mercoledì 24 luglio 2024

La morte è un problema dei vivi: la nostra recensione della caustica commedia nera diretta dal regista finlandese Teemu Nikki, con protagonisti Pekka Strang e Jari Virman

Risto (Pekka Strang) è un omone alto e segaligno, barbuto e dallo sguardo truce. Un matrimonio un po’ ingolfato, l’hobby di suonare la batteria in modo sfrenato in cantina, un “lavoro sicuro” come autista di carri funebri, un’unica grandissima ossessione: il gioco d’azzardo. 

Risto non fa prigionieri e non cade in sentimentalismi: si brucia tutto con il poker online, in pochi secondi, appena riesce a vedere che sul suo conto corrente è arrivato un bonifico di pagamento. Perde e riparte, in cerca di nuovi soldi da bruciare una volta nelle sue mani, di ogni tipo e provenienza. Accetta che vengano da lavori “poco puliti” di “smaltimento cadaveri”. Non disdegna la paghetta che ogni tanto la nonna “crede” di passare a suo figlio, è arrivato a vendere l’auto funebre scambiandola con un rottame che non tiene la strada, pur di raggranellare qualcosa. Perennemente “in botta”, per “fare il romantico” con la moglie sottrae gioielli direttamente dalle bare, prima di saldarle. Spesso, viene buttato fuori di casa.

Arto (Jari Virman), il sorridente e un po’ timido vicino di casa di Risto, di professione insegnante, ha da poco scoperto con una tac di avere solo il 15% di massa cerebrale. La notizia ha sconvolto davvero poco i suoi parenti e colleghi, che da quel momento hanno iniziato a prenderlo per i fondelli come se non ci fosse un domani. Forse Arto potrebbe morire da un momento all’altro, magari andrebbe curato, ma il “rischio percepito”, da chi gli sta intorno, è soprattutto la circostanza che faccia qualcosa di terribilmente stupido per via del poco cervello. Così Arto perde il lavoro alla scuola, con la stessa moglie che smette di cercare di avere un figlio con lui, per paura che esca stupido. Un giorno finisce buttato fuori di casa. 

Arto arriva così ad aiutare Risto nella sua attività “più o meno legale” di pompe funebri. È ovviamente un disastro, perché Risto appena viene pagato si brucia tutto al poker e i due finiscono sovente per dormire nel carro funebre, saltando i pasti. Ma in fondo il loro legame diviene qualcosa di molto simile ad una pur strampalata amicizia, un mutuo soccorso per sopravvivere insieme e forse sognare di cambiare vita, città, futuro.

La grande occasione arriva proprio dal posto più tetro, disperato e sbagliato in cui si potrebbe finire: un palazzo fatiscente dove una organizzazione malavitosa allestisce gare di roulette russa per aspiranti pazzi/disperati/suicidi, da trasmettere in diretta per gli scommettitori del dark web. 

I concorrenti della roulette russa sono di tutte le età e ceti, ma hanno tutti in comune il fatto di morire e dover essere “smaltiti”, esclusiva della nuova “impresa comune” di Arto e Risto. Facendo avanti e indietro tra il palazzone e una radura isolata dove far “sparire i giocatori”, con in tasca anche tanti bei soldi sporchi da bruciare al poker, i due iniziano a pensare che in fondo la roulette russa frutta davvero tantissimi soldi. Chi passa il primo turno vince 5.000 euro, il secondo sono già 10.000, il terzo 20.000 e poi si raddoppia, si quadruplica. Certo, si può pure morire, ma se Arto non ha il cervello magari il colpo potrebbe andare a vuoto.


Moooolto più cattivo e meno poetico del conterraneo Aki Kaurismaki, il bravo Teemu Nikki ci immerge in una commedia nera nerissima, “cinicissima” quanto a tratti davvero genuinamente divertente, anarchicamente libera di muoversi oltre ogni vincolo morale. 

È una commedia piena di persone che si sparano in testa, luoghi orribili ai confini della civiltà, persone incredibilmente “cattive”, quasi allergiche a ogni forma di empatia umana. Un deserto morale e materiale autentico, su cui (soprav)vivono e “lottano con noi” i due improbabilissimi, quanto tragicissimi, protagonisti di questa vicenda. Come ci insegna Fantozzi, dietro a ogni risata può celarsi una tenebra interiore profonda, una tragedia esistenziale senza fine, che può solo essere affrontata con un titanico, incosciente quanto fallimentare, “eroismo.” I nostri due antieroi vivono perennemente nelle prossimità dell’autodistruzione, sostenendosi a vicenda anche in modo commovente, ma senza mai dimenticarsi l’impegno/condanna di proseguire, a testa bassa, verso il loro piccolo e del tutto personale inferno. 

Risto è tragicamente crudele, per via di una ossessione per il gioco che di fatto lo controlla compulsivamente come uno schiavo, una “dipendenza/condanna” che forse ha echi ancestrali anche nella sua famiglia, ma che lui non è in grado di risolvere da solo. 

Arto si trova a essere tragicamente malato quanto tragicamente deriso, emarginato in quando “inferiore”, al punto da essere disposto a donare tutto se stesso, per una persona che riesca a vederlo, anche solo per un istante, come una “persona normale”. 

Sono entrambi per motivi diversi “schiavi” delle circostanze, instradati e compiere e ricompiere gli stessi sbagli, come criceti che non possono che continuare a correre sulla loro ruota. 

Pekka Strang e Jari Virman sono bravissimi nel rendere tridimensionali e credibili  personaggi che sono volutamente scritti per risultare “superficialmente” come macchiette, ma che, come il Fantozzi di Villaggio, racchiudono al loro interno qualcosa di umanamente più profondo, tragicamente universale. 

Testimoni di una  sofferenza che spesso “urla” più delle risate, lasciandoci indecisi sul poterci “divertire davvero” alla luce delle disgrazie di questi due poveracci. Il sarcasmo è però tanto imperante che alla fine, pur con un po’ di senso di colpa, il pubblico ride. Commedia e tragedia si mescolano e il risultato finale conquista, almeno quando confonde e aiuta a riflettere:  un po’ come avviene con i personaggi di Villaggio, un po’ come avviene con quelli di Beckett. 

Teemu Nikki si conferma un grande talento e la Finlandia crepuscolare e cinica di questo film saprà accompagnarci anche dopo la visione, scavando nelle angosce ma sapendo anche, al contempo, burlarsi di loro. 

Bravissimi gli attori, tempi comici/drammatici perfetti, una trama ricca di idee che prosegue senza intoppi fino alla fine, un senso di malinconia e amarezza forti, che si portano a casa forse più delle risate.   

Talk0

venerdì 19 luglio 2024

Non riattaccare: la nostra recensione del thriller psicologico di Manfredi Lucibello, con protagonisti Barbara Ronchi e Claudio Santamaria

Roma, periodo del Lockdown.

Una telefonata in piena notte trattiene sveglia, da un sonno impossibile e poi molto ricercato con delle pastiglie, la giovane interprete Irene (Barbara Ronchi). È Pietro (Claudio Santamaria), il suo ex che vive a Ginevra e non vede da sei mesi. Sembra confuso. Le dice che voleva solo sentire la sua voce e che ormai, per ogni altra cosa,  “è troppo tardi”. 

Le ricorda di quando hanno guardato l’alba insieme l’ultima volta, sul tetto della casa sul mare a Santa Marinella, in estate. Dai rumori di mattonelle smosse in sottofondo alla telefonata, Pietro sembra trovarsi proprio su un tetto, camminando quasi nel vuoto, con l’intenzione di gettarsi da un momento all’altro a fine chiamata.

La donna è preoccupata, ma sa che finché resterà in linea con Pietro, forse lui non potrà gettarsi. Se proverà a raggiungerlo, lui minaccia di ammazzarsi prima.

Irene lo intrattiene mentre con un altro cellulare prova a chiamare di nascosto il suo vicino di casa di Ginevra, che dice di non vederlo da giorni. Immagina allora che Pietro sia proprio a Santa Marinella, a un’ora di macchina. 

Prende l’auto e parte, di impulso. C’è poca benzina, il caricabatterie è rotto e il cellulare non ha molta autonomia. La donna non dispone di alcuna autocertificazione Covid o documento in caso la fermi la polizia, ha solo una carta di credito, zero contanti per una pompa di benzina automatica di vecchio modello, che prende solo pezzi da 20.

Farà il possibile per farsi bastare tutto, ingegnarsi e nel contempo, un po’ camuffando i suoni e rumori del viaggio, proverà a trattenere al telefono Pietro, tranquillizzandolo del fatto che quella notte rimarrà a casa, alla cornetta, solo per ascoltarlo.

Il ricordo di una vacanza in Spagna in cui Pietro ha preso troppo sole, il vestito che lei indossava nel loro primo incontro galante, le foto dei concerti insieme. Piccoli mattoncini di felicità che Irene, tra un problema logistico e l’altro, richiama all’attenzione del suo ex, pur di non perderlo.

Pietro vuole invece affrontare i lati bui del loro rapporto, a partire dal giorno in cui si sono lasciati in modo burrascoso e “per colpa sua”. Vuole parlare dell’incidente terribile che prima di quel giorno ha cambiato tutte le cose. Vuole raccontarle della insostenibile lama che lo trafigge ogni giorno, facendogli desiderare di gettarsi dal balcone almeno ogni dodici ore. Contate ossessivamente, ogni volta.

