martedì 26 gennaio 2021

Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma - il nuovo film di Giulio Base su Rai Play in occasione del 27 gennaio, lgiornata della memoria, e in onda su Rai 1 sabato 6 febbraio alle 22.50

 


(27 gennaio, giornata della memoria). Rai Play, in occasione della giornata della memoria, mette a disposizione una serie di contenuti video dedicati al tema della Shoah, tra cui quattro documentari (tra cui segnalo per la forza del progetto Alle radici del male di Israel Cesare Moscati, co-autore del film di cui parliamo oggi) e la pellicola che vi presentiamo qui, diretta da Giulio Base. Un film che sceglie di rivolgersi a un pubblico molto giovane per raccontare il presente della comunità ebraica romana quanto una delle pagine più difficili e crudeli della storia italiana, la “giornata nera”. Quel giorno le SS entrarono nel ghetto di Roma portando via più di 1000 persone, adulti e bambini, mentre altri riuscirono a scappare e trovarono un rifugio momentaneo presso privati e istituti religiosi .  

(Sinossi) Sofia è una ragazza adolescente romana dei giorni nostri. Sta per finire il liceo e da grande vuole suonare come suo padre, un musicista di fama internazionale. La mamma un po’ preoccupata da questa scelta la assilla, le chiede di prepararsi un “piano b” nel caso non arrivi il successo, scegliere intanto di iscriversi all’università. Un giorno, per sfuggire all’ennesima litigata con la madre, Sofia sale in soffitta, dove trova all’interno del rivestimento di una valigia rotta, comprata al mercatino, una lettera con una foto. La persona che scrive si rivolge affettuosamente a Sara Cohen, una bambina soccorsa da un convento di suore durante la “giornata nera”. Sofia e i suoi compagni di classe volgono in qualche modo cercare Sara Cohen per consegnarle la lettere e cercano sue informazioni presso la comunità ebraica di Roma. Non senza qualche difficoltà iniziali, questa ricerca diverrà l’occasione per conosce alcuni ragazzi della scuola ebraica e portare in scena insieme a loro uno spettacolo teatrale basato su quanto scopriranno del passato e presente di Sara Cohen. Cercando di mediare tra le rispettive culture un dialogo spesso non facile, a cui contribuisce la diffidenza dei genitori e il peso del passato, i ragazzi cercheranno di diventare amici.



(Una storia d’amore e amicizia, tra presente e passato, che abbraccia in un piccolo volo di telecamera il centro di Roma con il ghetto ebraico). C’è il cibo kosher, la discendenza materna, le regole dello Shabbat, la circoncisione, la scelta di non disperdere la famiglia al di fuori della comunità e molte altre regole. C’è poi il dramma della Shoah, ancora attuale. Cose piccole e grandi alla base di un bagaglio identitario forte e che dall’esterno, da una cultura diversa, possono apparire severe, qualche volta intransigenti. C’è di contro la volontà reciproca di conoscere e comprendere chi sta al di là e al di qua delle porte della comunità ebraica, uscire da un auto-isolamento, superare i confini reali e spirituali che impediscono ai protagonisti di riconoscersi tutti come semplici “romani”, nel bene e nel male, nei sogni e difficoltà. Dando voce a queste due anime contrapposte, il film di Base punta a creare tra loro un dialogo, un ponte ideale. Sceglie di essere diretto e chiaro come i suoi giovani protagonisti, riflette sulle difficoltà dell’integrazione della comunità ebraica di oggi e rievoca una dolorosa storia passata frutto di una inconcepibile divisione ideologica per farne patrimonio di dolore condiviso. La lettera di Sara Cohen evoca i fantasmi del passato, il dolore della Storia, ma fa partire una caccia al tesoro “necessaria” quanto “identitaria”, il cui esito felice è far incontrare e confrontare i ragazzi, forse anche a far sbocciare l’amore. Ma ecco che il film non si accontenta e decide di essere “scomodo”, facendo emergere i problemi di integrazione che esistono e non possono essere hollywoodianamente nascosti sotto il tappeto. 



