sabato 29 febbraio 2020

Picciridda - con i piedi nella sabbia: la nostra recensione del film tratto dal libro di Catena Fiorello



La nonna non ride mai, comanda sempre, vede sempre di scuro e odia tutti, pure sua sorella. Fa un lavoro strano e inquietante come vestire i morti prima del funerale e dicono che lo faccia davvero bene, ma questo non lo rende una cosa normale. La sera guarda le stelle sulla seggiola in cortile e in silenzio fuma sigari insieme alla sua unica amica. La nonna nasconde misteri e fa un po' paura, ma si getterebbe nel fuoco per proteggere la sua "picciridda". La mamma, il papà e il fratello sono andati al nord, in Francia, a cercare fortuna e lavoro. In un piccolo e arido paesello del sud Italia, tra anziani e galline, con la burbera nonna è rimasta la picciridda, con la promessa che per Natale verranno a prendere e portare via pure lei. Come Martina Abramovic sta con le pecore nere, la picciridda sceglie di stare con la gallina nera del suo pollaio, la gallina meno aggraziata, quella che fa più casino. Si chiude nel pollaio insieme a lei e si nasconde dalla nonna che non le permette di andare dallo zio pescatore, che tanto le vorrebbe bene e la riempirebbe di regali ma la nonna non vuole, forse perché è cattiva, forse perché è invidiosa. Fuori dal pollaio la picciridda mette alle spalle tutto il suo paesello e corre al mare, stringe la sabbia a piedi nudi e guarda oltre il tramonto, alla sua famiglia lontana. Intanto arriva Natale e nessuno è tornato a portarla via da lì. Una nonna che pare un orso non sembra di buona compagnia e la picciridda inizia a sentirsi grande, con il corpo che cambia e si fa più lungo. Ci sono in paese cattivi occhi che hanno notato pure loro quel cambiamento e la nonna è sempre più inquieta.


Tratto da un racconto di Catena Fiorello, Picciridda è una piccola sorpresa, un film quasi "neo-realista" che con garbo, colori caldi e a tinte forte, si muove inseguendo il quotidiano di una ragazzina del sud Italia di quelli che potrebbero essere gli anni '60 o '70. È un mondo infantile che va ad appassirsi in fretta, quasi bruciato dal sole, guidato da una figura magica ed autoritaria, la nonna, i cui contorni rimangono sempre misteriosi e i cui valori, primo tra tutti "l'onore", riecheggiano nella piccola protagonista come le tavole dei dieci comandamenti. Tra la sabbia ogni tanto spunta il sangue e la storia della picciridda si colora di Eros e Thanatos mentre il paesino rimane in un silenzio angosciante, con gli adulti che tengono così stretti terribili segreti da preferire essere considerati crudeli piuttosto che rivelarli. È un viaggio emotivo, quello della picciridda, che la fa sbattere su infinite porte chiuse a chiave. L'incomunicabilità ostinata dei sentimenti, anche a chi è più caro, diviene l'immagine di una terra a cui si è intimamente legati, ma di cui non si comprende mai a pieno le regole. Una terra dalla quale, ci suggerisce il film, è più giusto scappare che ritornare. 
Straordinaria la nonna, interpretata da Lucia Sardo. Vitale, solare, colma di un fascino ingenuo quanto di un ricco mondo interiore, la picciridda interpretata da Marta Castiglia.
Luciferino e ambiguo il pescatore, circondato dalle sue teste di pesce essiccate e sanguinanti. 
Paolo Licata, con il supporto alla sceneggiatura di un regista esperto e mai troppo elogiato come Ugo Chiti, porta in scena la prima trasposizione cinematografica di un libro di Catena Fiorello in un modo garbato quanto ermetico, solare quanto sanguigno, non perdendo mai lo sguardo ingenuo e critico della giovane protagonista. Ne risulta una pellicola riuscita sotto ogni punto di vista, di cui consiglio a tutti la visione. Un piccolo classico. 
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giovedì 27 febbraio 2020

Cattive Acque: la nostra recensione del legal-drama con Mark Ruffalo



Studio nuovo e prestigioso alla corte del grande Tom Trep (Tim Robbins), multinazionali come clienti danarosi e potenti, una nuova casa e una bella moglie (Anne Hathaway), il giovane avvocato Robert Bilott (Mark Ruffalo ) sembra aver svoltato e raggiunto i piani alti, scrostando le scarpe dal fango della provincia. Solo che un giorno l'agricoltore Wilbur Tennant (Bill Camp) prende l'ascensore e arriva pure lui nel ricco studio legale di Robert, gli porta una montagna di carte e una accusa molto precisa nei confronti di una importante multinazionale cliente affezionata dello studio, la DuPont. Stanno da anni riempiendo la città di Wilbur di rifiuti inquinanti, la gente si ammala e muore e la DuPont dice che è tutto normale, tutto in regola, che "lui è pazzo". L'avvocato Bilott si prende a cuore la causa e inizia così una delle più grandi e importanti class action della storia del diritto internazionale. Una causa che riguarda la salute di migliaia di persone e il limite fino a cui può legalmente spingersi una multinazionale per sacrificarlo in ragione di un profitto. 


