Siamo nel Giappone dei giorni nostri, nel “Kingdom of the rising sun” per citare un noto brano dei The Animals che già nelle prime scene potremo riascoltare.
Ci troviamo sotto il sole fin, dalla mattina presto, nel quartiere di Shibuya. Siamo all’ombra del progetto “Tokyo Toilet” del 2020, che ha elevato ad arte urbanistica molti bagni pubblici della capitale giapponese.
Ci sono bagni pubblici circondati da austeri muri di cemento verticali a balze, ma in perfetta armonia con i parchi naturali che li racchiudono secondo il Feng Shui. Ci sono bagni completamente in vetro, all’esterno trasparenti ma che una volta occupati, per preservare la privacy con la tecnologia, si oscurano con dei giochi di luci colorate. Ci sono bagni ricoperti di specchi che si nascondono tra le pareti delle reception di lussuosi hotel, ci sono bagni piccolissimi alle fermate del treno, ma che utilizzano il celebre “spruzzino giapponese” e la tavoletta riscaldata per contenere gli spazi e preservarne la comodità nell’uso.
Noi in Italia le opere di Piero Manzoni le conserviamo inscatolate, ma qui a Shibuya l’edilizia artistica prevede che i servizi siano sempre attuali, non confezionati, lindi e funzionali e per questo alle dirette cure di esperti della pulizia. Uomini che in guanti bianchi e perfette divise blu, con scritta in bianco “Tokyo Toilet Shibuya”, preservano questa singolare galleria urbanistica diffusa, che per la cultura giapponese è soprattutto simbolo di accoglienza e gentilezza nei confronti dei cittadini come di ogni visitatore.
Uomini che ogni tanto riportano anche bambini smarriti alle madri distratte, aiutano stranieri gaijin a districarsi con i comandi sanitaro/tecnologici, sovrintendono ai movimenti più eccentrici degli homeless e sanno rendere un bagno operativo in pochi secondi in caso di emergenza.
Il sessantenne, saggio e taciturno Hirayama (l’affascinante ed enigmatico Koji Yakusho, visto nel magnifico 13 Assassins di Miike, in Memorie di una Geisha di Rob Marshall e in Babel di Inarritu) e il ventenne scapestrato Takashi (il buffo Tokyo Emoto, visto in Outrage con Kitano e nel fantascientifico Cube giapponese) sono due di questi operatori addetti alla preservazione dei luoghi, e non si risparmiano tra una “esposizione e l’altra”, con disinfettanti e spugne, fin dall’alba.
Le loro vite sono spesso accompagnate da una colonna sonora offerta dalle audiocassette con i classici della musica americana, gelosamente custodite da Hirayama per la sta autoradio “vintage” personale, nel furgone blu di ordinanza della ditta. Ritmi di lavoro con movimenti precisi e cadenzati, rituali di svago e convivialità che coinvolgono con pari rigore anche il tempo libero.
Ogni tanto però i due la sera si concedono indispensabili “vie di fuga”, sognando magari l’amore, tra piccoli bar notturni gestiti da moderne geishe mature come Mama (la attrice e cantante Sayuri Ishikawa) e locali con giovani hostess dai capelli colorati come Aya (Aoe Yamada).
Come nei migliori film di Ozu i nostri eroi, e in particolare Hirayama, vivono nella quotidianità, sopravvivendo agli schemi che sempre più stringentemente la consumano.
Hirayama ogni giorno è svegliato dal dolce suono di una scopa di saggina che pulisce il vialetto sotto casa sua. Ogni giorno si alza, ripone il libro che ha letto la sera precedente, offre l’acqua alle sue piantine, si lava, si veste con la tuta blu, raccoglie le monete sulla mensola, usa le monete per prendere al distributore sotto casa il caffè istantaneo “Boss”, accende l’auto e fa partire la sua musica. Guida verso la torre e arriva nelle molte tappe del suo lavoro, fa pausa pranzo in un parco vicino a un tempio dove ama scattare foto agli alberi. Va nel primo pomeriggio, giusto all’apertura, ai bagni termali pubblici, dove si immerge fino alla testa e poi vede un po’ di sumo in tv. Esce e va in un localino vicino alla metro dove può bere birra e parlare di baseball con gli avventori, poi arriva la sera e forse si può incontrare Mama, che forse canterà per lui dopo avergli preparato una scodella di ramen, accompagnata da un bicchiere ghiacciato. Poi torna a casa, legge un po’ un libro e si addormenta. Nei giorni festivi la routine cambia, ma il ritmo si fa subito sempre familiare.
