martedì 28 febbraio 2023

Laggiù qualcuno mi ama: la nostra recensione del documentario di Mario Martone dedicato a Massimo Troisi e presentato al Festival di Berlino


“C’era una volta” Massimo Troisi. Era nato da un ferroviere e una casalinga, a San Giorgio a Cremano, provincia di Napoli, dove oggi c’è una piazza, una statua e un museo a lui dedicati.

Era un ragazzo riccioluto e un po’ segaligno, con uno sguardo profondo e malinconico, con un sorriso triste un po’ tirato sul lato, con le dita della mano che giocherellavano ogni tanto lungo il sopracciglio. Un ragazzo a cui era facilissimo volere bene e difficile volere male, dalla salute cagionevole, timidissimo ma pieno di domande sul mondo, poco interessato al calcio e alla mondanità ma molto attento al mondo femminile meno esteriore, alla gentilezza e alla poesia. Da giovanissimo vinse un premio di poesia ispirato a Pasolini. A quattordici anni, mentre studiava all’istituto per geometri, iniziò con un piccolo gruppo di amici a salire sul palco del teatro parrocchiale della Chiesa di Sant’Anna, scrivendo e interpretando tra le molte cose anche una sua versione moderna di Pulcinella, un personaggio che vedeva sempre “stanco e spompo”. Quando fu “censurato” per dei temi ritenuti non troppo adatti alla realtà parrocchiale, continuò a esibirsi al Centro Teatro Spazio, un piccolo “teatro Off” come direbbero gli americani. Il crescente successo, unito alla bravura del gruppo di attori con cui si esibiva, prima il quartetto de I Saraceni e poi il trio de La Smorfia, gli offrì la possibilità di andare in tv e poi al cinema. Ebbe in queste sedi ulteriore successo perché con il suo linguaggio espressivo lento, pensoso e tortuoso riusciva a sovvertire tutte le “regole di dinamicità e immediatezza”, richieste e ricercate dalla comicità soprattutto negli imminenti anni ‘80. Era in controtendenza. Parlando di continuo e al contempo analizzando i dettagli, con ironia, autoironia e molta malinconia, Troisi aveva deciso di vestire sulla scena (in tv come al cinema), con passione quasi psicanalitica, la personale maschera che lui definiva dello “scontroso fino all’eccesso”. Un ragazzo degli anni ‘80, appartenente alla nuova classe piccolo borghese, che avrebbe in seguito trovato delle felici assonanze, mai prima esplorate, con il mondo contadino toscano espresso dalla comicità di Benigni. Con timidezza e divertente vis polemica, ma anche con una garbata richiesta di affetto, Troisi mostrava al mondo lo sguardo inedito, sveglio, ironico e disincantato di una nuova generazione di attori. Quando nel 1981, con Napoli ancora scossa dal terribile terremoto del 1980, Troisi arrivava al cinema con la sua prima pellicola, Ricomincio da tre, il film non solo fu accolto da un grande successo, ma riuscì a dare una voce fresca e forte a quel pubblico giovane che non si era ancora sentito rappresentato al cinema. Ricomincio da tre divenne un cult oggi ancora attuale, che sarebbe stato citato battuta per battuta da tutte le nuove generazioni che da allora se ne imbattono e se ne innamorano. Merito del punto di vista “dolcemente scontroso” di Massimo, ma anche della sua co-autrice, Anna Pavignano, che avrebbe seguito artisticamente l’attore per tutta la vita, facendolo dialogare nei suoi film con donne moderne, spesso forti ed emancipate, cresciute culturalmente nell’epoca dei movimenti femministi e interessate alla psicanalisi e alla crescita interiore. Un universo femminile verso il quale Troisi è sempre stato affascinato. Donne come Anna Pavignano ma ancora prima come Valeria Pezza, che quando faceva parte con Massimo del gruppo I Saraceni gli aveva fatto vivere esperienze di “vita comune” vicine alla sensibilità dei movimenti hippy, mettendolo a contatto nella sua abitazione con un viavai di filosofi, musicisti ed esperti di arti orientali. Influenze e ragionamenti che tornano con Anna, che oltre che collaboratrice è stata amica, per qualche anno compagna di vita, musa e per sempre “compagna artistica” del comico.

Martone attinge molto in questo documentario dalle mille informazioni e documenti che gli offre proprio Anna Pavignano. Una vecchia registrazione su audiocassetta in cui Massimo si racconta a lei come a una seduta dallo psicologo. I diari su cui Massimo annotava ogni cosa, comprese le poco felici parentesi di vita in cui era costretto a subire degli interventi cardiaci. La raccolta di idee e frasi che l’attore scriveva su pezzetti di carta e poi raccoglieva meticolosamente in una scatola, che sono spesso diventati parte dei suoi film, ma sono oggi ancora in parte inediti. Frammenti che forse hanno ispirato Martone nell’elaborare un’interessante lettura unitaria di tutti i lavori del comico napoletano, svelata fin dalle prime scene di questo documentario.


Massimo Troisi secondo il regista Mario Martone è stato quasi un “Antonie Doinel italiano”. Antoine Doinel era il personaggio scelto da Francois Truffaut come filo conduttore di tutte le sue opere cinematografiche, interpretato fin da bambino, ne I 400 colpi, dall’attore Jean-Pierre Leaud. In ogni film Antoine è lo stesso personaggio che cresce, prende posizioni, evolve, si innamora e invecchia. Un po’ come Troisi, che dal suo primo film all’ultimo si racconta, descrivendosi negli anni in una personalissima parabola artistica ma anche umana, esistenziale quanto satirica, sincera quanto profonda. Martone cerca di indagare come il legame tra Truffaut e Troisi arrivi a essere anche squisitamente tecnico. Il regista evidenzia, attraverso la comparazione incrociata di alcune pellicole di entrambi gli autori, dei momenti in cui si fa largo quasi un “comune sentire”: una similare cura della rappresentazione dei sentimenti e una vicina scelta di dettagli nella costruzione della scena. Tra questi, i molti momenti in cui il personaggio di Troisi/ Doinel si confronta con la sua stessa immagine davanti allo specchio, avviando un dialogo nel quale fatica a “riconoscersi”. I momenti di silenzio e malinconia nelle notti insonni. La stessa pungente ironia nel leggere il mondo. Un’ironia caustica che nel 1982 spinge Troisi a creare per la tv dopo il successo del primo film un documentario sulla sua morte, Morto Troisi, viva Troisi!, quasi per farsi beffe del suo cagionevole stato di salute, “archiviando in anticipo la pratica”. Un “gioco” che porterà avanti anche nel film Non ci resta che piangere, dove il suo personaggio, finito nel medioevo, veniva redarguito per strada (forse, in quanto percepito come troppo spavaldo o superbo, per via di un abbigliamento un po’ eccentrico) con la frase “ricordati che devi morire!”. Frase cui il personaggio di Massimo rispondeva con un tranquillo “Sì, sì, ora me lo segno”. Nel documentario trova spazio l’amore travagliato che Troisi negli anni manifesta per la città di Napoli, la sua passione inespressa per la politica, il suo amore della poesia come strumento di sintesi per comunicare al meglio dei concetti per i quali lui si spendeva in troppi giri di parole. Ci sono filmati d’epoca in cui è assieme a Pino Daniele e Maradona, c’è l’intervento di Sorrentino che analizza un particolare stacco di regia che ha provato a copiare a Massimo. Numerose interviste nuove e d'epoca anche a Lello Arena, Scola, Valeria Pezza, Ficarra e Picone e tanti altri. L’opera di Martone ci parla di quasi tutto il cinema di Troisi in una retrospettiva ricca di tante piccole perle di repertorio, aneddoti e interviste, riflessioni sulla vita, le donne, la politica, la poesia. Lascio a voi scoprire questa “scatola dei tesori” che ci fa sentire l’attore ancora tanto presente, attuale quanto necessario per il nostro cinema e la nostra cultura, per poi darci la voglia di riguardare tutti i suoi film. C’è spazio anche per commuoversi, ma “fuori dalla scena”, nel modo garbato in cui Troisi era solito raccontare i momenti “troppo melodrammatici”.


Quaggiù qualcuno mi ama è un’opera piena di cura e amore che omaggia al meglio il cinema di Massimo Troisi. Un’occasione per scoprire o riscoprire uno degli autori più importanti degli ultimi quarant’anni attraverso moltissimi materiali inediti e la partecipazione di tanti personaggi del mondo dello spettacolo. 

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lunedì 27 febbraio 2023

Kill me if you can: la nostra recensione del documentario di Alex Infascelli sulla incredibile storia vera di Raffaele Minichiello, l’uomo che ha ispirato Rambo e ha compiuto il primo dirottamento aereo transoceanico

 


Raffaele Minichiello, nato a Melito Irpino nel 1949, dopo il terremoto del 1962 che gli ha distrutto la casa è andato a vivere in America con la sua famiglia, a Seattle. Dopo un primo momento di difficile integrazione, Raffaele decide di servire in prima persona il suo nuovo Paese e  a 17 anni e mezzo, con il consenso firmato dai genitori, entra prima a far parte del corpo dei Marines e subito dopo viene spedito come militare scelto in Vietnam.