Le distanze si assottigliano ma gli animi sono del tutto lontani. Tutti gli imprevisti legati a quella partenza improvvisa e sfortunata si palesano uno dopo l’altro, trasformano il viaggio in una specie di corsa ad ostacoli, a tratti sadica e disperata, a tratti eroica. 

Riuscirà Irene ad arrivare in tempo?


Torna alla regia Manfredi Lucibello per un film che scrive insieme a Jacopo Del Giudice. 

Un piccolo ma interessante road movie, notturno e serrato, di 90 minuti, prodotto da Rai Cinema e portato in sala da I Wonder. Protagonista assoluta sulla scena la brava Barbara Ronchi, che vediamo per lo più alla guida della sua auto con un occhio alla strada e uno fisso sugli indicatori di benzina, carica del cellulare, distanza da percorrere sul navigatore. Concentrata come in un action hero anni '80 sul tragitto e i suoi possibili contrattempi, quanto “maternamente” intenta nel tenere viva la voce sconnessa, ossessiva e a volte petulante di Pietro, interpretato da un convincente quando a volte assillante Claudio Santamaria. 

Insieme, cercheranno di non giungere al tragico epilogo palesato fin dalla primissima scena, percorrendo una storia intima e quasi psicanalitica, a tratti simbolica e a volte pure felicemente declinata in più sequenze dall’animo action (che possono ricordare l’action Cellular con Statham).

Non riattaccare ci parla attraverso i due protagonisti del loro reciproco e implacabile “rimorso”, che cercano di intervallare saltuariamente con una debole, quasi latente, speranza di rimettere tutte le cose a posto. Il tono del linguaggio all’inizio appare volutamente concitato, criptico e irrisolto nella  narrazione: si cerca di dare voce alle pulsioni più che a personaggi, si danno voce alle azioni prima che alle intenzioni. Ma con il tempo, anche grazie a un felice slalom tra situazioni di tensione e pericolo, semplici quanto ben strutturate, avviene un lento ripristinarsi della comunicazione: dall’action passiamo alla anamnesi di una storia d’amore attraverso ricordi, foto condivise su whatsapp, necessari e non procrastinati momenti di autocritica, segni di reale vicinanza emotiva. 

Il rapporto pur precario tra i due ricomincia a fiorire, in un non-paesaggio reso ancora più magico e alieno dalla fotografia di Emilio Maria Costa. Tra le luci artificiali a bordo carreggiata, all’ombra di un cruscotto illuminato di blu,  la coppia in qualche modo (soprav)vive, legata al cordone ombelicale telefonico. Le strade sono deserte e sinistre come nel periodo covid. Ai margini del tracciato, uomini e animali estranei sporadici appaiono sempre fuori posto, quasi metafisici, a volte sinistri come a volte benigni. 

Pur se la produzione risulta di stampo televisivo, per  la tecnica da presa, la grande atmosfera,  le musiche curate da Motta e il montaggio, il film riesce bene a tenerci incollati alla vicenda. 

Questo nonostante per la maggior parte del tempo ci troviamo, di fatto, in un’auto guidata dalla Ronchi nel cuore della notte. Grazie a una pregevole direzione artistica, la strada con le sue luci, gallerie, curve e autogrill, riesce a  espandersi e dilatarsi, rotolandosi e ribaltandosi su se stessa. A volte può contrarsi o restringersi come momentanei balzi di umore legati alla emotività dei protagonisti. A volte diventa qualcosa di quasi organico, di vivo e pulsante, che invece riesce a dialogare proficuamente con loro, come il famoso filo rosso dì Kieslowski che “unisce le persone innamorate”.

Liberamente tratta da un libro di Alessandra Montrucchio, pubblicato da Marsilio editore, la pellicola di Lucibello riesce a tradurre  bene il racconto con il linguaggio cinematografico, costruendo con grande mestiere un'atmosfera unica e avvolgente. Tra i produttori risultano i Manetti Bros e in effetti in più momenti di Non riattaccare ci sembra di ritrovarci nel ristretto e claustrofobico, semplice e “brutale”, quanto narrativamente accogliente, ascensore di Piano 17

Non riattaccare è un piccolo film di 90 minuti, che racconta con gusto una storia semplice ma accattivante, avvalendosi di bravi attori e tecnici e di un ritmo che non perde un colpo dall’inizio alla fine. È il film perfetto per una seconda serata malinconica e solitaria, particolarmente consigliato a un pubblico amante delle trasposizioni Rai dei gialli Sellerio. Ci aspettiamo per Lucibello un futuro non lontano dagli eroi dei gialli di Manzini e Camilleri, ma siamo sicuri che se saprà assecondare la sua “anima notturna”, qui molto presente, potrà andare anche più lontano. 

Talk0

martedì 16 luglio 2024

Celebrity Wines: la nostra recensione del documentario di Giacomo Arrigoni, sui vip che producono il vino in Italia, presentato da Esmeralda Spadea

Il vino è da sempre un prodotto di punta del Made in Italy, corteggiato e ammirato in tutto il mondo, un vero fenomeno di cultura e costume, adatto a tutti i ceti sociali, adulti e piccini (specie nel Veneto, ma non solo). 

Per qualcuno nel vino risiede (forse) la verità: “in vino (forse) veritas”. Di fatto il vino spesso “connette”: passato e presente, padri e figli, famiglie e territori. 

Richiede impegno e dedizione, fiducia nella natura quanto nella tecnologia, passione infinita. Giacomo Arrigoni dà vita a un documentario sulle viti dei vip, che mescia, attraverso gustose interviste, vitigni e volti noti, storie personali e storie di vendemmie. 

Le domande sono poste dalla brava e solare Esmeralda Spadea e attraversano sogni e tradizioni, amori e ossessioni, ricordi, business ed eredità.

Il padre di Al Bano Carrisi, Don Carmelo, voleva il figlio insieme a lui a coltivare la terra, invece che pensarlo nella nebbiosa Milano degli anni ‘60, a cercare fortuna come cantante, in una casa in affitto di una periferia in cui non conosceva nessuno. Al Bano, anche portandosi dentro le canzoni di quel mondo contadino in cui era cresciuto, ha avuto successo, è tornato a casa tre anni dopo e come prima cosa ha prodotto, in quel di Cellino San Marco, il suo primo vino: il Don Carmelo. Un altro vino lo ha dedicato all’altra “radice” dalla quale è cresciuto, la madre, i suoi altri prodotti hanno preso nome dalla sua “Nostalgia” (Canaglia) e dalla “Felicità”, protagoniste e “figlie” assolute delle sue canzoni. 

Se il vino per Al Bano è un contatto diretto con la sua terra, per GianMarco Tognazzi il vino racconta suo padre Ugo: tra convivialità e supercazzole, grande umanità e generosità. Ugo ha sempre amato la buona tavola, offrire ai propri ospiti i suoi vini artigianali, mettersi ai fornelli e perfino farsi giudicare dagli amici (più crudeli) come cuoco, millenni prima di Master Chef. 

Ugo voleva che per i suoi ospiti dai suoi rubinetti uscisse, se non vino, almeno acqua frizzante. Si era fatto cosi convincere da un rabdomante che sotto casa ci fosse una sorgente acquifera minerale. Ha scavato per anni, per centinaia e centinaia di metri sottoterra, pur di trovarne una. I vini della tenuta, situata tra Lazio e Toscana, raccontano la grande goliardia dell’attore. I nomi sono “Tapioco”, “Come Fosse” e “Antani”, rievocando alcune delle battute più famose di Amici Miei, di fatto “nate grazie al vino” proprio in quella tenuta, nelle lunghe cene con gli amici. 

Per il pilota Jarno Trulli il vino è invece un ricordo di infanzia che può rinascere anche con la “tecnologia”: di fatto portando alla luce una tipologia di “amarone”, in un territorio che non lo ha mai contemplato, attraverso stanze a temperatura variabile, la cui origine è di fatto ispirata al raffreddamento dei motori delle F1.


Per Carlo Cracco e la moglie il vino è anche un lascito storico da riscoprire, come quando hanno provveduto a sanare un territorio per ripristinare un antico vitigno. Per Sting e la moglie Trudie, come anche per l’attore Ronn Moss e il giocatore di calcio Hernanes, il vino è un legame con un’Italia che è diventata nuova patria di adozione. Un luogo dove ritirarsi per stare in pace con gli amici, magari davanti a una tavola imbandita, sotto una quercia millenaria toscana. Un luogo dove trovare la calma, l’ispirazione e magari un nuovo ritmo, per una canzone o una poesia, ascoltando il vento che si fa largo tra le viti in un pomeriggio assolato. 

Il vino ha molte facce ed è interessante come l’enologo diventi spesso per i vip una specie di psicologico, confidente, amico. Si crea qualcosa di bello insieme, attraverso un’attesa che ricorda quella per un nuovo bambino. 

Peccato non si possa degustare i tanti vini protagonisti di questo film direttamente in sala, magari per entrare in maggiore comunione con il flusso di ricordi, colori e passioni nel quale veniamo coinvolti. 

Di fatto Giacomo Arrigoni dà vita a una pellicola che potrebbe davvero fare lustro di sè in una “sala attrezzata alla degustazione”, allargando quel concetto di “cinema legato anche alla eno-gastronomia“ che piano piano, tra sale-ristorante e sale-bar, sta riportando il cinema (anche) a una dimensione più attiva e partecipata, di “sottofondo” se vogliamo, un po’ come i vecchi drive-in in cui lo spettacolo era solo una delle componenti della serata. 

