(27 gennaio, giornata della memoria).
Rai Play, in occasione della giornata della memoria, mette a disposizione una
serie di contenuti video dedicati al tema della Shoah, tra cui quattro
documentari (tra cui segnalo per la forza del progetto Alle radici del male di Israel Cesare Moscati, co-autore del film di cui parliamo oggi) e la
pellicola che vi presentiamo qui, diretta da Giulio Base. Un film che sceglie
di rivolgersi a un pubblico molto giovane per raccontare il presente della
comunità ebraica romana quanto una delle pagine più difficili e crudeli della
storia italiana, la “giornata nera”. Quel giorno le SS entrarono nel ghetto di
Roma portando via più di 1000 persone, adulti e bambini, mentre altri
riuscirono a scappare e trovarono un rifugio momentaneo presso privati e istituti
religiosi .
(Sinossi) Sofia è una ragazza adolescente
romana dei giorni nostri. Sta per finire il liceo e da grande vuole suonare
come suo padre, un musicista di fama internazionale. La mamma un po’
preoccupata da questa scelta la assilla, le chiede di prepararsi un “piano
b” nel caso non arrivi il successo, scegliere intanto di iscriversi
all’università. Un giorno, per sfuggire all’ennesima litigata con la madre,
Sofia sale in soffitta, dove trova all’interno del rivestimento di una valigia
rotta, comprata al mercatino, una lettera con una foto. La persona che scrive
si rivolge affettuosamente a Sara Cohen, una bambina soccorsa da un convento di
suore durante la “giornata nera”. Sofia e i suoi compagni di classe volgono in
qualche modo cercare Sara Cohen per consegnarle la lettere e cercano sue
informazioni presso la comunità ebraica di Roma. Non senza qualche difficoltà
iniziali, questa ricerca diverrà l’occasione per conosce alcuni ragazzi della
scuola ebraica e portare in scena insieme a loro uno spettacolo teatrale basato
su quanto scopriranno del passato e presente di Sara Cohen. Cercando di mediare
tra le rispettive culture un dialogo spesso non facile, a cui contribuisce la
diffidenza dei genitori e il peso del passato, i ragazzi cercheranno di
diventare amici.
(Una storia d’amore e amicizia, tra presente e passato, che abbraccia in un piccolo volo di telecamera il centro di Roma con il ghetto ebraico). C’è il cibo kosher, la discendenza materna, le regole dello Shabbat, la circoncisione, la scelta di non disperdere la famiglia al di fuori della comunità e molte altre regole. C’è poi il dramma della Shoah, ancora attuale. Cose piccole e grandi alla base di un bagaglio identitario forte e che dall’esterno, da una cultura diversa, possono apparire severe, qualche volta intransigenti. C’è di contro la volontà reciproca di conoscere e comprendere chi sta al di là e al di qua delle porte della comunità ebraica, uscire da un auto-isolamento, superare i confini reali e spirituali che impediscono ai protagonisti di riconoscersi tutti come semplici “romani”, nel bene e nel male, nei sogni e difficoltà. Dando voce a queste due anime contrapposte, il film di Base punta a creare tra loro un dialogo, un ponte ideale. Sceglie di essere diretto e chiaro come i suoi giovani protagonisti, riflette sulle difficoltà dell’integrazione della comunità ebraica di oggi e rievoca una dolorosa storia passata frutto di una inconcepibile divisione ideologica per farne patrimonio di dolore condiviso. La lettera di Sara Cohen evoca i fantasmi del passato, il dolore della Storia, ma fa partire una caccia al tesoro “necessaria” quanto “identitaria”, il cui esito felice è far incontrare e confrontare i ragazzi, forse anche a far sbocciare l’amore. Ma ecco che il film non si accontenta e decide di essere “scomodo”, facendo emergere i problemi di integrazione che esistono e non possono essere hollywoodianamente nascosti sotto il tappeto.