È un ragazzo di buon cuore ed è molto amato e apprezzato dai suoi commilitoni, anche per l’alta preparazione tattica e militare. È il soldato modello con cui scendere in campo, sicuri che ti coprirà le spalle e riporterà tutti a casa. Sul suo elmetto non è scritto il nome della fidanzata, ma una frase  c’è che è autentica sfida al nemico: “Kill me if you can”.

Ma gli orrori della guerra in breve tempo lo cambiano profondamente e in solo pochi mesi. Dopo aver sviluppato una sempre più forte “indifferenza” davanti alla morte ed essere diventato inconsapevolmente un assassino spietato che affronta ogni missione a testa bassa, Raffaele si trova un giorno, incredulo, a costruire delle sculture con le ossa dei cadaveri. Qui inizia ad avere una crisi di coscienza su quello che sta facendo. A 19 anni ritorna in America con la medaglia al valore militare di Saigon, ma non c’è per lui una accoglienza da eroe. L’America è in larga parte contraria al Vietnam e per una curiosa forma di ipocrisia ha sviluppato odio anche nei confronti dei soldati, che sono le principali vittime americane del conflitto. Raffaele torna dopo essersi reso conto di essere diventato un “mostro” e si sente abbandonato dalla gente e in qualche modo anche “truffato” dall’esercito, quando lo Stato decide di non pagarlo interamente per i suoi due anni passati a combattere. Compie una bravata per cercare di riavere la parte mancante e in qualche modo “vendicarsi”. Forza una porta di notte per rubare i soldi dalla cassa dello spaccio militare, ma ubriaco si addormenta lì fino al giorno dopo, quando viene trovato. Dopo dieci giorni di cella, con un caos indescrivibile nella testa, si arma e decide di dirottare un aereo per tornare in Italia. È un evento che fa il giro di tutti i notiziari del mondo, che subito si interrogano sulla stranezza del gesto e sui modi perentori ma inconsuetamente “gentili” del dirottatore. Il dirottamento dopo molte fasi di tensione riesce, facendo entrare Raffaele nella storia e portandolo dopo pochi anni di prigione a una nuova fase della sua vita. Una fase in cui per la sua avvenenza e per l’animo gentile diventa quasi una star del cinema, poi un particolarissimo barista e poi benzinaio i cui clienti principali sono ambasciate straniere presenti a Roma. In parallelo dando voce a una passione nata sotto le armi diventa un esperto e istruttore di elicotteri, poi a seguito di un forte lutto vive una fase spirituale che lo vede diventare un uomo di fede. Una persona molto amata che per le cronache si sarebbe trovata spesso al centro, se non “a pochi metri di distanza”, di alcuni dei più importanti fatti politici e di costume della storia italiana romana degli anni '70 e '80.  Una vita troppo grande e curiosa per non essere raccontata, che ha ispirato libri, film e ora un documentario diretto da Alex Infascelli in cui Minichiello racconta i fatti di persona, con la sua voce e il suo volto non troppo scalfito dal passare degli anni, insieme alle numerose testimonianze delle persone che lo hanno conosciuto.


Alex Infascelli esordisce al cinema come autore di thriller molto riusciti tra cui Almost Blue (1994) e Il siero della Vanità (2004). Sviluppa serie tv intriganti come Donne Assassine (2008) e Nel nome del male (2009), ma conta anche una lunghissima e sfaccettata carriera da musicista, autore tv e  regista di videoclip che prosegue con successo dal 1993. Di recente è anche scrittore. Gradualmente, si è innamorato del genere documentario. È una passione che lui stesso racconta cresciuta nel tempo dall’esperienza televisiva per MTV, durante la conduzione di Brand:New nel 2006. In quel periodo ha potuto incontrare e parlare con delle persone straordinarie quanto uniche, con alle spalle delle vite anche più incredibili di quelle che si potrebbe avere la fantasia di scrivere per un film. Vite che era interessante raccontare anche attingendo alle fonti ufficiali, attraverso la ricerca di materiali di archivio e l’ausilio di giornalisti e investigatori privati (per poter ritrovare magari delle persone del passato di cui non si ha notizia da molto tempo), in una costruzione narrativa spesso unica e eccitante, in quanto figlia delle sfaccettature sempre uniche che gli potevano offrire i materiali ritrovati. Come frutto di questa esperienza è nato nel 2015 lo strepitoso S is for Stanley - Trent’anni dietro al volante per Stanley Kubrick, sulla vita dell’autista personale del grande regista, Emilio D’Alessandro:  una pellicola che vinse il David di Donatello nel 2016 come migliore documentario. Infascelli rilanciò nel 2021 con Mi chiamo Francesco, sulla vita del calciatore Francesco Totti e rilancia oggi con questo Kill me if you can, sulla vita di Raffaele Minichiello, seguendo sempre lo stesso stile meticoloso quanto “dinamico” di presentare i fatti. Fatti in questo caso in parte elaborati da quanto raccontato nel libro Il Marine - storia di Raffaele Minichiello di Pierluigi Vercesi, ma poi arricchiti dalla incredibile mole di documenti e video relativi al dirottamento recuperato dalle Università americane, dal materiale riguardante una “vita romana” molto descritta in rotocalchi e interviste d’epoca (molte dall’Archivio Rai) e da numerose nuove interviste. Infascelli ha ricercato i reduci del Vietnam commilitoni di Minichiello, le hostess e piloti del volo dirottato, ha parlato con giornalisti che hanno scritto articoli e libri sui di lui, ha trovato molti contatti con amici e parenti del protagonista. Un meticoloso lavoro che su schermo offre di Minichiello un “quadro umano” estremamente variegato, con una vita che ogni tanto viene descritta come il film Rambo, ogni tanto assume toni simili a un capitolo della serie Airport, ogni tanto diventa una fellinala La Dolce Vita e in alcuni casi ha pure il sapore di un poliziottesco anni ‘70. A ogni passaggio Infascelli cerca di mutare anche il linguaggio visivo e narrativo, adattandosi ai colori e stati d’animo di ogni epoca, spostandosi fluidamente dai toni del dramma all’action, dai toni del film più “politico” al registro romantico. Minichiello ci viene descritto come ragazzo, uomo, soldato, imprenditore di se stesso, marito e padre, cercando di farci decifrare un volto che quando è in primo piano nel racconto rimane sempre composto, enigmatico e forse timido. Al termine della visione le domande su questo strano Marine irpino quasi si moltiplicano, nella sensazione che ci sia ancora moltissimo da raccontare sulla vita di questa persona. Domande che magari saranno approfondite da altre opere future, considerando anche la mole di materiale che Infascelli ha raccolto e non utilizzato per questioni di sintesi. Potrebbe essere anche una serie tv.


Kill me if you can è un documentario che descrive una sorprendente storia umana “bigger than life”, in grado di sorprendere e commuovere grazie alla grande cura con cui è realizzata in ogni sua parte. Attraverso un montaggio veloce e una narrazione molto ricca e cinematografica, i novanta minuti della pellicola scorrono in modo davvero piacevole, incuriosendo e sollecitando lo spettatore a saperne di più sul mondo con cui Minichiello è entrato in contatto. Una pellicola fatta con passione che conferma il talento di Infascelli nel raccontare attraverso il cinema la vita di persone con esperienze fuori dal comune. 

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sabato 25 febbraio 2023

The whale: la nostra recensione del nuovo film di Darren Aronofsky con protagonista Brendan Fraser

 


