lunedì 29 gennaio 2024

One Life: la nostra recensione del film di James Hawes con protagonista Anthony Hopkins

Nel 1988 un lord inglese settantenne che per tutta la sua vita si è dedicato alla beneficenza, Sir Nicholas Winton (Anthony Hopkins), si trova a dover sgomberare il suo vecchio ufficio per un trasloco, quando gli capita tra le mani un suo vecchio quaderno pieno di foto, documenti e ritagli di giornale, relativo al periodo in cui aveva lavorato per la BCRC (British Committee for Refugees from Czechoslovakia). 

L’uomo, conscio dell’importante valore storico del plico, cerca di portarlo all’attenzione della stampa e delle associazioni, ma trova solo porte chiuse e indifferenza: è roba di oltre un secolo che non importa più a nessuno. Fino a che, molto titubante, decide di rivolgersi a uno show tv della BBC dal titolo That's life!: un People show condotto dall'annunciatrice Esther Rantzen. 

Mentre si avvicina sempre di più la data dell’incontro con la produzione, iniziano a riaffiorare ricordi di molti anni prima. Quando Winton era solito aspettare alla stazione di Londra dei convogli carichi di bambini, con il timore mal celato che potessero infine non arrivare. 

Siamo nel 1938. Siamo alla vigilia invasione dell’Austria e dello scoppio della seconda guerra mondiale. Winton ha 29 anni (interpretato da Johnny Flynn) ed è un agente di cambio di Londra finito un giorno per lavoro in Cecoslovacchia, dove viene presto a contatto con la dura realtà degli esuli da Praga: un piccolo popolo in fuga, spaventato e denutrito, che cerca riparo come può tra fienili e sottoscala di fortuna, nella speranza di potersi spingere un giorno sempre più lontani e presto fuggire dall’arrivo dei nazisti. Ma come possono i bambini, specie se denutriti o rimasti soli, continuare quella fuga infinita? 

La famiglia di Winton è di origine erbaica e dalla Germania è fuggita anni prima in direzione dell’Inghilterra, dove la madre Babette si è convertita alla chiesa inglese. Sono più che benestanti, hanno risorse e molti agganci politici: Winton decide di provare a salvare almeno i bambini di Praga. Tutti quelli che può. 

Inizia con la BCRC un lavoro infinito di documentazioni, richieste di asilo per profughi, proposte di affidamento dei bambini a famiglie inglesi a mezzo stampa, mediazioni tra rabbini ed ecclesiastici. È tutta burocrazia e spesso per ungerla serve tempo, dissuasione e compensi extra, ma è così efficace da lanciare dei ponti insperati. Mentre Winton lavora con la diplomazia, gli altri della BCRC in Cecoslovacchia allestiscono rifugi provvisori, spediscono foto, preparano convogli ferroviari con i bambini cercando di non dividere i fratelli dalle sorelle: con la promessa e la speranza che un giorno genitori e figli possano incontrarsi di nuovo, a fine conflitto. 

I treni partono e arrivano, i bambini cambiano nome per sicurezza e trovano nuove case. Ma è una corsa contro il tempo. I controlli alla frontiera si fanno sempre più difficili. I volontari vengono in parte fermati o dispersi.  Il sogno di Winton di rivedere al Londra una ragazzina che aveva incontrato per strada nel suo primo viaggio, di cui conserva solo una foto, inizia a sembrare impossibile. 

Gli anni passano e la BBC inizia una serie di puntante con protagonista proprio la storia di Winton. L’uomo si sente un po’ fuori luogo, è molto giù di morale, ma accade qualcosa. A un certo punto tra il pubblico iniziano a farsi largo verso il settantenne alcuni dei bambini a cui l’uomo è riuscito a salvare la vita. 


Il britannico James Hawes, regista televisivo di show come Doctor Who, Penny Dreadful, Black Mirror e Snowpiecer, debutta al lungometraggio con questo docu-film basato su If it’s not impossible…the live of Sir Nicholas Winton, libro scritto da Barbara Winton, sceneggiato dalla Lucinda Coxon di The danish girl e da Nick Drake. 

È una storia di coraggio e di amore che punta dritto a smuovere la commozione del pubblico, piena di bambini e treni da attendere con apprensione a fianco del nostro protagonista “da giovane”, oppure con il cuore costantemente in gola per non essere riuscito a fare mai abbastanza del nostro protagonista in versione più anziana. La verità, tra passato e presente, piano piano collima e va a ricostruisti fino a un parte finale davvero commovente quanto garbata, quasi sussurrata nella sua sua forza dirompente. 

Virtualmente e brevemente si susseguono scene che il cinema ha più volte raccontato con pellicole come Schindler’s List, Il pianista, Il bambino con il pigiama a righe, ma il punto di vista di Hawes rimane sempre sul “peso della distanza”, sul senso dell’impotenza e dell’ineluttabilità che ha afflitto gran parte del mondo in quell’epoca, proprio a partire da quei “patti impossibili” che hanno visto tutte le grandi potenze piegarsi davanti a Hitler, cercando un segno se non di clemenza “di buon senso”. 

In One Life il conflitto armato è solo un “dopo”, la storia parla piuttosto degli ultimi fili possibili della diplomazia prima che tutto si spezzasse ricacciando il mondo nella seconda grande guerra. 

Un filo di speranza che ha portato i suoi frutti e che è forse in certe parti del mondo oggi debolmente ancora attuabile. 


Hawes racconta l’eroismo civile e un po’ schivo di Sir Winton grazie alla gamba costantemente agitante e lo sguardo preoccupato di Flynn che aspetta il treno dei bambini guardando l’orologio.

Grazie allo spaesamento e al fare sconfitto di Hopkins che va in cerca di qualcuno per cui la sua storia è stata importante, quando nel 1988 era ancora inconsueto parlare di quel periodo della Storia. 

Il ritmo narrativo è lento ma mai immobile. La messa in scena ordinata e molto attenta alla ricostruzione di ogni passaggio tecnico che ha permesso certosinamente il salvataggio dei bambini. Le interpretazioni di tutto il cast sono sempre convincenti, le scenografie e la fotografia riescono bene a trasmettere il clima di angoscia e “claustrofobia” dei piccoli rifugi dei bambini. 

Pur nella sua costruzioni semplice tra passato e presente e nel suo taglio quasi minimale, One Life è una pellicola molto potente a livello simbolico, ancora fortemente necessaria per raccontare le storie di persone che hanno saputo creare con l’altruismo dei ponti con il futuro. 

Un film che può essere di ispirazione. 

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giovedì 25 gennaio 2024

Wonder: White Bird - la nostra recensione del nuovo film di Marc Forster tratto dall’universo letterario di R.J.Palacio

America dei giorni nostri. 

Il giovane e affascinante Julian (Bryce Gheisar) è irrimediabilmente un bullo. 

Non contento di come sono andate male le cose nella vecchia scuola cittadina (eventi raccontati in Wonder nel 2017), il ragazzino sembra essere tornato a perseguitare gli studenti più deboli anche nel nuovo istituto, debitamente supportato da un nuovo piccolo branco. Anche se ora si trova in un collegio blasonato di New York in cui tutti indossano una uniforme, la musica non è cambiata. 

Sembra essere più forte di lui il desiderio di schiacciare chi è diverso e in genere più debole: quasi una missione volta a costruire un mondo unicamente pieno di persone belle e felici.  

Con i genitori che non riescono in nessun modo a intervenire efficacemente per modificare il carattere di Julian, una sera decide di occuparsene personalmente la nonna francese (Helen Mirren), la sua “grandmere” Sara, una famosa artista in visita in America per partecipare a un importante evento pubblico come ospite d’onore. 

La nonna racconta a Julian di quando era piccola (l’attrice che la interpreta è Ariella Glaser) e viveva in Francia, dove frequentava anche lei, in una città meravigliosa circondata da un bosco come nelle favole, una scuola blasonata piena di studenti bellissimi in uniforme. Una scuola perfetta in un posto perfetto, rovinata solo dalla presenza di un ragazzino brutto e zoppo, figlio e saltuario aiutante del responsabile del locale sistema fognario. Per il suo modo di camminare claudicante e a scatti, per l’aria dimessa, la schiena sempre abbassata e per il fatto di essere il più povero e insignificante della scuola, il ragazzo veniva chiamato da tutti in un modo disumanizzante: “il granchio” (Orlando Schwerdt). 

