giovedì 31 marzo 2022

Red (Turning Red): la nostra recensione del nuovo film Disney Pixar

 


La piccola “Mei mei” vive nel 2002 in una Toronto ipercolorata alla Scott Pilgrim ed è l’orgoglio e la gioia di mamma Ming. È bravissima nello studio, suona uno strumento a fiato come Lisa Simpson, è giudiziosa e appena finisce la scuola corre a casa, impugna uno scopettone e insieme alla madre tira a lucido il tempio degli antenati che gestisce la sua famiglia, in attesa che vengano i visitatori. Poi Mei Mei si mette addosso un costume che rappresenta uno degli spiriti protettivi del tempio, il “panda rosso”, aiuta nella vendita dei gadget, fa i compiti, a letto presto e poi si ricomincia, giorno dopo giorno. È tutto bellissimo fino a che il colore “rosso” non irrompe di prepotenza nella sua vita, una mattina, sotto la doccia (più o meno come accadeva a Sissy Spacek in un celebre film di Brian De Palma). Per Jim, il suo papà, il rosso è il colore della fortuna, ma per Mei Mei le cose sono molto più complicate, anche perché “ormai ha 13 anni” e il rosso sembra quasi travolgerla. Mei Mei arrossisce per le sue prime cotte adolescenziali direzionate al ragazzo che sta in cassa al minimarket. Diventa rossa di imbarazzo quando una madre troppo assillante e preoccupata la insegue per la scuola con un pacchetto di assorbenti, preoccupata che la figlia se li sia dimenticati a casa. È rossa di rabbia, come “il rabbia” di Inside Out, quando il bulletto della scuola la deride perché femmina. Come se tutto questo non bastasse, quando Mei Mei diventa rossa ora, da quella mattina, si attiva pure una specie di maledizione familiare, che la trasforma in un enorme e peluchoso panda rosso. Se questa circostanza scatena il panico in famiglia, con la mamma, la nonna e tutte le zie che si prodigano per imbastire una sorta di rito purificatore, Mei Mei, da prima preoccupatissima di fare danni, si sente sempre più a suo agio nei panni del panda rosso, che anche grazie alle sue amiche riesce sempre più a contenere e controllare. Una capacità di controllo che nonostante tutto non viene accettata dalla madre. Il giorno del rito si avvicina, ma Mei Mei pensa di rimandare l’evento perché da adolescente libera e capace di sé ha tutto il diritto di andare con le sue amiche all’evento che lei giudica come “il più importante della sua adolescenza e della sua vita”: il concerto della boyband 4Town.

Dove forse potrà baciare il cantante che sa parlare in francese. 

 


La regista e sceneggiatrice Domee Shi esordiva in Pixar nel 2018 con Bao, un corto animato che dopo una presentazione al Tribeca Film Festival veniva allegato all’uscita cinematografica de Gli Incredibili 2. Era la storia di un “baozi”, un panino al vapore che dopo essere “nato” da un impasto di farina e dalle amorevoli mani di una signora sul tavolo da cucina, cresceva come un bambino vero e poi un adulto. Diventando a tutti gli effetti per la donna “un figlio”. Un figlio che però dolorosamente, con l’approssimarsi dell’età adulta, bisognava “lasciare andare, a cercare di costruire una sua famiglia. Una metafora “culinaria” del bellissimo e difficile legame tra genitori e figli che in pochi minuti toccava il cuore e ci parlava anche di tradizioni, con uno stile visivo che per la caratterizzazione dei personaggi strizzava quasi l’occhio alle opere di Naoki Urasawa. Bao era davvero molto carino e come il cortometraggio La Luna, del 2011, era stato il biglietto di presentazione per il “nostro” Enrico Casarona per realizzare il film Luca, Bao, con affinità di tematiche e stile “ci porta a Red”, arrivando in sala come primo lungometraggio per Domee Shi, per la supervisione del guru Pete Docter. Red è  il primo film Pixar diretto da una donna e il primo film Pixar con una “voce narrante”, che ci racconta la storia dal punto di vista di una ragazzina tredicenne del 2002. Domee Shi, secondo quanto raccontato nelle interviste, non deve essere stata troppo diversa da Mei Mei, anche se da ragazza non aveva magari il pallino delle Boyband. Piccola parentesi sonora: i 4Town, il gruppo di cui è fan Mei Mei, mi dicono (voce della nostra esperta BGis) avere sonorità alla One Direction più che alla Backstreet Boys (errore classico fatto da chi come me dopo due note trova tutti i pezzi uguali a “Backstreet Back all right”…). Come Mei Mei, anche Domee Shi da piccola amava disegnare, amava i manga (la regista è una mega fan di Rumiko Takahashi e Red ricorda un po’ le “trasformazioni” di  Ranma 1/2), viveva un rapporto un po’ “rigido” con la figura materna e la tradizione. 



Red, che in originale ha per titolo Turning Red, ossia l’espressione “diventare rosso”, si presenta di conseguenza come un film molto intimo, sostanzialmente un articolato coming age sul rapporto tra madre e figlia, ma felicemente alternato a momenti più “action” e stralunati, vicini al mondo degli anime e qualche volta pure dalle parti dei Kaiju Movie e dei telefilm alla Power Rangers. Come Coco e come Luca, anche Red porta la Pixar in territori nuovi, ampliando orizzonti geografici e tematiche. In un modo anche coraggioso, ma che non abbandona mai l’altissimo valore produttivo di queste opere. L’aspetto visivo di Red è stupefacente e porta a nuovo standard l’animazione al computer. Il Panda Rosso è un pelouche gigantesco e così soffice da alzare, dopo Sully di Monster’s & Co, l'asticella per quanto riguarda la generazione digitale del pelo. La “succulenza” dei piatti da cucina, tra vapori e trasparenza di “cottura”, porterà gli amanti dei tradizionali piatti orientali ad avere l’acquolina in bocca. Sullo stile grafico dei personaggio, mi sento di parlare di una felice contaminazione tra tratto occidentale e orientale. Se molti anni fa Osamu Tezuka guardando il Bambi di Disney riscriveva le regole dei fumetti giapponesi, creando anche Kimba il leone bianco, oggi Disney - Pixar si fonde per grafica e contenuto con uno stile da fumetto giapponese, in modo armonioso e spontaneo. La coloratissima città di Toronto può quindi a tutti gli effetti avere titolo per ospitare hamburger quanto mostri giganti, quando può essere usata per parlarci (con molta delicatezza e garbo) di tematiche relative all’integrazione culturale, raccontandoci del modo differente con cui l’arrivo all’età adulta viene ancora vissuto da un punto di vista occidentale o orientale (con un occhio alle cosiddette “seconde generazioni”). Tradizione e modernità, occidente ed Oriente, (pur accennati) problemi di ieri e oggi, questo aspetto della narrativa di Red risulta molto affascinante quanto sfaccettato, quanto oggi sempre più attuale, in un periodo in cui si sta creando un sempre più stimolante clima di scambi multi-culturali. Red è un film colorato, gioioso, giocoso, qualche volta “Kawaii”’, adatto a chi sta per compiere 13 anni o si sente un eterno tredicenne. Un film che “da 13enne“ ci parla del suo amore per la musica, per i fumetti, per le giornate con gli amici e per i “battibecchi formativi” che si finiscono per fare con i genitori. Capendo in fondo che una volta anche i genitori sono stati pure loro 13enni. Chi non si sente tredicenne o non si è mai sentito tredicenne potrebbe apprezzarlo meno, ma qui sul blog siamo tutti tredicenni e magari sogniamo pure di trasformarci in un enorme panda se ci scaldiamo troppo. Don’t worry be Panda.  Non vediamo l’ora di vedere i nuovi lavori della regista. 