La notte è invece inquieta, piena di strani sogni in bianco e nero da decodificare come puzzle esistenziali. Poi si ricomincia, ogni giorno, come in un infinito giorno della marmotta. Alla ricerca, con curiosità e voglia di lasciarsi stupire dagli eventi, di nuovi dettagli che rendano la quotidianità qualcosa di comunque unico, qualcosa di comunque sempre diverso.
Fino a che alcuni equilibri si inclineranno, eventi e incontri si sovrapporranno e forse, dai dettagli, emergerà anche la vera storia, il passato e quello che riserverà il futuro a Hirayama e al suo piccolo mondo. Quest’uomo e il suo socio vorranno davvero per tutta la vita continuare a pulire i bagni?
Guardare le cose nei dettagli, scoprire il “senso della vita” dalle minuzie. È una lezione che ci è cara da L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello quanto è componente essenziale del cinema fatto di ritualità e piccoli gesti di Ozu. Un Ozu citato, amato e più volte rincorso nella vita da un Win Wenders, che qui, in un atto di massimo amore e devozione, cerca quasi di segnare una sua personale continuità con il grande maestro nipponico.
Ambienta a Tokyo, descrivendo una parabola umana fatta di gesti più che parole, visiva più che narrativa, in perfetta armocromia con il passare del tempo e delle stagioni. Se i personaggi sono in armonia con la natura anche se la musica, una favolosa musica “rock vintage” in gran parte di matrice americana, diventa un interessante e ulteriore viatico emotivo, dando corpo quasi ai flussi di coscienza che nuotano dentro ai personaggi. Ogni brano come ogni piccolo dettaglio visivo sbloccano un nuovo frammento emotivo e la storia procede quasi come un affascinante gioco enigmistico.
La sceneggiatura, scritta insieme a Takuma Takasaki, vede Wenders scegliere come nome del personaggio interpretato da Yakusho “Hirayama”, come il protagonista dell’ultimo film di Ozu, del 1962, Il gusto del sakè. Come ne Il gusto del sakè al centro della vicenda c’è nuovamente un mondo diviso tra vita notturna e quotidianità giornaliera, che Wenders si premura in una nota di descriverci come attinente a uno specifico stato d’animo descritto dalla filosofia orientate: il “komorebi”, il saper “guardare tra la luce e l’ombra”, come alla ricerca di un equilibrio tra conscio e inconscio.
Una ricerca interiore che presuppone una emotività “trattenuta”, quasi zen, che bene riesce a padroneggiare l’attore Yakusho. Il suo lavoro di sottrazione e mimica lo avvicinano molto ai personaggi di Ozu ma presenta anche per fisicità e “spensieratezza” de tratti alla Buster Keaton, da sempre un punto di riferimento “trans-culturale” seguito anche da Takashi Kitano.
Emoto di contro è esagitato in gesti e movimenti scomposti quasi in modo molesto, ma veste al meglio la maschera buffa tradizionale di molte commedie orientali, che qualcuno potrebbe pure scambiare con la comicità fisica e caricaturalmente infantile di molti personaggi di Herbert Ballerina.
Ozu e la filosofia orientale, insieme a paesaggi e personaggi di accurata e ricercata matrice nipponica, rivivono con assoluta spontaneità e naturalezza in un Wenders che non sembra affatto subire l’effetto “Lost in translation”.
Perfect Days è una piccola elegia, una perla sul “senso della vita” da scoprire visione dopo visione, legando i mille dettagli nuovi che ogni volta riaffiorano alla visione, offrendo un quadro sempre più vasto e ricco a livello emotivo. Molto bravi tutti gli interpreti, straordinaria la fotografia curata da Franz Lustig e bellissimi i brani scelti da Milena Fessmann.
Non perdete l’occasione di vederlo in sala e farvi travolgere dalla magia di questa pellicola.
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