Il granchio non piaceva a nessuno e nessuno si fermava anche solo a guardarlo, come comportasse una sorta di maledizione. Gli unici che erano attivi nel tenerlo in considerazione, almeno per deriderlo e pestarlo, erano i bulletti locali, capitanati dal biondo e affascinante Vincent (Jem Matthews). Sara aveva una vera passione per Vincent, i cui lineamenti era quasi principeschi. Spesso amava ritrarlo a matita nel suo quaderno da disegno, insieme a mille schizzi sulla natura e gli animali che destavano sempre molta ammirazione tra studenti e professori. 

Vincent amava vedere se stesso ritratto su quel quaderno e di conseguenza offriva svogliatamente qualche scampolo del suo tempo a Sara, che letteralmente pendeva da ogni suo cenno. 

Le cose però cambiarono in fretta: quando in città arrivarono i nazisti e molti studenti, Vincent compreso, iniziarono a guardare Sara, i cui genitori erano ebrei, come se fosse una creatura non dissimile dal “granchio”. I ragazzini più bravi nel collaborare al “nuovi corso”, come Vincent, ebbero dai nazisti divise nuove e armi per aiutarli attivamente nella caccia agli ebrei, stanandoli casa per casa grazie alla conoscenza diretta di ogni casa e granaio. I ragazzini ebrei vennero per un po’ nascosti con i loro genitori dalla scuola e poi dai preti sulla torre, ma presto fu impossibile aiutarli senza subire conseguenze terribili. Le razzie non tardarono e le famiglie furono disperse. 


Un giorno Sara si trovò del tutto sola. 

I nazisti la avrebbero presto uccisa o portata su un camion in un luogo sconosciuto. Fu allora che il granchio portò Sara con sé tra i labirinti del sistema  fognario e poi nel sottotetto riparato in un fienile isolato. Sara si nascondeva di giorno e la sera il granchio le portava cibo e i compiti della scuola, che comunque aveva continuato la sua attività didattica nonostante i banchi vuoti e i professori ebrei ora sostituiti da nuovi professori. 

Passarono giorni e giorni. Mesi. 

Sara diventava sempre più brava a disegnare, rispettava le regole di prudenza e aiutava il suo nuovo amico con i compiti.

Insieme la sera passavano molto tempo a giocare fantasticare sul futuro: sedendosi fianco a fianco su di un’auto mezza rotta e mezza coperta dal fieno, accendendo i fari e immaginando di essere al cinema. Un giorno il ragazzo portò nel granaio anche una pellicola comica e un piccolo proiettore. Ma le cose erano destinate a cambiare di nuovo: Vincent e i suoi amici, come i lupi famelici che si diceva da secoli abitassero tra i boschi intorno alla città, stavano per scoprire il granaio.  


Marc Forster, regista di film drammatici come Monster’s Ball, film “biografici su autori di favole” come Finding Neverland e Christopher Robin, ma anche action come 007 Quantum of Solace e World War Z, incontra i racconti della scrittrice  R. J.Palacio. 

La Palacio scrive per un pubblico molto giovane, ama giocare con i meccanismi della favola per raccontare storie anche piuttosto drammatiche e attuali, riserva una particolarmente cura nella costruzione di personaggi che pagina dopo pagina si fanno sempre più sfaccettat e  “umanamente imperfetti”. 

Nella saga di Wonder più volte la Palacio con molto garbo cambia il punto di vista nella descrizione di una situazione specifica, facendoci percepire il racconto della prospettiva di un personaggio diverso e spesso in antitesi con l’iniziale protagonista.  

Comprendiamo così come ognuno è in qualche misura “figlio” dei propri genitori quanto dell’ambiente in cui è vissuto, figlio delle sue frequentazioni e piccole ambizioni, figlio delle paure legate al suo inconscio: c’è sempre un piccolo mondo emotivo da decifrare con i pochi strumenti offerti dalla giovane età, dietro i piccoli eroi di Palacio. 

Il tema della “diversità” è spesso al centro di tutte le opere legate a Wonder

Palacio racconta che l’idea del primo libro le è venuta osservando la reazione di suo figlio al passaggio di una ragazzina con una deformità facciale: il bambino si è messo a piangere all’improvviso, senza nemmeno capire perché lo stesse facendo e forse ferendo involontariamente la persona che aveva davanti. 

Wonder è diventata così un’opera che invitava ad andare oltre le apparenze, un’opera che potesse sollecitare tra i più piccoli il “muscolo” dell’empatia verso un personaggio esteticamente sfortunato come Auggie, ma che aiutasse al contempo a guardare in modo non banale le reazioni di chi lo circonda: il pubblico poteva riflettersi nel dolore ma anche nella cattiveria, nella superficialità come nella voglia sincera di conoscere chi ci è diverso. Questo invito a “mettersi nei panni” di persone diverse colpì molto i piccoli lettori della Palacio. Colpì al punto da chiedere loro stessi, tramite lettere e messaggi, che l’autrice scrivesse delle appendici di tutto il racconto con la prospettiva degli altri personaggi della storia: Julian, Charlotte e Christopher. 

Non è un caso che dopo un libro dedicato a un bambino coma Auggie, con deformità facciali ma con una vita e un mondo interiore particolarmente ricchi e generosi, Palacio decise proprio di raccontare il punto di vista del suo “bullo personale”, Julian, andando a esplorare le aridità e contraddizioni, il “vuoto interiore” che possono nascondersi dietro il volto di un ragazzo esteriormente percepito come carino e a modo.

Non abbiamo avuto una trasposizione cinematografica di A Wonder Story: il libro di Julian, anche se nella pellicola di Stephen Chbosky ci sono dei passaggi che in qualche modo riportano a quel testo, ma arriva a noi oggi questo White Bird, che costituisce un tassello essenziale del “diventare adulto” e forse meno bullo di Julian. 


White Bird ci dice che l’essere bulli è “genetico”, una triste circostanza legata all’essere umano. Tragicamente viviamo con la mente a “risparmio energetico”: dividiamo  il mondo tra chi è simile a noi e chi percepiamo come diverso per etnia, politica, religione o fede calcistica. Chi è diverso è una minaccia anche solo perché mette in dubbio quelle tre certezze sul mondo che possediamo. La Palacio ci mostra una “bulla” le cui tre certezze sul mondo cambiano di colpo con l’arrivo del nazismo, trasformando lei stessa in bullizzata dall’oggi al domani, facendole subire un etichettamento repentino quanto crudele. Certo a monte c’è l’ideologia, la propaganda. C’è l’atteggiamento psicologico quasi bipolare di personaggi manipolati come Vincent, interpretato dal bravo Jem Matthews, che impugnano il fucile con un sorriso maligno ma con gli occhi che lacrimano. Sara vive per la prima volta nei panni di una persona odiata, ma forse per questo, oltre alla disperazione, riesce anche a sperimentare la solidarietà e la vicinanza di chi da sempre è considerato diverso. 

Anche lo spettatore e in specie gli spettatori più piccoli, a cui l’opera è principalmente rivolta, sperimentano attraverso gli occhi di Sara questo spaesamento. Sono portarti a ragionare sulle dinamiche di branco dei giovani “soldati” quanto sulle strategie di attacco dei lupi che circondano e “proteggono” il piccolo mondo di Sara. Sono spinti a guardare al “granchio” sempre più in ragione delle qualità interiori, rispetto ai limiti estetici che lo caratterizzano. 

Wonder White Bird è un film nella struttura semplice, forse anche un po’ zuccherino per un pubblico più smaliziato e che certo non ambisce a raccontare la complessità del secondo conflitto mondiale. 