In questo aspetto la pellicola di Base è simile a un altro importante film dell’anno passato, che parla anch’esso di giovani e integrazione: Crescendo. Make music not War di Dror Zahavi (già recensito su questo blog). Problemi piccoli e grandi, ruggini “moderne” inaspettate, un differente modo di guardare le cose che ha radici generazionali e apparenti “vittorie culturali” a discapito di una parte (come quella che conferisce un sapore amaro all’ultima parte della pellicola), vengono trattate con un’innocenza e garbo davvero preziosi nella filmografia attuale. Un approccio genuino, basato su un lavoro di ricerca che ha coinvolto molti studenti in una serie di dibattiti sul tema, che può stimolare negli spettatori principali cui l’opera è rivolta, ragazzi a loro coetanei, la curiosità quanto la voglia di un confronto attivo. Un dialogo culturale che va a intessersi per piccoli ma significativi passi, come i pochi passi che separano il resto di Roma dal ghetto ebraico, che per questo film ha aperto le sue porte in modo non solo metaforico. Il film non vuole essere quindi solo la dolorosa celebrazione di una pagina storica che non deve essere dimenticata, ma cerca di dare anche un importate messaggio di inclusività. Qualche dettaglio tecnico contribuisce attivamente a veicolare questi temi. Le scene ambientate nel passato in bianco e nero, accompagnate da suoni spaventosi come il rullo della ruota degli orfani del convento, rivivono e si “sovrascrivono” attraverso la rappresentazione teatrale dei ragazzi, dove le “suggestioni del trucco di scena” volte a disumanizzare le SS, coprendone il volto con delle maschere, sembrano strizzare l’occhio alla poetica delle rappresentazione artistiche di Roger Waters, dove in male non ha volto, quanto alla cultura videoludica (perché una maschera rappresenta il cavaliere dell'Apocalisse “Morte”, personaggio della serie di videogame Darksiders). Culture diverse, presente e passato, si uniscono anche visivamente in alcune scene-chiave grazie alla scelta di usare dei droni per le riprese di Roma dall’alto. Uno sguardo “tecnologico”, quello dei droni (ma non l’unico, visto che le chat di Whatsapp svolgono nella trama più volte la “funzione di ponte” tra le persone), che riesce a unire in un unico orizzonte visivo il perimetro della comunità ebraica con San Pietro sotto quel “cielo condiviso che non deve Crollare”, evocato anche dalle parole di Tutto quello che un uomo di Sergio Cammarire, canzone scelta dalla colonna sonora e che unisce, abbraccia e sintetizzare le anime della pellicola. Un momento di “intima spettacolarità” che rimane anche dopo la visione, facendoci sentire tutti più piccoli, chiusi nelle nostre differenze, davanti alla grandezza del mondo.