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giovedì 24 marzo 2022

Vi vogliamo invitare a vedere a teatro Petrolio. Una Storia A Colori, al fACTORy32 dal 25 al 27 marzo

 


Con molto piacere il nostro Blog vuole invitarvi a teatro per un nuovo spettacolo dei nostri amici del fACTORy32 di Milano. Siamo come blog molto curiosi ed emozionati da questa rappresentazione, perché nella nostra decennale passione per il cinema e l’intrattenimento, guardiamo da sempre con affetto e stima alle opere che sanno parlare con coraggio e affetto di temi sociali importanti quanto scomodi. 

Il testo dell’opera è arrivato finalista al 27mo Premio Hystrio in virtù della sua originale  elaborazione di tematiche molto attuali e discusse. Il cast annovera Beatrice Gattai (al suo debutto come autrice), insieme a Alessio Di Clemente (qui anche regista) e Francesco Centorame. I tre attori daranno corpo a tre “esseri umani” che portano sulle loro spalle istanze esistenziali legate a doppio filo a tre interrogativi morali molto discussi del nostro presente. I disabili hanno diritto a una figura per l’assistenza sessuale? L’utero in affitto è una scelta eticamente corretta? La prostituzione va legalizzata? Tre storie di cambiamento, che vanno a comporsi come storie d’amore, che ci suggerisce cosa può accadere a un essere umano quando viene spinto ad oltrepassa la “linea del fuoco”, in quei “passaggi stretti” dell’esistenza che possono distruggerlo in un attimo o portarlo a “evolversi”.

Una donna priva di affetti, un uomo alle prese con i titoli di coda della propria relazione, un ragazzo alla ricerca della normalità del proprio desiderio. Figure che pur scontrandosi e provocandosi l’un l’altro, raccontano una storia che custodisce bellezza. 

Da questo scaturirà un confronto teso. Un duello disputato in un “luogo a perdere” nella vita dei tre esseri umani che non conosce vincitori, a parte l’integrità̀ della persona. Integrità̀ che non protegge, ma che è senz’altro consolatoria. Perché alla fine, dietro la collina dell’integrità umana, splende sempre il sole.

“In Petrolio. Una Storia A Colori la lettura di una storia d’amore non romantica mi ha consentito di lavorare sui tre interpreti obbligandoli a procedere per archetipi”, annota il regista e interprete Alessio Di Clemente. “La provocazione continua dell’altro all’interno del ring, o meglio della gabbia, in cui si svolge l’azione, è il propellente di ognuno dei tre nella ricerca del compiersi del proprio obiettivo. Ma mentre la giovane donna ha già̀ scavalcato la ‘linea del fuoco’ e vede con chiarezza, responsabilità̀ e consapevolezza tutto il proprio campo d’azione, l’uomo è impantanato nella sua mediocrità̀ e insegue solo il fantasma del proprio ego, il ragazzo invece cerca puramente di soddisfare le proprie necessità naturali"

MILANO (dal 25 marzo al 27 marzo 2022) 

 fACTORy32 - Via Giacomo Watt, 32, Milano

Biglietti: Intero 17€, Ridotto under25 13€, Prima fila 19€ (6 posti disponibili)

+1€ Tessera Associativa

Orari: venerdì 25 marzo, sabato 26 marzo ore 20.30 – domenica 27 marzo ore 16

Per informazioni e prenotazioni: email

 prenotazioni@passiteatrali.org


Non possiamo che augurarvi buona visione!

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giovedì 17 marzo 2022

Licorice Pizza: La nostra recensione del nuovo film di Paul Thomas Anderson

 


Siamo in un'America che non c’è più, un po’ tra Boogie Nights e C’era una volta a Hollywood, in una California però con più sentimento e meno sparatorie. Tutto è sbrilluccicoso e tutti vanno in giro con incredibili camicie a righe. I ragazzini di uno show televisivo pomeridiano attirano le folle quanto i Beatles e attori alla James Dean amano correre in gare clandestine saltando tra cerchi di fuoco. C’è tanta eccitazione e buona musica nell’aria. È il clima ideale per innamorarsi. 

Alana (Alana Haim) è incredibilmente attratta da Gary (Cooper Hoffman) e neanche lei sa perché. Lei ha 28 anni e un destino da “commessa di qualcosa” a cui pensa di non potersi sottrarre. Lui ha 15 anni, è un bambinone ma si sente già un grande attore e imprenditore di successo. Lei è un po’ curva è un po’ goffa ma se vuole tira fuori una inaspettata e devastante femminilità al pari di nervi d’acciaio. Disillusa, concreta, emotiva ma “tosta”: la perfetta figlia di un militare che l’ha cresciuta con alti valori morali e il Krav Maga. Lui è cicciotto, con una faccia da schiaffi e la parlantina tagliente, un po’ farfallone, donnaiolo e sempre pronto a lanciarsi nei progetti più assurdi, dai materassi ad acqua alla casa del flipper. Lei ha troppo i piedi per terra, lui ha troppo la testa per aria, ma insieme questi due ragazzi così diversi funzionano, fanno scintille. Se per un attimo vivono sogni troppo distanti, se più di una volta non si sopportano e si dichiarano odio eterno, se si tradiscono o rimpiangono, prima o poi corrono a riavvicinarsi, sempre, come mossi da una calamita invisibile. Forse il vero amore. 


C’erano una volta gli anni della musica e della ribellione, della Blackspoitation e di Barbra Streisand (e nessuno sapeva come si pronunciava il suo cognome). Ce li hanno “cantati” Cameron Crowe con Almost Famous, Tarantino con il suo nono film e naturalmente anche P.T.Anderson, regista di questo Licorice Pizza, quando nel 1997 con Boogie Night portava nuovamente protagonista sullo schermo (in una parte di peso), direttamene da quegli anni ruggenti, Burt Reynolds. Assieme al grande Burt allora c’era un cast magnifico quanto compatto, un dream team formato da Julianne Moore, Heather Graham, Wahlberg, Macy, Reilly, Cheadle e tanti altri, tra cui faceva capolino un timido e impacciato Philip Seymour Hoffman. Goffo, dall’aria tenera e complicata, ancora all’inizio di una carriera folgorante quando tragicamente breve. Oggi c’è Cooper Alexander Hoffman, suo figlio, a ripercorrere i temi e scenografie di quel Boogie Night, vestendo un ruolo molto simile a quello di Seymour. Un felice quanto emozionante passaggio di testimone, tra padre e figlio, che non può che farci tornare alla mente il recente I molti santi del New Jersey, dove Anthony Soprano “riprende vita”, in una sua versione più giovane, grazie a Michael Gandolfini, figlio dello scomparso James Gandolfini. In entrambi i casi è evidente come la mela non sia caduta molto lontano dall’albero e non vediamo già l’ora di vedere questi giovani attori crescere e magari eguagliare i loro genitori. 


Cooper ha la stessa faccia tosta, pancia e cuore grande del padre e trova su schermo una co-protagonista con cui c’è subito intesa, si respira una buona chimica. È una cantante, si chiama Alana Mychal Haim e fa parte del gruppo musicale “Haim”, dove canta insieme alle sorelle Danielle Sari ed Este Arielle, anche loro con una piccola parte nel film. Ha recitato per ora per lo più in particine ma ha un grande talento: un fisico quasi di gomma che le permette in un istante di passare da femme fatale a quarantenne ingobbita e due occhioni enormi quanto espressivi, sinceri. Buffa quanto attraente, infantile quanto matura, Alana di qui ai prossimi anni si mangerà Hollywood insieme a Michael e noi potremo dire di averli già visti insieme in questo film dai colori caldi e malinconici degli anni ‘70. Anderson recupera in pieno la coralità che lo ha reso grande in Boogie Night come in Magnolia, mettendosi al comando di un cast pantagruelico con all’interno anche un divertito Sean Penn nel ruolo del divo bello e dannato, uno stralunatissimo Bradley Cooper nel ruolo della star capricciosa (che oggi fa a gara a stralunatezza con il Sebastian Stan della serie tv Pam & Tommy), un sornione Tom Waits, Maya Rudolph, John C.Reilly, Fred Gwynne, John Michael Higgins. Quello che ci viene chiesto da spettatori è di passare un po’ di tempo con i personaggi interpretati da Alana e Michael, nel loro piccolo mondo dove ogni tanto incrociano “qualcuno di famoso” un po’ come accade in Forrest Gump e dove qualche volta si innamorano o si lascino, diventano partner di affari o finiscono per sfruttarsi a vicenda, arrivano a scappare con un camion senza benzina o vengono accusati di essere serial killer. Li seguiamo in un percorso dalla adolescenza all’età adulta che ha il sapore di una lunga estate e che quando giunge alla fine, nonostante il film sia già lunghetto, ne vorremmo ancora e ancora. Magia del cinema.