Ma al contempo è un film che riesce ad arrivare dritto al cuore degli spettatori più piccoli, aiutandoli a riflettere sulla insidiosa natura del male e su quanto è facile e veloce trovarsi dal giorno alla notte sulla barricata sbagliata della storia.

Marc Forster dirige un gruppo di attori molto bravi e affiatati, rispettando bene nei ritmi e gestione dell’azione la struttura e l’atmosfera quasi favolistica dei lavori della Palacio. 

La fotografia di Matthias Koenigswieser è molto calda e contribuisce insieme alle musiche di Thomas Newman alla sensazione di farci vivere in un mondo sospeso. La sceneggiatura è stata adattata da Mark Bombjack, autore di recente per Matt Reeves delle ultime pellicole sul Pianeta delle scimmie, che qui riesce a trovare una giusta sintesi rispetto al testo originale. 

White Bird è un piccolo film destinato a un pubblico giovane, ma in grado di suggerire alcuni spunti di riflessione importanti sulla Storia, sulla natura dell’odio e sul bullismo. Un film ideale da presentare alle scuole specie in questa settimana della memoria. 

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mercoledì 24 gennaio 2024

The miracle club: la nostra recensione dell’ ironico e malinconico film di Thaddeus O’Sullivan, con Laura Linney, Kathy Bates, Maggie Smith e Stephen Rea

La cinquantenne Chrissie (Laura Linney) torna nel peasino costiero della provincia inglese in cui è nata per la commemorazione della madre Moureen, solo che il taxi arriva tardi e la chiesa allestita per la rituale veglia è deserta. 

Padre Dermot (Mark O’Halloran) la informa che tutti i fedeli si trovano nella sala parrocchiale per un “contest” atto a raccogliere i fondi per un pellegrinaggio a Lourdes. I fiori ornamentali per la funzione di sua madre sono stati offerti da Lilly Fox (Maggie Smith) e il funerale è stato molto partecipato da tutta la comunità.  

Lilly, insieme a Eileen (Kathy Bates) e alla loro vicina di casa più giovane Dolly (Agnes O’Casey), partecipano in quel momento al contest con il loro gruppo gospel, “The miracles”, formato con quel nome perché ognuna di loro ha le sue buone ragioni per ottenere un miracolo dalla Vergine. 

Lilly si è già riservata un biglietto per sé ma concorre per aiutare le amiche: spera di avere una soluzione per la sua gamba più corta, che la fa zoppicare con dolori lancinanti ormai da troppo tempo. 

L’impegno è tanto, la coreografia e i costumi perfetti, la musica più che orecchiabile, ma la passione non basta.

Dopo  la gara le tre non riescono a vincere il primo premio, per via di un ragazzino che cantava Elvis, lui sì in modo straordinario, ma  Dolly, che cerca il miracolo per il figlio, non riesce a dire una singola parola da anni, riesce a ottenere proprio dal piccolo vincitore un posto per il pellegrinaggio. L’ultima del trio, Eileen, che invece spera in un miracolo per un brutto male che ha scoperto da poco, non trova al momento un biglietto, ma riuscirà a partire grazie al biglietto che era stato di Moureen e che la figlia Chrissie, sollecitata sull’argomento dal curato, decide di non utilizzare. 

Il giorno della partenza arriva puntuale come il pullman noleggiato dalla curia. 

Nel paesino le tre donne sono il motore trainante delle rispettive famiglie, in assenza delle quali tutto, dalla cucina alla gestione dei figli e burocrazia, si ferma. 

La circostanza della loro imminente assenza, anche solo per una manciata di giorni, manda nel caos più totale i rispettivi  e tutti in genere coccolatissimi mariti.

Il marito di Eileen, Frank (Stephen Rea) proverà con serafico terrore a cucinare per la prima volta “di istinto”, coadiuvato dalla saggia primogenita Ruth (Hazel Doupe). Il giovane e aitante marito di Dolly (Mark McKenna), ma comunque un imbranato, ha minacciato di non volerla più a casa se lo lascia solo con i ragazzini per una sola ora, ma proverà a cavarsela malissimo con i pannolini dei due figli più piccoli. 

Tom (Niall Buggy), il marito di Lilly, è così  agitato che per distrarlo la moglie inventa una sporadica crisi idraulica domestica, che lo terrà impegnato almeno un paio di giorni. L’autobus parte ma all’improvviso davanti al veicolo si piazza Chrissie, la ragazza che aveva lasciato la città e quelle amiche anni prima, che decide anche lei di partecipare. C’è molto malumore per l’ultima arrivata, perché nel passato è successo qualcosa di tragico legato a lei che qualcuno del gruppo non ha mai dimenticato. Particolarmente teso è il rapporto tra Chrissie e Lilly, ma anche Eileen sembra non tollerare molto la presenza di questa “estranea”, rispuntata in paese solo dopo quarant’anni e dopo la morte della madre. 

Riusciranno le donne a trovare il loro miracolo? Sui primi momenti pare di sì; quando vengono accolte nell’ordinata cittadina piena di spiritualità quanto di negozietti con souvenir a ogni angolo, dove tutto pare tutto perfetto. Ma con il passare delle ore la frustrazione, le aspettative e i dubbi, le difficili dinamiche del gruppo e la distanza da casa inizieranno ad affiorare e crescere, almeno fino a che qualcuno non troverà il coraggio di ricucire i rapporti guardare oltre al miracolo.


Il regista televisivo di lungo corso Thaddeus O’Sullivan, attivo anche nel recente adattamento delle storie del commissario Maigret, scrive e dirige la più classica delle commedie malinconiche sui classici piccoli borghi della provincia inglese: un’opera che parla di famiglia e legami difficili, in un contesto a volte burbero ma che spesso “sotto la scorza dura”, risulta accogliente e quasi gentile, genuino: il perfetto archetipo di un mondo moderno “interiore” quasi universale, dove tutti riusciamo a immedesimarci. 

Al centro della scena ci sono le piccole storie di quattro piccole “rivoluzionarie nei confronti del destino”, interpretate da splendide attrici che riescono a infondere nei rispettivi personaggi una gamma infinita di sfumature, giocando con le loro fragilità emotive, ma anche con la loro passione e il loro ardore.

Personaggi con una voglia di rivalsa che prende a volte la strada, con tanta ironia, di “una piccola lotta di classe” tutta al femminile, nei confronti di un “ruolo di casalinghe” che oggi appare ancora troppo rigido. Ma soprattutto quattro donne in ricerca di una rivalsa nei confronti di un “mondo spirituale” da tempo percepito come assente ingiustificato, specie in momenti di grande crisi. 

Uno spirituale che di colpo si presenta a qualcuna di loro forse frainteso o percepito bonariamente in “cattiva fede”: assimilato a una specie di elegante piazzista di sogni impossibili a cui aggrapparsi come ultima spiaggia, in base a delle “statistiche della soddisfazione dei clienti/miracolati” a tinte fosche. Diviene in questo senso tragico il ruolo della giovane mamma impersonata da Agnes O’Casey, mentre assume contorni tragicomici il ruolo del divertente personaggio di Katie Bates, che ama giocare spesso con i “dati sui miracoli”.

Il vero miracolo sembra poi magari risiedere nella possibilità “reale” di ricostruire dei rapporti, specie a partire dai presupposti più tragici. Un miracolo che sembra sfiorare all’inizio con poca convinzione le storie intrecciate dei personaggi della Linney e di Maggie Smith .

Il viaggio “parrocchiale on the road” delle quattro protagoniste,  tra dolci ingenuità e autentico trasporto per qualcosa di nuovo e inatteso, si muove in diretta risonanza con le buffe traversie dei rispettivi mariti nel conservare come possono il rispettivo status quo e armonia familiare, con esiti anche spericolati. 

La cittadina francese e il suo fascino misterioso, tra le ritualità e le preghiere, rivestono poi nell’economia del racconti un ruolo ulteriore. Avevano già ammirato il tormento e l’estasi del piccolo mondo spirituale in Lourdes, il film del 2009 di Jessica Hausner che in tono aspro e quasi sarcastico smontava ogni aspetto della percezione esteriore da “fabbrica dei miracoli” di questi luoghi, ma che allo stesso tempo raccontava quasi a livello documentaristico la ritualità, la fede e la fiducia incondizionata nei lavaggi con l’acqua santa.