(Raccontare la Storia con il cinema: la lettera di Sara Cohen) Il cinema è da sempre un’arma potentissima per raccontare e interpretare il passato e il presente. Le vicende umane legate al dramma della Shoah sono state raccontate in molti modi diversi. Un modo di raccontare parte dalle piccole cose perdute come un cappotto rosso, giocattoli e in genere gli oggetti di una vita personale distrutta, fotografati sulla scena nel celebre e recentemente ritrovato documentario di Alfred Hitchcock, The Night will fall, come in Schindler’s list di Steven Spielberg. Un altro approccio, molto originale, di raccontare la Shoah al cinema, è la strada intrapresa da La vita è bella di Benigni, che attraverso l’occhio del comico scompone e “riduce” la follia nazista interpretandola sulla base delle sue leggi razziali e le regole del campo di concentramento. Regole che appaiono umanamente e moralmente così brutalmente ridicole da sembrare uno scherzo, un gioco. Negando parimenti la cruda realtà dei fatti storici legati all’epilogo bellico, usando una prospettiva di tipo “distopico”, Quentin Tarantino con il suo Bastardi senza Gloria crea una fantasia escapista dove la sala cinematografica stessa, armata delle sue vecchie pellicole al nitrato d’argento altamente infiammabile, diventa fisicamente e spiritualmente “arma della memoria”: l’arte che rilegge il tempo, criticandolo e riscrivendolo. Un film sulla Shoah come Il bambino con il pigiama a righe, per la regia di Mark Herman, adattamento del bel libro di John Boyne, scegliendo un approccio che conferma i meccanismi della psicologia infantile, descrive la futilità e contorsione delle persecuzioni analizzando i suoi effetti nefasti sulla base di un pur piccolissimo passaggio generazionale. È la natura umana che vince sull’ideologia, per la circostanza “biologica” che “chi viene dopo” può trovare difficoltà a comprendere le “ragioni dei padri”. Nel film le “ragioni dell’età” vogliono che un bambino, innocente e confuso davanti alle brutture della guerra, abbia voglia di giocare con un altro bambino, anche se uno è ariano e l’altro ebreo. In modo simile in Jojo Rabbit di Taika Waititi due ragazzi, uno tedesco e una ebrea si incontrano e diventano amici, superando la paure reciproche per il proprio “nemico naturale”, instillate in specie da una comunicazione faziosa degli organi di stampa. Qui la propaganda nazista convince il bambino ariano che gli ebrei sono dei mostri che vivono nei muri, con la preoccupazione legittima della ragazzina ebrea che ogni bambino ci possa credere. È solo il dialogo, con la conoscenza effettiva dei due che cambia la prospettiva. Nel film di Base la Shoah è racchiusa in una lettera nascosta nella fodera di una valigia, che viene scoperta nel 2021 e diviene “presente”. Con la “parola presente” che come insegna il maestro del Kung fu Panda significa “attuale” ma anche “regalo”. Non è “solo” una maledizione come la videocassetta di The Ring di Koji Suzuki, ossia un messaggio di dolore che va consegnato ai posteri per evitare ulteriore dolore, ma è una lettera di amore che nasce sì in un’epoca di indicibile odio, ma che è in grado di generare, in quanto scritta per amore, nei cuori dei giovani protagonisti, una energia positiva dilagante. Superando le remore, diffidenze e paure “che vengono raccontate” ai giovani da genitori e scuole di culture diverse, questa energia fa leva su un reale dialogo, tra pari, in grado di togliere proattivamente le etichette con cui si è soliti per “comodità e orientamento” avvolgere le persone “diverse da noi”, in ragione di una memoria condivisa  Per svelare la banale verità che siamo tutti esseri umani. 



(Un film che parte dall’oggi, aprendo le porte e i cuori che abitano il ghetto romano). Il ghetto di Roma è un luogo che ancora per molte persone sembra racchiudere un mondo misterioso, separato, fatto di regole, modi di pensare e lingue tutti strani. Un mondo forse ostile, anche per come la Storia e il folklore lo ha sempre raccontato, passando dallo stereotipo crudele del Mercante di Venezia di Shakespeare fino ad arrivare alle leggi razziali e continuando oggi nel racconto giornalistico, non sempre adeguato, del conflitto israeliano-palestinese. Il film di Giulio Base pone quindi i riflettori su quelle strade di Roma e sul modo in cui è possibile oggi affrontare un dialogo tra la comunità ebraica e il territorio “esterno”, raccontando principalmente i “confini immaginari” di chi è oggi più lontano dai tempi delle leggi razziali evocati dalla “giornata nera”: i giovani. Per questo sono state aperte alla produzione, grazie al contributo della comunità ebraica di Roma e del rabbino capo Riccardo Di Segni, le porte della Sinagoga come del liceo Levi. Per questo la sceneggiatura si è formata sulla base del confronto con la comunità, ascoltando l’opinione delle sue persone più autorevoli quanto dando voce ai giovani in un dialogo generazionale ma anche multiculturale, facendo parlare le anime più timorose come le più aperte sul tema dell’integrazione. 