In questo aspetto la pellicola di
Base è simile a un altro importante film dell’anno passato, che parla
anch’esso di giovani e integrazione: Crescendo. Make music not War di Dror
Zahavi (già recensito su questo blog). Problemi piccoli e grandi, ruggini
“moderne” inaspettate, un differente modo di guardare le cose che ha radici generazionali
e apparenti “vittorie culturali” a discapito di una parte (come quella che
conferisce un sapore amaro all’ultima parte della pellicola), vengono trattate
con un’innocenza e garbo davvero preziosi nella filmografia attuale. Un
approccio genuino, basato su un lavoro di ricerca che ha coinvolto molti
studenti in una serie di dibattiti sul tema, che può stimolare negli spettatori
principali cui l’opera è rivolta, ragazzi a loro coetanei, la curiosità quanto
la voglia di un confronto attivo. Un dialogo culturale che va a intessersi per
piccoli ma significativi passi, come i pochi passi che separano il resto di
Roma dal ghetto ebraico, che per questo film ha aperto le sue porte in modo non
solo metaforico. Il film non vuole essere quindi solo la dolorosa celebrazione
di una pagina storica che non deve essere dimenticata, ma cerca di dare anche
un importate messaggio di inclusività. Qualche dettaglio tecnico contribuisce
attivamente a veicolare questi temi. Le scene ambientate nel passato in bianco e
nero, accompagnate da suoni spaventosi come il rullo della ruota degli orfani
del convento, rivivono e si “sovrascrivono” attraverso la rappresentazione
teatrale dei ragazzi, dove le “suggestioni del trucco di scena” volte a
disumanizzare le SS, coprendone il volto con delle maschere, sembrano strizzare
l’occhio alla poetica delle rappresentazione artistiche di Roger Waters, dove
in male non ha volto, quanto alla cultura videoludica (perché una maschera
rappresenta il cavaliere dell'Apocalisse “Morte”, personaggio della serie di
videogame Darksiders). Culture diverse, presente e passato, si uniscono anche
visivamente in alcune scene-chiave grazie alla scelta di usare dei droni per le
riprese di Roma dall’alto. Uno sguardo “tecnologico”, quello dei droni (ma non
l’unico, visto che le chat di Whatsapp svolgono nella trama più volte la
“funzione di ponte” tra le persone), che riesce a unire in un unico orizzonte
visivo il perimetro della comunità ebraica con San Pietro sotto quel “cielo
condiviso che non deve Crollare”, evocato anche dalle parole di Tutto quello
che un uomo di Sergio Cammarire, canzone scelta dalla colonna sonora e che
unisce, abbraccia e sintetizzare le anime della pellicola. Un momento di “intima
spettacolarità” che rimane anche dopo la visione, facendoci sentire tutti più
piccoli, chiusi nelle nostre differenze, davanti alla grandezza del mondo.
(Raccontare la Storia con il cinema: la
lettera di Sara Cohen) Il cinema è da sempre un’arma potentissima per
raccontare e interpretare il passato e il presente. Le vicende umane legate al
dramma della Shoah sono state raccontate in molti modi diversi. Un modo di
raccontare parte dalle piccole cose perdute come un cappotto rosso, giocattoli
e in genere gli oggetti di una vita personale distrutta, fotografati sulla
scena nel celebre e recentemente ritrovato documentario di Alfred Hitchcock,
The Night will fall, come in Schindler’s list di Steven Spielberg. Un altro
approccio, molto originale, di raccontare la Shoah al cinema, è la strada
intrapresa da La vita è bella di Benigni, che attraverso l’occhio del comico
scompone e “riduce” la follia nazista interpretandola sulla base delle sue
leggi razziali e le regole del campo di concentramento. Regole che appaiono
umanamente e moralmente così brutalmente ridicole da sembrare uno scherzo, un
gioco. Negando parimenti la cruda realtà dei fatti storici legati all’epilogo
bellico, usando una prospettiva di tipo “distopico”, Quentin Tarantino
con il suo Bastardi senza Gloria crea una fantasia escapista dove la sala
