anzi che con il grande successo del gioco, che da poco Ha superato le 6 milioni di copie vendute nel mondo, sia per i fan della serie che per gli appassionati di giochi di combattimento, qualcosa oltre la stagione 3 sia possibile oggi aspettarlo di concreto. Magari ieri prima di conoscere l’arrivo di Super Baby non lo pensavo, immaginavo una doppietta Omega Shenron, Mister Satan e fine, pensavo “ci può stare”.

Ma veniamo allo scimmione parassita Baby. Forse il villain più spietato e odioso della serie, quello che ha giocato di più con i sentimenti dei protagonisti, ma anche un ottimo character, imponente e ricco di idee. A ripensare a Baby oggi, dopo il ritorno di fiamma per Dragon Ball con la serie Super, fa quasi strano constatare come la fusione del parassita Baby con Vegeta e poi con i Sayan “terrestri” abbia portato a dinamiche incredibilmente vicine alla “futura” nascita del Super Sayan God... sta di fatto che le capacita manipolatorie di Baby saranno evidenti anche nel gioco, permettendogli di utilizzare i compagni di squadra sconfitti come burattini anche una volta sconfitti. Questo a livello tattico potrebbe farlo scegliere come “ultimo uomo” da mettere in campo, al pari di Goku GT, ma c’è un ulteriore e inaspettato extra. A livello goduriosamente visivo, Super Baby può trasformarsi nella sua Level 3 in forma Ozaru, l’aspetto da scimmione gigante tipica dei Sayan. Il plus di questa trasformazione “visiva” consisterebbe nella possibilità di usare l’alitata scimmiesca come mossa di assist se si ha un altro combattente in campo. È incredibilmente e sorprendentemente la prima volta in fighterz che vediamo un Sayan in forma scimmione gigante, stante il gran numero di Sayan in gioco e il processo è reso in un modo molto fico. La telecamera di gioco si inclina dal basso verso l’altro e nel massimo dell’imponenza, vincendo i limiti spaziali dello scenario, lo scimmione comprare e prende a pugni un avversario fuori scena. Davvero spettacolare, nonché qualcosa che potrebbe funzionare (animazione quanto colpo assist) bene anche su un personaggio come Tapion in versione Hildegard (forse il mio sogno proibito per eccellenza riguardo ai dlc). Me lo immaginano a tirare pugni-assist o calci-assist “Da fuori campo” come i Megazord nell’ultimo picchiaduro dei Power Rangers. Vedremo! Baby appare da subito imponente, carico, un vero Bad Guy. 

Non vediamo l’ora di metterci le mani sopra e di seguire i nuovi aggiornamenti del game Bandai-Namco. 

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giovedì 7 gennaio 2021

Small Soldiers - finalmente in blu-ray il divertente e sfortunato film di Joe Dante


Tra due possibili tipi di action-figuers ipertecnologiche, cosa può piacere di più ad un bambino americano? Un esercito di soldatini g.i.joeschi-ultra-americani cazzuti pieni di bicipiti gonfi e armi pesanti, il “Commando Elite”, o un mucchio di emo-freak in salsa furry-alieno-nativo-americana carichi di pacifismo e utensili in legno, i “Gorgonauti”? Una bella scelta difficile per un capoccia di una multi-nazionale, la Globotech, qualcosa che gli impegna la testa per almeno 3 secondi. I soldati saranno i “buoni”, i furry-freak-alieno-nativi-americani i “cattivi”, tutti in vendita separatamente batterie escluse. Solo che i furry-ecc.-ecc. sono prodotti da scienziati del giocattolo buoni, con tanta voglia di Teddy Ruspin e Furby, idea di educational, un chip elaborato per favorire l’interazione del con il bambino/acquirente. I soldatini, più standard ma più accattivanti, sono ricavati da un furto maldestro e parziale del chip dei primi, rimaneggiato male e superficialmente come nelle migliori politiche di marketing aggressivo. Risultato: i chip dei soldatini li fanno impazzire e questi, cattivissimi e sadicissimi iniziano a pensare di voler distruggere il mondo, mentre i furry-cosi, più intelligenti e pacati, diventano a tutti gli effetti i protettori dell’umanità di un piccolo paesino. Seguono interessanti sviluppi action e una merdosissima trama da film per orribili marmocchi americani che non sanno recitare, tra cui però figurano Gregory “Everwood” Smith e Kirsten Dunst. A guidare i due pupazzi dei due mini-eserciti in guerra, un soldataccio carismatico, Chip Hazard, con la voce originale di Tommy Lee Jones, e un furry-nativo-freak-ecc. di nome Archer, con la voce di Frank Langella.