Siamo in un appartamento isolato dell’America dei giorni nostri. Dietro lo schermo di un portatile Charlie (Brendan Fraser), tenendo la telecamera spenta, insegna a una classe virtuale come si scrive una tesi. Il professore sembra ben voluto da tutti gli alunni, ma quando la lezione termina Charlie è da solo e con poco fiato in una stanza che sembra troppo piccola per contenere tutto il suo corpo. Con una fame autodistruttiva alimentata da anni di senso di colpa, Charlie ha nutrito, gonfiato e stipato il suo corpo fino a farne la sua personale fortezza della solitudine. Una “massa”, che rende l’uomo più simile a una balena. Ogni difficile passo fa scricchiolare e cedere il legno del pavimento. Ogni azione si scontra rumorosamente con ogni barriera fisica e architettonica possibile e per essere portata a termine necessita di pinze per raggiungere oggetti, bastoni per sostenersi, spugne con manico per lavarsi. È una massa ormai autonoma che ormai “ragiona oltre la ragione di Charlie”, che pretende affamata e arrabbiata sempre nuovo cibo per alimentarsi come fosse una fornace. Cibo che è in fondo carburante indistinto da lanciare dentro senza gusto e senza sosta, nel modo più rapido e compulso. Ogni tanto la fame si placa e Charlie riemerge “dalla balena”, con i suoi sogni e il suo piccolo mondo. L’uomo cerca con il lavoro di accumulare un po’ di soldi per permettere alla figlia che non vede da anni di andare al college. Ha una amica insostituibile in Liz (Hong Chau), un'infermiera che ogni tanto si ferma anche a dormire da lui sul divano, dopo che hanno visto insieme un film alla tv. Perfino l’uomo che consegua le pizze a domicilio (Sathya Sridharan) e non ha mai visto Charlie, se non da dietro la porta, cerca di essergli amico e intrattenersi un po’ con lui appena può. Tutte le relazioni umane che circondano la vita di Charlie cercano di sostenerlo, ma la massa ormai ha raggiunto il limite critico e forse il suo “scopo finale”. Scompenso cardiaco congestizio: il cuore che non riesce più a offrire sangue ricco di ossigeno all’organismo. Se non ricoverato subito, forse meno di una settimana di vita. Ma Charlie non vuole che tutti i soldi accumulati in anni per sua figlia vengano spesi in ospedale, per cercare di prolungargli una vita che in fondo non vuole avere e non sente di meritare. Ogni volta che arriva un attacco cardiaco che cerca di soffocarlo Charlie riesce però quasi a “placarlo”, leggendo o facendosi leggere il testo di una tesina su Moby Dick che pare realizzata da un ragazzino. La piccola recensione di un libro che sembra avere per lui l’effetto quasi di un salva-vita. Ma in quei giorni bussano alla porta dell’insegnante anche altre sue persone che si presentano a lui come “salva-vita”. La prima è Thomas (Ty Simpkins), un ragazzo della New Life Church che sente di aver trovato in Charlie la sua vocazione di missionario e cercherà più volte di riavvicinarlo alla fede. La seconda è Ellie (Sadie Sink), la figlia di Charlie che non vede da tanto tempo. Ha bisogno di soldi, di aiuto con il corso di letteratura e forse di un padre che non ha mai avuto. Charlie non vede davvero l’ora di aiutarla, ma il fatto di essere scomparso dalla sua vita per troppi anni e per ragioni ancora non troppo chiare è un ostacolo che deve essere superato. Riusciranno le persone intorno a Charlie a “salvarlo” dalla balena? 


The whale nasce come uno spettacolo dello scrittore teatrale Samuel D.Hunter che dopo il debutto a Denver è arrivato a New York nel 2013, dove ha vinto prestigiosi riconoscimenti nell’ambito dell’Off-Broadway come il Drama Desk Award e il Lucille Lortel Award. A New York il ruolo di Charlie è stato interpretato da Shuel Hensley, attore teatrale di lungo corso ma che ricordiamo “affettuosamente” anche al cinema nel ruolo di Frankenstein un po’ scombinato nel film Van Helsing (ma è stato a teatro anche Frankenstein Junior e collabora spesso a teatro con Hugh Jackman, l’attore principale di Van Helsing, che ha seguito anche in The Greatest Showman e nel recente Music Man) di Stephen Sommers, il regista che ha voluto nel 1999 Brendan Fraser come eroe in La Mummia. Non sappiamo se Sommers o Hensley abbiano giocato un qualche ruolo, ma Darren Aronofsky, da sempre molto interessato a una trasposizione cinematografica di The Whale, che per qualche tempo si è “conteso”vcon Tom Ford e George Clooney, sembra che abbia scelto Fraser nel ruolo di Charlie dopo che “qualcuno”vgli ha fatto vedere la sua performance in un film del 2006, Journey to the end of the Night. Era un film a tinte cupe, una coproduzione tra Stati Uniti, Germania e Brasile in cui Brendan Fraser interpretava il gestore di un bordello affetto da ludopatia e dipendente da cocaina. Un ruolo complesso e borderline, decisamente diverso dalle parti da bravo ragazzone canadese o “George della Jungla” a cui negli anni ci aveva abituato (pur con eccezioni). Un ruolo pieno di fragilità e contraddizioni che ragionando a posteriori, sulla base di  una celebre intervista rilasciata dall’attore nel 2018, avrebbe potuto attingere molto dallo stato di fragilità emotiva in cui l’attore era caduto a seguito di alcuni eventi che dal 2003 ne stavano minando la carriera e la serenità familiare. Se il volto solare riusciva ancora a emergere ogni tanto anche in pellicole successive, come una specie di “maschera”, una forte malinconia si è sempre più insidiata nella vita dell’attore. A questa si sono aggiunti lutti e problemi personali importanti, fino a che Fraser ha deciso quasi di scomparire dalle scene. Come Charlie, anche Fraser ha vissuto anni di depressione in seguito a cui ha messo su molto peso: 300 libre che pur lontane dalle 600 del personaggio possono essere per molte situazioni invalidanti. Come Charlie è però rimasto per il pubblico e chi lo conosce una persona speciale, un amico a cui si pensa con piacere sperando di incontrarlo di nuovo. Con in mente quel film del 2006 girato “senza maschera” e dopo aver conosciuto di persona Brendan Fraser, Aronofsky non ha avuto dubbi sul fatto che lui poteva essere Charlie e lo stesso Hunter ha riadattato per il grande schermo The Whale anche pensando alla sua interpretazione. Aronofsky già in The Wrestler e ne Il cigno nero ha dimostrato una particolare cura nella descrizione della fisicità di personaggi “mutati”, a seguito di una vita di allenamenti, lesioni e disciplina. Personaggi “troppi grossi” per fare i lavori di tutti i giorni, come l’enorme ex wrestler di Mickey Rourke che cerca goffamente di fare il responsabile della gastronomia senza la minima grazia nei movimenti. Personaggi “troppo rigidi” come la ballerina della Portman, ritenuta per eccessiva eleganza dei movimenti acerba, poco sensuale rispetto alle altre ragazze, quasi infantile. Il Charlie di Fraser si inserisce di diritto in questo ideale museo di corpi “in cerca di normalità” partendo da un trucco particolarmente invasivo (che ha richiesto all’attore sedute quotidiane di trucco di quattro ore e un’imbracatura che lo ha caricato di 300 libre extra) e passando per dei movimenti complessi, fatti di continui spostamenti di peso e uso di attrezzature di supporto, che l’attore ha dovuto imparare con l’aiuto di un coreografo e di consulenti della Obesity Action Coalition. Se “vestire Charlie” lo rende una specie di montagna semovente, nell’insieme affascinante quanto dolente, Fresar non smette per un secondo di infondergli umanità e calore attraverso lo sguardo e piccoli gesti, attraverso una voce affaticata ma gentile. Anche se la trama mette subito in chiaro che a Charlie manchi molto poco da vivere, la scrittura e l’interpretazione cercano sempre di contenere l’animo più melodrammatico della vicenda: giocando con successo la carta dell’umorismo, ma anche qualche volta facendo un uso intelligente del “grottesco”, della satira politica, di riflessioni sul gender, sulla fede e sul “ruolo di guida” dei genitori e insegnanti. Ne nasce un film dalle mille sfumature, che si avvale bene anche di un cast di comprimari molto riuscito. Come il giovane e “inesperto” pastore, reso divertente ma al contempo tragico e confuso da un Ty Simpkins particolarmente vitale, quasi da sit-com. Come la scontrosa ma tenera figlia Ellie di Sadie Sink, che pur di “esplorare” lo strano mondo paterno compie degli atti che innocentemente quasi lo uccidono. Come la dolce e arrabbiata Liz di Hong Chau, il cui modo di interagire con Charlie ricorda da vicino i personaggi di Philip Seymour Hoffman e Jason Robards in Magnolia. La colonna sonora di Rob Simonsen accompagna le vicende senza essere mai troppo invasiva. La fotografia di Matthew Libatique descrive il soggiorno dove si svolge gran parte della scena come un ambiente “caldo e disordinato”, ritrae i corridoi con una fissità inquietante alla Shining e descrive un mondo al di fuori delle mura domestiche quasi assente, come se ci trovassimo su un avamposto o nella casetta volante del cartone animato Up della Disney/Pixar.


The Whale offre una grande prova d’attore a un interprete in particolare stato di grazia, per merito di una regia particolarmente accorta, un buon uso dei comprimari e una storia che riesce, con creatività, a non cadere nella facile trappola del melodramma. È un’esperienza potente e commovente che vi consigliamo di vedere in un cinema molto buio, dove nessuno si accorgerà se durante la pellicola sarà versata comunque qualche lacrima. 