Il nuovo film di Paul Thomas Anderson è una commedia sagace e divertente, calda ed accogliente, con il fascino vintage degli anni ‘70, tra eccessi e colori forti. Un film per romantici nostalgici ma non solo, pervaso di situazioni folli quanto esilaranti in grado continuamente di catturare l’attenzione e l’immaginazione. Molto bravi tutti gli interpreti e qualche volta davvero “magica”, alla Forrest Gump, l’atmosfera che si respira durante la visione. 

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lunedì 14 marzo 2022

Il male non esiste: la nostra recensione del film di Mohamed Rasoulof

 


In una società in cui vige la pena di morte, qualcuno alla fine deve assumere il ruolo del boia. Può essere fatto spingendo un pulsante, si può creare un meccanismo casuale, si può fare in modo che il peso della “colpa” non ricada più volte sulla stessa persona, ma qualcuno purtroppo alla fine, in virtù di una sentenza del tribunale e quindi “dello Stato” già presa, deve uccidere. 

C’è chi come Heshmat (Ehsan Mirhosseini ) ogni notte si immerge nel buio di un complesso sotterraneo di detenzione per togliere la vita, per poi all’alba tornare a casa, mettersi in ciabatte e canottiera davanti alla Tv e ricominciare. Magari salvare un gattino che si è incastrato tra i tubi del locale caldaia, andare a fare la spesa con la moglie, rassettare la casa della mamma anziana e poi andare a mangiare la pizza come piace a sua figlia. Per poi tornare in quel buio.

C’è chi come Razieh (Shaghayegh Shourian ) deve diventare “boia per un giorno” perché possono chiederlo come incarico durante il lungo servizio militare di due anni, solo allo scadere del quale sarà possibile avere un documento che permetta di lavorare all’estero e non tornare mai più in quel mondo. Forse però “quando tocca” si potrebbe marcare visita, passare l’incarico a qualcun altro, magari ricevere quella telefonata speciale che permetterebbe di cambiare caserma e saltare il turno. 

Sempre se si è militari, fare il boia significa tre giorni di licenza pagati, quando le licenze sono rarissime. L’unico modo quindi per uscire dalla caserma per incontrare una ragazza è per Pouya (Kaveh Ahangar) uccidere qualcuno, cosa che potrebbe magari non essere la migliore prospettiva di vita possibile, specie per una futura moglie che scopre come si è “meritato” la licenza premio. 

C’è chi non vuole diventare un boia ed è costretto a vivere in esilio per tutta la vita, troncando ogni rapporto con la sua famiglia per non far pagare a loro la propria colpa. 


Forse il “boia prescelto” da questo sistema può confortarsi nell’idea che una punizione capitale capiti solo alle “persone malvagie”, che sia un “male necessario” come uccidere una volpe che ogni notte fa strage di galline. Può pensare che la colpa non è sua ma dei giudici. Ma spesso non basta e il “fattore umano” può inceppare la macchina punitiva dello Stato. È sulla possibilità di questo “inceppo” che si struttura la pellicola di Mohamed Rasoulof, raccontando divise in capitoli le storie di quattro uomini diversi ma uguali nel loro “dovere” di servire lo Stato. Il “male non esiste” perché da spettatori non ne troviamo molto, di “male”, scandagliando nelle vite dei quattro protagonisti, raccontatici spesso con un occhio molto umano, tra il documentario e il neorealismo. Sono boia  straziatamente umani e non “diabolici” anche quando le loro storie intraprendono pindarici e spiazzanti, originali e poetici, voli nel cinema di genere, tra l’action, la favola e l’horror. 

Mohamed Rasoulof fa così: ci butta nel crudo realismo e tra le righe lavora di simboli e metafore. Ci racconta di gatti imprigionati e volpi in agguato, di fantasmi e uomini così incastrati nelle regole della burocrazia che possono essere pure loro imprigionati in un armadio insieme ai documenti. La ribellione del regista a questo stato delle cose parte musicalmente con il sussurro e arriva alla melodia del nostrano  “Bella Ciao”, forse diventato mainstream dopo l’endorsment della serie tv Casa di carta, ma che non ci aspetteremmo davvero in un film iraniano come questo. Un film che dopo un primo segmento dal taglio compassato (ma con un finale fulminante che lo riscrive alla radice) riesce a scorrere incredibilmente veloce, in modo appassionante, usando una narrativa cristallina e l’interpretazione di ottimi attori. Un film dall’aspetto visivo spesso asettico, geometrico, ma che sa sfociare “quando serve” nel simbolico quanto nel materico. Prigioni sotterranee in cui si scende all’infinito sotto il suolo, “il più lontano possibile dagli occhi”, fino a che si fanno gironi danteschi. Piccoli laghi naturali in cui non riuscire a scorgere il proprio volto umano. Paesaggi deserti e aridi in cui solo le volpi possono vivere, a fianco di industriose api operaie rinchiuse in straordinarie scatole sociali. 

Siamo dalle parti del capolavoro.

Sarebbe fantastico che venisse visto nelle scuole. L’opera di Mohamed Rasoulof riesce ad arrivare davvero al cuore. 

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domenica 13 marzo 2022

Jackass forever - la nostra recensione del film di Jeff Tremaine che celebra lo storico programma di MTV a 10 anni dall’ultima Reunion

 


Riuscirà lo stunt-man e comico Johnny Knoxville a non perdere l’elasticità del suo corpo di gomma con l’arrivo dei 50 anni, dopo l’ennesima “buffa” frattura scomposta auto-inflitta, nel tentativo (riuscito) di fare adirare un toro? Lo stunt-man Steve-O sarà ancora sexy, muscoloso e fiero, all’idea di girare nuovamente nudo e sorridente con qualcosa che gli comprime i testicoli? Chris Potius realizzerà il sogno di girare un kaiju movie in cui il mostro sarà interpretato dal suo pene, debitamente truccato da Godzilla, e dovrà con la sua sola erezione combattere contro qualche animale vero che cercherà di amputarglielo con delle chele? Dave England tornerà in un outlet di mobili per la casa per defecare in pubblico usando un sanitario in esposizione? Chi si farà la barba con le api? Chi farà la rampa umana per far volare con lo skate sopra di lui un omaccione di 300 kg? Quante volte il cameraman vomiterà? Sarà su degli scorpioni o sulla corrente elettrica di un Taser (o tutti e due) che la giovane Rachel Wolfson deciderà di infilare la sua lingua? 

Meglio non farsi troppe domande e “seguire la corrente”, davanti a questo godurioso, anarchico, nudissimo, scorretto, esilarante, doloroso e senza senso show storico di MTV che torna al cinema con uno speciale per i vecchi e nuovi fan dell’assurdo. Una brigata di stunt-man che si autodefinisce “idioti” (Jackass, per l’appunto) che si auto-infligge dolore e che ci riporta un po’ dalle parti degli spettacoli circensi più estremi, con quella voglia mista a timore di guardare “fin dove si spingeranno”. Lo scorrere degli eventi è sancito come sempre dalle prime fasi di creazione alla realizzazione di uno Stunt o una candid camera particolarmente estrema e cattiva, che deve fare i conti con i mille incidenti sul set, i ricoveri e il “tempo tecnico” per permettere agli stunt-Man di riprendersi da una scemenza all’altra. Oltre alla pazzia si respira tanto cameratismo, chili e chili di auto-ironia, ma anche un forte senso di nostalgia, l’orgoglio dei nuovi stunt-Man di entrare a fare parte di uno show e una “famiglia allargata” storica, che resiste unita da quando erano bambini.