È un film complesso, duro, molto accurato sul profilo legale ma che non rinuncia per questo a valorizzare i personaggi in causa. È una storia terribilmente vera, oggi ancora attualissima e che vi farà venire un brivido sulla schiena se anche per voi la parola "Teflon" ha un significato e si lega a vostri acquisti passati. Ci facevano il rivestimento dei carri armati, è diventato il materiale più prestigioso per le pentole da cucina, si è trasformato in un incubo biologico in grado di mutare gli esseri umani a livello molecolare, aumentando incisivamente specifiche e gravi patologie tumorali. Il film, che parte come un mistery locale, come una piccola guerra tra ricchi e poveri, da subito sale vertiginosamente, parla di un dramma già in atto, con la conta dei morti già iniziata e con risarcimenti milionari che si chiedono per lo più per ammortizzare le costosissime terapie mediche di chi è ancora sopravvissuto. C'è alla base di tutto questo dolore un infinito ingranaggio di scatole cinesi burocratiche che sviano responsabilità , sminuiscono il valore di dati scientifici, dividono le colpe con totale indifferenza e per ammenda seguono logiche economiche folli, in virtù delle quali non potrà mai subire una pena economica seria una multinazionale che guadagna miliardi ogni giorno. È un film che fa male, ci fa sentire piccoli davanti a delle corporation che sanno di essere responsabili di qualcosa, ma tacciono per indifferenza. Ma è anche un film di rivalsa, dove gli ingranaggi della giustizia si vedono girare, dove si capisce come funzionano e possono essere utilizzate le leggi. Davanti a un'infinita offerta di legal drama dove il tribunale diventa scenario di semplicistici pipponi, banalissimi e carichi di melassa, Cattive Acque svela le strategie più raffinate, i corretti tempi processuali, il lavoro delle commissioni e delle perizie. Un sano approfondimento che appassiona gli amanti de genere, unito ad attori molto bene in parte, come Camp e Ruffalo, in grado di toccare il cuore anche al resto della platea. Cattive Acque di Todd Hayness ha la stessa pasta di A Civil Action di Steven Zaillian e di Eric Brockovich di Steven Soderbergh, è un legal drama di razza che, pur potendo contare su una vicenda dalla componente emotiva dirompente, sa calibrare bene ogni elemento narrativo senza perdersi nella retorica. Un ottimo esempio di cinema e una vicenda che è importante sia arrivata al cinema oggi, in un momento storico in cui la sensibilità alle tematiche ambientali è rilevante. Due ore che filano veloci, appassionano e qualche volta commuovono. 
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martedì 25 febbraio 2020

Il richiamo della foresta - la nostra recensione!




Buck è un cagnone irresistibile, enorme e buffissimo, che vive da principino viziatissimo in un piccolo paesino nella provincia americana. Essendo il cane del giudice (Bradley Whitford), tutti lo viziano e tutti lo temono, tutto gli è permesso e tutto rompe, mangia tutto, sbava su tutto, fino a che un bel giorno arriva una bella sgridata, una notte al freddo e al gelo per punizione e un bruttissimo tiro della sorte fa finire la pacchia del tutto. Rapito da uomini senza scrupoli, Buck arriverà nel Klondike, dove i cercatori d'oro usano le slitte trainate dai cani per percorrere le lande ghiacciate, spesso rimettendoci la pellaccia. Buck imparerà con il tempo a vivere a contatto con altri cani in quella natura selvaggia, incontrerà più padroni, tra cui il simpatico Perrault (Omar Sy) e presto sentirà il richiamo dello spirito di un enorme lupo nero (forse il leggendario Fenrir dei miti vichinghi?), con grandi progetti per il suo futuro. Se Buck compie un viaggio che lo spinge sempre più verso la natura selvaggia, in quel mondo di confine ci è già invischiato il solitario John Thornton (Harrison Ford), forse in fuga da se stesso più che dal mondo. L'incontro tra John e Buck cambierà la vita di entrambi.
Chris Sanders, regista e sceneggiatore di Lilo e Stich, Dragon Trainer e i Croods, ma anche sceneggiatore di cartoon Disney indimenticabili come La bella e la bestia, Aladdin, Il Re Leone e Mulan, riadatta per il grande schermo del 2020 The call of the Wild, classico dei classici di Jack London (papà anche di Zanna Bianca), una delle opere letterarie più seminali di tutti i tempi, scritto nel 1903 e ancora oggi famosissimo, adattato al cinema già 14 volte. 


La tecnologia recente permette una effettiva "recitazione" degli animali, tanto che il cagnone Buck è "interpretato" da uno straordinario attore di performance capture di nome Terry Notary, che si è fatto le ossa creando le movenze per la scimmietta Rocket (nella recente saga del Pianeta delle Scimmie), per lo scimmione King Kong (Kong: Skull Island), per l'amabile uomo-pianta Groot (Avengers: Infinity War). Buck è  un amabile pasticcione che durante la pellicola cresce, scopre le sue qualità, interagisce attivamente con i personaggi umani e al contempo salta e corre in paesaggi innevati resi iper-realistici e vorticosi come montagne russe dal meglio della tecnologia digitale odierna. Il film è un autentico prodigio visivo vicino per complessità e messa in scena a Revenant di Inarritu e 1917 di Mendes. Insieme a Buck siamo anche noi ad immergerci sempre più in una foresta che ci chiama, sospinti dalle musiche del veterano John Powell, nella cui sconfinata carriera figurano perle come Happy Feet, Dragon Trainer e L'era glaciale. Se il comparto visivo e sonoro è stellare, la sceneggiatura di Michael Green (Logan, Blade Runner 2049) funziona molto bene nella prima e seconda parte, per poi perdersi un po' in un finale troppo repentino. Facendo un parallelo con l'interessante ma un po' diabetico War Worse di Steven Spielberg, Il richiamo della foresta si può idealmente dividere in capitoli caratterizzati dal rapporto tra il cane Buck e i differenti padroni che si sono susseguiti nella sua avventura. Ogni capitolo in qualche modo ci porta delle "suggestioni narrative" che sono proprie dell'opera di London ma che il Cinema ha scisso e declinato in diverse pellicole. È un overture interessante. La vita con il giudice impersonato da Whitford ha echi della commedia leggera Beethoven di Brian Levant, il periodo con Omar Sy è un ottovolante infinito con curve a gomito che richiama il cartoon action Balto di Simon Wells, la storiaccia brutta con Dan Stevens dura poco ma ha i toni horror de La cosa di Carpenter e la follia di un Urlo dell'odio di Lee Tamahori. Poi arriva Harrison Ford è Buck è subito Chewbecca, la pellicola si distende tra magnifichi quadri naturalistici alla Revenant e delle felici contaminazioni in area Alba pianeta delle scimmie di Rupert Wyatt. Questo "c'era già tutto in London e torna a London", per mezzo di Disney, insieme alla mitologica figura del lupo nero che aleggia su tutta la narrazione e che per i più piccini assomiglierà tantissimo al Mufasa del Re Leone (1998) o al Grande Cervo di Bambi (che comunque è del 1942). Omar Sy è travolgente per simpatia e umanità, Whitford indossa bene la maschera comico silente e lunare, Harrison Ford quando arriva in scena si divora tutto, diventa il "suo film", una delle sue interpretazioni più belle, sofferte e malinconiche, diventa il "suo" Revenant, orso compreso. È molto commovente e non pensiamo per un attimo che stia parlando con un cane digitale. Dan Stevens purtroppo non ha un personaggio ugualmente ben scritto e il suo tempo su schermo è poco convincente, con delle ricadute sul finale, se vogliamo il momento in cui la pellicola non è proprio al top, che arriva come una mannaia mentre saremmo stati ancora una buona mezz'ora in compagnia di Buck. Pur con questo piccolo difetto, Il richiamo della foresta è una pellicola meravigliosa, elegante, divertente e malinconica. Personalmente lo ritengo il più riuscito film Disney live action dai tempi de Il libro della giungla di Farvreu. Come Revenant, è un viaggio visivo nella natura da gustare a pieno su grande schermo, con il miglior impianto sonoro disponibile. 
Davvero un paio d'ore niente male. 
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lunedì 24 febbraio 2020

