domenica 29 settembre 2019

Rambo Last Blood - La nostra recensione



C'è un momento specifico in cui una persona si presume con certezza essere davvero invecchiata: quando si ferma sulla strada a vedere gli operai che fanno gli scavi. Non importa se sono delle fondamenta di una villa, il nuovo manto stradale o un problema idraulico, gli "scavi" diventano affascinati, irresistibili. L'anziano scopre di amarli e di esserne competente, di poterne dirigere i lavori, dando ordine a quei tre o quattro "ragazzotti" maldestri che "ai miei tempi sì che erano competenti". Anche Rambo invecchia e viene attratto dagli scavi, solo che visto che è Rambo gli scavi non li guarda solo, "li fa lui". Così dopo essere tornato alla casa paterna in mezzo alla prateria, essersi preso una colf, "adottato" sua figlia e aver messo su un'azienda niente male per l'allevamento dei cavalli, che lui in Afganistan usava per il divertente gioco di "tira la pecora morta", Rambo scava. Scava sotto a tutta la sua proprietà, metri e metri di trincea sotterranea piena di trappole, labirinti e armi letali. Di più, ci dorme pure sottoterra, ascoltando la musica dei gggiovani della "figlioccia" e prestando la tana pure per le sue feste con gli amici. Rambo un papà modello, comprensivo anche se un po' apprensivo, che ha messo in soffitta la bandana e il capello lungo per un più rassicurante outfit da John Wayne, cappello e vestiti a frange compresi. Poi però arriva la classica grana che fa succedere le cose in un film, con mia madre che ribellandosi direbbe: "Nooo, era così bello, sembrava un film di Rosamund Pilcher!!". La grana è che la figlioccia deve andare all'università e prima vuole riuscire a incontrare di nuovo il padre che l'ha abbandonata, che tramite amiche ha scoperto vivere in Messico. E siccome in Messico ci sono i Messicani, come ci ricordava Tarantino in Dal tramonto all'alba, Rambo diventa un po' apprensivo, chiede alla ragazza di pensarci un attimo, magari per sempre e lasciar perdere, ma lei è gggiovane, fa di testa sua e parte per il Messico. Naturalmente le cose si metteranno malissimo, la pupilla di Rambo finirà in uno strano giro e il settantenne reduce del Vietnam dovrà andare a riprendersela. Lo avranno ammorbidito e reso più accomodante quei dieci anni tra i cavalli e l'hobby delle trincee?


Scritto in un modo piuttosto lineare, quasi didascalico, sull'impronta di un "Giustiziere della notte 26" (ma ve lo ricordate quello con Charles Bronson che senza senso e senza capo si metteva a uccidere cattivi con una fiocina per la caccia agli squali? Grande cinema), l'ultimo Rambo non tradisce un soggetto di base potente, profondamente malinconico e disperato, frutto della grande passione di Stallone per uno dei suoi personaggi più iconici. Rambo è inquieto, apprensivo, alla disperata ricerca di un equilibrio tra lui e il mondo che ha per chiave l'affetto paterno verso una ragazzina. Si sforza di sembrare una persona a modo, ma scava, dorme sotto terra e si crea lì un piccolo mondo privato dove ha il controllo totale, dove ogni legno o traliccio gli sono noti. Quando la vita lo mette davanti a una nuova sfida la maschera cala del tutto e Rambo si (ri)scopre primordiale, inesorabilmente feroce e letale come un orso, quasi eccitato all'idea di fare a pezzi qualche centinaio di nemici senza nome. Il film così passa da Rosamund Pilcher a Non aprite quella porta di Hooper, con un Rambo inarrestabile, grandguignolesco, spietato abitante sotterrano di quel bunker sotto il ranch paterno che a tutti gli effetti sono la ragnatela su cui invischiare le sue vittime. Vista l'efferatezza della messa in scena non stupisce che il regista Adrian Grunberg abbia diretto come seconda unità Apocalypto di Mel Gibson. Se le scene di "calma" sono piuttosto dimesse, quasi televisive (con Stallone che comunque ce la mette tutta per alzare il livello, ma non è aiutato dal resto del cast), nelle scene di azione la pellicola decolla e arriva alla stratosfera, inanellando un "bodies count" da punteggio da flipper che farà la gioia incondizionata degli amanti della azione più slasher, quasi in zona body-horror. Rambo 5 è il film ideale da vedere in una giornata in cui siete incazzati con il mondo, vi scaricherà la rabbia come poche cose. Sembra che Stallone si sia divertito un mondo a girarlo, se andrà bene ai botteghini pensa di essere pronto a darci un nuovo capitolo e noi siamo entusiasti di vedertelo così carico e così in forma, con uno stile recitativo sempre più affinato quanto primordiale. Peccato per la trama davvero inconsistente, che relega a figurine tutto il resto del cast che non è Rambo e fa cadere la pellicola nel cestone del film di genere per appassionati, quando il quarto film risultava meglio costruito e aveva risollevato la serie dopo lo scivolone esasperato del terzo episodio. Ma da amanti della saga non potete davvero perderlo e volergli bene, chiudendo un occhio e magari due sui difetti più macroscopici e facendovi trascinare dalla epica colonna sonora di Brian Tyler. E non manca, perché non poteva mancare, naturalmente, "It's a long road" di Jerry Goldsmith, cantata da Dan Hill.
Più che un film su un soldato, un film su una specie di mostro malinconico che vive in una casetta della provincia americana. La scrittura un po' scriteriata non dona alle vicende il giusto respiro di favola nera che avrebbe potuto trarne un regista come Del Toro, né la sagacia politica che avrebbe ispirato un Tobe Hooper. Ma il soggetto c'è, Stallone c'è, le scene d'azione sono cattivissime quanto esaltanti per chi apprezza le cose di questo tipo "quasi da horror" e quando il film ingrana, va fino in fondo, con la platea che a un certo punto inizierà magari a sorridere delle trappole mortali sempre più esagerate architettate da quel vecchietto arzillo, ma ancora "enorme", di Stallone. Per gli amanti dei fumetti giapponesi mi sento di dire che questo Rambo ha un po' sublimato il personaggio base, che potremmo accostare ad un Ken il guerriero di Hara, per andare a impersonificare un Violence Jack di Nagaiana memoria. Novanta minuti che volano via, salvo nelle parti da Rosmund Pilcher. 
Talk0