Ma il cast vocale è ricchissimo, da Ernst Borgnine a Christina Ricci, Sara Michelle Geller, Bruce Dern.

Con tre anni di distanza da Toy Story, Dreamworks/Amblin potevano rispondere a Disney/Pixar con le armi pesanti. Un team di sceneggiatori di grido come Terry Rossio e Ted Elliot, penne dietro ad Aladdin, Shrek, I pirati dei Caraibi, nonché all’epoca proprio fuoriusciti da Disney per seguire Katzemberg. Un team di effettisti speciali capitanati dal guru Stan Wilson, la colonna sonora pompata di Jerry Goldsmith. La regia di uno dei più grandi e incompresi registi moderni: Joe Dante. Il regista di Howling- l’ululato, Explorers, Innerspace-Salto nel buio, Ai confini della realtà e soprattutto I Gremlins. Se Woody e Buzz erano i giocattoli buoni e desideratissimi del momento, gli Small Soldiers potevano essere la loro versione Bad-Guy vietata ai minori, le bambole assassine 2.0. Poteva essere il nuovo Gremlins con i giocattoli, il mix perfetto di humor nero, irresistibile pazzia ed action. 

E invece no. La produzione aveva idee diverse. 



Stan Wilson aveva pronti pupazzi animatronici spaziali, ma la produzione gli preferì una computer grafica più “moderna”, sulla linea di Toy Story (anche se devo dire che il risultato finale, in questo, non è male). Dante aveva riempito il tutto di azione esasperata ed esplosioni, esattamene come in Gremlins, ma sempre la produzione, a metà percorso, ha voluto una marcia indietro, qualcosa che avrebbe permesso di vendere di più i giocattoli. Il risultato è qualcosa a metà strada tra giocattolo e horror che non va da nessuna parte, ma che rimane dotato di fascino al netto dei suoi difetti, vuoi per la fortissima caratterizzazione e simpatia di questi amabili pupazzini. Se mi conoscete sapete che non ho alcuna speranza quando mi avvicino a un film sui bambolotti maledetti, da Chucky a Brams, passando per Dead Silence e Puppet Master: mi affascinano tutti. Small Soldiers vive un po’ della stessa idea del nuovo Chucky, ne è giocoforza la versione un po’ depotenziata, ma per colpa o merito di ciò è ancora un ottimo film per ragazzi, da vedere sulla scorta magari non di Gremlins, ma di Explorers. Una storia con bambini coraggiosi che interagiscono con la tecnologia in un modo che comunque è più sano rispetto ai ragazzini di oggi che passano 20 ore al giorno su Fortnite. Ma questa è la solita critica di un vecchiaccio quarantenne come me, che rimpiange gli anni '80 di quando lui poteva sentirsi ancora a pieno titolo bambino. E se nel 98, anni di Small Soldiers, ero già grandicello, forse non lo ero ancora abbastanza da disdegnare un buon film per ragazzi di Joe Dante. Non gli posso quindi voler male, anche se il potenziale sprecato è evidente. È un peccato che una volta che i diritti sono passati a 20th Century Fox il possibile remake di Justin Lin sia sfiorato. È un doppio peccato sapere che una volta che 20th Century Fox è stata acquisita da Disney anche gli Small Soldiers siano finiti nel limbo. Ma chissà... Forse in futuro Woody e Buzz potrebbero davvero incontrarsi con loro. 

Visto oggi, Small Soldiers non è invecchiato così male e se avete amato il film, come me, risulta un prodotto abbastanza imperdibile. 