Ma pur chiamandolo “spettacolo circense estremo”, a chi giovano questi quasi 100 minuti di uomini nudi, peni, peti esplosivi, calci nei testicoli, situazioni umilianti a base di animali di piccola o grande taglia, sanitari che esplodono, lingue elettrificate e simila?

“…e col cul fece trombetta”, dice Dante nella Divina Commedia in un celebre passo dell’Inferno, di fatto sdoganando la possibilità che di peti si possa parlare e vivere, un po’ come fece Bombolo e fa in Jackass England.

C’è un pene che sogna di mutare in trivella per perforare tavoli nel Tetsuo di Tsukamoto e sono sicuro che Steve-O in una puntata abbia provato che è possibile. Ci sono (finti) cani di piccola taglia che attaccano ai testicoli in Gozu di Miike e Potius l’ha resa una cosa vera. C’è tutta una epica del dolore nell’autoinfliggersi sofferenze spingendosi oltre il limite nel Crash di Cronenberg (che rileggeva uno dei “brividi” che amava James Dean) e che per me è condiviso dal Knoxville che si fa lanciare in aria da un cannone con le ali di Icaro. Perfino James Bond in Quantum of Solace ha un giochino/tortura applicato ai testicoli nelle prime scene e ditemi se non è roba da Jackass. E poi c’è la Troma di Lloyd Kaufman, dove vomiti, peti, nudi maschili e femminili ed eccessi sono all’ordine del giorno in ogni produzione, veri marchi di fabbrica nel nome di una libertà espressiva a 360 gradi. 

Jackass, che lo vogliamo o meno, scatena fantasie millenarie, di cui si sono nutriti letteratura e cinema. C'è del Boccaccio in Steve-O.

Ok, sento che mi state dicendo: “Ma questa roba ha senso? Può cambiare il mondo? Non si dovrebbe in questo periodo parlare di attualità e rattristarsi per il triste destino che incombe su di noi? Cioè: c’è la guerra alle nostre porte e io vado a vedere Jackass? Ma perché??”



Lo comprendo, perché è un sentimento diffuso anche al di fuori delle situazioni di pericolo per l’umanità, il ritenere che i calci nelle palle e le scoregge esplosive “non salvino nessuno”. Più i problemi sembrano insormontabili più ci chiudiamo nella nostra testa, cercando di risolverli, cercando di superare uno stato di “impotenza”. Ma è proprio quando pensiamo troppo che dobbiamo “staccare”, pensare alle cose leggere, ricordarci di fare una sana o malsana risata sui tizi di Jackass che si schiacciano le palle in modi sempre più creativi. È giusto pensare e riflettere sul futuro, ma come a scuola è giusto che ci sia un intervallo. Jackass è quell’intervallo, dove sfidarsi tra amici a vedere chi “piscia più lontano”. È anche l’intervallo il momento in cui andiamo in bagno, dopo le ore di lezione, a scoprire tutti i fluidi corporei che possiamo espellere senza vergognarci, facendo la pipì in piedi, magari con una mano sola o pure senza mani, da professionisti. “Semel in anno licet insanire”, diceva un tizio. Magari per un centinaio di minuti si può spegnere il cervello, in modo totale, proprio grazie a Jackass, sottraendoci alle mille istanze della “scuola della vita”. Oppure constatando anche che l’intervallo è parte integrante della scuola della vita, al pari di matematica e filosofia: perché anche se cerchiamo sempre di liberarcene, noi abbiamo sempre al nostro interno rutti e scoregge che vogliono manifestarsi. Come siamo destinati prima o poi a prendere calci nelle palle. Saperlo è un insegnamento importante. Il grande Tafazzi approverebbe. 

Ma sono andato troppo in alto.

Se non amate uomini nudi, scoregge, animali attaccati ad organi genitali, cannoni spara-uomini, scherzi sadici, enfasi sugli escrementi e il vomito ecc… questa roba non fa per voi. Se la prendete con la giusta filosofia, come un ricco momento di intervallo carico di ironia e autoironia, Jackass Forever è magari il giusto scaccia-pensieri. In un momento storico in cui scacciare i pensieri per un centinaio di minuti non è per nulla facile. 

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sabato 12 marzo 2022

Cyrano: la nostra recensione dell’adattamento cinematografico del musical sul personaggio di Edmond Rostand con protagonista Peter Dinklage

  


È tagliente come una lama, la lingua dell’orgoglioso Cyrano (Peter Dinklage). È un uomo che da sempre è stato sottovalutato, trovato “mancante” dal punto di vista estetico, “brutto”. Ma al contempo è un uomo temuto, perché Cyrano in fondo ha risposto sempre, con la lingua e con la spada se necessario, ribaltando ogni offesa e ogni colpo nel modo più netto e per lui appagante, sotto i riflettori di un pubblico. Non è quindi un caso che un comandante militare come lui prediliga come campo di battaglia il teatro, dove sovente riempie di sberleffi dalla platea gli attori meno capaci, ricevendo applausi che riscaldano il suo ego. Tra gli applausi c’è sempre quello di Roxanne (Haley Bennett), una donna bellissima, ingenua, intelligente, giovanissima quanto già destinata in sposa al nobile De Guiche (Ben Mendelsohn), uomo potente e spietato. Cyrano la ama da sempre, da quando lei era bambina, ma il suo aspetto, il suo “sentirsi brutto”, gli hanno sempre impedito di dichiararsi, temendo il rifiuto. Sembra invece ben disposto a dichiararsi a Roxanne il giovane e bellissimo cadetto Christian (Kelvin Harrison Jr), arrivato da poco in città e in grado con uno sguardo di conquistarla. Ma Christian non è bravo con le parole e decide di farsi aiutare da Cyrano per scriverle delle lettere d’amore. In un’epoca in cui è più facile scriversi lettere che incontrarsi di persona, questa circostanza assume presto un certo peso. La donna inizierà così ad amare tanto l’aspetto di Christian quanto soprattutto le intense lettere d’amore di Cyrano, che legge e rilegge in ogni momento. Questa situazione porterà presto entrambi gli uomini a sentirsi rivali quanto ancora più innamorati di lei. Saranno il destino e la rabbia di un rifiutato De Guiche a decidere le sorti del loro amore. Ma infine sarà l’ego, il principale nemico di Cyrano.

 