cinematografica stessa, armata delle sue vecchie pellicole al nitrato d’argento
altamente infiammabile, diventa fisicamente e spiritualmente “arma della
memoria”: l’arte che rilegge il tempo, criticandolo e riscrivendolo. Un film
sulla Shoah come Il bambino con il pigiama a righe, per la regia di Mark
Herman, adattamento del bel libro di John Boyne, scegliendo un approccio che
conferma i meccanismi della psicologia infantile, descrive la futilità e
contorsione delle persecuzioni analizzando i suoi effetti nefasti sulla base di
un pur piccolissimo passaggio generazionale. È la natura umana che vince
sull’ideologia, per la circostanza “biologica” che “chi viene dopo” può trovare
difficoltà a comprendere le “ragioni dei padri”. Nel film le “ragioni dell’età”
vogliono che un bambino, innocente e confuso davanti alle brutture della
guerra, abbia voglia di giocare con un altro bambino, anche se uno è
ariano e l’altro ebreo. In modo simile in Jojo Rabbit di Taika Waititi due
ragazzi, uno tedesco e una ebrea si incontrano e diventano amici, superando la
paure reciproche per il proprio “nemico naturale”, instillate in specie da
una comunicazione faziosa degli organi di stampa. Qui la propaganda
nazista convince il bambino ariano che gli ebrei sono dei mostri che vivono nei
muri, con la preoccupazione legittima della ragazzina ebrea che ogni bambino ci
possa credere. È solo il dialogo, con la conoscenza effettiva dei due che
cambia la prospettiva. Nel film di Base la Shoah è racchiusa in una lettera
nascosta nella fodera di una valigia, che viene scoperta nel 2021 e diviene
“presente”. Con la “parola presente” che come insegna il maestro del Kung fu
Panda significa “attuale” ma anche “regalo”. Non è “solo” una maledizione come
la videocassetta di The Ring di Koji Suzuki, ossia un messaggio di dolore che
va consegnato ai posteri per evitare ulteriore dolore, ma è una lettera di
amore che nasce sì in un’epoca di indicibile odio, ma che è in grado di
generare, in quanto scritta per amore, nei cuori dei giovani protagonisti, una energia positiva dilagante. Superando le remore, diffidenze e paure “che vengono raccontate” ai giovani da genitori e scuole di culture diverse,
questa energia fa leva su un reale dialogo, tra pari, in grado di
togliere proattivamente le etichette con cui si è soliti per “comodità e
orientamento” avvolgere le persone “diverse da noi”, in ragione di una memoria
condivisa Per svelare la banale verità che siamo tutti esseri
umani.
(Un film che parte dall’oggi, aprendo le
porte e i cuori che abitano il ghetto romano). Il ghetto di Roma è un luogo che
ancora per molte persone sembra racchiudere un mondo misterioso, separato,
fatto di regole, modi di pensare e lingue tutti strani. Un mondo forse ostile,
anche per come la Storia e il folklore lo ha sempre raccontato, passando dallo
stereotipo crudele del Mercante di Venezia di Shakespeare fino ad arrivare alle
leggi razziali e continuando oggi nel racconto giornalistico, non sempre
adeguato, del conflitto israeliano-palestinese. Il film di Giulio Base pone
quindi i riflettori su quelle strade di Roma e sul modo in cui è possibile oggi
affrontare un dialogo tra la comunità ebraica e il territorio “esterno”,
raccontando principalmente i “confini immaginari” di chi è oggi più
lontano dai tempi delle leggi razziali evocati dalla “giornata nera”: i
giovani. Per questo sono state aperte alla produzione, grazie al contributo
della comunità ebraica di Roma e del rabbino capo Riccardo Di Segni, le porte
della Sinagoga come del liceo Levi. Per questo la sceneggiatura si è formata
sulla base del confronto con la comunità, ascoltando l’opinione delle sue
persone più autorevoli quanto dando voce ai giovani in un dialogo generazionale
ma anche multiculturale, facendo parlare le anime più timorose come le più aperte
sul tema dell’integrazione.