The Miracle Club a tratti torna a metterci in contatto con quell’approccio pratico e disincantato, ma trova nel personaggio del curato di paese una figura di guida bonaria e schietta, in grado di risolvere con raffinatezza e leggerezza anche i momenti di maggiore sconforto spirituale, rilanciando la comunità come vero motore di ogni tipo si cambiamento spirituale.

The miracle club si presenta come una pellicola dall’intreccio semplice ma non scontato, dotata di grande ironia e sentimento e valorizzata dalla buona interpretazione di tutto il cast coinvolto. 

È un film pensato  espressamente per  un pubblico maturo di ultra cinquantenni  e  cerca sempre con garbo di trattare tanto i temi della quotidianità che della spiritualità.

Un’ottima pellicola per una visione pomeridiana, accompagnata magari da the e biscotti. 

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martedì 23 gennaio 2024

Foglie al vento (Fallen leaves): la nostra recensione del nuovo piccolo capolavoro, romantico e ironico, del regista finlandese Aki Kauriamaki

Finlandia dei giorni nostri, con alla radio le notizie sempre più drammatiche sulla evoluzione del conflitto russo ucraino.

Nei supermercati le persone riempiono i carrelli di tutti i generi di prima necessità in attesa di tempi difficili, nei bar si fuma e si beve molto, ovunque si respira cinismo e nervosismo. 

C’è ovviamente poca voglia di parlare a Helsinki e spesso, nel silenzio, la voce interiore che anima i sogni e le passioni di ognuno è demandata alle parole delle canzoni popolari trasmesse in filodiffusione nei locali, sulle onde della radio della sala da pranzo, tra i microfoni e gli accordi stonati degli avventori del karaoke.   

Il signor Holappa (Jussi Vatanen), con nome di battesimo a tutti ignoto, è un uomo sulla quarantina dai capelli biondi, la barba di un paio di giorni e l’aria stanca. Sotto una specie di scafandro ignifugo lavora come saldatore, tutto il giorno, per una misera paga in un piccolo distretto industriale. Beve molto perché è depresso ed è depresso perché beve molto. Poca voglia di parlare ovviamente, se non che l’amico di cantiere che meno disprezza lo invita il venerdì sera al Karaoke. È poca la voglia di abbandonare il suo fumetto di Superman e la sua branda nel vagone/albergo dove riposano di operai del cantiere, ma con un po’ di buona volontà Holappa arriva al locale e scopre che il posto è carino e l’amico ha pure una meravigliosa voce da soprano/tenore (o quelle cose tecniche lì…). Canta bene e in più l’amico fa colpo su un paio di bionde sedute in un tavolo vicino a loro, una delle quali è davvero molto carina quanto purtroppo tremendamente timida (Alma Poysti). Gli sguardi di Holappa e della ragazza  si incrociano e forse nasce qualcosa, anche se ancora faticano a guardarsi a lungo. 

A fine serata la ragazza ritrova Holappa addormentato ubriaco sulla panchina in attesa del tram e colta dalla sicurezza di vederlo in uno stato di semi incoscienza decide di sfiorarlo: un po’ per sincerarsi che non sia morto, un po’ per regalargli una carezza. L’uomo rimane privo di sensi in tutto e per tutto, ma quando il tram con la ragazza si allontana apre gli occhi, la cerca, scopre di essere stato travolto da qualcosa di bello. 

Il destino li fa incontrare di nuovo davanti a un bar, dopo che il padrone del locale in cui la ragazza lavorava da poco come cameriera è stato arrestato per traffici loschi. La ragazza è la seconda volta che perde il lavoro nel giro di pochi giorni e per cause assurde. La volta precedente ha dovuto abbandonare il lavoro di commessa di un supermarket perché è stata trovata con indosso un panino scaduto, da un zelante custode un po’ impiccione. Il panino era stato da lei intascato per mangialo, al posto di essere distrutto nella spazzatura a fine turno: un crimine sanitario ai danni di se stessa. Senza panini scaduti, senza un euro e senza niente da perdere da un datore di lavoro ormai agli arresti, la ragazza si trova così a passare un po’ di tempo con Holappa. 

Vanno prima in un bar e poi in un cinema dove danno un film sugli zombie di Jarmush con Adam Driver e Bill Murray. Si scopre che non c’è niente che leghi al mondo come un film sugli zombie e l’ex cameriera decide di dare il suo numero al saldatore per un prossimo incontro.

Lei va via e lui tutto felice lo mette in tasca. Due secondi dopo, mentre estrae il pacchetto di sigarette dalla stessa tasca, il biglietto vola via, perduto per sempre, mentre ancora il saldatore gioisce per aver incontrato la donna della sua vita. 

Il giorno dopo, malinconico per la perdita del numero, il saldatore si ferisce sul lavoro. Arriva il medico e  trovandogli nel sangue un alto tasso alcolico, per via della sua “depressione etilica” di cui sopra, parte il licenziamento. Holappa deve affacciarsi di nuovo sul mercato del lavoro. Anche l’ex commessa ed ex barista è in cerca di lavoro e lo trova proprio in una fonderia come quelle lasciata da poco da Holappa. 

Nei tempi liberi dalle ricerche di lavoro e successivi licenziamenti, i due innamorati grazie al film degli zombie continuano a cercarsi e rincorrersi al bar, al cinema, per luoghi e persone che forse hanno in comune. 

Ma è come se sempre all’ultimo momento non riescano mai nel loro intento, mentre da qualche radio arrivano canzoni popolari classiche e moderne finlandesi che “li capiscono”, che parlano della difficoltà di amare, della difficoltà di amare se stessi e della difficoltà di vivere in un posto così oppressivo che anche una volta che sei morto sei circondato dalle sbarre, quelle del cimitero. Riusciranno a incontrarsi di nuovo, i nostri due piccioncini, in questi “tempi moderni” spietati e un po’ cinici in cui nessuno in tutta la Finlandia sembra essere davvero felice?

Torna nelle sale l’ironico e romantico Aki Kauriamaki, con un film come da tradizione ironico e romantico, girato nel quartiere di Kallio a Helsinki. Presentato come una ideale continuazione della trilogia composta da Le ombre del paradiso (1986), Ariel (del 1988) e La Fiammiferaia (del 1990), Foglie al vento ci parla quasi in contro tendenza a Un colpo di Fortuna, l’ultimo film di Woody Allen, descrivendoci un’umanità quasi sadicamente perennemente trafitta dalla sfortuna, nella ricerca un po’ svogliata ma titanica di equilibri precarissimi, con cui dialogare senza scontrarsi male con il mondo che la circonda. Un'umanità così contratta su se stessa da demandare ogni emozione alla possibilità di intercettare, come “antenne viventi” delle colonne sonore che riescano ad esprimere preconfezionatamente i suoi sentimenti. Una umanità rappresentata da una coppia per caso, amabilissima quanto male assortita, che colleziona stoicamente avventure sempre più strampalate, nella complicata missione di incontrarsi, anche solo per un minuto. Ci riesce a tratti, anche con l’aiuto di un parimenti eroico cagnolino, facendo lo slalom tra incidenti, angherie, fraintendimenti e vicoli ciechi. 

La narrazione è fluida, i tempi comici e romantici tutti perfetti. 

La fotografia è calda e solare, le scenografie sono gustosamente retrò nella costruzione di spazi che richiamano un mondo dal passato grandioso quanto spoglio, quasi post-industriale. 

Il film perfetto per chi sa di avere un animo romantico “nonostante tutto”, in cui  Kaurismaki cita se stesso nella sua versione meno disincantata ma ancora sognante, al contempo ispirandosi direttamente anche all’ultimo Jarmush, quello “più escapista possibile” nei confronti di un mondo così incomprensibile trova come unica arma di autodifesa solo l’autoironia.