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venerdì 24 febbraio 2023

Ant-Man and the Wasp - Quantumania: la nostra recensione del nuovo film di Peyton Reed con protagonista il piccolo supereroe interpretato da Paul Rudd


Scott Lang (Paul Rudd) è stato nella vita un piccolo criminale e poi ha cercato di essere un piccolo uomo con un piccolo lavoro comune. Per cercare di avere quando basta per essere un buon “padre separarto” per sua figlia Cassie (Kathryn Newton), Scott ha accettato un piccolo lavoretto sporco, un “furtarello misterioso” che gli ha portato qualche guaio ma che grazie alle “persone giuste”, come Hope Pym (Evangeline Lilly), lo ha infine instradato sulla retta via, facendolo diventare il più piccolo supereroe della storia: Ant-Man. Diventato il più piccolo degli Avengers dopo aver affrontato il più piccolo dei super-criminali, un Calabrone (Corey Stool) sconfitto su una pista-giocattolo del Trenino Thomas in una cameretta per bambini, Ant-Man ha provato a “farsi grande”, accettando le modifiche alla sua “supertuta” da parte dello scienziato che la aveva indossata per primo, Hank Pym (Michael Douglas). Da allora può diventare Giant-Man (vedi Captain America: Civil War), un uomo grande e sovraeccitato quanto un Kaiju, anche se lo sforzo gli procura una terribile disidratazione che lo assale dopo pochissimo tempo. Dopo queste prime “manie di grandezza” la sua missione successiva è stata però tornare a essere piccolo, piccolissimo in modo infinitesimale, per aiutare Hank a salvare sua moglie Janet (Michelle Pfeiffer, vedi Ant-Man and The Wasp) finita da anni nel “regno quantico” con la sua super tuta. Conclusa la missione Hope, figlia di Hank e Janet, diventava con una nuova supertuta Wasp, la supereroina più piccola, per poi convolare a nozze con Scott, andando così a formare la coppia di supereroi più piccoli di sempre. C’è stato Thanos e come Avenger anche Scott ha fatto la sua parte, un po’ come Ant-Man ma anche come Giant-Man, contribuendo a  salvare il mondo e il resto dell’universo (vedi Avengers: End Game), ma perdendo però a seguito delle vicende del “Blip” ben cinque anni. Per la precisone le persone “blippate” da Thanos, corrispondenti alla metà degli esseri viventi, venivano disgregate in particelle di polvere e sarebbero “riapparse” solo cinque anni dopo a seguito della rocambolesca sconfitta di Thanos. In quei cinque anni Cassie in cui Scott era assente è cresciuta e si è costruita il suo primo costume da “Ant-Girl”, con il padre che dal ritorno è finito con lo scrivere libri motivazionali sull’importanza della crescita interiore. Scott è diventato presto un eroe un po’ in pre-pensionamento ma in fondo un uomo felice. Perché se c’è stato qualcosa che negli anni di Ant-Man e Giant-Man ha sempre spinto Scott a migliorarsi, quello è stato il desiderio di diventare non un grande supereroe, quanto un “grande padre” per Cassie. I buoni padri non si misurano in centimetri e Scott si sente in merito oggi un gigante. Almeno fino a che gli arriva una telefonata dal carcere: è Cassie che si è messa nei guai. Era a una manifestazione ecologista, ha ridotto una volante della polizia alle dimensioni di automobilina giocattolo grazie ai gadget muta-dimensioni della tuta di Ant-Man, è in quella fase in cui si crede che gli eroi possono cambiare il mondo: l’adolescenza. Scott sente che deve di nuovo “prendersi le misure” come genitore. Nel frattempo dal regno quantico, il più piccolo dei più piccoli dei reami, sta per giungere la più piccola delle più piccole minacce, il sovrano multidimensionale Kang il Conquistatore (Jonathan Majors). Dopo essere stato confinato in quel luogo per molti anni, in cui ha convissuto qualche tempo anche con Janet Pym, Kang ha forse trovato il modo di scappare e ha attirato tutti i Pym e i Lang in una trappola quantica. Come molte persone che si sono sentite nella vita molto piccole, Kang ha sviluppato un terribile complesso di Napoleone. Sogna di distruggere tutto e tutti e poi fare lo stesso in tutte le dimensioni e periodi storici spostandosi nel tempo. Ritrovatisi nel mondo quantico i nostri piccoli eroi scoprono un luogo sconfinato simile al pianeta Tatooine di Star Wars, con tanto di locande piene di creature dall’aspetto strano, guardie imperiali, milizie ribelli e Kang a capo di tutto. Un mondo di cui Janet non aveva detto niente a nessuno. Riuscirà un “supereroe/uomo qualunque” che scrive libri motivazionali ad avere la meglio su un conquistatore Inter-dimensionale che vuole distruggere gli universi per una malcelata sindrome di inferiorità? Riuscirà il piccolo uomo formica ad aiutare nella crescita una figlia che si sente sempre di più “grande”? Nel mentre si avvicina in cerca di vendetta anche una “nuova” misteriosa, piccolissima, esilarante  e mattissima minaccia. Una specie di Darth Vader con un testone gigante, motoseghe, laser, congegni gravitazionali… e braccine e gambine in proporzioni molto piccole.


Torna sugli schermi con un nuovo capitolo il supereroe Marvel Ant-Man, ancora una volta diretto da Peyton Reed e con il cast principale al gran completo, a cui si aggiungono attori come Bill Murray in una particina gustosissima, un attore misterioso che vi lascio scoprire nel ruolo del “piccolo Darth Vader” (ed è stata una bella sorpresa, forse la parte più divertente della pellicola) e Jonathan Majors (visto nella serie tv Lovecraft Country) nei panni del temibile e piccolissimo Kang.

Il primo Ant-Man, uscito nelle sale nel 2015, è stato un progetto complesso e travagliato, con una gestazione di quasi 13 anni, varie riscritture e cambi di regia. Il protagonista Paul Rudd non era un nome molto conosciuto al di là delle fugaci apparizioni in Friends, il personaggio a fumetti di riferimento aveva subito soprattutto negli anni della gestione Bendis degli Avengers uno sviluppo così controverso da farne se non un villain un antieroe. Forse i veri motivi di attrazione della pellicola, a parte un robusto comparto di effetti speciali, erano la presenza nel cast della Evangeline Lilly della serie Lost e una piccola parte che avrebbe coinvolto Michael Douglas, si diceva ringiovanito con una tecnologia digitale per delle scene ambientate negli anni '60. In realtà il film funzionò bene anche grazie a un Rudd molto simpatico, a un cast di comprimari molto azzeccato, a una storia divertente sullo stile dei “film di rapina” e a un ritmo gioiosamente frizzante e indiavolato con suggestioni di Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi. Perfino il villain interpretato da Corey Stoll funzionava e trovava un senso interessante nel dualismo con l’eroe e perfino la collocazione temporale della pellicola all’interno del Marvel Cinematic Universe era stata piuttosto indovinata, offrendo con la sua trama leggera una boccata di ossigeno tra due film più cupi come Avengers Age of Ultron e Captain America: Civil War. Il segreto del successo di Ant-Man stava nell’essere una pellicola che gioiosamente non si prendeva troppo sul serio, giocava con gli stereotipi di grandiosità legati ai supereroi divertendosi a sovvertirli, ci metteva nei panni di uno degli eroi moderni più bistrattati di sempre “al di là dell’identità segreta”: il genitore separato e in bolletta. Se il motto della Marvel era raccontare di “supereroi con super problemi”, veniva facilissimo amare un tipo incasinato come Scott Lang e tifare per lui anche nelle successive pellicole, quando quasi perdeva il fiato cercando di diventare gonfio e gigante come gli eroi-bistecconi più rinomati. Negli anni e i film che si sono succeduti lo Scott di Paul Rudd non ha mai perso i suoi mille umani difetti ed è pure ora pronto a sorridere “abbozzando con garbo” con chi lo confonde con Spiderman. La Cassie di Kathryn Newton, che abbiamo conosciuto nel divertente horror Freaky, è invece più adulta della bambina che abbiamo conosciuto nel 2015 e poi nel secondo film del 2018, quando era interpretata dalla piccola Abby Ryder Fortson. È una giovane eroina geniale e intraprendente, negli anni diventata molto simile al nonno acquisito Hank Pym di Michael Douglas (gustosi i siparietti con protagonisti i due attori). Sempre pronta a contrastare la figura paterna per l’eccessiva pacatezza con cui vede il mondo “da noioso genitore responsabile” e sempre disposta a gettarsi a testa bassa nell’avventura, contro le istituzioni come contro gli alieni. È un film che ruota tutto sul rapporto tra padre e figlia sviluppandosi quasi come un road movie, con Evangeline Lilly e Michael Douglas che hanno dei ruoli più defilanti (anche se incisivi nel complesso, specie nelle scene d’azione) e con Michelle Pfeiffer che appare sfuggente e quasi criptica per tutta la narrazione “per preservare la sua famiglia” dal terribile Kang. 



Tutto il film tra inseguimenti e botte da orbi è una lunga attesa dell’arrivo allo scontro con Kang, che si dipana in un viaggio nel mondo quantico carico di infiniti spunti visivi e trovate divertenti che gustosamente citano e stravolgono alcune suggestioni di Star Wars. Tra deserti da sorvolare sul pelo di pesci volanti o astronavi che si pilotano con comandi gelatinosi, città di frontiera western dove in un bar è possibile trovare barman con quattro mani, creature insettoidi e omini gommosi, che “se li bevi” ti permettono di diventare poliglotta e in genere sono molto curiosi circa il numero di orifizi che ogni creatura possiede. Puoi incontrare per strada fascinosi uomini-cavolfiore, creature simil robotiche con una lente di ingrandimento al posto della testa, amazzoni pittate, degli sturmtruppen con un volto a palla di color azzurro, telepati umanoidi che si offendono per chi fa pensieri sconci. C’è poi il mini Darth Vader a cui accennavo sopra, che sa essere esilarante quanto tragico fino a una scena-chiave che condivide con il personaggio di Cassie: una scena che porta a un “dialogo esistenziale” geniale quanto sarcastico che è davvero il top della pellicola.