Se amate il vino e volete scoprire qualcosa di più su questo mondo, oppure se siete storiche fan di Ronn Moss, Al Bano o del “Profeta” Hernanes, Celebrity Wines è una piacevole pellicola distensiva e gentile con cui intrattenersi. Poco agitata, non mescolata.

Talk0

sabato 13 luglio 2024

Immaculate - La prescelta: la nostra recensione di un gustoso e nostalgico “spaghetti-horror”, per la regia di Michael Mohan, con protagonisti Sydney Sweeney, Alvaro Morte e Giorgio Colangeli

 


Italia dei giorni nostri. 

La novizia Cecilia (Sydney Sweeney) ha avuto la sua vocazione quando ancora era bambina. Di colpo, il lago di ghiaccio nel Michigan sul quale si specchiava tutti gli inverni, si è aperto sotto di lei. Soffocava sott’acqua e un attimo dopo era salva, grazie al Signore.

Padre Ferrari (Alvaro Morte) era invece già  un uomo di scienza, specializzato in biologia genetica, quando scoprì il senso più profondo nel quale si stava direzionando la sua vita. 

Cecilia e Ferrari, così diversi, si trovano un giorno entrambi in Italia, in un'abbazia costruita sopra antiche catacombe, sotto la guida del silenzio ma risoluto vescovo Merola (Giorgio Colangeli), per quello che sembra a tutti gli effetti un disegno divino. 

Ma da quello stesso luogo, che sembra all’esterno quasi un “paradiso”, dove tutto è ordinato e lucente, qualcuno ha da poco cercato di fuggire. Con disperazione e nel pieno della notte, dovendo infine arrendersi e soccombere. Quasi “sbranato”, da creature sinistre, vestite come suore ma con il volto velato di rosso. 

L’abbazia nasconde molti misteri, forse anche mostri e fantasmi. Alcune suore che hanno perso la connessione con la realtà confabulano nella notte, strappano capelli da cui ricavano piccoli feticci, si esprimono attraverso nenie sinistre. Le più giovani come suor Gwen (Benedetta Porcaroli) spronano Cecilia perché non prenda i voti e scappi nel suo Michigan, finché è ancora in tempo. Tutte si sentono osservate da qualcuno che si muove nell’ombra. 

Ma oltre le ombre c’è qualcosa di troppo importante da preservare, nascosto nella cripta del monastero: un chiodo proveniente dalla croce di Cristo. Cecilia prende i voti e una estasiata Madre Superiora (Dora Romano) la fa accedere al luogo di questa potentissima reliquia. Glielo porge dalla teca, direttamente tra le mani.

Cecilia perde i sensi, attraversa strani incubi. Poi al suo risveglio si scopre preda di nausea, vomito. Tra i conati perde sangue e denti. 

Padre Ferrari, il medico e il Vescovo si sincerano in un interrogatorio che la ragazza abbia rispettato il suo “triplice voto”: povertà, castità e obbedienza. Le parole sono convincenti quanto le analisi mediche e il fascicolo sanitario: i dati e la ecografia non mentono, si tratta di immacolata concezione.

L’apprendistato di Cecilia al monastero è ormai terminato. La bionda ragazzina del Michigan nelle celebrazioni viene vestita come la vergine Maria nell'iconografia sacra, celebrata pubblicamente con ampi inchini.

Da futura partoriente di un miracolo, non deve più occuparsi come le altre dei malati, dei panni e dei polli dell’abbazia: deve solo riposarsi, meditare, magari limitandosi a “galleggiare” nell’area termale di costruzione romana, magari in vista di un parto in acqua. 

Almeno fino a che qualcuna non cercherà di annegarla in quelle stesse acque curative, urlando che le ha rubato il suo destino. Almeno fino a che nel monastero non inizieranno a palesarsi sulle suore i segni di strane e antiche torture. 


Torna in sala il regista statunitense Michael Mohan, che abbiamo molto apprezzato nel 2021 per l’interessante thriller erotico/psicologico The Voyeurs, con protagonista sempre la bellissima Sidney Sweeney. 

Questa volta è una grossa coproduzione dal sapore internazionale, con rimandi e citazioni narrative anche alla saga di The Omen, ma che soprattutto, nella sua seconda parte, riesce ad affondare, gioiosamente quanto sarcasticamente,  in una estetica e uno splatter proprio dell’horror italico del passato. Quello più “expoitation”, di “genere”, fieramente esagerato quanto truculento, sexy, quanto dissacrante. 

La colonna sonora opera di Will Bates si presenta subito con sonorità squisitamente “vintage”, fiera matrice anni ‘70, quasi dalle parti di Riz Ortolani di Per amare Ofelia (1974). Ci sono scene con suore alle terme, tutte bellissime e coperte solo da lunghe camicione bianche, in un'atmosfera ammiccante come la Fenech di La bella Antonia, prima suora e poi dimonia (1972).

Abbiamo al centro della vicenda un prete affascinante quanto ambiguo, che indossa sovente guanti in pelle nera come gli assassini di Dario Argento, interpretato da un attore che si chiama “ Alvaro Morte”. C’è il grande Colangeli, che si cuce addosso il ruolo del meraviglioso quanto cinico prelato padre Merola, dallo sguardo vitreo, intenso quanto torvo, dalle parole aspre e inquisitorie. Il personaggio di Colangeli sembra uscire da un folk horror di Pupi Avati come La casa dalle finestre che ridono.  

La Sweeney è estranea in una terra sconosciuta e inesplorata, dove tutti parlano con lei gentilmente in inglese, ma di sottecchi si esprimono in un italiano spesso volgare, “lubrico”, in segno spesso di sdegno, se non esplicitamente erotico.  


La Sweeney è “sospesa”, solare, avvolta in un immacolato candore ancora infantile. Come per la Jennifer Connelly di Phenomena, il suo viaggio la porta verso la perdita dell’innocenza, quasi in vista del “cinismo”. Un “agnellino ma non troppo”, circondato da tanti lupi che non perdono troppo tempo prima di mordere, dilaniare o imprimere a fuoco marchi, sulla pelle umana, come su animali da macello. Bestie che comprendono solo il linguaggio di una violenza dal sapore medioevale, fondato in continue sottomissioni crudeli e martiri, rappresentati in modo spesso crudo, “analogico e senza fronzoli”, da trucchi di make-up che a suon di arti e lingue mozzate ricordano i lavori splatter di Stivaletti e Soavi. Ci sono anche “afflati Fulciani”, nella messa in scena di alcune “colluttazioni particolarmente violente”, quasi “cannibali”, con alcuni dettagli particolarmente trucidi che magari a un pubblico “più giovane” faranno pensare ai lavori di Bustillo e Maury. Il tutto vive in una scenografia da sogno, sospesa nel tempo, tra arte romana e gotica. Un mondo fatto di riti quanto di processioni coreograficamente ordinate, “meccaniche”, al di sotto del quale si estende un intero labirinto di catacombe e forse non solo.  

C’è molto “amore” per per l’ italico mondo cinematografico splatter del passato, un po’ come avveniva in Hostel 2 di Eli Roth, con lo stesso trasporto. Una gioia per i fan, qualcosa di strano e forse inspiegabilmente “divertente” per le nuove generazioni, che magari all’uscita della sala andranno a recuperare La Chiesa di Soavi o uno dei film sulle “madri” di Argento. 

La sceneggiatura di Andrew Lobel appare di consegua gioiosamente eccessiva quanto sopra le righe, volutamente quasi caricaturale nei suoi molti eccessi quando funzionale, perfettamente al servizio di uno spettacolo dal sapore speziato tipico dei migliori b-movie. 

Un film divertente in una estate calda. Che ci riporta dalle parti delle notti dello zio Tibia dopo il Festivalbar. Un perfetto e gustoso b-movie che ci riporta in un tempo passato. Festosamente fuori dal tempo, sanguigno e cattivo, eccessivo quanto liberatorio. Bravi tutti gli interpreti, meravigliosa la location e gli effetti, curiosa quanto trascinante la colonna sonora. 

Talk0

mercoledì 3 luglio 2024

Fremont: la nostra recensione della bellissima commedia psicologica di Babak Jalali, con protagonista la straordinaria Anaita Wali Zada, portata in Italia da I Wonder


Ci troviamo a Fremont, California, all’interno di un quartiere dove vive un grande comunità di afgani. 

Tutti si trovano lì dopo aver dovuto lasciare la loro terra e la loro casa con il ritorno dei talebani. Vivono “sospesi”, cercando di rifarsi una vita e accompagnando i bambini a scuola.

La notte, le stelle in America non stanno ferme come a Kabul. Continuano a spostarsi e questo porta molta inquietudine a tutti. La notte, la giovane Danya (Anaita Wali Zada)  ha bisogno di dormire, ma non ci riesce. Passa le ore a occhi aperti, sul divano, senza pensare a nulla, giusto ogni tanto alzandosi per fumare una sigaretta in terrazzo. 

Si sente “mediamente felice”, ma non dorme. Lavora a San Francisco, a un’ora da Fremont, in una piccola e simpatica impresa cinese che confeziona da due generazioni biscotti della fortuna. 