lunedì 23 settembre 2019

Grandi bugie tra amici - la nostra recensione



Il sessantenne Max non vede i suoi amici da molto tempo e si trova come non mai in una crisi nera a livello economico e familiare. Il divorzio, la grande casa delle vacanze da vendere, la voglia di lasciarsi abbandonare a se stesso, magari con un bicchierino in più del sempre ottimo vino francese locale. Poi la sorpresa, i suoi amici, con cui aveva passato una vacanza a due poco devastante nove anni prima, si rifanno vivi, tutti insieme, suonando alla porta di casa. È una sorpresa, sono lì per festeggiare il suo compleanno anche se Max non ama festeggiare il compleanno e le altre feste comandate e da principio si arrabbia, sbraita, li caccia tutti via, poi li rincorre, si scusa, li abbraccia e sarà di nuovo festa, come nove anni prima. Una settimana di festa in cui incontrarsi di nuovo, incazzarsi, sorridere, piangere, perdere per strada qualche figlio e scoprire, come troppo spesso si dimentica di fare, che al mondo, se si guarda intorno, non si è mai davvero soli. Forse.
Dopo nove anni il regista Guillaume Canet decide di riportare insieme la ciurma di Piccole bugie tra amici, un enorme successo commerciale del cinema d'oltralpe. Il cast è ricchissimo e riprende negli stessi ruoli tutti gli attori, che nel tempo si sono fatti conoscere anche per altri ruoli dalle nostre parti. C'è la nevrotica Marie, mamma single interpretata dalla stupenda Marion Cotillard che abbiamo visto in Inception, Forget Paris e ne Il cavaliere oscuro il ritorno. C'è il misterioso e ricco Eric, interpretato dal Gilles Lellouche dello splendido C'est la vie (anche da noi recensito) e di 7 uomini a mollo (pure questo nelle nostre pagine). Max, il protagonista è Fracois Cluzet di Quasi Amici, c'è in una piccola parte Jean Dujardin di The Artist. Il cast è ricco, divertente e fracassone quanto malinconico come si conviene a un film corale seguito di un altro film corale. È un po' Il grande freddo di Kasdan, è un po' Stanno tutti bene di Tornatore, è diretto con uno stile di "recitazione di pancia", cordiale quanto sanguigna, nel solco di molto cinema nostrano di successo, tra Ozpetek e Muccino , tra Paolo Genovese (Perfetti sconosciuti) e Carlo Verdone (Compagni di Scuola). Si urla molto, ci si mena, spesso ci si tuffa nel melodramma tra fiumi di lacrime, ma sempre e incredibilmente, e questa è una cifra precisa del cinema francese che lo fa discostare da quello italiano, si riesce spesso a riemergere, a scoprire momenti di leggerezza, quasi a "volare". Così le oltre due ore della pellicola volano via e stringono gli spettatori nell'abbraccio di una prima distrutta ma poi ritrovata famiglia allargata, dalla quale infine quasi dispiace separarsi per uscire dalla sala. 
Il film funziona anche se accusa qualche strattone, fisiologicamente dovuto dal numero di personaggi da gestire in scena. La parte finale della pellicola coinvolge il gruppo in una specie di mini-avventura dalle premesse deboli e schematiche, ma dalla soluzione finale interessante. Più o meno siamo sullo stesso livello delle Piccole Bugie, ma il film si può vedere autonomamente per poi, se gradito, recuperare il primo. 
Talk0