C’è di tutto e tutto è molto colorato e giocoso, come ci sono anche ambienti più “piccoli e misteriosi” del mondo quantico, ispirati e molto affascinanti anche a livello “teorico”, la cui scoperta lascio allo spettatore. Infine c’è Kang, il nemico più grande nel reame più piccolo. Kang che ha sul volto dei solchi verticali che Jonathan Majors fa sembrare con la sua espressività quasi delle lacrime acide che hanno inciso la pelle. L’unico pensiero che guida Kang è “vincere” e lo persegue con tutta l’ottusità e incoerenza di uno che si sente costantemente piccolo e insicuro, perennemente in debito verso un mondo/universo/dimensione parallela che gli ha fatto dei torti. Può essere l’imperatore di un universo ma quell’universo sarà per lui sempre troppo piccolo finché ci saranno universi più grandi e sovrani più grandi di lui. Teme di sentirsi piccolo come una formica e di fatto è spaventatissimo all’idea di qualcuno che può comandare delle formiche. Un villain onnipotente che si prende incredibilmente sul serio, di fatto annullando ogni connotazione umana al di là di una espressione perenne da bambino che piange, che si scontra contro un eroe che non si è mai preso sul serio una sola volta in vita sua, salvo che si trattasse di essere un buon genitore. Kang fin dalla sua prima apparizione non sembra avere una sola speranza contro Scott e ciò lo rende un personaggio ancora più piccolo e tragico. “Questo Kang” nell’ottica di un film come Ant-Man “funziona” e Jonathan Majors riesce a incarnare al meglio una nemesi ideale per Scott, come lo era stato il Calabrone di Stool. Ma forse “questo” non è il Kang che qualcuno dei più affezionati lettori Marvel aspettava come “il nuovo Thanos”, il nuovo grande villain di un futuro film degli Avengers. Forse per un nuovo grande villain bisognerà aspettare ancora un Doctor Doom o un Galactus o in genere l’arrivo dei Fantastici Quattro nel Marvel Cinematic Universe, da sempre fucina di super cattivi di proporzioni cosmiche. Oppure gli amanti del “Kang conquistatore multidimensionale” potrebbero accogliere la prospettiva che nel nuovo multi-verso Marvel potrebbero incontrarsi anche degli “altri Kang” di indole diversa. Solo il futuro ci dirà qualcosa a riguardo. 


Il nuovo film su Ant-Man di Peyton Reed è una divertente montagna russa colorata piena di mondi e personaggi strani, che racconta in modo rocambolesco come cambia il rapporto tra un genitore e una figlia quando arriva l’adolescenza e si inizia a pensare a come “ci si sentirà da grandi”. Ant-Man, personaggio che ha fatto di necessità virtù il suo “dover essere sempre piccolo” e “lo stato di nausea di diventare troppo grandi”, può essere in merito un genitore interessante. Funzionale alla trama, ma forse per qualcuno sottotono in un contesto narrativo più allargato, il villain del pur bravo Jonathan Majors. Molto divertente il villain “secondario” interpretato da un “attore misterioso” in grado di cannibalizzare ogni scena che lo vede protagonista con continui tocchi di classe e pura follia. Da gustarsi preferibilmente in una sala cinematografica con lo schermo enorme per godere a pieno dei mille dettagli e colori del mondo quantico. 

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sabato 18 febbraio 2023

Mirabile Visione: Inferno - la nostra recensione del documentario di Matteo Gagliardi in cui i disegni di Matteo Scaramuzza si animano e le voci di Benedetta Buccellato e Luigi Diberti raccontano Dante alle nuove generazioni

 


700 anni fa nasceva Dante. A 35 anni, dopo essere diventato un grande poeta, era già un uomo già distrutto, costretto all’esilio dalla sua amata Firenze per delle accuse calunniose che ne avevano logorato l’anima. Persa ogni certezza su un futuro che era diventato ormai simile a una “selva oscura”, non credendo più in “niente”, il poeta partiva per un viaggio interiore complesso, che avrebbe raccontato in versi nella Divina Commedia, mentre si trovava ancora in balia di stati d’animo auto-distruttivi che lo spingevano verso sentimenti come la lussuria, la superbia e l’avarizia. Sentimenti che simili “a fiere assetate di sangue”, lo stavano spingendo emotivamente sempre più verso il fondo. Da quei pensieri infausti Dante poteva salvarsi solo con un atto creativo offertogli dalla sua arte: la “Poesia”. La poesia prese nel racconto la forma di un celebre poeta latino molto amato dal poeta, Virgilio, che subito scacciò le fiere, offrendosi a lui come guida. Virgilio rivelò a Dante di essere arrivato in suo soccorso spinto dall’“Amore”: un amore che in Dante prese subito la forma di un altro personaggio, Beatrice, una donna da lui molto amata e recentemente scomparsa. Beatrice come anima pura del paradiso non poteva guidare l’amato nell’inferno che ora doveva attraversare, ma inviandogli in soccorso e guida Virgilio, un abitante del limbo, prometteva  che sarebbe stata sicuramente insieme a Dante alla fine del viaggio che stava per intraprendere. Un viaggio che avrebbe portato il poeta a conoscere sì l’inferno e i suoi dannati, ma poi anche il purgatorio e le sue anime penitenti e infine a giungere come Beatrice in paradiso, nella grazia di Dio. Dopo essere disceso negli inferi e poi risalito, Dante sarebbe di nuovo tornato insieme a Beatrice riveder le stelle, in pace. Ma il viaggio da affrontare sarebbe stato lungo, verso il centro della terra e poi su di un monte sull’altro lato del mondo e infine nel cielo. Soprattutto l’inferno sarebbe stato doloroso, perché il poeta avrebbe lungo il cammino incontrato persone deformate e torturate dai diavoli per le pene di cui si erano macchiate in vita, in regioni (gironi) in cui il dolore e l’afflizione si sarebbero fatti sempre più intensi e sconcertanti. Persone di ogni epoca, amici e avversari politici, eroi e traditori che con le loro storie e tribolazioni avrebbero permesso a Dante di conoscere sempre più se stesso e dare un senso al suo mondo.


Attraverso i bellissimi (è mai troppo celebrati) dipinti del maestro Matteo Scaramuzza, che si animano grazie al digitale accompagnati dalle musiche curate da Fabrizio Campanelli ed Enrico Goldoni, il regista del documentario Fukushima: a nuclear story, Matteo Gagliardi, ci porta in un inferno dantesco dall’aspetto visivo imponente quanto classico, ma che fin da subito ci viene letto con uno sguardo moderno. Nella sceneggiatura che Gagliardi firma insieme a Filippo Davoli e Federica Tonani si fanno largo interpretazioni dell’opera di Dante di stampo quasi psicanalitico. Nella descrizione del mondo dei dannati fanno capolino immagini legate a personaggi e istituzioni della nostra quotidianità scelte con cura per essere potenti quanto controverse. Ogni canto dell’inferno è accompagnato da una “doppia lettura” che ci viene fornita da Benedetta Buccellato e Luigi Diberti, nei ruoli di un'insegnante e di un religioso, che senza ambire all’impossibile compito di descrivere in toto l’universo semantico della Commedia offre mille spinti e suggestioni. L’intero Inferno ci viene offerto in 94 minuti, in un viaggio affascinante quanto dal montaggio rapido dal quale si fa quasi fatica a distogliere lo sguardo fino alla fine. Un viaggio che sembra pensato per essere un punto di partenza ideale alla lettura soprattutto per degli studenti di giovane età, un primo passo per fargli conoscere la bellezza, la complessità ma anche la profonda attualità di un’opera come la Divina Commedia. Un pubblico più adulto può trovare il documentario ugualmente interessante, specie se si apprezza il gioco con la modernità che Gagliardi decide anche “coraggiosamente” di intraprendere, esponendosi a interpretazione e letture che possono apparire a volte molto originali e a volte più “cosmetiche”. 

Il nuovo documentario di Gagliardi è un viaggio per immagini ricco e stimolante, in grado di fornire prova concreta di quanto la Divina Commedia sia ancora un testo vivo e sfaccettato, in grado di affascinare anche le nuove generazioni. Il cinema si fa qui simile alla classe di un corso di letteratura italiana e potrebbe non essere un caso isolato: le sale in un vicino futuro potrebbero sempre più essere dei luoghi di apprendimento rivolte ai giovani, se un linguaggio cinematografico come quello proposto da Gagliardi riuscirà a cogliere la loro attenzione. Un esperimento lodevole, molto consigliato alle scuole. 