La mia banda suona il pop - la nostra recensione del nuovo film di Fausto Brizzi



C'erano una volta i Popcorn e a cavallo degli anni '80, superando giganti come i Ricchi e Poveri, Albano e Romina e Pupo, bruciavano ogni classifica ed esaltavano le platee con brani come questo.



In questo brano, Semplicemente complicata, c'è letteralmente "tutto un mondo", una nostalgia e ingenuità disarmanti e che non fanno prigionieri, soprattutto tra chi gli anni '80 li ha vissuti tra una compilation di Bimbomix, Zig Zag con Vianello e l'immarcescibile quiz TV Cantando Cantando con ospiti fissi i Ro.Bo.T. Cade la lacrimuccia a me e probabilmente ne cadrebbero altre in Russia, oggi nel 2020, dove un milionario eccentrico fanatico degli anni '80, Vladimir Ivanov, vuole per il suo compleanno la band riunita, in un concerto tutto per lui e per i fan russi dei Popcorn. Un affare da 250 mila euro per il vecchio manager del gruppo Franco Masiero (interpretato da Diego Abatantuono), un grande affare di miliardi per l'addetta alla security del magnate Olga (Natasha Stefanenko), che durante il concerto vorrebbe svaligiare il cavou del riccone ( Rinat Khismatouline). Solo che per un gioco del destino i due affari arrivano a scontrarsi e sovrapporsi e saranno proprio i Popcorn a dover compiere il furto. Ma sapranno essere oggi dei provetti Arsenio Lupin quanto erano negli anni ottanta delle divinità della musica trash-pop? Di sicuro dovranno prima ricordarsi come cantare insieme, perché il gruppo si è sciolto da anni e i suoi quattro membri sono oggi un po' bolliti oltre che un po' in bolletta. Il cantate Tony (Christian De Sica) canta ai matrimoni e sogna di partecipare all'Isola delle Meteore. Lucky, il bello del gruppo dal capello lungo biondo (Massimo Ghini), non è più bello, è piuttosto sfigato e lavora in un posto stile "Il paradiso della brugola". La ninfetta dalla voce sexy Micky (Angela Finocchiaro) è persa da anni nell'alcol e si è riciclata come conduttrice di uno scalcinato programma di cucina. Il carismatico e maledetto Jerry (Paolo Rossi) piuttosto che tornare nei Popcorn canterebbe per strada con la chitarra come un barbone, e infatti canta per strada con la chitarra come un barbone da anni. I quattro ovviamente si odiano a morte e non vogliono più avere a che fare con i Popcorn, ma forse troveranno un obiettivo comune proprio grazie a questo "affare russo". Lo faranno per i fans o per i soldi?


La canzone Semplicemente complicata mi ha rapito il cuore come un treno in corsa, è l'esatta costruzione sdolcinato-trash-pop fatta con amore in laboratorio per rievocare un periodo più che per avere un senso. Profuma della plastica e conservante delle pizzette congelate del 1985 da scaldare al forno elettrico, hai i colori del cabinato di Ghost and Goblins e delle gelatine dei Masters of the Universe. È utile quanto gli scaldapolpacci di Jane Fonda e le giacche con le spalline chiodate di Sabrina Salerno. Sa di lacca e sa di giovinezza perduta, un po' come la simpatica combriccola dei Popcorn. Vedo il chitarrista fallito di  Paolo Rossi, Jerry, e mi irradia l'ombra epica e tragica del suo Walter Zappa di Kamikazen-Ultima notte a Milano. La Finocchiaro con la cantante in crisi etilica Micky è dolce e goffa come un cartone animato, come lo era la sua Martina in Volere Volare. Vorrei vedere molto di più al cinema Rossi e la Finocchiaro. Non me ne rendevo conto, anche perché sono attori che preferiscono il teatro ed è giusto così, ma quanto vedrei bene un altro film con loro due insieme, magari scritto e diretto da Maurizio Nichetti. Fine del sogno, torniamo a noi. Ghini e De Sica sono qui più o meno Ghini e De Sica di sempre: una coppia rodata e affiatata di zuzzurelloni romani che vivono di espedienti e indossano assurde parrucche. Ghini però ho fatto davvero fatica a riconoscerlo all'inizio, ha fatto un incredibile lavoro di sottrazione per tratteggiare il vecchio e "sfortunato" Lucky. I quattro insieme funzionano, hanno una buona sinergia e la loro esperienza teatrale gli permette di essere credibili come cantanti anni '80. Hanno un passato (che mi immagino "non solo" musicale) comune accennato ma che in futuro potrà essere esplorato in lungo e in largo anche grazie ai quattro giovani attori che impersonano, forse per troppo poco tempo su schermo, la compagine negli anni '80. Potrebbero avere altre perle come Semplicemente complicata al loro arco, dispiace che nel film si senta solo questa. Sono intriganti e un po' luciferini i personaggi di Abatantuono e Stefanenko. Il primo, quasi con il fascino di un Enrico Maria Salerno (saranno le lenti a contatto azzurro-Diabolik?), ci conquista con una serie di finti aneddoti sul mondo musicale e un cinismo da Mara Maionchi. La seconda è una quasi Charlize Theron fastfuriousiana che avrei gradito più buffa, più caricaturale, anche perché la Stefanenko come attrice leggera è irresistibile. A interpretare il magnate russo fanatico di anni '80 (al punto da allestire un trabocchetto che capiranno solo gli ultra-nerd alla Ready Player One) c'è il bravo Rinat Khismatouline, già visto nello stralunato Brutti e Cattivi che nel recente 6 Underground