martedì 17 settembre 2019

It - capitolo 2 : la nostra recensione




Il pagliaccio Pennywise, il bullo metafisico conosciuto anche come "It", che ama i palloncini rossi e divorare i bambini più insicuri, è di nuovo uscito dalle fogne. 
Sono passati 27 anni e i ragazzini di Derry che lo avevano sconfitto negli anni '80 sono richiamati in città da uno di loro, per tornare ad affrontarlo. Le morti misteriose sono riprese. Come sempre i perdenti saranno soli, in quanto la misteriosa entità rimane invisibile agli abitanti di Derry, sopratutto adulti, che non siano sue vittime. Ma saranno in grado di tenergli nuovamente testa? Forse c'è una soluzione per sconfiggerle "It"e impedire che ciclicamente lui si rigeneri e torni a uccidere i bambini della piccola cittadina americana. Solo che i "Perdenti" sono cresciuti e ora, come per magia (come in Hook - Capitan Uncino), non si ricordano più gli eventi del loro passato che gli hanno in qualche modo dato la forza per affrontare il mostro. Riusciranno nuovamente a vincerlo? 
A distanza di un paio di anni, grazie anche alle cifre da capogiro del box Office, la New Line, celebre compagnia che diede i natali a Nightmare in Elm Street di Wes Craven, torna nelle sale con la trasposizione di uno dei più amati romanzi di Stephen King. Alla regia e sceneggiatura confermati i fratelli Muschietti di La Madre, piccolo cult prodotto da Del Toro (presto nelle sale un altro film dello stesso sapore è sempre prodotto da Del Toro, Scaries stories to tell in the dark), nel cast oltre ai giovani e bravissimi attori della prima pellicola anche delle star di grande successo che ne impersonano i ruoli da adulti, come Bill Hader, Jessica Chastain, James McAvoy. A indossare di nuovo il cerone del pagliaccio è Bill Skarsgard, che sembra guardare a breve distanza, sfidandolo, un altro pagliaccio che presto si impossesserà delle sale, il Joker di Joaquin Phoenix per quel matto di Todd "Una notte da leoni" Phillips. 


Il primo film, prendendo le 1000 e passa pagine del libro di King, aveva scorporato il sistema narrativo di continui flashback del libro, raccontando solo dei protagonisti da giovani, creando una avventura dall'aria vintage anni '80 nostalgica, che attingeva a piene mani da Stand by me, Explorers, I Goonies e ovviamente e soprattutto (e guarda caso) da Nightmare on elm street. It si poteva tradurre in mille altri modi, ma le scelte dei Muschietti sono state funzionali a una pellicola per me divertente e ben confezionata. Nonostante una resa narrativa un po' frammentaria i giovani interpreti scelti, tra cui Jeremy Rey Taylor, Sophia Lillis, Jaeden Martell, erano stati davvero straordinari, gli effetti visivi gioiosamente grotteschi alla Nightmare funzionavano e davano un tocco "sopportabile/ilare" ai continui jumpscare, la scenografia e fotografia erano favolose. Il film avrebbe funzionato anche se non avessero mai girato il capitolo 2, cosa che scaramanticamente non pianificarono prima di vedere il box Office. 
"Formula che vince non si cambia", sembra abbiamo pensato in New Line per questo It parte due. Non è una novità considerati i trascorsi di " serialità spinta" che da sempre caratterizzano i prodotti di punta di New Line (quindi non parlo di Shine o Dancing in the dark ovviamente) dalle saghe di Nightmare a Final Destination, Blade (i primi a fare seriali i supereroi!! Prima degli X-Men), Il signore degli anelli, The Conjuring, Creed. Così più che raccontarci la parte degli adulti, dei perdenti che tornano a Derry dopo 27 anni per affrontare di nuovo "It", le tre ore della pellicola preferiscono indugiare sui flashback delle avventure dei giovani protagonisti, tagliando e semplificando a non finire tutto il resto. Una scelta che per me ha anche la voglia di staccarsi da altre trasposizioni kingiane, come Cose Preziose, sempre guarda caso adattata sullo schermo da New Line, dove spesso le troppe righe di dialoghi (spesso perfette sulla carta)  annacquano il ritmo. It capitolo 2 vuole essere una giostra, un rollercoaster scatenato, quanto il primo capitolo, pieno di spaventarelli, umorismo e ritmo.
I bambini sono più divertenti degli adulti, sempre, anche se il cast degli adulti è di tutto rispetto  e forse la costruzione narrativa qui funziona pure meglio che nel primo film, più solida, più compatta, più drammaturgica. 