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giovedì 16 febbraio 2023

Holy spider: la nostra recensione del thriller a sfondo religioso di Ali Abbasi con protagonisti Mehdi Bajestani e Zar Amir Ebrahimi

 


Siamo in Iran, intorno all’anno 2000. Di notta le strade illuminate della città santa di Mashhad, viste dall’alto, sembrano la tela di un ragno. Una rete sulla quale si muove quasi indisturbato da mesi un serial killer che vuole punire le prostitute. Offre loro del denaro e le carica sulla sua moto, le porta in un luogo che spesso è casa sua e poi all’improvviso le strangola. Seguendo quello che sembra un rito, poi le avvolge in un vestito tradizionale nero e infine avvolte in un tappeto le porta sempre con la moto fuori città, in un campo. La polizia locale non sembra disporre dei mezzi per indagare e parte della popolazione in qualche modo “approva” che questo giustiziere liberi le strade da queste donne del peccato. Lo chiamano “il ragno sacro”. Da Teheran arriva a Mashhan per indagare la giornalista Rahimi (Zar Amir Ebrahimi). In quanto donna non ha facile accesso a tutte le indagini e la sua fama di essere una “persona problematica” non la aiuta certo nel trovare una collaborazione. Così Rahimi la notte inizia a vestirsi come una prostituta e girare sui luoghi dove il ragno colpisce, in cerca di indizi o dello stesso assassino. Ben presto incrocia la strada con un uomo di mezza età vestito con una giacca miliare di nome Sahhed Hanahei (Mehdi Bajestani) e riesce a incastrarlo prima che la uccida. Ma il processo prende una strana piega e il ragno a furor di popolo potrebbe essere graziato o trovare la via dell’evasione. Sahhed non si sente per nulla pentito delle sue azioni e riesce anzi a percepire che pure Allah è dalla sua parte, quando allungando le mani oltre le sbarre della finestra della prigione riceve dal cielo una sorta di pioggia purificatrice. Anche il figlio di Sahhed inizia ad adorare le gesta del ragno come una specie di eroe. 


Ispirato alla vera storia del serial killer Saeed Hanaei, Holy Spider arriva nelle sale italiane dopo che alla premiere di Cannes del 2022 ha ricevuto sette minuti di applausi, con l’attrice Zan Amir Ebahimi che ha visto il premio come migliore attrice e la pellicola che è stata scelta nella rosa dei migliori film stranieri agli Academy Awards del 2023, concorrendo per la Danimarca. Il regista Ali Abbasi ha origini persiane, ha studiato presso il Teheran Polytechnic, ha conseguito una laurea in architettura in Svezia ed è diventato regista dopo un corso alla National Film School of Denmark. È reduce da due interessantissimi film come l’horror Shelley e il thriller Border, che raccontano entrambi di persone che si trovano a vivere delle realtà estreme di isolamento, che li pongono “ai confini della civiltà”. Più di recente, dopo Holy Spider, è stato scelto per dirigere alcuni episodi della serie Sony tratta dal videogioco The Last of Us, che racconta se vogliamo di nuovo le storie di una umanità rimasta isolata, vittima di una apocalisse zombie. Abbasi vive oggi a Copenhagen, ma ha ancora il passaporto iraniano e con il thriller Holy Spider in qualche modo torna a raccontare una nuova “storia di confini”, spaziali quanto culturali, narrando liberamente una vicenda che ha coinvolto e scioccato il suo paese di origine. Il serial killer Holy Spider, il “ragno sacro” interpretato magistralmente da Mehdi Bajestani, è un uomo insoddisfatto della sua vita attuale da semplice muratore, che rimpiange i tempi in cui era un combattente. Di giorno non valica mai i confini di una vita modesta, contratta, quasi invisibile e perennemente schiacciata dal contesto famigliare e dal lavoro. Con la continua paura di fare brutte figure, quasi castrato dal provare emozioni, impacciato anche nei confronti del figlio più piccolo. Di notte diventa un giustiziere, autorizzandosi a provare eccitazione e sfogare la sua rabbia solo su donne che per lui e per molta della società sono “poco più di oggetti”. Poco più che “tappeti” da caricare sulla sua moto. Dopo ogni uccisione si ricorda che “ha agito per un bene superiore”, compie una sorta di rito di sepoltura e purificazione e poi riparte con la coscienza pulita, il giorno dopo, tornando nei confini dell’uomo qualunque. La giornalista Rahimi, interpretata dalla meravigliosa Zar Amir Ebrahimi svolge una professione che per una donna iraniana è piena di limiti e confini, anche al di là dell’indossare un abito velato. Se per una inchiesta deve soggiornare in una città diversa, gli hotel non sono sempre disposti a offrire una stanza a “una donna non accompagnata dal marito”. Se deve parlare con una autorità deve prima essere autorizzata da un collega uomo. È difficile che le vengano rilasciate interviste. Anche quando rischia la vita per fermare il killer è sottoposta a un giudizio di biasimo perché nel suo precedente lavoro avrebbe “sedotto il suo capo”: anche se la realtà dei fatti è opposta, “essendo lei donna” nessuno le ha creduto. Confini sociali ancora più stringenti li vivono infine le prostitute vittime del ragno sacro. Finire sulla strada “e restarci per sempre” per motivi di indigenza, in mancanza di un lavoro e per la perdita di un marito, sembra essere una circostanza molto facile. Viene mostrato come le prostitute facciano uso di stupefacenti, rimanendo spesso intontite, anche per non dover sentire le percosse che molti clienti sono soliti infliggere. I famigliari preferiscono considerarle morte, impedendo loro di continuare a vivere sotto lo stesso tetto, pur accettando i soldi che portano a casa. A volte vengono anche allontanate dai locali a cui chiedono solo di utilizzare un bagno. Sono autentiche “paria” che la società preferisce non vedere, al punto che dopo 16 omicidi confermati la polizia non aveva nemmeno iniziato ad avviare una indagine. Abbasi ci racconta di personaggi che vivono in confini “all’epoca dei fatti ispirati” forse poco evidenti per la popolazione locale, ma che oggi vengono a essere parte di un forte dibattito culturale all’interno dell’Iran a cui anche il cinema partecipa, grazie a pellicole che arrivano anche al pubblico occidentale come questa, come Gli orsi non esistono di Jafar Panahi (qui il link) o Il male non esiste di Mohammed Rasoulof (qui il link). Film grazie ai quali il cinema si sta facendo sempre più un importante spazio riflessivo. Una occasione che può essere utile anche per ragionare sul nostro modo di vivere, sulle nostre libertà e sul nostro sistema di valori come Italiani. 


Holy Spider utilizza un linguaggio cinematografico diretto e spietato, dipingendo un thriller a tinte molto forti tanto carico di scene di violenza quando di situazioni “sociali” angoscianti. Un thriller “dal giusto occidentale” che per intuizioni visive, montaggio, fotografia e ritmo potremmo felicemente accostare ai lavori di David Fincher. Mehdi Bajestani e Zar Amir Ebrahimi sono due interpreti straordinari, in grado di raccontarci personaggio dalle infinite sfumature, caratteri spezzati e “devastati” quanto autentici: entrambi in perenne attesa di un giudizio morale positivo nei loro confronti da parte di una società che non riesce a prendere delle posizioni chiare sui valori da perseguire. 

È un film forte, terribile ma anche bellissimo. In assoluto uno dei migliori thriller degli ultimi anni e al contempo una occasione importante in cui il cinema aiuta anche a riflettere. 

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venerdì 10 febbraio 2023

I nostri ieri: la nostra recensione del film di Andrea Papini in cui il cinema diventa uno strumento per smuovere la coscienza e sognare la giustizia riparativa

 