È addetta alla stesura della pasta e incartamento, al fianco dell’ormai inseparabile amica Johanna (Hilda Schmelling), che le propone di lanciarsi come lei in sempre più strampalati appuntamenti al buio. In genere l’amica descrive ogni incontro avuto come un mezzo disastro, non aiuta gli incontri galanti di Johanna il fatto che viva con sua madre in un piccolo appartamento, condividendo un unico letto 

Il principale di Danya è un tipo sempre allegro e propositivo, che durante la pausa caffè gli racconta ogni giorno di quanto sia bello dare un po’ di felicità con un biscotto, di come, a volte, a volte sia “la frase stessa contenuta nel biscotto a guidare la fortuna”. Lei non è che lo segua fino in fondo.

Dopo il lavoro, prima di rincasare, Danya si ritrova spesso in un ristorantino arabo a mangiare sempre lo stesso piatto e guardare una telenovela insieme all’anziano gestore, anche se ci sono spesso delle repliche. Non si capisce se per i due è più importante la telenovela o incontrarsi per parlare, ma sembrano avere un rapporto quasi padre-figlia. 

Certo, se solo riuscisse a dormire. Se solo le sue giornate non apparissero tutte uguali e sospese. Forse potrebbero esserle utili delle pillole per dormire, ma bisogna prima entrare in lista di attesa. Per tagliare i tempi Danya chiede al suo vicino di casa Salim, con cui condivide qualche sigaretta notturna, di passargli a scrocco il suo appuntamento dallo psicologo, previsto a breve ma a cui lui non ha nessuna intenzione di andare. 

È così che Danya incontra il simpatico ma stranissimo Dottor Anthony (Gregg Turkington). La ragazza non segue troppo i ragionamenti dello psicologo, similmente a come non segue troppo la filosofia del suo principale sui dolcetti della fortunata nelle pausa caffè. 

Il Dottor Anthony insiste per leggerle dei brani del libro Zanna Bianca, invitandola a ragionare sulle molte similitudini che lei dovrebbe avere in comune con la storia di quel cane. Non si parla di Fremont, ma della vita precedente della ragazza.

Il fatto di trovarsi in terra straniera, il fatto di aver vissuto sotto la guida di altre persone in situazioni tragiche. Piano piano emergono da Danya le ragioni profonde del suo malessere: uno stress post traumatico in piena regola, fortemente legate al suo pregresso lavoro di traduttrice per l’esercito americano in Afganistan. Lo faceva in quanto “un lavoro come un altro”, ma forse non la pensava davvero così, specie quando i talebani assalirono le basi, ci furono scontri e morti, e lei dovette scappare in America. 

Danya si sente fortunata per essere sopravvissuta agli attacchi alle basi, ma forse non è ancora pronta a commuoversi pensando al passato, sciogliendosi in un mare di lacrime alla lettura di Zanna Bianca. Forse come non è ancora pronta alla sua “nuova occupazione” nella fabbrica dei biscotti della fortuna.

Danya ha infatti avuto la s-fortuna si sostituire la addetta alla compilazione dei bigliettini fortunati, morta di vecchiaia e di colpo, con la testa riversa sulla tastiera in pieno orario lavorativo. Il capo ufficio è sempre propositivo e pensa che per il ricco vissuto di Danya la ragazza sarà in grado di creare bigliettini bellissimi. 

Solo le persone che hanno vissuto in modo intenso la vita possono comporre bigliettini memorabili. La ragazza, che ancora non si sente come Zanna Bianca, è confusa. Il suo primo componimento è “se cerchi la fortuna, è in un altro biscotto”. 

I seguenti non sono troppo meglio. Prova a scrivere dei bigliettini al suo posto pure il Dottor Anthony, ma sono cose decisamente criptiche e cervellotiche. 

Il titolare crede però così tanto in Danya e nel suo futuro da grande scrittrice di biglietti della fortuna: cerca di spronarla di nuovo. Le racconta che forse solo le persone felici possono scrivere buoni biglietti. Specifica che sono “davvero felici” solo le persone innamorate e non quelle stronze, che invece fingono. 

Forse prima di tutto Danya dovrebbe trovare l’amore, per poi comporre buoni messaggi per i biscotti. Ecco il colpo di genio, se vogliamo figlio anche delle ossessioni dell’amica Johanna. In un bigliettino della fortuna la ragazza scrive : “Danya, in cerca di fortuna” con in seguito il numero del suo cellulare. Viene incartato e spedito. Qualcuno lo riceverà. Avrà così un incontro al buio con la fortuna la nostra eroina? 

Forse.

Perché qualcuno risponderà a quel biglietto.


Che cos’è la fortuna? Che cos’è la vera felicità? Che cosa comporta il “sopravvivere”, di fatto perdendo parte della propria esistenza nel passaggio? 

Sono questi i temi esistenziali che scalpitano all’interno di una commedia psicologica dalla struttura impeccabile, gioiosamente divertente, intelligente quanto profondamente fresca, accessibile a ogni tipo di pubblico.

È un piccolo capolavoro di stile e scrittura il film in bianco e nero di Babak Jalali.

È una pellicola che diverte per come fa suo oggi il cosiddetto “sogno americano visto dagli stranieri”, di fatto richiamando satiricamente una visione a stelle e strisce ingenua, ordinata e accogliente, come quella dei film anni ‘50. 

È un film con battute e sketch fulminei, uno dopo l’altro, che a tratti ci fa pensare a Woody Allen e a tratti i film più divertenti e scombinati dei fratelli Coen.

È un film che si guarda con il sorriso stampato sulle labbra, sperando che anche la nostra protagonista riesca a ridere un po’ di più nella sua vita, di fatto affrontando quel vuoto emotivo che l’ha difesa dal dolore, ma che ora l’ha spremuta troppo di ogni emozione.

Ogni cosa è al suo posto, ogni interprete funziona meravigliosamente con gli altri, la trama cattura fin dal primo minuto e non abbandona fino alla fine, si vorrebbe non uscire dalla sala e vedere come vanno avanti le cose.

Fremont è un'esperienza cinematografica da provare, al punto che non voglio concedervi altri dettagli che forse potrebbero rovinarvi le sorprese della trama.

Andate al cinema e godetevelo come un biscotto della fortuna, ne vale la pena.

 Talk0

lunedì 1 luglio 2024

Holy Shoes, Storie di Anime e Oggetti: la nostra recensione dell’interessante film di esordio di Luigi Di Capua, con Carla Signoris, Tiffany Zhou, Simone Liberati

Roma dei giorni nostri. 

Tutti vogliono le Typo3, perché sono “come e meglio” delle Air Jordan. 

Sono bianche, morbidissime, avvolgono il piede come un guanto aerodinamico, il top delle scarpe sportive. Costano 800 euro, ma se riesci puoi trovarle in sconto a 790, rigorosamente nei negozi del centro. Sono oggetti da mostrare, per gridare al mondo di “essere qualcuno”.  

Giulio (Simone Liberati), lo scombinato e insicuro papà divorziato del piccolo e insicuro Filippo, crede molto nella possibilità di affermarsi come rivenditore di scarpe di lusso, ma sulla sua strada incombono continue sfortune, fidanzate petulanti, rapper/influencer ingrati e il sempre presente biasimo paterno (Orso Maria Guerini, nel ruolo del padre generale).

Una partita consistente di Typo3, anche se contraffatte, potrebbe dare il via alla sua gloriosa carriera, ripianando i mille disastri che lo hanno fatto finire sull’orlo della bancarotta.

Mei (interpretata dalla brava Tiffany Zhou) lavora nel ristorante cinese paterno, sognando di poter volare in America, con la sua borsa di studio in ingegneria. Ma ha un fratello malato che abbisogna di cure specialistiche, un sussidio che non viene rinnovato per beghe burocratiche e troppi debiti che la incatenano a Roma. C’è un sito cinese che offre delle Typo3 quasi uguali alle originali a 40 euro. Con un po’ di fortuna potrebbe rivenderle per vere: truffare dopo essere stata truffata dalla vita. 

Filippo è un ragazzino di periferia che non riesce più ad andare a scuola e inizia a frequentare amici poco raccomandabili. È perdutamente innamorato della compagna di classe Maria: bella, gentile, che “crede in lui” e vive in una casa con piscina. Per cercare di fare colpo su di lei, Filippo può solo portarle delle Typo3, ma per fare questo dovrà come minimo rubarle o fare di peggio.

Infine ci sono Agnese (Isabella Briganti) e Luciana (Carla Signoris), due donne, vicine di casa, che non amano le Typo3 ma vorrebbero poter camminare ancora una volta con dei tacchi a spillo: sentendosi sensuali e femminili almeno per un ultima volta. Agnese, affascinante giornalista televisiva, non può più portare i tacchi perché a seguito di un incidente ha perso un piede, con la necrosi che inizia a salirle lungo tutta la gamba. Luciana da troppo tempo vive rinchiusa in casa, cercando di soddisfare le attenzioni del troppo assente e distratto Paride (Roberto De Francesco), che si lamenta anche quando la donna si mette sul volto un trucco leggero. Quando Agnese per la disperazione getta dalla finestra le scarpe, Luciana ne raccoglie alcune paia e prova con imbarazzo a indossarle. Sentendosi, dopo tanto tempo, ancora bella. 


Arriva al cinema l’opera prima di Luigi di Capua, uno dei membri del gruppo The Pills. 

Holy Shoes è un film strano, a tratti quasi psichedelico, che racconta al ritmo di una colonna sonora sincopata, una storia di ossessioni e tragedie che vanno a svilupparsi, in pochi giorni, in una spirale sempre più drammatica quanto imprevedibile. 