Il primo capitolo parlava della difficoltà di vivere di alcuni ragazzini sfigati in una triste provincia americana, tra genitori assenti o maneschi, dove i bulli (e It in fondo non è troppo diverso e più fastidioso del bullo locale interpretato da Nicholas Hamilton) e i bifolchi sembravano costantemente impegnati a spegnere ogni speranza di una vita serena e "futuro". It era una specie di Peter Pan al contrario, che portava i bambini in un mondo di merda e fogne per terrorizzarli e mangiarli. Sconfiggerlo era la più classica delle storie iniziatiche, con i ragazzi che diventavano adulti. Tutto nel capitolo 1 può correre al ritmo sfrenato di un videogame.
Il capitolo 2 parte da questi adulti, pure "vincenti nella vita" in quasi tutti i casi, ma che hanno dimenticato il loro posto nel mondo, hanno scordato i loro amici e devono dolorosamente riunirsi, ricostruirsi, come ne Il grande freddo. E It li spaventa nella misura in cui era un nemico che aveva affrontato in qualche modo la versione "migliore di loro", quando erano giovani, quando erano uniti e pronti a combattere nonostante la provincia depressa, la gente bifolca, tutto. Erano eroi e avevano battuto un mostro da film fantasy, a una età in cui il fantasy era il massimo (chiedete a ogni giocatore di Dungeons and Dragons degli anni '80). Ho sentito in sala e in rete molti ragazzini che dicevano come questo capitolo 2 facesse "meno paura", che "fa più ridere" (questo per il classico meccanismo di rimozione dei fan che da Guerre Stellari dimenticano le scene comiche, i robottini, le guardie imperiali a cui rubano gli abiti e gli Ewok nella conferma di "guardare Shakespeare"). Li inviterei a tornare a vedere la pellicola tra vent'anni, quando farsi spaventare da un pagliaccio è davvero l'ultimo dei problemi di un adulto che ogni mese deve fare bilanci sul senso della propria vita. 
Ma la malinconia è roba da film francesi come Lo scafandro e la farfalla, non fa i numeri al botteghino e non vende i pupazzetti Funko Pops, la New Line ha preferito stare dalle parti fu Freddy Kruger. Nel secondo capitolo "a stare con gli adulti" It non poteva che essere una creatura più marginale, lunare. La produzione  ha scelto di rimanere più che poteva con i bambini, ma alla fine si è dovuti arrivare al finale, allo scontro inevitabile tra gli adulti e il mostro, senza però che il film facesse tutto quel lungo discorso onirico, filosofico e complicato che allestiva il libro di King. 


Come successo per la serie televisiva, la parte finale del film è anche la più debole, quella più stilizzata e agganciata male a tutto il resto. Un "resto" che è ottimo e godibile quanto il primo film, magari ancora frammentario in alcuni punti ma carico delle stesse (ma sempre nuove) trovate e fascino, arricchito da una vena malinconica che il cast adulto riesce comunque a infondere. Sono tre ore di film, ma mi sono volate. Salvo il finale, che si trascina lungo sullo stile de Il ritorno del re, guarda caso un altro film New Line. Nel complesso questi film mi sono piaciuti, li ho guardati con la malinconia e divertimento con cui rivedo oggi I Goonies e i film con Freddy Kruger. 
Ora si pensa al futuro. Qualcuno ai piani alti ha ventilato la possibilità di un prequel incentrato su Pennywise, magari dalle suggestioni che si ricavano dal ritorno a casa di Beverly che si vede anche nei trailer. Non sarebbe una così cattiva idea, ma bisogna chiedere a King cosa ne pensa. 
I Muschietti stanno ragionando su una nuova versione estesa delle due pellicole che non solo incorpori le molte scene tagliate già girate ma che introduca anche scene inedite e possa avvalersi di un nuovo montaggio, che renda l'esperienza schematicamente più simile alla struttura del libro. Con l'Hobbit e Il Signore degli Anelli la New Line ha dimostrato grande interesse nelle versioni estese e quindi è possibile che tra un annetto, dopo che saranno andate a ruba le copie home video di It Capitolo 2, potremo goderci di una ultra-super-extended-limited-funko-edition di It, da otto ore. Magari potrà essere un prodotto più ponderato in grado di attirare di nuovo l'attenzione mediatica grazie a un lavoro più organico. Se si concretizzerà questo progetto o il progetto prequel, bontà del botteghino permettendo, saremo da queste parti sempre felicissimi di tornare a Derry. 
Talk0