C’è un uomo ideale impossibile, bellissimo e coltissimo, nei sogni del “principe azzurro” di ogni donna quanto nell’ego di ogni uomo che aspira ad una perfezione impossibile. Il Cyrano ci parla di questo: del sentirsi uomini “solo a metà”, davanti alle aspettative degli altri e di se stessi, incapaci per orgoglio di venire a compromessi che invece sarebbero bene accolti, auspicati e compresi. In una frase-chiave dell’opera si dice che “Cyrano amò il suo orgoglio più che la sua amata” e questo ne fa una figura ancora attualissima al giorno d’oggi, dove la competitività sembra ancora essere un valore importante nella società. Ma Cyrano è anche un personaggio d’azione e un giullare, avventuroso quanto divertente, con la sua storia che comprende tanto i duelli con la spada quanto sagaci scontri di invettive. Un uomo capace di slanci eroici nel pieno della battaglia quanto di distinguersi nelle serate di bevute in libertà con gli amici. Quando nel 1987 Steve Martin vestì i panni di Cyrano in una interpretazione moderna, ambientata negli anni ‘80, nel Roxanne di Fred Schepisi, ne uscì un divertente film comico-romantico, dove le invettive diventavano i momenti più riusciti. Quando il personaggio fu interpretato da Gerard Depardieu, nel film del 1990 di Jean-Paul Rappeneau, c’erano scene d’azione degne dei tre moschettieri. Il Cyrano che esce nelle sale nel 2022, con protagonista Peter Dinklage è l’adattamento per lo schermo di un musical di Erica Schmidt e ci porta quindi in un film ancora diverso, ancora nuovo. È sorprendente come la voce bassa di Dinklage riesca a ricordarci, anche grazie alla “magia del musical”, delle sonorità alla Leonard Cohen. Ma anche Ben Mendelshon che interpreta il “villain”, un personaggio funzionale quanto prevedibile, ci regala una performance ispirata, quasi alla Tom Waits. Haily Bennett ha un’ugola carica di dolcezza che fa il paio con il suo aspetto quasi etereo, fanciullesco. Kelvin Harrison jr ha una corporatura possente quanto una voce giovane e squillante, dall’aria mite. Le canzoni che per lo più rappresentano lo svolgimento della storia d’amore (e occupano un buon 80% della pellicola), diventano spesso duetti, hanno un'impostazione molto armoniosa e ritmata. Le scene di battaglia e addestramento con la spada diventano balletti “disarmati” (le spade scompaiono) di uomini intenti nell’affrontare con la danza la difficile armonia tra uomo e natura. Ci sono scene d’azione e Dinklage sceglie, anche per via del fisco, una via per interpretarle del tutto opposta a Depardieu, quanto stilisticamente nuova, interessante. E poi ci sono naturalmente le “invettive”, i duelli di parole in cui Cyrano eccelle, anche loro musicati. Duelli musicali che con possono avere la forma dei “duetti” e sono per questo con un registro diverso: folgoranti, rapidi, quasi rap. La memoria va subito agli “shots” (secondo uno slang interessante che mette in parallelo le arringhe ai colpi di pistola) del musical Hamilton e il risultato è molto soddisfacente, galvanizzante. Poi i toni dell’opera anche qui scendono sul territorio del romantico (con l’eccezione della struggente canzone corale nelle scene della guerra). Se è possibile per qualcuno imputarlo come un “difetto”, il musical diretto da Joseph Wright sceglie di percorrere con più convinzione le vicende amorose, mettendo progressivamente da parte molto dell’umorismo e delle parti più concitate dell’opera originale. Ma è una scelta in linea con il musical rappresentato a teatro, opera molto apprezzata ed amata.



Dinklage ha una straordinaria e dirompente forza scenica, proprio a partire da una voce “enorme”, potente. Convincente anche sul piano delle scene d’azione e straordinario nell’interpretazione, dona al suo personaggio una straordinaria passione, ironia e drammaticità. Haley Bennett dà corpo ad una Roxanne moderna, una Cenerentola che non vuole un principe e ha forse i piedi troppo grossi per entrare nelle scarpette di cristallo (come suggerisce una scena iniziale). Una donna-bambina all’apparenza, coperta da vestiti virginali e capelli vaporosi, ma anche una donna-adulta, che sa andare oltre le apparenze e i canoni. Roxanne è il vero personaggio “moderno” e maturo della narrazione (e per questo anche il meno ascoltato) e la Bennett sa incarnarlo al meglio.

Cyrano è un musical che mette al centro i sentimenti e la difficoltà di esprimerli. La storia è narrata in modo lineare e le canzoni sono in genere romantiche e piene di duetti. C’è una parte più “speziata” nella messa in scena, a base di duelli con la spada e duelli musicati simili a battaglie Rap, che rende il film ancora più intrigante. Molto bravi gli interpreti e il comparto tecnico, se l’opera avesse avuto un po’ di malizia in più nella “parte speziata”, accrescendola, il film sarebbe forse risultato più avvincente e memorabile. 

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venerdì 11 marzo 2022

Parigi - Tutto in una notte (Le Fracture): la nostra recensione del film che “porta in ospedale” la Francia dei giorni nostri.

  


Qualcosa si è rotto, nel rapporto di coppia tra una fumettista (Valeria Bruni Tedeschi) e la sua agente (Marina Fois). Qualcosa si è rotto anche nella voglia di un camionista (Pio Marmai) di confrontarsi con la classe politica, prendendo apposta un giorno di ferie per partecipare ad una manifestazione. Sono ferite interiori ma anche fisiche, quelle che portano la fumettista e il camionista a un metro di distanza, nel reparto di ortopedia di un ospedale di provincia, sotto le brusche ma amorevoli cure della infermiera Kim (Aissatou Diallo Sagna), durante una notte in cui infuria a Parigi una lotta senza quartiere tra polizia e gilet gialli. L’ospedale è in pieno overbooking, con le barelle stipate nei corridoi, la gente che urla, pazienti di psichiatria agitati che aspettano in un angolo le pillole per stare tranquilli e la polizia alle porte, a caccia dei manifestanti che si nascondono nei reparti. Le infermiere cercano per lo meno di essere “efficaci”, se in tutto quel marasma non riescono ad essere almeno “gentili”. La struttura è al collasso e sembra che pure i muri fatiscenti del sottotetto non ce la facciano più e da un minuto all’altro siano sul punto di crollare, sotterrando tutti. Bisognerà avere i nervi d’acciaio per sopravvivere alla notte, ma i francesi sono ben addestrati all’arte dell’umorismo e seguono fedelmente la massima secondo cui ridere è il modo più elegante per affrontare la disperazione.

 


È successo per davvero, alla regista Catherine Corsini e alla sua compagna produttrice Elisabeth Perez, di trovarsi per caso una notte in un ospedale di periferia per una causa banale, ma che le ha immerse in un attimo tra la gente “più povera e incazzata con la politica”, in un ventre di Parigi non dissimile dagli scenari raccontati da Hugo e Zola. Scenari ben rievocati in questo Le fracture dalle scenografie claustrofobiche di Toma Baqueni, dalla fotografia dai colori sfuocati e soffocanti di Jeanne Lapoirie e dalla colonna sonora “urbana” del pop rock di ROB. In un’intervista legata alla produzione del film, regista e produttrice raccontano di come ritrovarsi in quell’ospedale allo sfascio abbia offerto loro un’ispirazione folgorante per parlare della Francia del 2022: ripensare al loro passato di attiviste dei diritti sociali e della parità di genere e immergersi con i problemi che smuovono oggi le piazze parigine, nello specifico piazze occupate dai nuovi movimenti dei gilet gialli della De Pen. Le fracture parla così di ortopedia e ossa rotte ma anche di come una Parigi spezzata e divisa politicamente tra “troppo poveri e troppo borghesi” cerchi di riagganciarsi insieme, riscoprendosi un corpo unico di persone unite sotto la stessa bandiera in un ospedale di provincia, sotto le amorevoli ma stressate mani delle infermiere di un pronto soccorso. Una sanità pubblica gratuita francese, che nel film qualcuno dei nuovi manifestanti dubita essere davvero gratuita per tutti, che assurge quasi a simbolico ultimo baluardo dell’unità nazionale. La vicinanza nel dolore, dove ricchi e poveri sono a fianco nella stessa corsia, “unisce e ricuce” emotivamente le persone, crea tra loro una spontanea empatia. La regista e la produttrice per rendere il loro ospedale un luogo ancora più realistico hanno deciso di reclutare nella pellicola come attori, dei medici e infermieri veri, che tutti i giorni vivono a contatto con la periferia, in strutture per lo più fatiscenti e inadeguate. Così a sorpresa, come nel neorealismo, è arrivata sul set a interpretare il personaggio di Kim una infermiera autentica,  Aissatou Diallo Sagna, dando prova di grande spontaneità, umanità e soprattutto di una energica forza interiore. Una intensità e compostezza che testimoniano il grande sangue freddo e spirito di sacrificio necessario a queste persone per intraprendere una professione tanto bella quanto complicata. Se l’infermiera svolge un imprescindibile ruolo di cura e “pacificazione” tra i degenti assiepati nelle corsie, scatenano tra loro autentiche scintille i personaggi interpretati dai bravi e affiatati Valeria Bruni Tedeschi e Pio Marmai. La prima dà voce alla fumettista Raf, un personaggio pieno di curiosità e passione, dalla disarmante dolcezza e fragilità. Una eterna “sognatrice-bambina” che tutto osserva e disegna, petulante quanto piena di slanci affettuosi, buffa quanto a volte insostenibile nei lamenti, spaventata dagli altri quanto desiderosa di aiutarli. Marmai dà corpo a Yann, un uomo forte, arrabbiato e rumoroso, che continuamente fugge su una sedia a rotelle per l’ospedale, nel timore che la polizia lo trovi da un momento all’altro e lo incarceri, per il suo ruolo attivo in una manifestazione nei toni andata “troppo oltre”. Yann è agitato e rissoso, ma se messo nella condizione di parlare con calma rivela una forte etica, spirito di sacrificio, perfino dolcezza. Apparentemente agli antipodi, in una notte da inferno piena di fumogeni, urla e muri che cadono, Raf e Yann per uno scherzo del destino si incontrano, si scontrano e infine “dialogano”, scoprendosi persone più simili di quello che immaginino. È qui che il film diventa davvero interessante, “importante”, cristallino quanto onesto sul piano del messaggio politico quanto sociale. La Corsini, dopo pellicole molto belle con al centro donne forti del passato, riesce a fare con questa pellicola qualcosa che in Italia farebbe tremare le mani di molti registi al solo pensiero: parlare di politica attuale facendo nomi e cognomi, dando voce alle passioni ma anche ai dubbi, sottolineando le forze quando le crepe di un paese complesso come la Francia. Mi auguro che presto anche in Italia “torni in vita” un cinema di denuncia di questo tipo.