Le Typo3, le “scarpe sacre” a cui fa riferimento il tutto in inglese, sono fin da principio rappresentate  come un oggetto di indicibile fascino e potere occulto. Sono le protagoniste assolute della prima scena: dove le vediamo “sospese su uno sfondo bianco”, per alcuni secondi, con in sottofondo quelli che sembrano degli insistenti e aggressivi “cori satanici” (di fatto un brano corale molto simile a quello di una pellicola horror giapponese a tema “maledizioni”, The Invitation di Karyn Kusama). 

Un oggetto “quasi indemoniato” a tutti i sensi, degno del famoso n.5 di Dylan Dog, “Gli uccisori”, ma in grado di evocare anche la stagione anni '80 delle Timberland, quando in una specie di isteria generale c’erano persone che andavano in giro a rubare dai piedi le scarpe degli altri. 

Senza scarpe e per strada, a piedi nudi, in una città sporca, come in uno dei più classici incubi: l’incubo a cui si associano spesso in psicologia sentimenti di disagio, vulnerabilità e smarrimento. Chi non ha le Typo3, anche se ha ai piedi altre scarpe, in questo film si sente ugualmente vulnerabile e smarrito: fuori dalla società e dalla possibilità di crearsi un futuro. E se queste “scarpe mancanti” recano simbolicamente un disagio, i nostri anti-eroi, tutti amabilmente tragici, falliti e inconcludenti, cercando di sostituirle con simboli parimenti forti o quasi. Con delle repliche a basso costo, seppur grossolane, che permettano di “fregare il sistema”, senza diventarne complici/adoratori. Oppure con un’arma da fuoco o un bastone d’acciaio, i più classici “simboli spicci di potere”,  con cui sentirsi abbastanza forti da poter rivendicare le proprie scarpe con la violenza. Tra sogni infranti, istinti antisociali e pulp, il film di Luigi Di Capua ci getta così in una Roma nerissima, spesso notturna, spesso “imbambolata” davanti a vetrine scintillanti, con all’interno oggetti luccicanti come vitelli dorati. 

Holy Shoes descrive una società degradata, terribilmente vicina a quella odierna, in cui risulta drammaticamente ovvia la locuzione “essere è avere”. In fondo le Typo3 non sono diverse dalle pesanti catene d’oro con cui, oggi, si agghindano alcuni criminali: per certificare esternamente il loro valore umano, sulla base oggettiva della grammatura di quello che indossano. 

Ma “essere è avere”è anche l’interrogativo morale che si pongono i personaggi di Agnese e Luciana, in una linea “quasi più gentile” del racconto, ma che giocoforza va comunque ad intersecarsi nella storia principale, per uno “scherzo narrativo del destino”. La storia di Agnese e Luciana ci parla di femminilità negata, anche sulla sola base di negarsi di un oggetto tipico femminile, nella paura di poter raccontare, attraverso di quello, un modo di essere che si reputa “inaccettabile”per il proprio partner. La femminilità non può risiedere però “solo in un oggetto”, con conseguenze che diventano ugualmente tragiche quando la possibilità di indossarlo si rompe.


L’opera prima di Di Capua trova gli attori e gli scenari giusti per raccontare una storia unica nel suo genere, sicuramente “strana” quanto affascinante: una specie di “noir pop” sui sogni e bisogni di potere, all’ombra di una Roma mai cosi notturna, ruvida, violenta e “matrigna”. Un luogo dove dietro a ogni angolo più palesarsi un pazzo, un criminale o un ragazzino comune, che ha però bisogno di diventare per cinque minuti pure lui pazzo e criminale: per non sentirsi inadeguato e vulnerabile, come chi sogna di camminare scalzo mentre tutto hanno le scarpe. 

Ottima la colonna sonora, buono il ritmo generale del racconto, interessante la fotografia notturna e una costruzione narrativa che a tratti assomiglia al Babel di Inarritu. 

Di Carlo possiede senza dubbio un “tocco internazionale e cosmopolita”, che potrebbe portargli fortuna nelle sue future opere. Nuove opere che adesso non vediamo l’ora di vedere. 

Talk0

sabato 29 giugno 2024

The Bikeriders: la nostra recensione del biopic di Jeff Nichols, liberamente ispirato al libro fotografico di Danny Lyon sugli Outlaws MC, con protagonisti Tom Hardy, Austin Butler e Jodie Comer

 


America on-the-road di fine anni '60. 

Vivere la vita un quarto di miglio per volta, a cavallo di una moto rombante, vestiti perennemente di cuoio, insieme alla propria “mandria di fratelli”.  

Liberi di apparire trasandati, liberi di ululare insieme alla luna sull’autostrada e fare gli spacconi nei bar. 

Liberi di bruciare qualche semaforo, facendo arrabbiare un paio di poliziotti addetti al traffico e un paio di lenti pedoni che, della vita, non hanno ancora capito niente. 

Liberi di accamparsi il fine settimana fuori dal mondo metropolitano, come forse facevano i cowboys, accendendo il fuoco e le salamelle tra i campi, raccontandosi epiche storie, sfidandosi bonariamente a duello per decidere “chi è lo re” (Diego Abatantuono, Attila, cit.), tra una birra e forse un altro paio di birre.

A un primo, ma anche al secondo sguardo, per una persona comune come Kathy (la brava Jodie Comer), i “Vandals” apparivano come un gruppo di ragazzoni decisamente appariscenti, sicuramente poco maturi. Magari giusto “sexy”, per via dell’abbigliamento in pelle. Poi però una sera lei inizia a frequentarli in un bar, perdendosi nello sguardo ribelle e nel sorriso gentile del giovane Benny (il molto bravo Austin Butler). Un paio di birre dopo, Kathy si trova nel cuore della notte aggrappata alla moto di Benny, sulla highway, con intorno tutte le luci delle altre moto che si fanno dolcemente largo tra il buio, come in una nuvola, rombando quasi armonicamente in coro nel pieno silenzio, come fossero gattini gentili. 

È amore. 

Poi, sotto i giubbotti in pelle e l’ossessione di sentire il rombo dei motori, questi Vandals non sono neanche brutte persone. Il loro “capo”, Johnny, parla un po’ come Robert De Niro (ed è interpretato da un Tom Hardy che cerca disperatamente di darsi un tono da Robert De Niro), ma alla fine è un buon padre di famiglia, con moglie e due bambine biondissime, con un solido lavoro di camionista alle spalle e l’attitudine a sedare ogni tipo di conflitto. Ha pensato al gruppo guardando in tv Marlon Brando, gli è piaciuto il look, inizialmente i tesserati facevano gare di motocross domenicali come un qualsiasi club sportivo. 

C’è nel gruppo chi è esperto di motori anche perché poi fa il meccanico per vivere. C’è chi è molto ligio al codice della strada, ha un lavoro di ufficio e vive con i genitori a cinquant’anni. C’è chi è solo un po’ sfigato o preso troppo a calci dalla vita e nei Vandals, che sono sempre accoglienti,  si sente a casa.

Il gruppo di certo fa così tanto casino, con le sue continue parate cittadine, che non piace troppo ai genitori della zona, come non è amato dalla comunità in genere. È come se la comunità cogliesse qualcosa di “inevitabile” che ai Vandals “sfugge”, mentre le richieste di affiliazioni da altre città americane iniziano a fioccare e iniziano a delinearsi sempre di più “codici d’onore”, “bandiere”, piccoli reati necessari al sostentamento economico del gruppo. 

In un secondo dai “duelli per il potere”, per lo più affrontati a scappellotti bonari con la gioia etilica nel sangue, si passa ai coltelli. Si inizia a parlare di territorialità tra bande rivali, qualcuno, più che un cowboy metropolitano, vuole sentirsi ancora più “correttamente” un Vandal, trasformando il club in un gang criminale a tutto tondo.

È un piano inclinato inevitabile. 

Un giorno un ragazzino (Toby Wallace), troppo picchiato dal padre manesco e dalla povertà, si innamora dei Vandals e vuole un giubbotto come il loro. È un ragazzo senza senso dell’umorismo e troppo violento, non viene accettato dal branco e inizia a covare rancore. Kathy negli anni vive la trasformazione inevitabile dei Vandals, con l’amore per il suo Benny che si fa di volta in volta sempre più “complesso”. Un amore sospeso tra una vita normale di periferia e le sempre maggiori incombenze di un gruppo, di ex hippie, che ora si trova a ragionare e agire a tutto tondo come fuorilegge. Un po’ per sopravvivere alla società, che ha fermamente deciso di odiarli, un po’ per cercare di mettere ordine e pace in quel piccolo mondo che dai sogni di libertà e birra si è poi inevitabilmente trasformato una qualcosa di diverso.


Il film, scritto e diretto dal bravo Jeff Nichols (Take ShelderMud), si basa liberamente su un libro fotografico di Danny Lyon, che racconta con disincanto la vera storia degli Outlaws MC, attraverso una serie di interviste, rilasciate in tempi diversi dai bikers e dalle loro famiglie. 

Lyon nel film è interpretato dall’attore Mike Faist, ma il suo ruolo nella vicenda è puramente interlocutorio, mentre la voce narrante della storia dei “Vandals” è assegnata al personaggio divertente quanto concreto di Kathie, la moglie del biker Benny. 

Kathy, interpretata in modo molto credibile e spontaneo dalla brava Jodie Comer, ci racconta del suo amore per un motociclista che può correre libero nella prateria quando vuole, con il vento nei capelli h24, mentre lei è a fare il bucato in una caldissima lavanderia a gettoni. La ritroviamo anni dopo, più disincantata, in una pausa da scuola con i bambini, a parlare della “crisi del gruppo” e di come sia diventata per lei anche “crisi di coppia”. La rivediamo ancora mentre come casalinga disperata riassetta una casetta bianca di periferia, forse da sola.