sabato 7 settembre 2019

Provocazione: ha senso fare delle recensioni per i film che escono al Festival di Venezia?



Alcuni dei miei piccoli lettori a volte mi chiedono: "Talk0, perché non ci parli mai di Venezia?" 
Una ragione c'è. 
Prendetela come una specie di sfogo, perché questo pezzo non vuole essere qualcosa di diverso in fondo. La mia è più che altro una constatazione tragica, che non riguarda quei cinque film dal "titolo forte" che arriveranno anche nelle sale italiane, ma "tutti gli altri". Pellicole strane e spesso "aliene", che cadono come UFO in laguna, sorprendono un pubblico che magari non considerava nemmeno la loro esistenza e poi ripartono, per i pianeti lontani da cui erano venute, lasciando gli spettatori nel dubbio più totale circa il titolo del film, l'autore e la nazionalità. Anche se in molte province italiane i film del festival a volte vengono ri-proiettati nei cinema d'essai, l'effetto anche della pellicola più stupefacente sulla gente, passati un paio di giorni è: 
"Che te lo ricordi quel thriller fico coreano con quel tizio che sembrava Bombolo?". 
"Ma non era un film malese quello con Bombolo, tipo una commedia musicale? Ma non era morto Bombolo?". 
Fine. E se sei stato così sfortunato da non trovare i biglietti, il posto auto, il giorno libero, è finita. Sei nelle mani dei distributori italiani e dei cineforum che, bontà loro, qualcosa potrebbero pubblicare in futuro, forse. Che sia il Future Film Festival, Cannes, Sitges, Il Far East di Udine, la solfa è sempre la solita. Il film rimane una graditissima (sempre se gradita) stranezza passeggera per pochi fortunati "festivalieri". Che poi tra i "festivalieri" ti trovi davvero di tutto, compreso chi si pente di essere entrato in una sala dove proiettano qualcosa di cui ovviamente ignorava il contenuto (e come poteva saperlo?) e si rompe amabilmente le palle per tutto il tempo. Magari la sfortuna ha deciso pure che si tratti di uno di quei film particolarmente lenti e riflessivi, carichi di poesia (magari un po' ostica) e paesaggi infiniti (tutti da percorrere per i personaggi rigorosamente a piedi, in tempo reale, per chilometri e minuti di visione) stile Abbas Kiarostami. C'è chi cerca di "comprendere", chi si trattiene, chi bofonchia, chi proprio non ce la a e anche se in totale buona fede finisce per rompere le palle pure a te che gli stai a fianco. E spesso siamo pure noi stessi quelli che vorrebbero morire piuttosto che sorbirci altri 16 minuti magari di telecamera fissa e litania contadina in sottofondo. E ci sentiamo pure un po' in colpa "giudicati dalla cultura", in ginocchio sui ceci davanti a un'arte per noi inaccessibile, maledicendo i biglietti stra-esauriti di quell'altro film in concomitanza, magari Joker di Todd Phillips che avremmo visto più che volentieri. Vorrei elencare tutti i film che hanno ricevuto le più sperticate critiche favorevoli e che non sono mai arrivati alla distribuzione, ma sarebbe un elenco infinito di lacrime. Rimane bello "esserci" a questi festival, rimane assolutamente importante e vitale per mantenere vivace la curiosità e la passione del "cinema come media", grande contenitore di sogni ed emozioni. 
Ma a questo giro voglio parlarvi solo dei film che davvero arriveranno in sala, quando arriveranno per tutti in sala. E se ci vorranno anni, ve ne parlerò tra anni. Non voglio farvi sbavare nella vana attesa di un film magnifico che non vedrete mai perché non ha trovato un distributore né un servizio ondemand che almeno lo sottotitoli in italiano. 
E allora qualcuno in genere mi dice: "Però ogni tanto parli del Far East di Udine! Allora fai delle preferenze?!".
Vero, quando posso, lo faccio. 
Talk0