Italia dei giorni nostri. In un carcere moderno dove i detenuti possono svolgere molti lavori e attività anche all’aperto, Luca (Peppino Mazzotta), un giovante regista, viene incaricato dalla direzione di gestire un laboratorio sul cinema. Il primo giorno il programma ha per tema la visione di una sua pellicola, in cui un ragazzino che vive in un collegio negli anni ‘70 scopre che una suora conduce una relazione clandestina con l’uomo che si occupa della consegna della frutta. Il ragazzino racconta l’accaduto ai dirigenti e la suora è così costretta ad abbandonare in lacrime l’istituto, mentre lui la guarda con un forte senso di colpa. Luca a fine proiezione domanda alla platea i pensieri suscitati dalla visione della pellicola, con il dibattito che da subito inizia a ruotare sul “ruolo di spia” del ragazzino o “il non rispetto del voto di castità” per la donna, ma in realtà Luca vuole altro da loro. Vuole che si soffermino su una particolare tecnica di ripresa che ha usato: il green screen. Grazie al Green screen, che si realizza proiettando delle immagini su delle pareti dipinte di verde, Luca ha potuto inserire sulla scena degli alberi che non si trovavano nel contesto delle riprese. Partendo da questa suggestione, il regista partirà con il dipingere delle “pareti verdi” anche nel carcere, per poi rendere i detenuti realizzatori e protagonisti di piccoli film, le cui storie saranno ambientate al di fuori del carcere, oltre le mura, grazie alla magia del cinema. Con queste storie i detenuti potranno magari raccontare loro esperienze personali o esprimere al meglio il loro talento artistico, “evadendo” in qualche modo dalla loro condizione attuale. C’è già nel gruppo un detenuto (Marta Pizzigallo) che ha un grande talento per il disegno, in grado di realizzare a mano delle animazioni in sequenza che potrebbero diventare dei bellissimi titoli di testa. C’è chi ha esperienze di meccanica e potrebbe costruire dei set, c’è chi può occuparsi del trucco, chi può improvvisarsi attrezzista. Ma quando si chiede loro di raccontare la propria storia per costruire una trama, magari che racconti il motivi per cui si trovano lì, nessuno vuole parlare della questione e liquidano tutti con la frase: ”tutte le carte le hanno gli avvocati e il giudice, non dico altro”. Dapprima poco convinto del progetto, il taciturno camionista Beppe (Francesco Di Leva) prova comunque a farsi coinvolgere sul piano narrativo, anche perché in merito alla realizzazione della sua storia ha dei desideri specifici che vorrebbe che il regista realizzasse. Il primo e più importante è che Luca provi ad andare a casa di Beppe, per filmare la sua famiglia che non vede da molto tempo, così da avere loro notizie. Mentre è all’esterno per le riprese, il regista incontra su una spiaggia una giovane ragazza di nome  Lara (Daphne Scoccia), che porta un mazzo di fiori su una collinetta isolata. Tra i due nasce subito una buona intesa grazie alla comune passione per le riprese, che in poco tempo  diventa amicizia. Lei ha un impegno precario presso una panetteria e Luca le chiede se vuole per arrotondare collaborare al film che sta realizzando, che prevede anche l’uso di alcuni droni per i quali lui è poco pratico. Lara è incuriosita e accetta, ma le cose iniziano a farsi presto strane: è come se Luca la portasse “casualmente” a girare sui luoghi dello strano incidente in seguito al quale sua sorella è morta, con le indagini che sono arrivate a condannare un camionista. Il regista infine svela a Lara che il suo lavoro per i detenuti ha a che fare anche con la storia di sua sorella. Le chiede se se la sente di partecipare almeno alla proiezione della pellicola, una volta che sarà terminata, magari per poter in seguito  incontrare anche Beppe. Lara è molto confusa in merito a quella richiesta e non è sicura di voler partecipare, ma non dice di no, vuole  rifletterci. Da quando la sorella è morta ha vissuto situazioni difficili a livello emotivo che ancora la tormentano. Nel frattempo mentre tutti i detenuti sono chiamati a improvvisarsi sarti, animatori, esperti del suono, cameraman e scenografi, Beppe dovrà anche recitare da protagonista, avendo come partner di scena una attrice professionista. Replicare e rivivere  il momento in cui ha perso la testa e ha commesso il crimine per cui la sua vita è cambiata,  è per lui una sfida molto forte. Il suo voler affrontare con tutta la più sincera onestà, senza omettere i dettagli per lui più scomodi, lo espone a un forte stress emotivo che quasi mette a rischio tutta la produzione del film. Ma Luca decide di incoraggiarlo, perché sa di stare costruendo qualcosa di magari controverso ma che potrebbe essere importante e utile tanto per Beppe quanto per Lara. Per  tutto il periodo di questo lavoro “fuori dagli schemi” il regista ha trascorso poco tempo con la figlia Greta (Denise Tantucci), che potrebbe non vedere per molto tempo a causa di un corso di studi in America che sta per intraprendere. Riusciranno Beppe e Lara a fare i conti con il loro passato in modo proficuo, arrivando magari a parlarsi, forse perdonarsi e così “andare avanti”? Riuscirà Luca a non “perdersi troppo” nel suo lavoro, preservando la relazione con sua figlia Greta in un momento difficile, magari rinunciando di sognare attraverso il cinema a una relazione “impossibile” tra Beppe e Lara?


Il film affronta in un modo molto originale e interessante delle meccaniche relazionali vicine a una tematica sociale che sta molto cara a noi su questo blog, la cosiddetta “Giustizia riparativa”. Attraverso la giustizia riparativa  una persona che ha commesso un reato, scontata la sua pena, può reinserirsi nel tessuto sociale a seguito di un processo guidato di ascolto, riparazione del danno e perdono nei confronti della vittima.  L’esempio storico più importante della messa in pratica di questi principio è del 1995, attraverso la The Truth and Reconciliation Commission, voluta per il sud Africa da Nelson Mandela, allo scopo di creare una nuova società secondo le regole della non violenza. In quel caso le vittime erano spesso madri di un figlio ucciso per questioni legate all’apartheid , mentre i “carnefici” erano spesso dei militari che eseguivano degli ordini sulla base delle pre-vigenti leggi razziali. Vittime e carnefici venivano chiamati a confrontarsi e spiegarsi anche in diretta tv, per ricevere pubblicamente scuse e chiedersi perdono reciproco. Non era questo incontro un atto subito risolutivo, ma l’avvio di un possibile percorso di conoscenza e perdono che avrebbe giovato a entrambi. Più in piccolo e ancora in via molto sperimentale, si stanno sviluppando anche in Italia dei meccanismi per la gestione di una mediazione tra “un reo” e una vittima. È una strada lunga, tortuosa e sperimentale nella quale le scienze sociale investono molto,  ma che sembra accogliere dei primi risultati favorevoli anche grazie alle riflessioni che nascondo  proprio in percorsi come i laboratori didattici di recitazione proposti nelle carceri. Nelle carceri si avviano sempre più laboratori sul teatro (nelle sale c’è anche Grazie Ragazzi di Marco Milano, che parla di carcere e teatro)  e sul cinema,  proprio per stimolare la creatività e la socialità, ma anche con l’intento “terapico” di far uscire alcuni detenuti dal “perenne ruolo del colpevole” in cui spesso si auto-confinano, aiutandoli a immaginarsi, attraverso l’arte della recitazione, come persone diverse da quelle che un giorno sono arrivate a delinquere. Il fine non è la negazione o reinterpretazione del reato, quanto la considerazione che ci sia stato nella vita della vittima come in quella dei carnefice “ un prima e un dopo”. Uno “ieri”, un presente difficile e forse “un domani”. Andrea Papini fin dalle prime battute ci invita attraverso il personaggio di Luca a guardare Lara e Beppe al di là della storia di sangue che li lega, andando “oltre i confini degli status di vittima e carnefice”, grazie alla magia del cinema. Certo è un processo che può sembrare un azzardo, perché si basa sul dare fiducia (in primis a se stessi)e provare empatia con persone  con cui vi sono stati dei gravi trascorsi. Ma è un azzardo che qualcuno nella realtà potrebbe accettare, come fanno in questo film i personaggi di Beppe e Lara, interpretati con molta umanità e trasposto dai bravi Francesco di Leva (Visto anche come protagonista di recente nell’ottimo Il sindaco del rione sanità, versione cinematografia di Mario Martone di un classico di De Filippo) e Daphne Scoccia. Erano ruoli non facili e che vengono sviluppati in modo non banale e molto sfaccettato dai due protagonisti, esprimendo al meglio anche le  criticità e limiti emotivi della costruzione di un qualsiasi rapporto tra reo e vittima, che nel film riescono sempre a trovare voce . Il taglio narrativo scelto da Andrea Papini ha una struttura esteticamente quasi documentaristica, che riesce in pieno a descrivere una realtà che non vuole essere una specie di favola. Molto bravi anche gli altri attori, tra cui si segnala una bravissima Marta Pizzigallo. Interessati anche le scelte di montaggio, che strutturano una realtà in continua ricostruzione e analisi degli accadimenti, dando ai personaggi la possibilità di raccontarsi per gradi emotivamente via via più intensi e profondi. 


Certo rimane, purtroppo considerando la situazione Italiana delle carceri, la storia di un percorso che per molti contesti può sembrare  “di fantasia” anche solo per questioni burocratiche. Qualcosa che richiederebbe grandi sforzi sul piano delle strutture, dei fondi, degli operatori interni, della collaborazione con il territorio e della condotta dei detenuti. Ma sognare non è per forza una cosa brutta e i film servono anche a questo: a immaginare futuri migliori. I nostri ieri è quindi una pellicola ben recitata, che scorre senza intoppi  e  con un interessatissimo valore didattico intrinseco, specie se rivolta a un pubblico che intende formarsi nel campo degli operatori giuridici e sociali. Ma è una storia che per umanità e grazia della costruzione può risultare interessanti anche per un pubblico più generalista. 