Ma Le Fracture è anche un film pieno di ritmo, ironia e autoironia, sullo stile del miglior cinema Francese. L’ospedale è un luogo tetro ma anche folle, carico di gente che vive nella quotidianità dell’assurdo (il fatto di fare turni da 11 ore consecutive per mancanza di personale rende tutto assurdo di suo) e raccontandosi l’assurdità quotidiana dei personaggi che incontrano. 

Il nuovo film di Catherine Corsini viaggia veloce, è pieno di spirito e sa calarci con gentilezza e onestà nel piccolo inferno in terra di un ospedale di provincia, insieme a delle persone molto simpatiche quanto “autentiche”, che sanno andare al di là dei preconcetti. Decisamene un modo fresco e accattivante per parlare e riflettere sull’attualità, che speriamo sia seguito da altre pellicole. 

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lunedì 7 marzo 2022

Halloween Kills - la nostra recensione per l’uscita in home video!

 


È ancora la notte di Halloween del 2018, siamo ancora nella cittadina di Haddonfield, New Jersey, contea di Camden. Sono passati letteralmente solo due minuti dall’epilogo del precedente capitolo della saga, saga “resuscitata” dal regista David Gordon Green e dai ragazzacci della cerchia di Seth Rogen e James Franco. Vendetta è fatta! Dopo i fatti di sangue indicibili di quell’Halloween del 1978 e dopo anni e anni di preparazione “militare”, il piano definitivo per eliminare “l’ombra della strega” si è compiuto. La casa brucia e le tre agguerritissime “final girls” della famiglia Strode hanno vinto contro il terribile Michael Mayers (James Jude Courtney), lasciandolo intrappolato nella gabbia metallica allestita nel seminterrato in cui alla fine è caduto, dove il mostro è destinato a finire in cenere. Laurie (Jamie Lee Curtis) è ferita gravemente, ma insieme alla figlia Karen (Judy Greer) e alla nipote Allyson (Andi Matichak) si trova già su un’ambulanza, diretta verso l’ospedale locale, mentre da lontano si sente l’inconfondibile suono di una sirena. È la sirena dei vigili del fuoco ed è diretta verso la casa-trappola. Laurie urla disperata, perché qualcuno potrebbe “inavvertitamente” salvare Michael e far ripartire l’incubo. Ma la nostra eroina non può fare niente e sviene, perde i sensi e presto si trova nella sala operatoria con le budella di fuori, mentre Michael riemerge dalle fiamme e inizia a fare a pezzi prima i vigili del fuoco e poi, con metodico incedere, quasi tutta la popolazione locale. Michael è “ovunque”, le notizie sui suoi avvistamenti rimbalzano e tutta la cittadinanza, specie chi già nel 1978 era stato “vittima collaterale” (i pochi sopravvissuti) della sua violenza, lo cerca per fargliela pagare. È il caos più assoluto. C’è chi prova ad affrontarlo impreparato e rimane goffamente ucciso. C’è chi prova a combatterlo seriamente, crivellandolo di colpi e bastonate, ma ugualmente senza esito, vedendoselo sempre rialzare. Michael sembra immortale, uccide e scompare, fino a che a certo punto è tutta Haddonfield a dargli la caccia, furiosa, per le strade principali, tra gente che viene schiacciata dalla folla, forze dell’ordine ridotte all’impotenza e una lista di vittime e danni alla città in costante incremento. Quando finirà la mattanza?



Siamo al secondo film del rilancio targato Blumhouse della seria carpenteriana  Halloween, ad opera di David Gordon Green, con  già in produzione e previsto per la notte di Halloween del 2022 il capitolo finale, per ora con il titolo provvisorio di Halloween ends. Nonostante i molti seguiti, soft reboot (Halloween 20 e seguito) e reboot (Halloween di Rob Zombie e seguito) a cui è andata incontro negli anni la saga creata da John Carpenter, i film di David Gordon Green, considerano come unico predecessore narrativo solo il primo film, quello del 1978  (secondo la nuova moda/prospettiva dei “re-quel” esposta anche nell’ultimo Scream). Il passaggio-chiave del secondo capitolo della “saga classica”, la rivelazione che il mostro Michael è il fratello della final girl Laurie, non c’è più, ma in Halloween Kills il capostipite viene più volte non solo citato, ma anche “integrato” nella trama attraverso dei flashback realizzati ex novo. Come conseguenza di questa soluzione narrativa è un’emozione rivedere in nuove scene il dottor Loomis, interpretato dallo scomparso e mai dimenticato Donald Pleasence. Il nemico mortale di Michael, seppur in digitale, “riprendere vita” e con lui tutti i vecchi interpreti, in uno straordinario lavoro di cesello e ampliamento narrativo dei fatti di quella “notte del 1978”, con in più alcuni degli attori coinvolti nella pellicola originale che tornano, seppur invecchiati, protagonisti degli eventi di questa “notte del 2018”. Halloween si fa quindi ancora più saga corale, quasi dalle parti di alcuni romanzi gotico-rurali di Stephen King. Il regista David Gordon Green aveva già dimostrato con il bellissimo Joe la sua capacità di gestire “piccoli mondi kinghiani di provincia” e qui è ancora più bravo, dando voce a un gran numero di personaggi, ognuno con il suo giusto spazio e il giusto arco narrativo. Il trio delle protagoniste della precedente pellicola “sta un po’ in panchina”, in attesa di scatenarsi immaginiamo nel prossimo film. Se questo aspetto magari farà storcere il naso ai milioni di fan di Jamie Lee, questi si potranno consolare con lo spettacolo dell’intera cittadina di Haddonfield che imbraccia forconi, fucili e motoseghe e muove guerra unita contro il mostro. Un mostro che più il tempo e la mattanza proseguono più diventa però sempre più grosso, implacabile, inarrestabile. Ognuno vuole “la sua vendetta”, ma nessuno ha davvero la preparazione mentale e militare delle tre eroine del film precedente. Così c’è chi appena vede il sinistro Michael inciampa e si spara da solo. C’è chi prova a usare i “mezzi giusti” ma finisce ugualmente male nello scontro diretto. C’è chi si immobilizza dalla paura. C’è chi inizia a inseguire per strada uno che “sembra Michael” e la cosa divertente (ma resa intelligentemente tragica da Gordon Green) è che molti non sanno nemmeno “come sia fatto Michael “e iniziano a cacciare col forcone il primo tizio dall’aria losca che incrociano a caso. Poi, in un delirio sempre più vertiginoso, si arriva all’epica. Con tutto il paesino di Haddonfied, dai giovani ai vecchietti, che come un blob kamikaze incede in massa contro il mostro a testa bassa, incurante delle vittime collaterali, accerchiandolo senza dargli una via d’uscita e vomitandogli addosso tutto il piombo e furore del New Jersey. Ma Michael sta fermo, cade e si rialza, va al contrattacco e inizia a falciare chiunque, uno contro mille, spazzandoli per aria a mucchi di cinque persone, come Sauron nel prologo del Signore degli Anelli