(Dialogo tra padri e figli di
schieramenti avversi): i giovani e il loro rapporto con la Shoah era un tema
molto caro al recentemente scomparso Israel Cesare Moscati, autore alla base
del progetto che ha dato corpo a questa pellicola. La sua è stata una ricerca
di anni e si è svolta coinvolgendo in workshop multimediali giovani provenienti
da tutta l’Italia. Il percorso ha fatto uso di libri e film, si è avvalso di
incontri con testimoni e dibattiti e ha messo in luce un caleidoscopio di
opinioni ricco e sfaccettato. Si può dire che Moscati fosse un “ingegnere“ con
a cuore la manutenzione dei “ponti della memoria e tra le culture“, un intento
espresso come autore e regista anche nei suoi documentari del 2014, Viaggio
nell’anima dei figli della Shoah, del 2016, Suona ancora. Il coraggio dei
figli e nipoti della Shoah è stato quello di vivere, e del 2017, Alle radici
del male. Questi documentari sono disponibili oggi anche su Rai Play e
si consigliano come corollario alla visione di questa pellicola. Nel
documentario del 2016 in particolare si racconta del confronto generazionale in
seno ad alcune famiglie di musicisti di origine ebraica (ritorna forte il tema
della musica intesa come via espressiva del dialogo tra popoli, come nel
sopra già citato Crescendo, Make music not War),dislocate oggi in giro per il
mondo, da Tel Aviv a Berlino, ma accomunate dal fatto di aver subito la
Shoah. Nel documentario del 2017 si va anche oltre al conflitto generazionale,
si mettono a confronto genitori e figli di soldati nazisti con genitori e figli
di ebrei, per trovare una “linea di dialogo e riflessione comune” non dissimile
da quella voluta, in un ambito differente ma non troppo, da Nelson Mandela in
Sud Africa con la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, alla fine
dell'Apartheid. Moscati approfondiva e ampliava tutti i punti di vista ed era
appassionato a far sentire tutte le voci, secondo quanto racconta Giulio Base
nella conferenza stampa del film. Per cui è toccato a Base trovare una sintesi,
specie dopo la scomparsa di Moscati, coadiuvato dalla comunità ebraica romana,
tra cui ha svolto un ruolo-chiave anche il rabbino capo Di Segni. Così il film
somma il lungo lavoro “sulla memoria delle nuove generazioni” di Moscati, che
si può approfondire con i documentari presenti si Rai Play, con il dialogo di
Base con le voci più eminenti della comunità romana, per costruire quella che è
di fatto una storia di comprensione e amore reciproco. I giovani coinvolti nelle
riprese sono alcuni dei tanti ragazzi che per anni hanno partecipato alle
ricerche di Moscati, i testimoni del “futuro” che tanto aveva voluto incontrare.
(Un film per i giovani) Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma è una pellicola pensata per i più giovani. Si avvale di un cast di adolescenti, usa il linguaggio e le chat con cui si ritrovano, adotta una trama che punta a definire in modo chiaro il contesto, solleva i dubbi più ingenui (nel significato positivo del termine “ingenuo”, quello di vivere candidamente senza preconcetti, che deriva dal latino “essere uomo libero”) quanto legittimo sul tema della memoria e dell’integrazione. Con questo spirito deve quindi essere correttamene inquadrato il film e al netto della inesperienza di parte del cast, c’è dietro tanta buona volontà. La regia di Base è sobria e nei momenti più interessanti gioca con il bianco e nero delle scene del passato, sovrapponendole nella reinterpretazione teatrale dei ragazzi, con i costumi neri e con i mascheroni per rappresentare le SS sullo stile di The Wall dei Pink Floyd. Molto appropriata la canzone di Cammariere come punto di unione emotivo della vicenda, interessante l’uso dei droni come punto di unione dell’orizzonte “fisico” che separa di pochissimo il ghetto di Roma con il centro della città. Non è il film accomodante che potreste pensare nei primi minuti, è un film vivo e critico. Sarebbe bello che lo guardassero i ragazzi e ne discutessero magari in classe, nella speranza che le classi tornino presto a non essere più luoghi solo virtuali.
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