Poi all’improvviso tutto si eleva, arrivano anche le citazioni a Chaplin e ci accorgiamo di colpo che con Foglie al Vento siamo davanti a una nuova versione di Tempi Moderni

Un Tempi Moderni debitamente 2.0, “attualmente paranoico”, dove  una radio che esprime i sentimenti dei protagonisti più volte passa dalle canzoni al radiogiornale e ai suoi bollettini di guerra. Ma anche un Tempi Moderni dove l’essenza pura ed eroicamente ingenua dei personaggi appare immutata, “in tragedia e in povertà”, permettendogli di affrontare a testa alta ingranaggi lavorativi e umani sempre più ciclici e senza uscita. Armati della sola grazia e ironia con cui sanno “incassare” dal proprio destino riuscendo a rialzarsi, i piccoli eroi romantici di Kaurismaki avanzano inesorabili e pieni di lividi verso una felicità impossibile. 

Il destino arriverà sempre come una mannaia ma potranno sempre immaginare di “fregarlo”, sottraendosi all’assurdo delle cose e ponendosi anzi spavaldamente al di fuori di ogni tipo di negatività. Resilienti come una barra d’acciaio che non si spezza pur se molto battuta, secondo leggi della siderurgia che oggi abbracciano anche la descrizione della tenacia dell’uomo davanti al dolore. 

80 minuti che volano e confortano, divertono e abbracciano. Forse una delle migliori pellicole di Kaurismaki, dove non c’è un solo elemento messo a caso, dove gli interpreti sono sempre strepitosi e dove dispiace davvero abbandonare la sala a fine visione, sottraendosi così a quella che a tutti gli effetti è una piccola magia. 

Una favola moderna sul disincanto dalle favole, da tenersi stretta nei momenti di maggiore sconforto come “pellicola salvavita”. La dimostrazione che Kaurismaki, pur giocando con temi, personaggi e luoghi a lui cari, riesce ancora come una volta a essere un magnifico e caldo narratore per immagini. 

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lunedì 22 gennaio 2024

Perfect Days: la nostra recensione del nuovo film di Win Wenders in cui il regista tedesco, splendido settantenne, ci fa “ascoltare Ozu” al ritmo di Lou Reed, di Patty Smith, dei The Animals e di Nina Simone


Siamo nel Giappone dei giorni nostri, nel “Kingdom of the rising sun” per citare un noto brano dei The Animals che già nelle prime scene potremo riascoltare. 

Ci troviamo sotto il sole fin, dalla mattina presto, nel quartiere di Shibuya. Siamo all’ombra del progetto “Tokyo Toilet” del 2020, che ha elevato ad arte urbanistica molti bagni pubblici della capitale giapponese. 

Ci sono bagni pubblici circondati da austeri muri di cemento verticali a balze, ma in perfetta armonia con i parchi naturali che li racchiudono secondo il Feng Shui. Ci sono bagni completamente in vetro, all’esterno trasparenti ma che una volta occupati, per preservare la privacy con la tecnologia, si oscurano con dei giochi di luci colorate. Ci sono bagni ricoperti di specchi che si nascondono tra le pareti delle reception di lussuosi hotel, ci sono bagni piccolissimi alle fermate del treno, ma che utilizzano il celebre “spruzzino giapponese” e la tavoletta riscaldata per contenere gli spazi e preservarne la comodità nell’uso.

Noi in Italia le opere di Piero Manzoni le conserviamo inscatolate, ma qui a Shibuya l’edilizia artistica prevede che i servizi siano sempre attuali, non confezionati, lindi e funzionali e per questo alle dirette cure di esperti della pulizia. Uomini che in guanti bianchi e perfette divise blu, con scritta in bianco “Tokyo Toilet Shibuya”, preservano questa singolare galleria urbanistica diffusa, che per la cultura giapponese è soprattutto simbolo di accoglienza e gentilezza nei confronti dei cittadini come di ogni visitatore. 

Uomini che ogni tanto riportano anche bambini smarriti alle madri distratte, aiutano stranieri gaijin a districarsi con i comandi sanitaro/tecnologici, sovrintendono ai movimenti più eccentrici degli homeless e sanno rendere un bagno operativo in pochi secondi in caso di emergenza. 

Il sessantenne, saggio e taciturno Hirayama (l’affascinante ed enigmatico Koji Yakusho, visto nel magnifico 13 Assassins di Miike, in Memorie di una Geisha di Rob Marshall e in Babel di Inarritu) e  il ventenne scapestrato Takashi (il buffo Tokyo Emoto, visto in Outrage con Kitano e nel fantascientifico Cube giapponese) sono due di questi operatori addetti alla preservazione dei luoghi, e non si risparmiano tra una “esposizione e l’altra”, con disinfettanti e spugne, fin dall’alba. 

Le loro vite sono spesso accompagnate da una colonna sonora offerta dalle audiocassette con i classici della musica americana, gelosamente custodite da Hirayama per la sta autoradio “vintage” personale, nel furgone blu di ordinanza della ditta. Ritmi di lavoro con movimenti precisi e cadenzati, rituali di svago e convivialità che coinvolgono con pari rigore anche il tempo libero.

Ogni tanto però i due la sera si concedono indispensabili “vie di fuga”, sognando magari l’amore, tra piccoli bar notturni gestiti da moderne geishe mature come Mama (la attrice e cantante Sayuri Ishikawa) e locali con giovani hostess dai capelli colorati come Aya (Aoe Yamada). 

Come nei migliori film di Ozu i nostri eroi, e in particolare Hirayama, vivono nella quotidianità, sopravvivendo agli schemi che sempre più stringentemente la consumano. 


Hirayama ogni giorno è svegliato dal dolce suono di una scopa di saggina che pulisce il vialetto sotto casa sua. Ogni giorno si alza, ripone il libro che ha letto la sera precedente, offre l’acqua alle sue piantine, si lava, si veste con la tuta blu, raccoglie le monete sulla mensola, usa le monete per prendere al distributore sotto casa il caffè istantaneo “Boss”, accende l’auto e fa partire la sua musica. Guida verso la torre e arriva nelle molte tappe del suo lavoro, fa pausa pranzo in un parco vicino a un tempio dove ama scattare foto agli alberi. Va nel primo pomeriggio, giusto all’apertura, ai bagni termali pubblici, dove si immerge fino alla testa e poi vede un po’ di sumo in tv. Esce e va in un localino vicino alla metro dove può bere birra e parlare di baseball con gli avventori, poi arriva la sera e forse si può incontrare Mama, che forse canterà per lui dopo avergli preparato una scodella di ramen, accompagnata da un bicchiere ghiacciato. Poi torna a casa, legge un po’ un libro e si addormenta. Nei giorni festivi la routine cambia, ma il ritmo si fa subito sempre familiare. 

La notte è invece inquieta, piena di strani sogni in bianco e nero da decodificare come puzzle esistenziali. Poi si ricomincia, ogni giorno, come in un infinito giorno della marmotta. Alla ricerca, con curiosità e voglia di lasciarsi stupire dagli eventi, di nuovi dettagli che rendano la quotidianità qualcosa di comunque unico, qualcosa di comunque sempre diverso. 

Fino a che alcuni equilibri si inclineranno, eventi e incontri si sovrapporranno e forse, dai dettagli, emergerà anche la vera storia, il passato e quello che riserverà il futuro a Hirayama e al suo piccolo mondo. Quest’uomo e il suo socio vorranno davvero per tutta la vita continuare a pulire i bagni?


Guardare le cose nei dettagli, scoprire il “senso della vita” dalle minuzie. È una lezione che ci è cara da L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello quanto è componente essenziale del cinema fatto di ritualità e piccoli gesti di Ozu. Un Ozu citato, amato e più volte rincorso nella vita da un Win Wenders, che qui, in un atto di massimo amore e devozione, cerca quasi di segnare una sua personale continuità con il grande maestro nipponico. 