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martedì 5 gennaio 2021

Operation Mekong - La nostra recensione della versione cinese del Commissario Rex


Siamo nell’oriente più povero e carico di foreste, all’ombra delle grandi città. Il fiume un po’ maledetto Mekong, in epoche antiche piratato dai pirati, di recente è trafficato di trafficanti, la droga scorre a fiumi dalla agricoltura biologica al servizio di consegna internazionale, in genere chi comanda è brutta gente che fa fare a bambini di 6 anni la roulette russa stile Il cacciatore a uso ridere. Ecco, per esempio il bullo locale che comanda il traffico nella zona  è ovviamente uno psicopatico che va in giro con armi d’oro, si crede il colonnello Kurtz, distrugge consolati seminando bombe a mano e crea in genere conflitti internazionali che fanno girare le balle pure ai suoi colleghi trafficanti “più seri”. Così un giorno accade un casino, muoiono dei cinesi che passavano sul fiume un po’ maledetto, c’è una storiaccia su un sacco di droga sequestrata, non se ne può più e i quattro paesi confinanti scontenti creano una forza di polizia internazionale per fare secco il traffico mekonghino. Si crea un super-super team di super-poliziotti e lo si manda in zona, a stanare trafficanti sotto la guida di uno 007 locale. 



Nel gruppo di ragazzotti ricchi di orgoglio patrio coinvolti, a questo giro con nomi in codice che richiamano la mitologia greca, spicca però Bingo il cane lupo. Bingo è un giocherellone, ma sa trovarti a chilometri di distanza meglio di un gps, avverte delle minacce imminenti, sa attaccare i conducenti delle auto in corsa, distrugge campi minati correndo. È un super-sbirro da film action cinese ex Hong Kong, con tutto il background malinconico alle spalle, una attitude alle arti marziali canine, pose plastiche da figo. E ci tiene a fare tutto senza sconti, tanto che quando provano a mettergli addosso il giubettino antiproiettile come i cani sfigati di Call of Duty lui si rifiuta, attacca a petto nudo scolpito e peloso, bucando i cattivi e lo schermo con il suo carisma. C’è una scena da denuncia penale in cui i super poliziotti cercano di infinocchiare i narcotrafficanti cattivi sfoggiando improbabili vestiti da papponi e parrucconi colorati. Bingo si rifiuta di partecipare alla scena, immaginando distruggendo per protesta il camerino come Val Kilmer, per poi comparire più gagliardo che mai nelle scene che contano. Puro stile. Il film ci porta in una specie di continuo nascondino in cui allo 007 i cattivi scoprono un collaboratore poi l’altro, fino al randevuz con elicotteri e mitragliatori. Tanti inseguimenti, tante sparatorie, una azione sempre ripresa nel modo più complesso e stiloso sullo stile del regista Dante Lam: tanti rallenty di auto che volano, cambi di inquadratura a ghigliottina, cura per i personaggi e qualche michaelbayata. Il cast è di suoi aficionados, li abbiamo già visti in Unbeatable (Eddie Peng) o li vedremo in seguito in Operation Red Sea (Zhang Hanyu) e sono in genere attori famosissimi in patria, gente che è stata in The Great Wall di Zang Yimou, The Taking of Tiger Mountain di Tsui Hark, Bodyguard and Assassins di Sun Wen (tutti filmoni che potete trovare anche in Italiano grazie ad Eagle, Cecchi Gori e Linea Fareast). Ci si diverte nella trama fatta di bromance e intrighi in cui ogni tanto forse ci si perde, ma c’è Bingo, anzi “Bingo c’è“ e il film quando gli si cuce addosso sfila benissimo, è un vero action dog. Ora mi aspetto che prima o poi anche i Thailandesi, i Coreani, gli Indonesiani e il cane di Scott Adkins, si mettano tutti a sviluppare il genere degli action-dog cazzuti. Chissà se un giorno anche i migliori action-dog cazzuti faranno una comparsata di tre secondi senza senso in un nuovo film di Star Wars, come fece già tra gli altri un vecchio “Mad Dog” (questa lo ammetto è una battuta che possono capire di più gli addetti ai lavori).

Bingo che spiega la scena a una comparsa


Bingo che riflette sul suo passato tragico davanti al mare come Chow Yun-Fat in A Better Tomorrow



Operation Mekong fila liscio, ha tanta azione e stile. Come film “militaresco cinese moderno” sfoggia la sua bella componente di brochure per reclutamento, da una bella (esageratissima) simulazione militare per salvare gli ostaggi di un pullman a colpi di dispositivi vibranti per far esplodere i vetri, ai mille gadget dei super-sbirri. Droni volanti che lanciano scariche elettromagnetiche e robottini cingolati lancia mine a frammentazione che pensavo reali solo in Gundam. Un fucile con proiettili perforanti e che colpisce anche dietro gli angoli, tracciatori olografici per valutare la traiettoria dei proiettili. Molti giocattoloni per gli amanti del genere quindi. Ma l’effetto speciale migliore è lui, il Bingo. Il nuovo Die Hard me lo immagino tutto suo, Bruce Willis spostati. 