I personaggi ci sono, l'ambientazione è kitsch quanto basta, la storia è purtroppo un po' a strappi. Buono il primo tempo, quando si parla di nostalgia e di riunire il gruppo, un po' affrettato il secondo, in cui vorrebbero convincerci che i nostri cantanti possono essere anche dei ladri provetti in un classico "film di rapine" alla Ocean's 11 con tanto di inseguimenti e sparatorie. L'effetto finale paga una messa in scena che non investe molto nella costruzione delle fasi action ed è un peccato. Si gioca per il furto la carta dell'ingenuità e dei colpi di fortuna in un contesto che vuole (erroneamente) essere serioso ed è un approccio che in effetti può lasciare in platea qualcuno insoddisfatto. Avrei voluto vedere di più i Popcorn da giovani anche perché potenziale narrativo ce ne sarebbe, magari in un seguito potrebbero accontentarmi e alcuni degli aspetti "stonati" di questa pellicola potrebbero essere aggiustati in corsa.
La mia banda suona il pop è una commedia sull'ora e trenta, piuttosto divertente e che beneficia di un affiatato gruppo di attori. La storia non scorre sempre bene, nella seconda parte potrebbe arrivare uno sbadiglio, ma l'amarcord, le canzoni e una fotografia molto colorata riescono a portare a casa un film adatto per una serata divertente, specie se siete fan delle commedie di De Sica. 
Molto validi e da sfruttare di più in futuro al cinema (a loro piacendo) Paolo Rossi e Angela Finocchiaro. Buone le prospettive per un seguito in grado di migliorare retroattivamente la pellicola. 
Si può dare di più, come cantavano Tozzi, Morandi e Ruggeri, ma ci si può comunque divertire anche così.  
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venerdì 21 febbraio 2020

Dragonero - il ribelle n.4: L'Urlo della carne - la nostra recensione


Nel mondo reale come anche nell'Erondar, gli anziani vengono circuiti da finti addetti del gas o finti poliziotti, finti preti, finti uomini della Folletto o finti impiegati comunali. L'uniforme, i modi cortesi, la mal posta fiducia negli sconosciuti dall'aria simpatica, la convinzione che "a me non capita, perché sono più furbo" ed eccoti i vecchietti che in piena fiducia aprono la porta per immaginarie verifiche del livello del gas pirico, manutenzioni della caldaia tecnocrate, comunicazioni urgenti della vincita di una fornitura di pentole dell'Enclave della Montagna o di una scorta di confetture della Valle degli Orti margondariani. Prima un "Grazie per il the!", poi un "Ma che cucina ordinata e accogliente", si arriva a "Faccia due firme mentre il mio collega va un attimo in bagno" e poi, almeno a livello emotivo, zack!!  


Quello che si può a tutti gli effetti definire un autentico "L'urlo della carne"
I più polli di tutti sono quei vecchietti che nonostante tutti i campanelli d'allarme e i dispacci del borgomastro rivolti alle persone più a rischio, si fanno comunque entrare in casa: 
1) un tizio mai visto; 
2) dall'aria losca; 
3) che spiega vaghissimamente perché è lì; 
4) con le mani in tasca con un rigonfiamento innaturale dove possono nascondere facilmente un'arma, tipo il flacone di un narcotico, visibile a cento metri di distanza. 
Ovviamente il pollo di questa specifica situazione, che non vede i campanelli 1), 2), 3) e 4) è il nostro Ian, in due minuti narcotizzato e derubato, in uno dei più spettacolari svarioni da alloco della sua esistenza, la figura da sprovveduto di tutta una vita. Non sappiamo esattamente quando gli sia capitato, ma gli brucia ancora così tanto che ha deciso di creare una versione alternativa della vicenda per "esorcizzare i fatti", da vendere agli amici nei momenti di maggiore sconforto. O almeno questa è stata la mia impressione, poi posso sbagliarmi. Così, mentre per questioni tattiche della ribellione Ian e amici sono in missione in un castello abbandonato di proprietà di un noto Wrestler chiamato "Dente d'Orso" ad aspettare un tizio che non arriva mai, per ammazzare il tempo e perché gli rode ancora un casino, Dragonero spara a Brianna la storia imbellettata di come si è fatto fregare dalla più classica truffa agli anziani. Ci mette dentro che i rapinatori sono stati anche suoi rapitori, perché volevano fregargli la sua spada Tagliatrice Crudele (apro parentesi: tutti gli altri nomi della spada successivi sono per me troppo nerd e meno fighi di Tagliatrice Crudele, che suona come il nome di un gruppo epic metal di Livorno) ma solo dopo aver combattuto e vinto con lui in un'arena, motivo per lui lo hanno portato in un posto paro paro al set dove hanno girato la versione australiana di Spartacus, quella in cui si vedono le poppe di Lucy "Xena" Lawless. Da quel momento Ian racconta consequenzialmente una storia pieno di tante tette e sangue come fossimo nello specifico nella stagione 1 della versione australiana di Spartacus, quella in cui si vedono le poppe di Lucy "Xena" Lawless (che l'ho appena detto ma è roba tanto epica da sottolinearla sempre) e poi ti crea per villain lui, il tizio che voleva la spada, il cattivo finale. Un intellettuale, un uomo pieno di carisma che per fascino è secondo solo a Stretch Armstrong. 