Ambienta a Tokyo, descrivendo una parabola umana fatta di gesti più che parole, visiva più che narrativa, in perfetta armocromia con il passare del tempo e delle stagioni. Se i personaggi sono in armonia con la natura anche se la musica, una favolosa musica “rock vintage” in gran parte di matrice americana, diventa un interessante e ulteriore viatico emotivo, dando corpo quasi ai flussi di coscienza che nuotano dentro ai personaggi. Ogni brano come ogni piccolo dettaglio visivo sbloccano un nuovo frammento emotivo e la storia procede quasi come un affascinante gioco enigmistico. 

La sceneggiatura, scritta insieme a Takuma Takasaki, vede Wenders scegliere come nome del personaggio interpretato da Yakusho “Hirayama”, come il protagonista dell’ultimo film di Ozu, del 1962, Il gusto del sakè. Come ne Il gusto del sakè al centro della vicenda c’è nuovamente un mondo diviso tra vita notturna e quotidianità giornaliera, che Wenders si premura in una nota di descriverci come attinente a uno specifico stato d’animo descritto dalla filosofia orientate: il “komorebi”, il saper “guardare tra la luce e l’ombra”, come alla ricerca di un equilibrio tra conscio e inconscio. 

Una ricerca interiore che presuppone una emotività “trattenuta”, quasi zen, che bene riesce a padroneggiare l’attore Yakusho. Il suo lavoro di sottrazione e mimica lo avvicinano molto ai personaggi di Ozu ma presenta anche per fisicità e “spensieratezza” de tratti alla Buster Keaton, da sempre un punto di riferimento “trans-culturale” seguito anche da Takashi Kitano. 

Emoto di contro è esagitato in gesti e movimenti scomposti quasi in modo molesto, ma veste al meglio la maschera buffa tradizionale di molte commedie orientali, che qualcuno potrebbe pure scambiare con la comicità fisica e caricaturalmente infantile  di molti personaggi di Herbert Ballerina. 

Ozu e la filosofia orientale, insieme a paesaggi e personaggi di accurata e ricercata matrice nipponica, rivivono con assoluta spontaneità e naturalezza in un Wenders che non sembra affatto subire l’effetto “Lost in translation”. 

Perfect Days è una piccola elegia, una perla sul “senso della vita” da scoprire visione dopo visione, legando i mille dettagli nuovi che ogni volta riaffiorano alla visione, offrendo un quadro sempre più vasto e ricco a livello emotivo. Molto bravi tutti gli interpreti, straordinaria la fotografia curata da Franz Lustig e bellissimi i brani scelti da Milena Fessmann. 

Non perdete l’occasione di vederlo in sala e farvi travolgere dalla magia di questa pellicola. 

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giovedì 18 gennaio 2024

The beekeeper: la nostra recensione del nuovo film action di David Ayer con protagonista un Jason Statham nell’insolito ruolo di apicoltore

Nella assolata periferia di una Springfield dei giorni nostri, delle cattivissime vespe vanno all’attacco di un granaio nei pressi di una piccola villetta, ma ancora non hanno fatto i conti con Clay (Jason Statham) l’apicultore, il “beekeeper”. 

Clay è un uomo atletico sui quaranta, serio e appassionato, amante della frutta e dei prodotti a chilometro zero, discreto e affidabile, silenzioso e letale. 

Prende il suo lavoro molto sul serio, come se non solo il granaio ma tutto il mondo fosse un gigantesco alveare, da preservare dalle vespe e dalle api combattenti ribelli. Tutto perché il miele fluisca geometrico e ordinato come nelle arnie, nella grande armonia universale delle operose piccole creature già venerate dal popolo dei Maya.

Clay ha appena finito di lavorare per Mrs. Parker (Phylicia Rashad, la signora Robinson della serie tv anni ‘80), una simpatica signora di mezza età che si occupa della gestione di un fondo per i bambini malati. Clay sta preparando per lei personalmente, per riconoscenza, un vasetto di miele dorato purissimo e succulento, estratto dalle sue api personali. Clay nella sua onesta e proletaria camicia a quadri da uomo della strada fa filtrare il prezioso nettare nel vetro di un onesto vasetto, ma allo stesso tempo qualcun altro, dei giovinastri che vestono camicie hawaiane psichedeliche e si riempiono di Red Bull, in un edificio pieno di luci fluo, musica disco e aria di depravazione, stanno filtrando il gustoso nettare del fondo per i bambini malati da due milioni di dollari di Mrs.Parker, dal suo conto in banca direttamente sui conti fantasma delle Isole Cayman. 

La brava donna è stata fregata con la classica truffa online. Ha avuto una telefonata strana con un sedicente tecnico informatico che diceva la avrebbe aiutata a risolvere il blocco del suo pc senza cancellare l’hard disk e perdere per sempre le foto dei nipotini. Lei gli ha offerto tutte le password e dati personali che aveva in buona fede e i giovinastri truffaldini pieni di Red Bull hanno esultato. Hanno sorridendo girato i conti, hanno fatto la danza della vittoria, l’hanno lasciata così disperata che Mrs Parker si è sparata un colpo in testa. 

È sera, Clay ritorna nella villetta con il vasetto munto dalle arnie, apre la porta socchiusa e trova la donna senza vita sulla poltrona. In un attimo alla tempia ha la pistola di ordinanza dalla figlia di lei, Verona (Emmy Raver-Lampman), agente dell’FBI, che ancora in lacrime sta cercando di capire che cavolo sia successo e non sa chi sia questo apicultore. In breve si scoprono i fatti, l’FBI indaga ma anche Clay fa qualcosa. 

Fa una telefonata, a un numero misterioso al quale risponde gente che ne sa di più di FBI, CIA e NSA. Clay riceve un indirizzo e va a trovare i truffatori nel palazzone da ricchi fighetti dove gestiscono il loro call center truffaldino. È armato di taniche di benzina, detonatori, mani esperte nel combattimento corpo a corpo e una luna decisamente storta. 

Mette fuori combattimento in un secondo le guardie sottopagate all’ingresso ed è già nell’attico, nella brutta copia della sala dei broker di Wolf of Wall Street, a far giurare i ragazzacci “con le cattive”: che non provino mai più a truffare le povere signore anziane un po’ boomer, se vogliono che non li ammazzi. 

Poi Clay fa uscire tutti, riduce il palazzone da 30 milioni di dollari a un posacenere e non si ferma, segue i soldi, cerca le altre vespe a cui arriva il miele della povera gente delle truffe online per estirparle con il fuoco. 

Verona e il suo collega dell’FBI Wiley (Bobby Naderi) provano a seguire le stesse piste di Clay, ma l’uomo come Godzilla in cerca di vespe sempre più grosse abbatte un palazzo-alveare via l’altro, inizia a confrontarsi con mercenari, poi con ex navy Seals, poi con governative eminenze grigie (tra cui un luciferino Jeremy Irons). I due poliziotti sono inevitabilmente più lenti del beekeeper e presto si scontrano e impantanano con i dipartimenti dei piani più alti dell'amministrazione governativa, che pare puntino più  a fermare Clay che a far smettere le truffe . 

Riuscirà l’apicoltore a eradicare ogni minaccia e preservare il grande alveare delle api operai e oneste americane? E cosa succederebbe se altri apicoltori, ugualmente armati ed addestrati, iniziassero a distruggere tutte le arnie per contrastarlo? 

Il futuro del mondo è appeso inesorabilmente alle api e per citare l’Amleto di Shakespeare: “bee, or not to bee”. 

È sintomatico e felicemente inatteso che in questo febbricitante mondo moderno, quasi violentemente ultra-tecnologico e sempre più “impersonale” nelle relazioni,  la settima arte inizi a dedicare maggiore spazio a storie e personaggi sulla carta quasi in controtendenza: concreti, vecchio stampo, “analogici”. Il lato umano delle piccole professioni di una volta, quelle più a contatto con l’uomo e la natura, dove anche i sentimenti smettono di essere frizionati dalla virtualità a distanza e tornano a chilometro zero. 

Le intelligenze artificiali probabilmente presto domineranno il mondo e lo distruggeranno quasi come profetizzato in Terminator da James Cameron, ma i “vecchi cari valori di una volta” (almeno in prospettiva escapistica) ci salveranno. 

