In una società in cui vige la pena di
morte, qualcuno alla fine deve assumere il ruolo del boia. Può essere fatto
spingendo un pulsante, si può creare un meccanismo casuale, si può fare in modo
che il peso della “colpa” non ricada più volte sulla stessa persona, ma qualcuno
purtroppo alla fine, in virtù di una sentenza del tribunale e quindi “dello
Stato” già presa, deve uccidere.
C’è chi come Heshmat (Ehsan Mirhosseini
) ogni notte si immerge nel buio di un complesso sotterraneo di detenzione per
togliere la vita, per poi all’alba tornare a casa, mettersi in ciabatte e
canottiera davanti alla Tv e ricominciare. Magari salvare un gattino che si è
incastrato tra i tubi del locale caldaia, andare a fare la spesa con la moglie,
rassettare la casa della mamma anziana e poi andare a mangiare la pizza come
piace a sua figlia. Per poi tornare in quel buio.
C’è chi come Razieh (Shaghayegh
Shourian ) deve diventare “boia per un giorno” perché possono chiederlo come
incarico durante il lungo servizio militare di due anni, solo allo scadere del
quale sarà possibile avere un documento che permetta di lavorare all’estero e
non tornare mai più in quel mondo. Forse però “quando tocca” si potrebbe marcare
visita, passare l’incarico a qualcun altro, magari ricevere quella telefonata
speciale che permetterebbe di cambiare caserma e saltare il turno.
Sempre se si è militari, fare il boia
significa tre giorni di licenza pagati, quando le licenze sono rarissime.
L’unico modo quindi per uscire dalla caserma per incontrare una ragazza è per
Pouya (Kaveh Ahangar) uccidere qualcuno, cosa che potrebbe magari non essere
la migliore prospettiva di vita possibile, specie per una futura moglie che
scopre come si è “meritato” la licenza premio.
C’è chi non vuole diventare un boia ed è
costretto a vivere in esilio per tutta la vita, troncando ogni rapporto con la
sua famiglia per non far pagare a loro la propria colpa.
Forse il “boia prescelto” da questo
sistema può confortarsi nell’idea che una punizione capitale capiti solo alle
“persone malvagie”, che sia un “male necessario” come uccidere una volpe che
ogni notte fa strage di galline. Può pensare che la colpa non è sua ma dei
giudici. Ma spesso non basta e il “fattore umano” può inceppare la macchina
punitiva dello Stato. È sulla possibilità di questo “inceppo” che si struttura
la pellicola di Mohamed Rasoulof, raccontando divise in capitoli le
storie di quattro uomini diversi ma uguali nel loro “dovere” di servire lo Stato.
Il “male non esiste” perché da spettatori non ne troviamo molto, di “male”,
scandagliando nelle vite dei quattro protagonisti, raccontatici spesso con un
occhio molto umano, tra il documentario e il neorealismo. Sono boia
straziatamente umani e non “diabolici” anche quando le loro storie
intraprendono pindarici e spiazzanti, originali e poetici, voli nel cinema di
genere, tra l’action, la favola e l’horror.
Mohamed Rasoulof fa così: ci butta
nel crudo realismo e tra le righe lavora di simboli e metafore. Ci racconta di
gatti imprigionati e volpi in agguato, di fantasmi e uomini così incastrati
nelle regole della burocrazia che possono essere pure loro imprigionati in un
armadio insieme ai documenti. La ribellione del regista a questo stato delle
cose parte musicalmente con il sussurro e arriva alla melodia del nostrano
“Bella Ciao”, forse diventato mainstream dopo l’endorsment della serie tv Casa
di carta, ma che non ci aspetteremmo davvero in un film iraniano come questo.
Un film che dopo un primo segmento dal taglio compassato (ma con un finale
fulminante che lo riscrive alla radice) riesce a scorrere incredibilmente
veloce, in modo appassionante, usando una narrativa cristallina e
l’interpretazione di ottimi attori. Un film dall’aspetto visivo spesso
asettico, geometrico, ma che sa sfociare “quando serve” nel simbolico quanto nel
materico. Prigioni sotterranee in cui si scende all’infinito sotto il suolo,
“il più lontano possibile dagli occhi”, fino a che si fanno gironi danteschi.
Piccoli laghi naturali in cui non riuscire a scorgere il proprio volto umano.
Paesaggi deserti e aridi in cui solo le volpi possono vivere, a fianco di
industriose api operaie rinchiuse in straordinarie scatole sociali.
Siamo dalle parti del capolavoro.
Sarebbe fantastico che venisse visto nelle scuole. L’opera di Mohamed Rasoulof riesce ad arrivare davvero al cuore.
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