Un cattivo non troppo astuto, ma abbastanza grosso da imbastire ogni due minuti frasi degne di The Rock.
Riuscirà Ian a convincere Brianna che non ha subito la classica truffa perpetrata ai danni degli anziani, servendole per storiella una specie di Rip-off dello Spartacus australiano?


Dopo averci parlato  nel numero 3, con gli Eleusi simili ai Rockets, di un tema importante come il "razzismo" (è una battuta un po' da spiegare, da degustazione, che gioca tra il significato nostrano e inglese di razzi e razza... ma ora che l'ho spiegata fa meno ridere... che faccio, lasco??... lascio), con il numero 4, a firma Luca Barbieri, con gli straordinari disegni di Bignamini e Bonessi, parliamo appunto di truffe agli anziani, pur in salsa Spartacus. Un abbinamento in effetti inedito rispetto alle classiche storie di truffe di anziani raccontateci da Striscia la notizia, le Iene e i programmi di Rai 2. Ma gustoso, divertente e anche utile come pubblicità progresso. 
Fesserie a parte (stiamo sempre a gioca' qui...) L'urlo della carne è un numero molto action, un contenitore di magnifiche scene di combattimento all'arma bianca. Molto bella la sequenza da pagina 30 a 41, con le tavole dalla 35 alla 38 che vedono una vera e propria "esplosione muscolare", quasi da Ken il guerriero di Hara. Bello l'inseguimento notturno tra i boschi, molto sensuali e sanguigne le scene ambientate nella roccaforte di Kilvar. Kilvar stesso è un bel bestione muscoloso, un personaggio che sembra uscito da Mortal Kombat, a metà tra Goro e Shao Khan e fa esattamente quello che ci si aspetta da lui. È un vero spettacolo vederlo sempre immerso tra magia nera, colori di guerra e pose plastiche come un culturista metallaro di fine anni '90. Sarsha è una bellissima, ma affatto banale, ragazza che vive traumi terribili ma ne esce forte, da vera guerriera, lontanissima dalla damigella in pericolo quanto dalla eroina disneyana. È poco etichettabile, è irritata, scocciata, per niente gentile, autonoma, irruenta e per la somma di tutte queste cose per me un personaggio davvero valido, sfaccettato, con ancora molto da dire. Tutto il lavoro di caratterizzazione visivo è molto valido, riescono a essere interessanti anche i personaggi minori, non solo per la grande cura nel delinearne corpi e indumenti, quanto grazie a delle espressioni facciali molto riuscite quanto inconsuete. Davvero riuscita la sequenza da fine pagina 45 a pagina 50, in cui Sarsha vive un autentico overture di emozioni. L'ambientazione è molto dark fantasy, dalle parti di Conan e di Frazetta, in un elogio continuato di corpi scolpiti in lotta a riempire la scena, tanto maschili che femminili, compaiono nei momenti di quiete sporadici castelli ed arene diroccati, minimali, immersi in un paesaggio naturale sgargiante. Bella questa alternanza, bello il particolare uso della luce delle pagine 66 e 67, che di colpo ci portano in uno scenario diverso. 
Il numero 4 è un numero se vogliamo interlocutorio, dove la narrazione principale, la rivolta dell'Erondar, si ferma perché Ian possa narrarci un evento del suo passato. Una boccata d'aria agli intrighi di corte che ho gradito. È un antipasto gustoso  ma anche una storia che può essere letta a se stante, godendo di qualche sana mazzata, di personaggi ben realizzati e di un clima gladiatorio che probabilmente, sbirciata la futura copertina, ci accompagnerà anche sul numero 5.
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martedì 18 febbraio 2020

Birds of pray e la fantasmagorica rinascita (emancipazione) di Harley Quinn - la nostra recensione



Siamo nella Gotham City di Batman, nei quartieri popolari, qualche mesetto dopo gli avvenimenti di Suicide Squad. La squinternata supercriminale Harley Quinn (Margot Robbie), dopo aver salvato il mondo è tornata in libertà e a delinquere, fino a che "si è mollata con Joker". Dotata di superforza e riflessi fulminei a seguito di un bagno nel fantomatico acido Ooze, sostanza che al contempo l'ha fatta impazzire, Quinn cerca ora una nuova ragione di vita, aggiornando il suo biglietto da visita con competenze da dog-sitter e mercenaria, mentre passa le serate sul divano a deprimersi per l'abbandono ingurgitando schifezze insieme alla sua nuova iena di nome Bruce. Il fatto di non essere più la donna del Joker le ha fatto inoltre perdere ogni privilegio di cui godeva nel mondo criminale, motivo per cui ha h24 una lista infinita di persone che vogliono farle la pelle per dei torti subiti appena la vedono. Non aiuta poi il fatto che la condotta giornaliera della nostra arlecchina preveda furti, sostanze allucinogene e violenza gratuita in quella che fino a poco prima era piena spensieratezza, con il tasto mentale della follia che non è in grado di spegnere in alcun modo. Diventa presto per Harley un sogno anche solo riuscire a mangiare il suo panino preferito senza che sia inseguita da un matto con una brugola, le sparino o cerchino di arrestarla. Le cose non vanno decisamente bene e volgono al peggio quando attira l'attenzione di Maschera Nera (Ewan McGregor), un malavitoso che la coinvolge nella caccia ad una bambina (Ella Jay Basco) di nome Cassandra Cain (che per chi non mastica fumetti diventerà la più recente BatGirl). La piccola, su cui Maschera Nera ha presto fatto pendere una taglia astronomica, fa piccoli furtarelli e si è da poco intascata un diamante molto prezioso, in grado di dare accesso a uno sconfinato tesoro. Nella caccia al diamante verranno presto coinvolte anche la cantante di night club (Jiurnee Smollett-Bell) Dinah Lance (che presto diventerà per i non addetti ai lavori la super-eroina Black Canary), vicina di casa di Cassandra, la misteriosa vigilante con balestra che si fa chiamare "La cacciatrice" (Mary Elizabeth Winstead) e la dura detective Montoya (Rosie Perez), una delle poche poliziotte per bene della città (che come sanno gli appassionati dei fumetti erediterà per un periodo pure l'identità del superdetective senza volto Question). Riuscirà Harley in tutto questo casino a superare la crisi da abbandono e a trovare nuove ragioni di vita?