Torniamo quindi gioiosamente a parlare di coltivatori diretti e della loro “eredità morale e sociale”, come nel bellissimo L’ultima luna di settembre di Amarsaihan. 

Torniamo a posare i riflettori sulla routine e il ricco senso della vita, quasi zen, di uomini che si occupano delle pulizie, in Estremo Oriente, come nell’ugualmente bellissimo Perfect Days di Wenders. E infine, pur iperbolicamente, eccoci a parlare di apicoltori come in questa nuova pellicola di David Ayer, regista e autore sarcasticamente (ma pure in parte ingiustamente) mandato “ad arare i campi” dalla critica,  dopo il suo terribile Suicide Squad

Il buon David, che prima del “crollo cinefumettistico” in curriculum aveva comunque  anche scritto l’urbano Training Day di Fuqua e diretto il bellissimo film bellico sui carristi Fury, con Pitt, ha preso in parola l’invito di dedicarsi alla coltivazione diretta, ha ingaggiato un attore dai lineamenti fieri e solenni scolpiti nella working class inglese quasi “alla Ken Loach”, come Jason Statham, ha deciso di confezionare un film sugli apicoltori.

Certo “super apicoltori”, un po’ alla John Wick, ma comunque apicoltori sempre, produttori diretti attivi in una ideale proloco tra le valli, onesti, concreti e a contatto diretto e rispettoso della natura e dei suoi abitanti. 

Il contrario e in contrapposizione con i lavori “legati alla tecnologia”, di tizi truffaldini che non invitati ti chiamano a casa a ora di cena (da non confondersi con i tizi non truffaldini che ti chiamano a casa a ora di cena), propongono contratti che suonano come robe strane, chiedono dati sensibili anche se gli siamo sconosciuti e ci fanno sentire a ragione sempre sul punto di essere fregati. Insomma: grazie ad Ayer i boomer non sono più soli e anzi possono prendersi, con i risvolti di trama di questo Beekeeper, delle oneste ed escapiste “soddisfazioni distruttive”, quasi a livello del Giorno di Ordinaria Follia di Joel Schumacher. 

E siccome “qui una volta era tutta campagna” e “si stava meglio quando si stava peggio”, Ayer si lancia spericolato in una pellicola “liberatoria”, per i fan delle sparatorie e i botti quasi “orgiastica”, super ritmata, dissacrante, per un volta non troppo lunga (sui 95 minuti) e “goduriosa” dall’inizio alla fine. 

A patto che la visione venga affrontata con la necessaria leggerezza propria di un roboante mega-action un po’ retrò, senza pensare di essere capitati nella sala dove proiettano Cento Domeniche con Antonio Albanese. 

Una elegia action/filosofica in salsa Death Wish (la saga da noi nota come Il giustiziere della notte” e relativi epigoni), in cui con genio ci viene spiegato che in fondo l’apicoltore, debitamente super addestrato e dotato di armi e rifugi segreti come Batman, “serio e onesto“, può capire, per sua esperienza lavorativa personale con i piccoli insetti industriosi, pure come funziona tutto un organigramma partorito per le truffe internazionali online. Può affrontarlo e smantellarlo con la stessa maestria con cui lavora con le arnie nel quotidiano, seguendo “strategie da alveare”, debitamente implementate da arti marziali, esplosivi, pallottole e un miele dorato dall’uso inedito, più infiammabile della benzina. 

Un super vendicatore con l’appeal del vicino di casa e vicino parente del Punisher di Garth Ennis, “risolutivo una volta per tutte”, alla faccia della guardia di finanza, della cyber polizia e del giornalismo investigativo alla Report. Uno che va giù a muso duro, per il bene della povera ma dolcissima vecchietta vicina di casa truffata dai messaggini di internet, facendo saltare per aria tutti i cattivi riuniti nel loro classico palazzo dei cattivi, e poi nei palazzi dei cattivi “successivi” e sempre più altolocati. In una lunga, elaborata e infinita vendetta, coreografica quanto divertente. 

Una vendetta che raddrizza tutti i torti e forse didatticamente, tra le righe, insegna a qualche interessato qualcosa di apicoltura, grazie a citazioni dirette del “manuale degli apicoltori”, che nelle sarcastiche mani del divertente personaggio di Verona da testo facoltativo della scuola di agraria assume quasi i connotati dei dieci comandamenti biblici. 

Il film di Ayer gestisce questo uso didattico collaterale con sublime puntualità è leggerezza, alla maniera in cui Predator Prey di  Disney si preoccupava tra uno sbudellamento e l’altro di fornirci un saggio sulla lingua e sugli usi e costumi degli indiani d’America. Può sempre servire e se qualcuno in futuro lavorerà ad un’arnia potrà sempre dire che lo ha fatto su ispirazione di Jason Statham. 

Un film bucolico ma belligerante come questo, contro il logorio dei tempi moderni in cui dei truffaldini call center, diviene il miglior inizio action possibile per il 2024, anche perché tra i suoi realizzatori ci sono persone che l’action lo sanno fare. 

Scivolone di Suicide Squad a parte, Ayer è esperto nel rappresentare con gusto ogni tipo di scena che presenti al suo interno sparatorie ed inseguimenti e qui gioca tantissimo con la leggerezza delle pellicole anni ‘80. 

La sceneggiatura è firmata da Kurt Wimmer, autore di Equilibrium, Salt e del recente Mercenari 4 e applica su Statham una visione dell’eroe volutamente e ludicamente “esagerata oltre ogni limite”, andando oltre le assurdità di un Commando con Schwarzenegger dritto verso le super assurdità di un Invasion USA con Chuck Norris. Il Beekeeper è una creatura quasi onnipotente a cui tutto è permesso come una specie di deus ex machina. Ci sono a controbilanciare chili e chili di ironia in ogni frangente e dialogo, la “seriosità” delle situazioni e istituzioni rappresentate è perennemente messa alla berlina e l’intera macchina cinematografica di muove “a uso ridere” con una ingenuità quasi commovente. Anche Statham, ormai avvezzo ai ruoli da Chuck Norris, per i quali sfoggia il suo sempre più irresistibile sguardo bieco quasi annoiato, si diverte un mondo nel ruolo del suo ennesimo “vendicatore invincibile con attitudini da salvatore dell’universo” ed è nuovamente, grazie anche al suo rinomato fisico con massa grassa a zero, una garanzia di atleticità ed efficacia nelle tantissime e variegate scene di azione, supportate e valorizzate anche da un gruppo di atleti che come coordinatore degli stunt hanno una leggenda, con trent’anni di esperienza dell’action, come Eddie J.Fernandez. Un Fernandez, attivo anche in Captain America Winter Soldier, che qui gioca più volte a immergere Statham in coreografie movimentate dall’uso di mille armi, travestimenti e un uso creativo degli spazi, volte a ricreare atmosfere  vicine al noto videogame Hit-Man di Eidos. 

La colonna sonora è curata da Jared Michael Fry sugli stessi toni marziali/militari del suo lavoro per Wolf Warrior 2. La fotografia è di Gabriel Beristain ed è vicina per colori accesi ed effetti particellari ai suoi lavori più “fumettistici” come Black Widow e The Strain

The beekeeper è intrattenimento escapista al 100%, condito con tanta ironia ed esageratissime scene d’azione, che tra inseguimenti e conflitti all’arma, più o meno bianca o più o meno “dolce” (il miele qui è letale anche se non siete intolleranti al glucosio), mettono in luce il rinomato e giustamente celebrato talento fisico di Statham quanto le attitudini ginniche di un piccolo esercito di stunt-men ben addestrati. Puro divertimento da gustare a cervello spento, sullo schermo più grande del multisala, carichi di popcorn, per una serata in cui non si vuole pensare a nulla di diverso dal vedere qualche mazzata più o meno esagerata. 

Una buona occasione per rilanciare il mestiere dell’ apicoltore come una delle cose più fighe sulla Terra.