Il “bodycount”, ossia la “serie di uccisioni”, che diviene quasi “componente narrativa” in uno slasher-movie (nella classica “ritualità nella morte delle vittime” tanto studiata in meta-film come Scream e Cabin in The Wood), è in Halloween Kills completamente “rotto”. Per chi ama questo aspetto “sanguigno” degli horrror (ma anche dei film di Rambo) la pellicola di David Gordon Green si dimostra davvero generosa, creativa, variamente grandguignolesca, imperdibile. Ma “c’è di più” oltre ai mari di emoglobina che intasano i tombini delle strade di Haddonfield di Halloween Kills, qualcosa di più “profondo e potente”. Negli slasher in genere è il mostro “a cacciare” le sue vittime, fino a che la “più pura”, la “final girl”, riesce a sconfiggerlo. Qui nel film di Green manca la “purezza della final girl”, con la conseguenza che le ex- vittime “che cercano di farsi carnefici” provano a rilanciare violenza con violenza, senza poter avere la stessa “testa” di un killer, soprattutto nella gestione di quella terribile rabbia (che è del killer, non loro) che le ha invase. È umano che agiscano di impulso, è umano che piangano mentre brandiscono un bastone, è umano che scivolino, si ostacolino a vicenda, si calpestino e si blocchino inorridite o facciano qualcosa di molto stupido, per poi tornare a piangersi addosso. Secondo quello che ci suggerisce uno snodo narrativo specifico, non si può vincere il male con la rabbia, se non riuscendo a contenere questa frenesia autodistruttiva. Il mostro si nutre di rabbia e non si può così distruggere, ma forse si può “sgonfiare”, scorgendo “l’uomo dietro la maschera del mostro”, delegittimandolo come catalizzatore di rabbia. Avendo pietà di lui. È una suggestione interessante, che ci rimanda al tema della necessità di una “società più empatica” e gioca un po’ sullo stesso “campo da gioco” dello Stephen King di It quanto di Cose Preziose. È qualcosa che potrebbe avere senso anche nel modo di affrontare questi terribili giorni dove la guerra è alle nostre porte. David Gordon Green ci invita a guardare (come “gruppo” e non come “singoli”, perché è in questo che trova senso il passo in avanti corale della pellicola) oltre l’immagine che abbiamo del mostro, per sconfiggerlo con l’unica arma di cui lui non potrà mai disporre: la pietà. Una pietà che deriva dal vedere il mostro come parte lui stesso della società, da portare davanti alla legge per i suoi crimini e non da ammazzare in strada come un cane. In alternativa (e nella pellicola sembra abbastanza chiaro), il mostro diventa quasi un dio alimentato dalla paura che scaturisce anche solo dal nominarlo. Ma ci vuole tanta fatica a scorgere il volto umano dietro al mostro e la scena più emblematica (e bella) arriva quando Michael si trova senza maschera e la folla si ferma e aspetta che la reindossi di nuovo, prima di continuare a colpirlo e sparargli. È una scena molto strana, c’è quasi una pietosa ipocrisia nel concedere al mostro di rimpossessarsi del suo “feticcio”, quando invece risulta più comodo e pratico “colpire la maschera”, per non preoccuparsi dell’uomo che ci sta sotto. 


Halloween Kills mi è piaciuto, l’ho trovato un film divertente, movimentato e stra-pieno di azione e sangue finto. Le intuizioni narrative lo trasformano quasi in un originale disaster-movie ed è una via decisamente nuova, inconsueta per uno slasher. Il cast è molto vario e molto stimolanti e differenti le “situazioni horror” che vengono a crearsi, spesso scaturite da un modo intelligente di rileggere il materiale già presente in tutta la saga filmica di Halloween (dai registri narrativi più seriosi a quelli più ironici, quasi in modo antologico). Il fatto di non avere un personaggio “principale” nella vicenda l’ho trovato un approccio interessante, funzionale al capitolo intermedio di questa saga, ma il mio è in questo un giudizio personale. 

Qualcuno non ha gradito i ri-maneggiamenti e integrazioni con il film di Carpenter del '78 e la lesa maestà per i fan duri e puri ci può stare. Anche perché Gordon Green va più dalle parti di King che di Carpenter e questo può piacere come non piacere. 

Chi non ha gradito il film precedente, in genere non ha apprezzato neanche questo e già immagino non gli piacerà il prossimo. 

Io mi sento con la carica giusta per attendere l’epilogo della vicenda nel 2022. Allora credo che avrò una visione più completa della vicenda e potrò apprezzare maggiormente la bontà l’insieme. Per ora la giostra mi ha abbastanza soddisfatto e soprattutto mi ha divertito un casino. 

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venerdì 4 marzo 2022

The Batman : la nostra recensione del film di Matt Reeves con le belle musiche di Michael Giacchino e poco altro di bello

 

È notte a Gotham City. Piove e tutto è buio o illuminato di rosso, serioso e poco divertente come nella run di Daredevil scritta da Brian Michael Bendis e disegnata da Alex Maleev. Per le strade si vive un lungo halloween di paura e violenza, vicino parente della bomba sociale deflagrata nel finale di The Joker di Tod Phillips (anche se il tempo e contesto sono diversi). La polizia latita, la gente comune fugge, bande armate pitturate come in The Purge impazzano, devastano e si filmano per le storie di Instagram. Poi il cielo si illumina di una seconda luna e tutti i “malvagi” tremano, abbandonano le armi, il bottino e le vittime e si disperdono confusamente. Perché quello che appare, sottolineato da una marcia solenne e funerea composta da Michael Giacchino, è l’occhio di Batman (Robert Pattinson) che tutto osserva e giudica: il Bat-segnale. Si può vedere per chilometri e chilometri ma è segno che il vigilante di Gotham può essere a pochi metri da chiunque e arrivare implacabile, coperto dalle ombre, pronto a colpire, protetto dai proiettili dalla sua armatura nero pece. Un paio di scaramucce e il supereroe da molti ribattezzato onorificamente il “detective” appare sulla scena di un crimine, su espresso invito del commissario Gordon (Jeffrey Wright). È stato ucciso un pezzo grosso della politica a pochi giorni dalle elezioni, come successo anni addietro a Thomas Wayne (Luke Roberts), e per questo il vigilante di Gotham si sente particolarmente coinvolto, mentre scruta ogni dettaglio della stanza con le sue lenti a contatto hi-tech e riceve da Gordon una busta misteriosa con all’interno un indovinello, a quando pare espressamente indirizzata al vigilante dal presunto assassino. È un nemico? Un ammiratore? Qualcuno che conosce la vera identità dell’uomo pipistrello? Di sicuro, è il messaggio di qualcuno che vuole giocare con Batman, coinvolgendolo in una caccia al tesoro mortale che lo porterà a incrociare la strada con il faccendiere Oswald Cobblepott (Colin Farrell), la ladra Selina Kyle (Zoe Kravitz) e il padrino di Gotham Carmine Falcone (John Turturro). Sebbene ancora giovane e inesperto, Batman potrà contare sull’aiuto del suo fido maggiordomo, nonché  ex soldato delle forze speciali, Alfred (Andy Serkis).