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domenica 3 gennaio 2021

Metal Armour Dragonar - quel Gundam apocrifo anni ‘80 con tanta voglia di Top Gun

 

 


Anno 0079 2087. C’è guerra tra le colonie spaziali e la federazione terrestre per via dei moti indipendentisti del Principato di Zion Impero unificato di Giganos che gioca a buttare colonie massi lunari contro la Terra. Durante la distruzione della colonia di Side 7 Alucard, dei ragazzi NewType comuni si impossessano di armi sperimentali conosciute come Gundam Dragonar e si imbarcano su un’astronave conosciuta come Base Bianca Idaho. I nostri eroi saranno inseguiti notte tempo dell’esercito di Giganos, guidato dal loro pilota asso di mobile suit Metal Armour, Char Aznable, soprannominato la Cometa Rossa di Zion, “er” Mejo Plato, soprannominato il Falco Blu di Giganos, la cui sorella Sayla Mass Linda, si nasconde proprio a bordo della Idaho. 

Riusciranno i nostri eroi, sotto la guida dei militari ad arrivare sulla Terra, per poter avere rinforzi e dare il via alla produzione di massa dei Dragonar? 

Nel mentre, riusciranno a sedurre le bellissime fanciulle che gli girano intorno? 



Sto guardando adesso, in pieno Lockdown Lombardo, questa mitica serie robotica Sunrise, creata nell’immediato dell’era post-Tomino con tanta voglia di attrarre un nuovo pubblico, più giovane e internazionale, attraverso alcuni piccoli cambi di rotta. La struttura è così Gundam che in effetti pare un Gundam, dal mecha design al pilota nemico carismatico con sorella alleata, dagli  intrighi politici alle spade laser (qui anche “a due lati” stile Darth Maul a ben 12 e più anni da Star Wars episodio 1), passando per la stessa struttura narrativa itinerante colonia-terra-spazio. Tuttavia manca di “crudezza”, di teorie filosofico-evoluzioniste, di sociologia, se non per accenni estemporanei. Così i nostri eroi non sono “newtype” e non sembrano subire particolari traumi nel diventare soldati. Si parla di profughi di guerra ma presto ce ne dimentichiamo, ci sono persone che muoiono negli scontri ma in genere non così tante o del “cast principale”, con i cattivi che non muoiono quasi mai e si presentano nelle puntate successive come il trio Dronio o Jessie dei Pokemon. Pure i cattivi sono spesso buffi. Via la salsa drammatica, diamo il benvenuto a una abbondate dose di ironia e leggerezza, facce più internazionali e tanta, tanta patata/donne. La patata fa tanto, fa i veri miracoli. I nostri tre eroi hanno un love interest (anche se uno è un po’ deviato e di fatto ha per donna la a.i. del suo robot), pensano a divertirsi, fanno gli “scherzi scorreggioni”. Sono eroi “in prova”, che diventeranno “seri” nel corso delle puntate attraverso un percorso di apprendimento interessante, perché cita a piene mani Top Gun quanto Mad Max. Una strana miscela, c’è da ammetterlo. Se nella primissima parte Dragonar pare un rip-off poco ispirato del primo Gundam, con la nave che scappa e Char che la insegue ripetuto “n” per infinite volte, con i nostri che si menano e poi scappano perché finiscono colpi o carburante dei robot, poi si arriva sulla Terra. Qui si scopre che i Metal Armour che volavano da paura nello spazio non sono in grado di spiccicare tre metri dentro l’atmosfera e parte un autentico corso da Top Gun, con i nostri che provano su una portaerei prima dei caccia terrestri, molto simili a quelli reali al posto delle classiche astronavine Core- Fighter, poi vari alettoni attaccati ai robot, fino ad affinare movimenti e riflessi. Fino a che si arriva alla scena rivisitata del caccia “uno sopra l’altro con dito medio” di Top Gun. Ci sono ovunque poster di Tom Cruise, scene stile: “ragazzi, ora i jeans sono vostri!”, uno dei protagonisti pare Maverick, uno pare Goose ma non pelato e uno per il politicamente corretto e un po’ per effetto “Ufficiale gentiluomo” pare Eddie Murphy, con canotta con i risvoltini come Mark Landers e Verdone.  Le ragazze hanno una folta capigliatura orribile  e vestiti orribili come solo negli anni ‘80, Madonna prima versione. Il cattivo si chiama Majo come la maionese, ma è Char di Gundam al 110%, un Char “accelerato” che passa in un lampo da Gundam a Zeta Gundam a Il contrattacco di Char, al netto di un carisma molto ridimensionato ma che beneficia di un paio di guizzi. Insomma, un Gundam che non è Gundam non si può fare senza un Char che non è Char. Al netto di spiegare pure a me stesso quanto ho appena scritto. 