(Dialogo tra padri e figli di schieramenti avversi): i giovani e il loro rapporto con la Shoah era un tema molto caro al recentemente scomparso Israel Cesare Moscati, autore alla base del progetto che ha dato corpo a questa pellicola. La sua è stata una ricerca di anni e si è svolta coinvolgendo in workshop multimediali giovani provenienti da tutta l’Italia. Il percorso ha fatto uso di libri e film, si è avvalso di incontri con testimoni e dibattiti e ha messo in luce un caleidoscopio di opinioni ricco e sfaccettato. Si può dire che Moscati fosse un “ingegnere“ con a cuore la manutenzione dei “ponti della memoria e tra le culture“, un intento espresso come autore e regista anche nei suoi documentari del 2014, Viaggio nell’anima dei figli della Shoah, del 2016, Suona ancora. Il coraggio dei figli e nipoti della Shoah è stato quello di vivere, e del 2017, Alle radici del male. Questi documentari sono disponibili oggi anche su Rai Play e si consigliano come corollario alla visione di questa pellicola. Nel documentario del 2016 in particolare si racconta del confronto generazionale in seno ad alcune famiglie di musicisti di origine ebraica (ritorna forte il tema della musica intesa come via espressiva del dialogo tra popoli, come nel sopra già citato Crescendo, Make music not War),dislocate oggi in giro per il mondo, da Tel Aviv a Berlino, ma accomunate dal fatto di aver subito la Shoah. Nel documentario del 2017 si va anche oltre al conflitto generazionale, si mettono a confronto genitori e figli di soldati nazisti con genitori e figli di ebrei, per trovare una “linea di dialogo e riflessione comune” non dissimile da quella voluta, in un ambito differente ma non troppo, da Nelson Mandela in Sud Africa con la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, alla fine dell'Apartheid. Moscati approfondiva e ampliava tutti i punti di vista ed era appassionato a far sentire tutte le voci, secondo quanto racconta Giulio Base nella conferenza stampa del film. Per cui è toccato a Base trovare una sintesi, specie dopo la scomparsa di Moscati, coadiuvato dalla comunità ebraica romana, tra cui ha svolto un ruolo-chiave anche il rabbino capo Di Segni. Così il film somma il lungo lavoro “sulla memoria delle nuove generazioni” di Moscati, che si può approfondire con i documentari presenti si Rai Play, con il dialogo di Base con le voci più eminenti della comunità romana, per costruire quella che è di fatto una storia di comprensione e amore reciproco. I giovani coinvolti nelle riprese sono alcuni dei tanti ragazzi che per anni hanno partecipato alle ricerche di Moscati, i testimoni del “futuro” che tanto aveva voluto incontrare.



(Un film per i giovani) Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma è una pellicola pensata per i più giovani. Si avvale di un cast di adolescenti, usa il linguaggio e le chat con cui si ritrovano, adotta una trama che punta a definire in modo chiaro il contesto, solleva i dubbi più ingenui (nel significato positivo del termine “ingenuo”, quello di vivere candidamente senza preconcetti, che deriva dal latino “essere uomo libero”) quanto legittimo sul tema della memoria e dell’integrazione. Con questo spirito deve quindi essere correttamene inquadrato il film e al netto della inesperienza di parte del cast, c’è dietro tanta buona volontà. La regia di Base è sobria e nei momenti più interessanti gioca con il bianco e nero delle scene del passato, sovrapponendole nella reinterpretazione teatrale dei ragazzi, con i costumi neri e con i mascheroni per rappresentare le SS sullo stile di The Wall dei Pink Floyd. Molto appropriata la canzone di Cammariere come punto di unione emotivo della vicenda, interessante l’uso dei droni come punto di unione dell’orizzonte “fisico” che separa di pochissimo il ghetto di Roma con il centro della città. Non è il film accomodante che potreste pensare nei primi minuti, è un film vivo e critico. Sarebbe bello che lo guardassero i ragazzi e ne discutessero magari in classe, nella speranza che le classi tornino presto a non essere più luoghi solo virtuali. 

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