Kathy ci racconta una realtà di grigliate all’aperto, di pic nic con i bambini a base di motocross nei pomeriggi domenicali, del look perennemente “con l’ombelico di fuori” dei primi biker. Ci racconta del modo subdolo in cui “l’atteggiarsi da bulli” dei Vandals abbia finito per trasformarli, anche controvoglia, in credibilissimi bulli. 

Racconta di funerali di amici a cui i motociclisti non erano bene accetti dai parenti. Racconta della stato “quasi di dipendenza” che Benny subisce nei confronti del gruppo e di Johnny: di come la costante voglia di vivere fuori dalle regole, ma insieme ai suoi amici, lo abbia infine rinchiuso in una vera e propria prigione psicologica, senza uscita e prospettive se non nella fuga dalla realtà.

Un racconto del tutto diverso della storia dei Vandals, simbolico quanto immaginifico, è invece quello che ci viene offerto attraverso gli occhi di un personaggio senza nome, il “Kid”, interpretato da Toby Wallace. 

È una storia fatta di sguardi e sogni, cruda ma quasi di stampo “cavalleresco”, dove il Kid è alla ricerca di un proprio “posto nel mondo”, sotto la fascinazione del potere, delle turbine e del cuoio. Il ragazzo vive ai margini poveri, nella costante violenza domestica, impossibilitato nello sviluppare le giuste competenze e l’empatia per comprendere una “realtà diversa”, dall’emarginazione e dalla violenza. 

Dal basso della sua vita disastrata e senza prospettive, vede nei Vandals, che attraversano fieri la città con le moto, il branco che lui non ha mai avuto. Vede nel giubbotto e nello “stemma dei Vandals” una bandiera sotto la quale, per la prima volta, si potrebbe sentire parte di qualcosa, qualcuno di peso. Dal momento in cui Kid riesce a impossessarsi di uno scassato “cavallo di ferro a due ruote”, ai giochi di potere per essere accreditato come “cavaliere”, il passo è breve. Arriva la sfida al capo con un “ferro disonesto”, ma che per lui è come Excalibur, gli dona potere senza che altri si oppongano più a lui. Kid vive sempre più disumanizzandosi il suo personale viaggio distorto dell’eroe, a cavallo di un futuro a due ruote che forse nemmeno vuole comprendere. Un vero Vandals, si potrebbe tristemente dire. 

Se Benny e Johnny sono dei post-hippie, Kid incarna lo scontento degli emarginati e ma anche dei reduci del Vietnam, come la dolce voce narrante di Kathy ci ricorda. Uomini a cui non “bastava più“ la benzina per la moto, necessitando di sostanze stupefacenti per fuggire, ancora più velocemente, dalla realtà. 

Fuori dalla “narrazione”, c’è “l’azione”. Azione cruda quanto spettacolare, quasi splatter, a base di coltelli, tirapugni, incendi dolosi e sparatore. Tanti inseguimenti tra il traffico cittadino, gare e parate “roboanti”, sottolineati da grande musica dell’epoca e da un sound design delle modo che davvero convince, che nostalgicamente ci riporta al quasi futuristico sonoro in stereo di Easy Riders

Tom Hardy costruisce per Johnny un personaggio complesso, “politico”. Hardy gli dà un'interpretazione sofferta e pensosa, potente quanto “vulnerabile”, vicina a molti anti-eroi di Robert De Niro.

Johnny è consapevole di ricoprire un ruolo complicato “pur con le migliori intenzioni” e attraversa più fasi di crisi, spesso attaccandosi come unica ancora a Benny.

Il Benny di Austin Butler è invece un personaggio magnetico, solare e invincibile come James Dead. Un vero ribelle che gioiosamente vive senza regole, assaporando ogni emozione e sfida con un sorriso beffardo e innocenti occhi azzurri, anche se si tratta di ricevere una palla d’acciaio da un momento all’altro. 

Il Benny di Butler ruba costantemente la scena a tutti, si impone con eleganza anche rimanendo sornione, riposando in un angolo della scena a cavallo della sua bike, mentre il Kid di Wallace soffre, all’opposto, per non essere mai “visto”: né dal padre violento, né da Johnny, né dal mondo. Wallace racconta la perdita dell’innocenza di Kid, di pari passo alla sua disumanizzazione criminale, senza dimenticare mai di mettere in risalto il suo sguardo di bambino ferito, una irruenza che è figlia più di tutto della paura di confrontarsi con il mondo. 


Ci sono moltissimi ottimi attori nel cast, per lo più in piccoli ruoli gustosi, come Michael Shannon, Boyd Holbrook, Norman Reedus. 

Tutto il cast contribuisce attivamente alla costruzione di un affresco generazionale vivace quando contraddittorio, che ha però per vertice la magnifica “sognatrice disincantata” Kathy, di Jodie Comer. 

Kathy è il vero “collante morale”, la materna voce della ragione che riordina la casa dalle troppe birre per terra. 

Forse è anche la speranza di una “famiglia” al di fuori dal branco, con la Colman che cerca di infondere a Kathy tutta la forza morale, l’ironia e la pazienza, necessarie a credere in questo cambiamento . 

Bikeriders è un film divertente, drammatico, carico di azione e simbolismo, affidato a un ottimo cast artistico e tecnico. 

È un film che non possiede la forza anarchica, satirica e autodistruttiva di Easy Riders, ma è comunque un film “sentito”, che non ama troppo semplificazioni e autocelebrazioni e che, con onestà, racconta tutti i chiaroscuri di un momento storico leggendario quanto iconico. Assolutamente da vedere in sala, per assaporare ogni rombo di motore. 

Talk0

mercoledì 26 giugno 2024

Lupin III - La Pietra della Saggezza: la nostra recensione in collaborazione con Fantasy Magazine del primo film cinematografico sul personaggio creato da Monkey Punch, che Nexo e Yamato Video riportano al cinema 45 anni dopo, rimasterizzato e restaurato in 4K , il 24, 25 e 26 giugno


(Sinossi)

Il ladro gentiluomo è morto dopo essere stato condannato.

Impiccagione.

Il decesso è stato confermato dalle autorità della Transilvania, ma il vecchio ispettore Zenigata, che ha dedicato tutta la vita alla sua caccia, non ci crede e va in loco.

Il poliziotto vuole vedere con i suoi occhi la bara, tenuta negli scantinati di quello che sembra a tutti gli effetti il castello di Dracula. È armato, per sicurezza, di un paletto di frassino, sicuro che il ladro potrebbe lì “resuscitare”, come un vampiro.

La bara ha effettivamente al suo interno il cadavere di Lupin, ma di colpo questo esplode, con la stanza che si riempie di fumo. Lupin appare alle spalle dell’ispettore, attaccato al soffitto a testa in giù, come i pipistrelli.

Solo uno sguardo e una risata all’eterno avversario, poi la fuga, lanciandosi con un aliante stile Batman nel cuore della notte, usando quella che appare come una fionda meccanica.

Zenigata è confuso: c’erano davvero due distinti Lupin in quella stanza?

Più tardi, scopriremo che anche il Lupin fuggitivo è confuso: quello nella bara era sicuramente lui e ultimamente non è che lui si senta troppo “in sé“. La risposta a questa domanda comune può venire forse dal nuovo misterioso committente della ladra Fujiko: Mamoo.

Mamoo è minuto e sgraziato, ha una testa enorme e occhi spaventosi come un alieno “grigio”. La sua pelle è di uno strano color violaceo, rughe profonde insieme a tratti somatici quasi infantili ne conferiscono un’età indecifrabile.

Appare fragile, ma è un uomo potentissimo, estremamente colto, geniale, forse con poteri magici.

Dopo molte ricerche, si accerta che una delle sue identità potrebbe essere quella dell’uomo più ricco del mondo (il cui nome fittizio sembra richiamare Howard Hughes) forse perché il suo piccolo regno personale si nasconde nell’isola privata del celebre magnate. Qui vivono, o forse “rivivono”, tra palazzi con architetture surreali, sospese trapassato e presente, importanti personalità come Hitler e Napoleone. Tra le strade, gli interni e i vicoli, diventano reali “scorci paesaggistici” di quadri di De Chirico, Dalì, Escher, come se anche i più grandi artisti del passato (forse anche loro “rinati?”) abbiano attivamente dato il loro contributo a trasformare l’isola in un’unica, gigantesca opera d’arte collettiva.


Anche Fujiko è per Mamoo in qualche modo un’opera d’arte da preservare: forse la reincarnazione di Venere, forse una novella “Eva”. Oltre a essere un grande mecenate e collezionista d’arte, sovrano di una “elite” che trascende tempo e spazio, Mamoo ama muovere le trame di complicati giochi di potere, in cui sono coinvolte controvoglia tutte le nazioni della terra. Lo fa in virtù di una urgenza misteriosamente “impellente”, per un uomo che afferma di vivere da migliaia di anni: la ricerca di una formula per l’immortalità. Questa dovrebbe risiede in testi antichi e oggetti misteriosi, sparsi per il mondo e legati alle civiltà del passato. Uno di loro è la “pietra dell’uomo saggio”, nascosta tra le piramidi egizie.