Insomma, arriviamo sulla terra e abbiamo questa fase di training con i mech che decollano sulla pista della portaerei mentre i robot cattivi diventano delle mega-moto cingolate scomponibili in elicotteri come nel cartone Mask. Poi ad un certo punto i nostri arrivano in Cina e accade la pura follia: arrivano i cattivi lunatici della “Legione Selvaggia”. Se i lunatici visti finora ricalcavano lo stile altolocato e un po’ nazi degli abitanti di Zion, con pettinature curate, divise perfette e un livello culturale in genere medio alto, col plus di un alto senso della patria e dell’onore, i tizi della Legione Selvaggia sembrano i cattivi di una puntata a caso di Ken il guerriero. Muscolature senza senso, sguardi da pazzi che leccano il coltello quando ti parlano, cicatrici, abiti postatomici, donne mezze nude. Usano anche loro dei robot, ma con spadoni medioevali assurdi, bottiglie-molotov legate alla cintola e bardati di cartucciere come i desperados di un numero di Tex Willer. C’è pure uno che cerca in modo ricorrente di uccidere le mosche con una minigun a uso ridere. Di più, in quel territorio vivono anche dei bambini orfani che sono gli stessi di Ken il guerriero, con capelli lunghi “imbandanati”, vestiti ricavati da bende e armati di balestre. Non so cosa si sia fumata la Sunrise per questa ambientazione, ma sembra che gli sia piaciuta davvero un sacco, perché la trama si incancrenisce per eoni di puntate con al centro questi barbari postatomici, che rigorosamente a fine puntata non periscono e si ripresentano tutti nella successiva. Si arriva anche al punto che vengono citati Ramba Rall e la Triade Nera, per lo più sempre a uso ridere e a vantaggio dei quattro barboni scemi della legione selvaggia. Mah 

Il mecha design è oggettivamente bello, i mecha sono curati al pari delle perfette riproduzioni di armi e veicoli realistici. Le scene di volo sono un reale orgasmo per ogni appassionato di real robot. La trama è un po’ “meh”, ma il tutto si lascia guardare benissimo e a distanza di 32 anni dall’uscita non è invecchiato così male. 



Ricordo quando era uscito in VHS la prima volta. Ero al liceo e uno dei miei amici, con cui facevamo nottata giocando al gioco di ruolo di Robotech, lo collezionava. Il numero 1 lo aveva preso una volta che eravamo usciti insieme, la prima volta che sono andato nel negozio di Yamato Video “con il Godzilla in centro”. Non era via Tadino come ora, ma non era neanche così distante, sempre fermata Milano Porta Venezia, sulla stessa strada di un vecchio, ormai scomparso, negozio di videogiochi con i primi titoli per quella console dei sogni, mai avuta, che si chiamava Saturn. Gundam era una leggenda ma a quei tempi era del tutto scomparsa e solo dopo avremmo avuto la disgraziata e ignobile “Programmazione casuale” di Gundam Wing su Italia 1. Dragonar costava un botto per le tasche di un liceale, non sono mai riuscito a guardarla bene fino ad ora, dopo averla trovata completa nelle sue 48 puntare ad un prezzaccio scontato, in dvd, un paio di anni fa. Riscoprirla oggi è un po’ tornare bambini. La qualità dei dvd è decente, si vede abbastanza bene. Non so quanto sia “avvicinabile” per un pubblico di oggi, che potrebbe trovarla un po’ vintage, ma mi sono divertito e sono tornato un po’ bambino. In attesa che il virus passi e tornino aperti i cinema. Magari con il nuovo Top Gun.

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