Nei fumetti che compongono la cosiddetta Batman-Family viene dato molto spazio ai personaggi femminili, da Batwoman a Harley Quinn, passando per Gotham Sirens e naturalmente Birds of Prey. Se agli inizi questi mondi di carta erano il paradiso dei maschietti per quanto erano colmi di affascinanti ragazze coperte di latex in pose sexy, con il tempo sono arrivate le lettrici, le autrici dedicate, le femministe, le rappresentanti dei movimenti omosessuali e di recente le attiviste del MeToo, andando a riempire questi contenitori pop di suggestioni più complesse sulla femminilità, i diritti delle donne e il loro ruolo nel mondo. Si è arrivati all'estremo in senso opposto? Per alcuni aspetti sì, come la riduzione quasi chirurgica di ogni aspetto legato a una rappresentazione pur ingenuamente sessualizzata della donna, in quanto argomento oggi storicamente "spinoso" (alla faccia della supposta "leggerezza dei fumetti", sono temi serissimi in America ). 
Per altri aspetti invece si è arrivati a qualcosa di bello e inedito, complesso a livello psicologico ma attraente, come la Harley Quinn di Margot Robbie. Qualcuno la può giustamente vedere come una variante del Deadpool di Ryan Reynolds, per la chiacchiera infinita e la capacità inventiva di fracassare gambe e braccia di chi le si pone davanti, ma anche per un mondo interiore non banale, dolente, tragico, che viene allo stesso modo esorcizzato da un comportamento volutamente sopra le righe. Sono entrambi personaggi che dietro alle tutine colorate e al glitter nascondono incubi in bianco e nero come gli anti-eroi di Natural Born Killer. Harley ha poi a livello psicologico intrapreso un serio percorso di autodistruzione e annientamento a favore del partner, ha per lui abbracciato la follia dimenticando di essere stata una seria psichiatra o è stata forse la sua eccessiva empatia come psichiatra la molla per li cambiamento, al di là del fantasmagorico bagno di "rinascita" nell'Ooze.  È più corretto e vicino all'argomento principale di questo film il sottotitolo originale americano del film, che parla della "emancipazione di Harley Quinn", piuttosto che della "rinascita" che è già avvenuta. Harley è chiamata qui ad emanciparsi, a staccarsi dalla sudditanza dal vecchio partner a livello mentale cercando un nuovo equilibrio. Joker non c'è più, anche perché il Joker di Leto non esiste più e il Joker di Phoenix vive in una specie di universo parallelo, Harley deve farci i conti perché fin dall'inizio si è definita una "Arlecchina" e un servitore non può vivere senza un padrone, "non si definisce" senza un padrone, come il samurai che diventa ronin ed è condannato a vagare senza meta. È "una spalla" senza un protagonista da seguire e la  Robbie in questo si comporta in modo molto sofisticato, rifugge il centro della scena, cerca contesti corali, vuole stare sullo sfondo e che sia di fatto un altro a sobbarcarsi il ruolo dell'eroe. Il suo percorso, pur doloroso, è riuscire a mettersi al centro dell'immagine, riappropriarsi della sua vita riconoscendone il valore non solo "ancillare", in un modo per certi versi speculare a quello dell'Arthur di Joaquin Phoenix, dove anche qui un bambino, nello specifico una bambina, giocherà un ruolo chiave (e nel futuro indosserà un simile costume da pipistrello). Nel mentre che questo processo avviene, per altro molto bene grazie alla straordinaria bravura della Robbie di creare un personaggio complessissimo quanto "limpido", succedono nella pellicola avvenimenti che non portano particolari guizzi. 