La nazione che gli fornirà la “cura”, avrà il privilegio di non essere sterminata dall’immenso arsenale atomico di cui dispone. La bellissima Fujiko, da sempre amante dell’adrenalina e del pericolo, è ovviamente sedotta da un uomo che sprigiona tutta questa grandiosità, ricchezza e smania di potere quasi senza limiti. Di conseguenza, per agevolare il sogno di Mamoo e avere qualche tornaconto personale, coinvolge il come sempre “poco saggio e troppo innamorato” Lupin, nella complessa e rischiosa caccia alla cosiddetta “pietra dell’uomo saggio”.

Da queste basi la trama seguirà un percorso tortuoso che “manzonianamente” passerà dalle Alpi (Transilvaniche) alle Piramidi, per poi giungere infine al Reno, nella città di Parigi. Con Lupin e i suoi due inseparabili soci, lo spadaccino Goemon e il pistolero Jigen, che si troveranno perennemente inseguiti dal solito e indomabile ispettore di polizia Zenigata, ma anche nel mirino di tutte le armi e risorse fuori scala che è in grado di muovere Mamoo: un grande esperto di guerra psicologica.

Camion giganteschi e più minacciosi delle blindocisterne di Mad Max, in grado di schiacciare intere volanti della polizia senza rallentare, camminandoci sopra, solo grazie alla spropositata dimensione delle loro gomme. Elicotteri con al comando piloti così abili da volare senza preoccupazioni anche in una rete fognaria cittadina, che non si fanno scrupoli nel crivellare una folla inerme. Trappole mortali di ogni tipo e anche in grado di scatenare terremoti, un sistema missilistico segreto che con un tocco può avviare l’apocalisse.

Forse mettersi contro Mamoo è una sfida troppo grande anche per Lupin III. Mamoo “si sente” e forse ha pure i poteri di un dio. Ma non esistono ostacoli in grado di fermare Lupin, se la posta in gioco finale, la sua unica filosofica ragion d’essere, il suo “sogno”, è sempre e solo quello di riuscire ad allungare le mani sulle forme prorompenti della bella Fujiko.

In genere la procace, disinibita e provocante Fujiko (il cui nome è un omaggio diretto al suo seno, paragonato dall’autore per maestosità al monte Fuji) riesce sempre a stuzzicarlo promettendogli cene galanti e notti di passione in cambio di missioni pericolosissime. Poi lo raggira, lo rimette al suo posto e sorridendo lo manda “in bianco”. Quando lui “accelera i tempi” e spogliandosi si tuffa su di lei, a volo d’angelo, coperto solo dai suoi classici boxer a righe, lei riesce sempre a narcotizzarlo, scagliarlo via con congegni a molle e infine fuggire con il bottino, da sola, vanificando ogni piano e pallottola schivata per conquistarla.

Lupin, quando si parla di Fujiko, non demorde mai. Pur nel biasimo generale dei suoi due soci, che si trovano spesso a lavorare gratis e sfiorare diverse pallottole a causa di situazioni generate dalla bellissima doppiogiochista.

Lupin non demorderà neanche questa volta, anche se la posta in palio sarà qui così alta da coinvolgere il destino di tutto il mondo.

Potranno Mamoo e le sue infinite e spettacolari “armi della scienza”, unite alla sua straordinaria cultura e influenza politica, riuscire ad avere la meglio su quell’innamoratissimo, resistentissimo ma a tratti geniale “scimmiotto” di Lupin?


(Il Lupin “per adulti” e quello “per bambini”)

È negli stessi anni ‘60/ ‘70 di Diabolik e Kriminal, che l’autore giapponese conosciuto con lo pseudonimo di “Monkey Punch” dà vita ai fumetti di Lupin III, ispirandosi liberamente al personaggio creato da Maurice Leblanc. Lupin III è come l’originale un ladro scaltro, spesso all’interno di storie anche cruente, diremmo per l’epoca “poliziottesche”. Ma è pure e senza dubbio un grandissimo “estimatore” del genere femminile.

Che si tratti di attrazione fisica, quanto di amore romantico, il nostro eroe non conoscere freni. Moltissime strisce, accentuate da uno stile grafico sexy ma pure squisitamente umoristico, lo ritraggono infatti nudo, mentre cerca di impalmare la sua ossessione principale: la bellissima ladra Fujiko. Una Fujiko che, come Nadia Cassini e la Fenech degli anni ‘70, non lesina di esibirsi su carta, ma poi anche nelle serie tv e al cinema, in molte situazioni caratterizzate da un alto grado di sensualità. Pur se il nostro Lupin, come Lino Banfi o Vitali, è destinato ad andare (quasi) sempre incontro a un epilogo insoddisfacente, doloroso quanto tragicomico. Per poi riprendersi e riprovarci con una ossessione paragonabile solo a quella di Willie E. Coyote.

La brama d’amore vince sempre sulla brama di denaro e potere: Lupin è un vero antieroe romantico, giocoforza sempre nel mirino di qualche avido privo di sentimenti.

Alzando la posta in gioco con un forte smorzamento del suo tratto umoristico, che pur rimane, il personaggio diventava a tutti gli effetti un prodotto per adulti con il primo cartone animato a lui dedicato, uscito in Giappone nel 1971/72 ad opera della TMS, seppur arrivato in Italia solo nel 1979.

I 23 episodi che componevano la serie, spesso sperimentali quanto arditi nel rappresentare la sensualità quanto la violenza, “Eros e Thanatos”, di fatto furono la “palestra creativa” in cui, sotto la guida di animatori storici come Yasuo Ōtsuka (cresciuto nel gruppo dì Osamu Tezuka), sono fioriti Hayao Miyazaki e Isao Takahata (i futuri Ghibli), ma pure Tsutomu Shibayama (regista tv di Doraemon).

I distributori italiani del 1979, presi molto bene dall’atmosfera “anarchica e peccaminosa“ che trasudava il cartone animato, almeno quanto nella cultura dell’epoca, arrivarono a scegliere come sigla dell’edizione nostrana la hit francese “Planet O di Daisy Daze and the Bumble Bees”: un brano disco ispirato al peccaminoso libro del marchese De Sade “Histoire d’O”, che parla esplicitamente di sessualità e corsara voglia di trasgressione.

Fino al 1979 e all’uscita cinematografica italiana proprio di questo film, Lupin III - La Pietra della Saggezza, vedere Lupin in tv era davvero come leggere il noir/action di Kriminal e Diabolik. Del resto il fatto che i cartoni animati dovessero essere “strettamente roba da bambini” era una questione che non era mai stata sollevata e il pubblico italiano, con il palinsesto che era ricco anche di opere adulte e disturbanti come L’Uomo Tigre, Devilman, Bem il mostro umano, al netto di un paio di mamme che si legavano ai cancelli della Rai protestando per la messa in onda di Goldrake. Poi le cose cambiarono.

La Pietra della Saggezza arrivava nelle sale proprio in concomitanza con la seconda serie animata di Lupin III: una nuova serie che, anche per volontà dei produttori giapponesi, non era più rivolta a un pubblico strettamente adulto: risultando molto meno violenta, ancora a tratti “sensuale”, ma con una maggiore dose di ironia e disimpegno generale.

Una serie che in Italia avrebbe avuto come sigla, al posto della peccaminosa disco hit Planet O, un brano di “liscio romagnolo” ( variante “valzer parigino”) eseguito dall’Orchestra Castellina-Pasi. Una serie con protagonista un Lupin molto “burlone”, in sintesi.

Il film voleva invece, con tutte le sue forze, essere un’opera “estrema e scollacciata”, sul modello del Lupin “duro” della prima serie tv e del manga.

Ecco allora che i temi del “doppio”, del “clone” e della “rinascita”, che sono alla base della storia raccontata in questa pellicola, possono assumente anche una valenza squisitamente meta-cinematografica: raccontandoci il modo in cui il personaggio “editorialmente” si stava sdoppiando (anche per “faide” interne legate allo sfruttamento del prodotto), e lo avrebbe fatto ancora più volte in futuro, forse nel processo “perdendoci qualcosa”.

In Italia, questa “perdita di qualcosa” andò a braccetto, purtroppo, anche con la censura.

Il film arrivò in sala orgogliosamente in versione integrale, con la peccaminosa Planet O inserita nei titoli di testa e di coda.

Fu la prima e unica volta, fino ad ora, in cui si poté vedere La Pietra della Saggezza nella versione voluta dai realizzatori.

Anche grazie alle mamme che si incatenavano alla Rai per non trasmettere Goldrake, quella versione sparì per sempre: al suo primo passaggio in tv, La pietra della saggezza fu brutalmente censurato. Via tutte le scene di nudo di Fujiko, via ogni scena in cui veniva rappresentata della violenza anche se funzionale e logicamente legata alla trama, via addirittura dei quadri reali famosi se i soggetti “non adatti ai minori”, via Planet O. Tagli che renderanno la visione in alcune parti della storia anche criptica, motivati dal fatto che in tv Lupin III ora doveva fatturare nella fascia oraria destinata ai bambini. Anche la seconda stagione di Lupin, una volta spostata dalle emittenti locali alla tv nazionale, verrà tranciata di svariati minuti per eliminare gran parte delle scene sensuali presenti. Peggio toccherà alla terza serie, del 1984, che per uno scherzo del destino avrà come character designer proprio l’animatore capo de La Pietra della Saggezza, Yuzo Aoki. La splendida Fujiko di Aoki è così diventata uno dei personaggi animati più censurati di sempre. Siccome la terza serie era tornata ad essere un prodotto per adulti, in questo caso con presenti un gran numero di scene scollacciate, la mannaia della censura italiana, pur di conservare con le unghie e i denti la fascia di trasmissione dei più piccoli, sforbicerà o addirittura ribalterà il senso narrativo di diverse puntate, riuscendo in alcuni casi a toccare vette di incomprensibilità e assurdo allucinanti.