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giovedì 9 febbraio 2023

Marcel The Shell: la nostra recensione del tenero film sulla vita di una conchiglia con le scarpe da ginnastica


In una casetta in affitto con il giardino dell’America dei giorni nostri vivono due conchiglie, Marcel (in originale con la voce dell’attrice comica Jenny Slate) e la nonna Collie (in originale con la voce di Isabella Rossellini). Ci sono di fatto conchiglie in tutte le case del mondo, ma sono in genere molto brave a nascondersi e non è facile scoprirle. Si divertono a girare per casa dentro le palle da tennis o una arancia vuota, trovano la complicità di qualche animale domestico per le loro necessità, riescono a camminare sui muri più alti mettendosi del miele sotto le scarpe, hanno un loro piccolo orto dentro all’orto più grande, dormono nei cassetti e nelle scatole e amano guardare la tv, nell’ombra, specie le trasmissioni pomeridiane di news. Quando si sentono malinconiche suonano dei maccheroni come fossero trombe. Quando sono “molto malinconiche” amano sentire “il loro suono interiore”: facendo passare un soffio di vento attraverso il loro guscio, creando suoni simili a delle note.

In genere le comunità di conchiglie contano almeno 20 membri per abitazione, il minimo per una gestione ragionata dei compiti e degli spazi, ma il gruppo di Marcel è stato qualche tempo fa separato da lui e sua nonna da un evento imprevisto. La coppia di umani che abitava nella casa era molto litigiosa e quando iniziavano a volare le parole e i piatti le conchiglie erano solite andare a nascondersi, nel solido e buio cassetto dei calzini. Solo che quel giorno il ragazzo umano era particolarmente furibondo e prima di abbandonare per sempre la casa con la sua valigia ha preso in fretta e furia tutti i calzini, insieme a quasi tutto il gruppo di Marcell, andando ad abitare chissà dove. 


Non è stato facile vivere solo in due in una così grande casa, nei primi tempi. Ma nonna Collie con impegno e pazienza ce l’ha messa tutta per organizzare l’orto, ha elaborato con un complesso sistema di carrucole ed elettrodomestici per gestire tutti i lavori di casa e ha pure stretto proficue collaborazioni con gli insetti locali. Marcell dal canto suo si è sentito prima tanto solo, ma poi ha fatto amicizia con il cane Arthur e soprattutto, con un grosso atto di coraggio, con Dean (Dean Fleischer Camp), il nuovo affittuario umano. Non è facile per una conchiglia rivelarsi agli umani, ma Marcel aveva tante cose da dirgli e soprattutto cercava un amico. Dean era un giovane regista di documentari e vedendosi davanti Marcel è subito rimasto affascinato dal suo stile di vita e dall’estro, dal modo positivo e disincantato con cui la conchiglia sapeva guardare il mondo. Marcel aveva tante cose da dire e poteva diventare una piccola grande star, magari sul web, magari con Dean che poteva aiutarlo. I due decisero di collaborare a un documentario che servisse a Marcell anche a perorare una richiesta al pubblico per la ricerca del suo gruppo scomparso di parenti. Il top sarebbe stato riuscire a coinvolgere nella ricerca magari pure la conduttrice dello show 60 Minuti, Shari Finkenstein (che interpreta se stessa), uno dei programmi preferiti da tutte le conchiglie. Forse sarebbe bastato inviare una mail. Nonna Connie sembrava molto contenta del fatto che Marcell avesse trovato un nuovo amico e ora non fosse più solo. Stava diventando anziana e la sua memoria non funzionava più come un tempo, ma vedeva che il nipote ora era più autonomo e si stava costruendo con entusiasmo una sua vita, magari a fianco degli umani. Comunque fosse andata la ricerca, si sarebbe sentita felice.


È alto forse sui 7-8 centimetri, ha un grande occhione che può contenere sia tutti i sogni che le lacrime del mondo (e quando piange sono fiumi), ha un sorriso che conquista, una vocina dolce quanto impertinente e le scarpe da tennis. Perché molte conchiglie portano per comodità delle scarpe da tennis. Marcel è nato nel 2010, per essere il protagonista di un corto a metà tra la animazione in stop motion e il live action. Un “mokumentary” in cui la conchiglia ci raccontava la sua vita nello stile di quei programmi di Real Time o D-Max. Scritto e realizzato tutto a quattro mani, dai testi alle voci alla regia, dalla star del Saturnday Night Live Jenny Slate e dal regista indipendente Dean Fleischer Camp, quel piccolo film, fatto con tanto amore e grazia, nel 2011 vinceva il Sundance Film Festival, nella categoria del miglior corto. Nel 2012 Dean e Jenny si sposavano. Marcel cresceva e prendevano forma per mano dei suoi “genitori” nuovi corti animati con le sue avventure, poi seguiti pure da libri illustrati per l’infanzia. Nel 2014 iniziava a prendere forma l’idea di passare dai corti del web al grande schermo. Marcel poteva arrivare al cinema, magari in una sala a fianco di Birdman. Solo che in progetto non partì e la coppia nel 2016 si lasciava. Jenny si dice in seguito fosse uscita per qualche tempo con Chris “Captain America“ Evans e poi nel 2019 ufficializzò la sua relazione con lo scrittore e gallerista Ben Shattuck. Dean nel frattempo era invece tornato ai documenti e a qualche special tv. Di sicuro Marcel mancava a entrambi. Ma ecco che nel 2021 Marcel riprendeva vita per una nuova storia insieme a Dean e Jenny, prodotta dalla prestigiosa etichetta indipendente A24, alla cui realizzazione tecnica hanno partecipato anche i The Chiodo Bros, esperti di effetti speciali, stop motion e clay-Animation con in curriculum la saga Horror-comedy Critters e il dissacrante “film per adulti con pupazzi” Team America, di quei due mattacchioni di Trey Parker e Matt Stone (autori di South Park). Così Dean e Jenny sono riusciti a tornare un po’ insieme a Marcell, che ora è nei cinema in una sala a fianco di Brad Pitt.



Marcell The Shell è un piccolo film di 90 minuti, leggero e poetico come le favole di Pixar e dello studio Ghibli. Il piccolo popolo delle conchiglie assomiglia nelle sue forme levigale agli spiritelli di Princess Mononoke, “gioca a nascondino” con gli umani come i giocatoli di Toy Story e vive come i “rubacchiotti” di Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento. Come le opere migliori di questi celebri studi, Marcel riesce nel difficile compito di sorprendere quanto far riflettere. La storia è ricca di invenzioni visive e narrative originali quanto gustose, con dialoghi brillanti che riescono a coniugare con intelligenza e stile il mondo degli adulti con quello dell’infanzia, ma in sottotraccia la vita delle conchiglie ci viene descritta in modo non banale, facendo uso anche di allegorie “potenti”. Può far sorridere all’inizio pensare a queste conchiglie che scappano nel cassetto dei calzini per fuggire da una coppia di fidanzati che litigano, ma per il modo in cui ci viene raccontato questo evento è qualcosa di sinceramente drammatico, che può rievocare anche delle brutte pagine della Storia recente. Può sembrare buffo ma anche commovente vedere nonna Collie che stringe legami con i ragni che stanno ai margini della casa, come possono essere buffi ma tristi i momenti in cui “perde la memoria”. Può sembrare buffo ma anche tragico il modo in cui Marcel si rivolge ai social per chiedere aiuto per la ricerca dei suoi cari, con esiti buffi ma che hanno poco di gratificante. Il piccolo film di Dean e Jenny come le migliori fiabe sa per questo raccontare al meglio la complessità della realtà in modo onesto, divertente quanto tragico. Un esito pedagogicamente importante ma pure quasi sorprendente, se a dare voce ai sentimenti più forti e contrastanti sono dei pupazzetti in stop motion di pochi centimetri dall’aria buffa. Ho visto, con i miei occhi, in sala al cinema, omoni giganteschi commuoversi per come ci viene raccontato il rapporto buffo quanto “realistico”, tra Marcel e Nonna Connie. Un rapporto che in lingua originale non a caso ci viene “sussurrato”, con trasposto e umanità, dalle voci strepitose di Jenny Slate e Isabella Rossellini. Certo sono scene “molto da A24”, sottolineate dalla meravigliosa colonna sonora a firma Richard “Disasterpeace” Vreeland (quello della colonna sonora di It follows) e da una fotografia a luce naturale stile Dogma. Ma sono scene che visivamente commuovono anche quando tutto questo è rappresentato in animazioni in modo “super buffo”, con copiosissime fontanelle di lacrime stile Sponge Bob. Si innesta così nel pubblico un “cortocircuito emotivo” unico, molto interessante da sperimentare in prima persona, magari muniti per sicurezza di qualche fazzoletto di carta che “sicuramente non utilizzeremo”.

Marcel The Shell è stata una piccola e commovente sorpresa. È un film realizzato con tanta cura che per la sua ricchezza di sfumature è forse più da indirizzarsi a un pubblico di “grandicelli” più che di giovanissimi, anche se parla un linguaggio perfettamente comprensibile da tutte le età. Consigliamo quindi nel caso dei più piccini magari la visione con a fianco un genitore, per avere una esperienza condivisa maggiormente guidata. Portatevi tanti fazzoletti. Specie se siete degli omoni che si definisco “poco sensibili”. 

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