La regista Cathy Yan tratteggia una interessante Black Canary, una stralunata Cacciatrice, una Cassandra Cain in piena fase di ribellione adolescenziale ma non riesce a gestirne bene il timing su schermo per svilupparle al meglio. Il cattivo di McGregor e la sua spalla sono un po' da barzelletta e al contempo, salvo la sgargiante fotografia e un paio di trovate visive nei combattimenti, manca il sense of wonder di trovarci in un mondo di supereroi, mostri e mutanti. Gotham è un po' indefinita e stranamente cupa nell'ultima parte del film, i costumi delle nostre eroine sono realmente bruttissimi nella loro ossessione di essere a-sessualizzati e nella fiera delle braghette ampie e giacchette mascoline riescono nell'impossibile impresa di far apparire "sciattine", con poco seno e pure la panza delle donne bellissime come la Robbie e la Winstead. Non riesce questa "mortificazione" estetica giusto nel caso della Smollett-Bell, in quanto ultra-strato-gnocca di millesimo livello che  apparirebbe da urlo anche se ricoperta da spazzatura, ma gli sforzi per rendere meno appariscenti possibili dei corpi da pin-up ci sono tutti e a livelli francamente poco giustificabili. La trama decide di essere inutilmente labirintica nella prima parte del film, con mille intrecci temporali da gestire come i pezzi di un puzzle che urlano un po' la voglia (sconclusionata) di citare i topoi di Tarantino. A causa di questo inutile casino si arriva un po' stremati al secondo tempo, con possibili occasioni per addormentarsi in sala proprio allo scontro finale, complici dei combattimenti un po' loffi e guizzi più visivi che di contenuto, non fosse per la Robbie, che davvero ce la mette tutta per conquistarci il cuore. McGregor diventa con l'avanzata del film sempre più un funzionale orpello estetico, è un peccato.
Tiriamo le somme. Margot Robbie tiene da sola insieme il film come fece ai tempi di Suicide Squad, sono che la trama qui è più semplice e i personaggi più facili da comprendere, con il contraltare che molti sono meno ispirati. La fotografia mutua molto da Suicide Squad, ma cerca soluzioni visive più uniformi. La messa in scena delle sequenza action gode di alcune intuizioni divertenti come lo stile di lotta della nostra arlecchina, una specie di pooldance wrestling, la foga per l'overkilling della cacciatrice e le favolose gambe di Canary spesso impiegate in prese articolari. Il finale è un po' stanco ma tutto sommato ordinato. 
Birds of Pray ecc. ecc. è un film carino che affronta in modo non scontato il tema della emancipazione e per il resto cerca di fare bene i compiti, riuscendo nella rappresentazione delle sequenze action, imbroccando alcune trovare umoristiche e di caratterizzazione, ma dimostrandosi un po' ordinario nel resto dello spettacolo. Buono l'accompagnamento sonoro, ricco quanto quello di Suicide Squad. Alla fine ci si può divertire per un minutaggio complessivo non troppo asfissiante, purché non si abbiamo particolari pretese di spettacolarità cui il film per questioni di budget non può ambire. Se avete gradito il primo Suicide Squad non ci sono motivi validi per perdersi Birds of Prey, se non lo avete particolarmente amato qui avete un film meglio gestito nel suo insieme, privo delle scene più non-sense (ma nel complesso non troppo distante da Suicide Squad). Se amate Margot Robbie siete già in sala a prescindere da tutto e fate bene, l'attrice di Tonya ci regala una nuova ottima prova. 
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lunedì 17 febbraio 2020

Dylan Dog n.401: L'alba nera - la nostra recensione




Londra, ai giorni nostri di un mondo che è (forse) il nostro. 
I morti parlano! (Cit). Nello specifico possono parlare i cadaveri all'obitorio di persone che dovrebbero essere morte da giorni ma a cui hanno ficcato una forbice negli occhi poche ore prima, perché misteriosamente ancora vive e forse pericolose. Nelle mani di un ricercatore abile si potrebbe forse ricavare qualcosa come la formula per rianimare i morti, ma la posta in gioco è alta, perché quel morto con la forbice degli occhi potrebbe rialzarsi di nuovo. Ma possono esistere gli zombie? Per Scotland Yard è meglio credere ai terroristi che ai non morti, questioni di politica del territorio. Per l'ex moglie del cadavere risorto e rimorto è meglio che gli zombie esistano, per non finire in carcere con l'accusa di omicidio, ma c'è un detective a Londra che può aiutare a scagionarla. Il suo nome è Dog, Dylan Dog. Sui quaranta, belloccio, barbuto, ex poliziotto, forse alcolista, amante del cinema horror e fantasy, probabilmente pazzo. Esercita e vive in Craven Road insieme a un assistente silenzioso e risoluto, cicciottello e senza baffi, che ripete costantemente e ossessivamente una sola parola (ma che ha moltissime variazioni di significato che solo Dylan sembra riconoscere): "'Gna". Tra oscuri uomini luciferini, mogli di non morti e agenti di polizia rissosi come ex moglii in cerca di terroristi, il nostro Dylan riuscirà a salvarci dai morti viventi?
C'era una volta Dylan Dog, oggi c'è ancora Dylan Dog. Forse. 


La meteora e il numero 400 lo hanno cambiato, Il personaggio si è quasi fuso e sovrapposto al leggendario Dellamorte Dell'amore, si è riassemblato rileggendo diversamente lo storico numero 100. In sintesi "riparte". Come fosse un remake o un reboot o un sequel o qualcosa di diverso, Dylan riparte "rigenerato in modo bizzarro", come capita al Doctor Who ogni tot anni. Con lui cambiano parzialmente il suo mondo e le sue relazioni, forse per i sei mesi su cui si dipanerà questa singolare saga o forse per più tempo, per me con l'unica certa sicurezza che Recchioni sta facendo qualcosa di nuovo e molto divertente, sinceramente spassoso, mentre una parte del fandom è di nuovo sul piede di guerra per le troppe modifiche allo status quo che dall'inizio della sua gestione si susseguono a flusso continuo. Com'è quindi questo nuovo e barbuto Dylan Dog? Assomiglia un po' al vecchio Morty di Rick e Morty, è un uomo che ne ha passate tante, ha la mente ridotta in pezzi ma proprio per questo è tanto folle quanto geniale. È un Dylan "da tre sedute di psicanalisi minime a settimana", la cura più easy per tutto quello che ha scoperto su se stesso e sopportato negli ultimi numeri, ultima la consapevolezza, alla Deadpool, che viene dal numero 400, di trovarsi il protagonista di un fumetto. È questo l'inizio di un percorso, come ho già scritto pianificato per almeno sei uscite, peraltro è davvero difficile prevederne gli sviluppi, non vedo letteralmente l'ora di sfogliare i prossimi numeri.
Questo quattrocentouno si presenta con una elegante copertina dorata, i disegni sono di un Corrado Roi molto ispirato, i testi di Recchioni sono davvero divertenti, carichi di umorismo. C'è molto World building, il Focus per ora è farci familiarizzare con il nuovo status dei personaggi, c'è un gustoso e spiazzante colpo di scena finale. Per ora è un viaggio intrigante, sulla storia, che muove i passi richiamando lo storico numero 1, ci sarà occasione di approfondire nelle successive uscite. Del resto le rigenerazioni sono dei processi lenti quanto affascinanti. 
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sabato 15 febbraio 2020