C’è da dire che questo infausto periodo di censura è finito e oggi sono giunte a noi, senza tagli, anche le successive serie di Lupin “più spinte” sul piano dell’erotismo e della violenza visiva. Faccio riferimento soprattutto alle opere firmate da Takashi Koike e nello specifico alla miniserie “La donna chiamata Fujiko Mine”, che riprende molte delle atmosfere e tematiche a metà strada tra arte, la metafisica e la sensualità proprie de La pietra della saggezza.

Negli anni, in Giappone, svariati autori hanno messo mano a Lupin e al suo mondo: come lo stesso Monkey Punch, che ha voluto dirigere un suo film personale, Dead or Alive, che ovviamente era uscito come un “poliziottesco durissimo”, pur con venature fantasy. Come Miyazaki, che con Il castello di Cagliostro ha “codificato” un “proprio Lupin”, perfettamente integrato nelle opere sognanti dello studio Ghibli. Ogni autore ha in qualche modo modificato il personaggio in fisionomia, a volte anche in carattere, a volte anche solo “aggiornandolo” per andare incontro a un pubblico che in 50 anni si è molto diversificato.

Sono nati così tanti doppi o “cloni”, che un giorno TMS ha deciso di far “incontrare e scontrare” tutti insieme, in un’interessante storia “corale”, nello special Green vs Red del 2008, per la regia di Shigeyuki Miya. Un film per il quarantesimo anniversario della serie in cui figuravano sulla scena ben più di quaranta diversi Lupin. Ma è in fondo proprio qui, ne La Pietra della Saggezza, che viene rivendicato il diritto artistico di “clonare” Lupin per renderlo così in parte immortale.

Yamato Video “resuscita” oggi in sala La Pietra della Saggezza, oltre che con il massimo della definizione audio e video possibile, anche con il primo doppiaggio originale non censurato (cui seguirono ben tre doppiaggi in parte “censurati”).

La nuova edizione della Pietra della Saggezza conferma, ancora una volta, la volontà dell’editore milanese di ripristinare e riportare al suo splendore, rigorosamente senza censure, tutto il materiale originale legato a Lupin III.

(La pietra della saggezza come ci appare oggi al cinema, nel 2024)

Lupin III - La Pietra della Saggezza è il primissimo film cinematografico di Lupin III e viene affidato alla regia dell’esperto Soji Yoshikawa, che prima (tra le mille cose) era stato già alla direzione di alcune puntate di serie tv come Rocky Joe, Yattaman, Zambot 3 e Conan.

La pellicola, visivamente molto sontuosa e animata da un ritmo dell’azione quasi ossessivo, ha potuto godere di un alto budget, pari a 500 milioni di Yen, che ha portato al coinvolgimento attivo di una troupe di 1513 persone per 15 mesi, arrivando a una release che si sovrapponeva con la messa in onda della stagione 2 e anticipava solo di pochi mesi il secondo film cinematografico dedicato al personaggio, Il castello di Cagliostro di Hayao Miyazaki.

Proprio per la straordinaria forza e qualità delle scene d’azione, molte sequenze de La Pietra della Saggezza saranno scelte, insieme a spezzoni de Il castello di Cagliostro, per comporre il laser game Cliff Hanger di Stern Electronics, uscito nel 1983 e arrivato anche nelle sale giochi italiane.

L’ottima colonna sonora è firmata dall’inconfondibile compositore jazz Yuji Ohno, che proprio da questo film, insieme alla concomitante stagione due, sarà fino ad oggi il musicista di riferimento di ogni opera legata a Lupin. La musica di Ohno a volte entra anche lei “nell’azione”, come in una sequenza in cui Mamoo cerca di colpire Lupin con uno dei raggi laser che partono dalla pressione dei tasti di un organo.

La trama confezionata da Yoshikawa e Yamatoya è decisamente folle e sopra le righe. Da un lato è spiazzate l’apocalittica messa in scena dello scontro tra il nostro eroe e un avversario quasi onnipotente, che non lesina di esibire la sua forza in scene iperboliche e vertiginose, grandiose quanto molto crude, con risvolti sinistri, a volte anche splatter. Si respira molta tensione, i personaggi sovente viaggiano attraverso quelli che sembrano autentici viaggi allucinatori, ma al contempo la storia appare davvero ricca, suggestiva. Ci sono rimandi alla situazione geopolitica dell’epoca, “guest star” politiche come Henry Kissinger. Si gioca con temi cari alla filosofia quanto alla psicanalisi, rappresentando lo scontro tra Lupin e Mamoo simbolicamente come il conflitto tra l’istinto che si contrappone alla ragione, se vogliamo alla ricerca del significato più profondo della “saggezza”: se sia più saggio vivere il presente o temere costantemente di morire pensando al futuro e rimpiangendo il passato. La sceneggiatura non si vergogna di lanciarsi in metafore anche di natura “freudianamente” sessuale, come una scena che ha per protagonista la celebre spada Zantetsu di Goemon. A volte la trama si fa pure sarcastica e quasi fantozziana, come nella scena dell’incontro totalmente surreale tra Zenigata e il sovrintendente.

L’intreccio de La Pietra della Saggezza va poi gradualmente nel terzo atto quasi a dissolversi, assumendo la forma di flusso di coscienza o un viaggio onirico in cui i tempi sono dilatati, la direzione del racconto in continuo divenire. In 102 minuti accade quasi di tutto.

La caratterizzazione dei personaggi, opera di Yasuo Otsuka, vede un riuscito Lupin dalla fisionomia particolarmente buffa, caricaturale e arcuata, ma sempre pronto a dimostrarsi “serio e credibile” nell’affrontare i momenti più drammatici. Fujiko è più che mai bellissima e slanciata, in diretta “competizione” con le forme delle tante statue delle divinità greche di cui abbonda l’isola di Mamoo, ma come sempre ben più “complicata e profonda” di come appare in superficie: convincente anche nelle scene più action, drammatiche come umoristiche.

Il faustiano Mamoo richiama in moltissimi dettagli Swan, il villain interpretato da Paul Williams nel seminale Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, pellicola cult del 1975 che avrebbe ispirato molto anche l’immaginazione di Kentaro Miura. Come Swan, Mamoo “spia” il mondo da dietro telecamere nascoste, ha una vera ossessione per la bellezza e cerca con tutte le forze di epurare il mondo dal “brutto”, cercando di edificare un proprio personale paradiso in terra.

Al di là di tutto il suo sconfinato potere, Otsuka ce lo rappresenta come Paul Williams piccolo, dal corpo né adulto né bambino, con occhi incredibilmente grandi ed espressivi che a volte ci fanno provare anche pietà per lui. È simile a un tragico guscio vuoto, sempre sul punto di rompersi.

Goemon e Jigen, così come Zenigata, hanno un design forse più convenzionale, ma offrono il meglio di loro in dialoghi serrati quanto a volte sopra le righe. Particolarmente divertente è Goemon, che qui appare decisamente meno taciturno del solito ed esprime il suo momentaneo stato d’ansia attraverso fiumi di parole quasi incontrollate e continui battibecchi con Jigen.

Esteticamente, La Pietra della Saggezza profuma delle stesse atmosfere esotiche di James Bond.

Cita in una lunga sequenza The Duel di Spielberg del 1971 e attraverso le sue ricche scenografie lancia continui rimandi al cinema di genere del suo periodo, tra la fantascienza (le geometrie asettiche di 2001) e il fantasy (il futuro che si mischia con il passato di Zadoz).

Davvero affascinanti le suggestioni grafiche legate al mondo dell’arte classica e moderna propria degli anni 60/70, con scene che hanno sullo sfondo rivisitazioni molto fedeli di opere come Il Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti, Mistero e Melanconia di De Chirico, Relatività di Escher, La persistenza della memoria di Dalì. Ci sono scorci del Partenone, rievocazioni delle illustrazioni di Bacone per la Divina Commedia, edifici che richiamano Atlantide come Babilonia, centinaia di farfalle colorate che diventano quasi dei mosaici post-moderni.

Assume oggi un gusto del tutto particolare la sequenza quasi onirica con Napoleone e Hitler, con molte similitudini con quanto avviene nel surreale fantasy Fairytale del russo Sokurov, uscito nelle nostre sale giusto nel Natale 2022.

(Finale)

Al netto di una trama adulta e molto affascinante, ma che in alcuni passaggi può risultare complessa, tutto il comparto tecnico dell’opera risulta di altissimo livello ancora oggi.

È un film folle, anarchico, metafisico, psichedelico, sensuale e sarcastico.

È un film che volutamente estremizza ogni concetto e forma, andando a disegnare un Lupin davvero unico.

Un Lupin che grazie a Nexo e Yamato Video, che hanno recuperato l’opera nella sua forma migliore e non censurata, torna a vivere come voluto dai suoi autori, a distanza di 45 anni, in sala, in questa calda estate del 2024.

Un appuntamento imperdibile per tutti i fan del personaggio, ma anche per chi ama l’animazione e le mille suggestioni del cinema degli anni ‘70. Lupin III al cinema non è “solo“ Il Castello di Cagliostro. 

Talk0