Un’ottima occasione per “vendicarsi catarticamente” dei mille truffatori virtuali con cui ogni giorno siamo sempre più in contatto. 

Non si ruba il miele alle api operaie!!! “Bee or not to bee”…

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martedì 16 gennaio 2024

Viaggio in Giappone (Sidonie au Japon): la nostra recensione del solare e malinconico road movie di Elisa Girard con protagonista Isabelle Huppert

Il Giappone può apparire come un luogo singolare e misterioso per moltissimi occidentali, pieno di usanze e scenari unici quanto incomprensibili, a volte inimmaginabili se non del tutto alieni. 

Una terra ultra moderna e rumorosa, ma che sa essere anche silenziosa e contemplativa, alla continua ricerca di un equilibrio con la natura e il trascendente, dove spesso i sentimenti in pubblico devono essere trattenuti per “troppo pudore”, ma dove al contempo non appare strana la sensazione di sentirsi circondato da spiriti che non scompaiono mai, stanno sempre “al fianco dei loro cari”, in comunicazione, quasi come ombre gentili. 

L’ombre portee, L’ombra proiettata, è anche il titolo del romanzo d’esordio della scrittrice francese Sidonie Perceval (Isabelle Huppert) e sta per fare il suo esordio in Giappone, con annesso tour promozionale alla presenza dell'autrice, grazie al volere di un piccolo editore di nome Kenzo (Tsuyoshi Ihara), che proprio dietro le “ombre del libro” sente di ritrovare qualcosa di familiare, vicino anche a livello inconscio alla spiritualità orientale. 

Sidonie fin dall’arrivo all’aeroporto di Kyoto si sente invece spaesatissima e un po’ confusa. È  felice ma un po’ titubante all’idea di trovarsi per quasi un mese in una terra affascinante ma che continuamente “le sfugge”, accompagnata personalmente, quasi passo dopo passo, da Kyoto a Tokyo, da un Kenzo che quasi da solo, un po’ bodyguard, un po’ facchino e un po’ confidente, un po’ come “la sua ombra”, sembra voler stare al suo fianco nelle librerie, agli incontri stampa, nei ristoranti, nei luoghi turistici e anche sul posto affianco durante i lunghi viaggi in taxi. 

I pernottamenti avvengono invece in stanze rigorosamente separate, di piccoli hotel all’occidentale o di pittoreschi alberghetti a condizione familiare tutti in legno e pareti mobili, dove trovare qualcuno che parla inglese sarà comunque complicato. Ma è proprio in questi luoghi di riposo tra un firmacopie e un incontro con la stampa locale che, all’improvviso, inizia ad apparire a Sidonie una ulteriore ombra.  

È suo marito Antoine (August Diehl) e appare ogni giorno sorridente, sereno e gentile in un elegante abito bianco. Sembra conoscere tutte le tappe dell’itinerario promozionale e automaticamente si fa trovare in stanza tutto per lei, che in genere reagisce chiedendo di cambiare stanza o albergo a inservienti che non la capiscono. Ogni tanto riesce a dribblarlo, ogni tanto decide di passare la serata con lui parlando del loro passato e scherzando un po’. Poi Antoine decide di sedersi pure in taxi, tra Sidonie e Kenzo, e giunge così il momento che la scrittrice parli al suo editore seriamente: del fatto che da quando si trova in Giappone è perseguitata dal fantasma del suo scomparso marito. 

Kenzo le dice ovviamente che è tutto normale, è una cosa “tipicamente giapponese” di cui non bisogna spaventarsi. Così Sidonie accetta di vedere ancora intorno a sé Antonie, anche se in fondo è la sola a vederlo, mentre il marito sposta oggetti e muove porte del tutto invisibile agli altri, ma “come accettato” dagli altri. 

Con il passare dei giorni Antonie diventa però sempre più trasparente, nella misura in cui l’amicizia e forse l’affetto di Kenzo nei suoi confronti stanno iniziando a crescere. 

Sidonie è in fondo una donna ancora molto piacente, spiritosa anche se un po’ spaesata, mentre  Kenzo è un uomo taciturno ma sincero, affascinante e protettivo. 

Se la scrittrice Sidonie a ogni incontro con la stampa continua a ripetere che scrivere è il suo solo modo di sopravvivere, in un mondo di solitudine, piano piano la donna sta iniziando invece a esplorare sentimenti nuovi, accompagnata da ombre di cui ha sempre meno paura.


L’autrice di quell’interessante e poetico Belleville-Tokyo del 2010, Elisa Girard,  torna in terra d’Oriente e dirige e scrive, insieme a Maud Amelie, la sceneggiatrice di Passeggeri della notte, un film molto tenero, romantico e malinconico. 

È un film sulle seconde occasioni e sull'esplorazione del mondo come buon catalizzatore delle emozioni, che in parte funziona come Mangia, Prega, Ama di Ryan Murphy con Julia Roberts, mettendo al centro della scena una sperduta Huppert che non ha oggi ancora nulla da invidiare alla sua collega americana per charme, sensualità e personalità. 

È un film per chi ama o vorrebbe visitare il Giappone, che offre visivamente una cartolina bellissima e piena di tanti colori e suggestioni del paese del Sol Levante. Ci sono i palazzi antichi e i giardini di Kyoto, c’è il Mare Interno, le terme, i templi, lo Shinkansen, i ciliegi a Tokyo e gli “spettri” di Hiroshima. Ci sono le usanze “strane” come gli inchini continui e la cortesia quasi estrema (c’è una gag ricorrente con gli albergatori che cercano sempre di prendere alla protagonista la sua personale borsetta rossa, in mondo quasi equivoco), c’è l’amore per la spiritualità e il silenzio, la malinconia dei bar notturni, la complessità nell’instaurare una conversazione impersonale che trasforma ogni tentativo quasi in un lungo balletto di convenevoli e ritualità, che ci riporta anche al “neoplatonismo” di Wong  Kar-wai. 

Tutto da manuale, tutto da Lost in translation, per citare il celebre film di Sofia Coppola, ma tutto onestamente autentico, descritto da un'autrice attenta ed appassionata che già nel 2010 dimostrava tanto impegno e amore nel raccontare gli “incontri possibili” tra l’Occidente e questo strano quanto unico mondo asiatico. 

Viaggio in Giappone offre poi un anche un viaggio interiore sull’elaborazione del lutto e si interroga sulle conseguenze della possibile ricostruzione di un amore in età avanzata. Questo avviene grazie anche all'indiscussa bravura dei due interpreti “comprimari”, il divertente Diehl e il riservato Ihara, sempre capaci di caricare ogni scena con la Huppert di momenti di dolcezza, ironia e complicità, ma anche grazie a una trama che, quasi riducendo all’essenziale i concetti, riesce a fare un uso non banale anche della spiritualità, (si rimanda ai manuali di filosofia orientale per chi è interessato, ma intanto si stimola qui la curiosità di farlo) sapendola astutamente alleggerire ogni tanto con qualche  “battuta di spirito”.  Più che il Ghost di Swayze, la Girard quando ha a che fare con il ‘mondo fantasmatico” sembra avvicinarsi di più alle atmosfere dell’Asso di Celentano diretto da Castellano e Pipolo e la soluzione convince, andando a raccontare lo stato di fragilità della protagonista con il giusto disincanto, ma anche con quell’ironia che è in grado di proteggerla dalle derive più malinconiche.  


Il film di Elisa Girard è una pellicola solare, romantica e divertente, che sembra costruita per farci venire voglia di prendere oggi stesso un biglietto per il Sol Levante. Molto bravi gli interpreti, bellissimi i paesaggi, riuscita una trama che pur nella sua linearità e semplicità costruisce un racconto interessante che tra le righe ci parla anche di spiritualità e relazioni umane in modo non banale. 

Astenersi chi non in cerca di una storia romantica con al centro personaggi maturi e complessi, che nonostante l’ironia comunque mettono in gioco anche vissuti dolorosi.

Si astenga anche chi non sopporta il Giappone in genere.   

Per tutti gli altri buona visione al cinema, nella sala più grande, portando inevitabilmente i fazzoletti.

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