Memories of a murderer (memorie di un assassino). Finalmente in Italia, dopo il successo di Parasite, uno dei primi bellissimi film di Bong Joon-ho


Corea del Sud, anno 1986, siamo in un paesino della provincia avvolto in una vegetazione fitta e paludosa che fa continuamente sprofondare nel fango o rotolare giù in buche e dirupi chi prova a camminarci sopra.  Cammini per strada e di colpo rotoli in un burrone, vai a scuola e di colpo rotoli in un burrone, fai la fila alla posta perché ti hanno perso un pacco, torni a casa e rotoli in un burrone. Questo non aiuta l'umore generale della popolazione, anche se fa buffissimo da vedere le prime 73 volte, così è normale che un serial killer in città sarebbe saltato fuori. Predilige giovani donne che spesso assale di notte per strade isolate, che ha prima controllato per non cadere sul più bello in un burrone. Le lega e le riempie gli orifizi di oggetti strani, le fa ritrovare in mezzo alla natura. In genere in un posto isolato e pieno di burroni, dove tutti i poliziotti e stampa accorrono e iniziano a rotolare. Nel disorganizzatissimo distretto di polizia, dove tutti hanno i pantaloni coperti di fango, brancolano nel buio. Sembra, tolto il fango, che manchino sui cadaveri i classici peli pubici dell'aggressore-stupratore e qualcuno con una intuizione creativa pensa che l'assassino sia un pelato, un monaco o uno che si depila nei paesi bassi. Per questo motivo gli agenti si recano alle saune pubbliche a sbirciare in basso i numerosissimi avventori di un paese costantemente fangoso. Qualcuno dei più paranoici è invece sicuro che quando l'assassino uccide la radio locale trasmetta uno specifico brano, una nenia romantica che un ascoltatore misterioso chiede ai dj di mettere in scaletta nel caso il clima si guasti e inizi a piovere, il legame pare "molto" evidente. I ragazzini hanno poi messo in giro la storia di un matto che vive nel bagno dietro la scuola locale per uscire solo di notte a uccidere, pericoloso accompagnato da un tanfo di popò. I morti aumentano e la cittadinanza richiede risposte, i detective Park Du-Man (il grande Song Kang-ho, visto in ParasiteSnowpiecerMr Vendetta, Lady Vendetta, The Host e in genere il 90% dei film coreani che sono arrivati in Italia) e Cho Yong-gu (Kim Roe-Ha) vogliono chiudere in fretta la questione e puntano il dito, nell'assenza più totale di indizi, su persone spiantate, asociali e con deficit mentale, spingendole a confessare i delitti con sistemi che vanno molto vicini alla tortura e a volte creando prove artefatte. Il detective di Seoul Seo Tae-Yun (Kim Sang-kyung) cerca di contrastare questo modo di fare, fornendo argomentazioni inconfutabili di quanto tali indiziati siano inadeguati e spesso attaccando briga con la polizia locale. In tutto questo, il killer non si ferma. Forse un test del DNA farà luce sull'identità? Intanto come canta Vasco, tra una scena del crimine e l'altra, il mondo rotola. 


Abbiamo ancora negli occhi il folgorante e bellissimo Parasite, girato nel 2019 e trionfatore agli Oscar del 2020, in cui il regista Bong Joon-ho ci raccontava una storia di quotidiana incivilirà dei giorni nostri, con persone che ancora vivono in caste nette, ricchi e poveri, distinguibili per lo strano odore che emana il quartiere dove risiedono,  con case costruite a ridosso delle fogne. Ora con Memories of a Murderer, girato nel 2003 dallo stesso regista, la sua seconda opera, troviamo ancora un racconto con al centro due "classi sociali", distinte e nemiche, i normali e i "diversi dal normale". Chi è troppo taciturno, che è brutto fisicamente, chi non può ragionare correttamente perché handicappato, chi "si è sputtanato" per una piccola e sgradevole perversione che è diventata nota (in un mondo in cui perfino il protagonista ne ha una peggiore, ma occulta e per lui non rilevante). Chi è "diverso" deve essere infelice e questo non può che portarlo a essere "cattivo", per una logica distorta approvata dalla popolazione "sana", che fa quadrato comune in quanto a gruppo. I detective del paesino di provincia sud coreano arrivano a credere, con questo modo di pensare, che il fantomatico Killer debba essere, in assenza di alcun riscontro effettivo, "per forza, un diverso". Perché è più accettabile, meno traumatico per la comunità, più facile da individuare. Le prove delle indagini allora non sono altro che  pezze d'appoggio per certificare una pericolosità certa e considerata latente, al punto che sono considerate formalità da falsificare per ridurre i tempi delle indagini. Siamo nel 2000 e siamo ancora non troppo lontano dalla misurazione scientifica del grado di devianza sociale sulla base delle anomalie del foro occipitale di Cesare Lombroso, classe 1835. 
Con la grande sensibilità che lo contraddistingue, Bong Joon-ho prende la tragedia di questo atteggiamento mentale e crea un'opera "totale", drammatica, vivida, pervasa dallo humor nero di cui i coreani sono maestri, ricca di colpi di scena e spietata. Un capolavoro che, come Parasite, punta a stravolgere ogni certezza su chi fa affidamento lo spettatore, prima tra tutte il fine ultimo del "mistery" cinematografico, gettandolo in continui e suggestivi vicoli ciechi dove è gustosamente bello perdersi. Con un minutaggio di tutto rispetto, durasse altre sei ore dopo i titoli di coda se ne vorrebbe ancora. Il ritmo è sempre incalzante, le interpretazioni degli attori meravigliose e mai banali. 
Dopo Parasite arriva l'occasione ghiotta di gustare un altro capolavoro di un grande cineasta, come quando ai tempi di Pulp Fiction ritornò in sala Le Iene. Non fatevi scappare l'occasione. 
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