Matt Reeves, regista di Cloverfield, del remake americano di Lasciami Entrare e del secondo e terzo film dell’ultima saga del Pianeta delle scimmie, scrive e dirige questo “The Batman”, presentato come primo tassello di una nuova trilogia cinematografica volta a rilanciare e rinnovare il mito di uno dei più celebri e amati supereroi della DC Comics. Un film dedicato espressamente e unicamente a Batman mancava nelle sale dal 2012 (anno di Il cavaliere oscuro - il ritorno per la regia di Christopher Nolan e con interprete Christian Bale), ma il personaggio creato da Bob Kane e Bill Finger in seguito è apparso comunque più volte, impersonato da Ben Affleck, in molte pellicole legate all’universo DC (da Batman v Superman del 2016, ma si dice sarà presente anche nel nuovo film di Flash previsto in uscita proprio quest’anno). Si era parlato inizialmente di un The Batman scritto, diretto e interpretato dallo stesso Affleck, peraltro reduce all’epoca della regia dello stupendo Argo, ma quella produzione ha subito imprevisti di ogni tipo, l’avvicendamento di Matt Reeves alla regia e infine il tutto è stato dirottato su questo progetto, di fatto del tutto autonomo e slegato al DC Universe quanto il Joker di Todd Phillips. Joker ci presentava una società allo sfascio per via della corruzione e di un eccessivo divario tra ricchi e poveri, pronta ad accogliere come suo simbolo un vendicatore anarchico e autodistruttivo. The Batman ci presenta una società già sfasciata e corrotta dalla quale forse può rialzarsi, piano piano, un eroe positivo. Forse ancora troppo inesperto, ma con delle potenzialità, in un mondo poco super-eroico e anzi piuttosto realistico e tristanzuolo. Se volete vedere gente che vola e che si mena con alieni robotici, questo The Batman non è fin dall’inizio il vostro film, aspettate piuttosto Black Adam con Dwayne Johnson. Qui un approccio più “terra terra” ci sta ed è anzi impostato in modo carino. Questo The Batman è un eroe spettinato e spelacchiato che per avere la bat-caverna sub-affitta una stazione abbandonata della metro, che ama viaggiare su una bat-mobile zarra che sembra più una Dom Toretto-mobile e che soprattutto, come capita a molti giovani che stanno imparando ad essere adulti (e quindi non a quel tipo di Batman descritto da Frank Miller più volte con l’aggettivo unico di “smart”), “fa le cazzate”. Nelle zuffe prende un sacco di botte affidandosi troppo all’armatura. Durante le indagini dimentica di avvicinare una testimone-chiave preferendo seguire una sventola in latex (Zoe Kravitz in latex è tanta roba). È pronto a credere alle parole di un criminale appena conosciuto. È un bat-ragazzino ed è tanto, tanto arrabbiato con il mondo. Non si presenta come “io sono Batman”, ma come “io sono vendetta” (come segno di una sana adolescenza benedetta da qualche buona lettura di Alan Moore). Il Batman dì Affleck era grosso, incattivito dalla vecchiaia, sarcastico e dalla mano pesante. Il Batman di Pattison è alto ma gracilino, con le idee ancora confuse su cosa vuole fare da grande, introverso e più intento ad usare le mani per aggrapparsi a qualcosa (spesso per non cadere da due o tre piani) più che per menare. Quando prova a volare fa quasi tenerezza, con quella tuta alare prese da Decathlon. Pattinson va bene, perché non esiste un “solo” Batman e un solo modo di interpretarlo. C’è stato il Batman dilaniato dalla ricerca della giustizia di Bale. Il Batman nichilista di Michael Keaton che faceva saltare in aria i pagliacci, il Batman narcisista in analisi di Val Kilmer (con per psicologa una sexy Nicole Kidman!!), il Batman paterno di Adam West e George Clooney. Personalmente ritengo che il migliore di tutti i Batman sia in realtà un fake-Batman, ossia il Big Daddy di Nicolas Cage, dal film/fumetto Kick Ass, con al seguito la sua piccola e agguerritissima Hit-Girl (Cloe Grace Moretz, la migliore fake-Robin/Nightwing di sempre). Ma Pattinson è in fondo un buon “giovane Batman” alla fine, sulla linea del giovane Batman di David Mazouz della serie tv Gotham e anche lui in qualche modo legato positivamente “nel percorso di crescita” da una Cat-Woman, che in Gotham era Camren Bicondova mentre in The Batman è Zoe Kravitz. Come nella serie Gotham diventano centrali nella narrazione il losco club gestito dal vanitoso Pinguino, il sottobosco criminale dei boss Maroni e Falcone, il piccolo mondo dietro al distretto di polizia, la figura paranoide a tinte fosche dell’enigmista. Geniale l’idea di fare dell’enigmista quasi (censura permettendo) un epigono di Saw-l’enigmista di James Wan, o del Simon Says di Die Hard 3, dando vita a sfide per l'eroe in cui la stessa urbanistica di Gotham un personaggio a sé. È un film lungo sulle tre ore tonde The Batman e di sicuro si prende tutto il tempo che vuole per costruire un mondo complesso e articolato. Ed eccoci al nodo dolente, che va al di là delle ottime intenzioni del soggetto di base e di tutta la lussuosa cornice del progetto, andando ad evocare idealmente in qualche modo una delle celebri famiglie criminali di Ghotam: Maroni. Perché vedere questo The Batman ti fa venire “due maroni” grossi come palloni aerostatici. Bella la fotografia di Greig Fraser, con quelle cromie tra il bianco, il nero e il rosso che tanto mi ricordavano il Daredevil di Maleev, ma tre ore tutte ambientare di notte tra il nero, il rosso e il bianco, sono davvero tante. Non si avverte una “sana” claustrofobia stile Blair Witch di Wingard, quanto una mancanza di altre idee visive. Va bene la “luce”, che fa largo idealmente al buio e al “sangue”, in una scena che ricorda il Godzilla di Edwards: ma serviva “qualcosa di più” dell’idea di “infinita notte al neon” per lo più mutuata dal non indimenticabile Daredevil con Ben Affleck. Interessanti le coreografie dei combattimenti, per lo più ruvidi e confusi, ma tre ore di combattimenti al buio ruvidi e confusi e sotto la pioggia sono troppi, così come non è possibile appassionarsi a degli inseguimenti in auto, con la suddetta pioggia notturna battente e virata di rosso protagonista assoluta, dove abbiamo una visibilità dell’azione pari a un costante muro di nebbia. A questo aggiungiamo un incedere narrativo pachidermico, che spesso si incastra su se stesso nella “caccia alla talpa” peggio sviluppata di sempre, con tanto di enigmi e giochi di parole tradotti abbastanza malamente in italiano, e vediamo che siamo ben lontani da un potenziale film auspicato in cui c’è Batman che incontra Saw - l’enigmista, che incontra Die Hard 3. Ma anche fregandocene delle aspettative (che in fondo è poca cosa) e sposando in pieno questa idea di Batman fieramente anti-spettacolare, buio, triste, adolescenziale, ruvido, tutto piovoso e rosso, The Batman è noioso. Mortalmente noioso. Con l’ultima ora che quando arriva (cioè quando sembra che hai già passato mezza giornata al cinema) sembra dirti: “Guarda che durerò ancora parecchio, fidati!! E guarda che sarò fino alla fine un film antispettacolare, buio, piovoso, azione confusa, inseguimenti con la nebbia, con luci rosse, colonna sonora pomposa e ritmo mooooooolto riflessivo. Perché sono un film coerente fino alla fine, io!!”. 


The Batman è “bello, ma non balla”, per parafrasare una frase celebre. Il film di Reeves non riesce drammaticamente  a uscire dalle suggestioni espresse nei due minuti del suo trailer. La trama gira spesso su se stessa in modo macchinoso, l’azione risulta poco chiara per evidenti (e controverse) scelte di regia, la durata risulta abbastanza poderosa (cosa che in una visione casalinga può essere magari aggirata/spuntata da una fruizione “a puntate”). Il soggetto di un “Batman realistico e ruvido” nonostante tutto rimane molto interessante, come la scelta del cast e delle ambientazioni. Un soggetto così interessante, unito a un attore protagonista che di anno in anno è sempre più bravo, potrebbe far chiudere un occhio o due sulle magagne del film di Reeves, magari nella prospettiva che nei seguiti si aggiusti il tiro. Allo stato attuale, la visione di The Batman risulta piuttosto impegnativa, non esattamente appagante e sinceramente noiosetta, ma se siete dei super super super fan di Pattinson o di Batman magari passerete sopra a queste magagne. 

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