Il regista Jafar Panahi si trova
nell’Iran dei giorni nostri, in un piccolo villaggio vicino al confine con la
Turchia, per girare un documentario su una coppia in procinto di varcare il
confine con dei documenti falsi. Mentre la troupe realizza le riprese Panahi,
che non può lasciare l’Iran per una restrizione decisa dal tribunale, segue le
operazioni a distanza, dallo schermo di un computer portatile, cercando di
migliorare la connessione con antenne di fortuna. I lavori sembrano procedere
per il meglio, gli abitanti del paese dove risiede Panahi sono cordiali e
affettuosi e il regista, allegro e curioso, ha tanta voglia di conoscere le
usanze locali, a partire da una cerimonia che si tiene a ridosso di un fiume
per celebrare davanti a tutta la comunità l’amore di due persone. Una notte,
per ragioni tecniche legate ai problemi di connessione, Panahi si trova quasi
sulla linea di confine per ricevere “avventurosamente” degli hard disk relativi
al girato, percorrendo una strada sterrata conosciuta solo dai trafficanti di
uomini. Il regista osserva da vicino le mille luci di una vicinissima città
turca, ma decide di non varcare quella “soglia” che forse idealmente sta già
varcando con la realizzazione del suo film. Dal giorno dopo la situazione
inizia a precipitare, con le riprese del documentario che si fanno sempre più
difficili e pericolose e con Panahi che rimane kafkianamente coinvolto in una
questione locale a causa di una foto compromettente su due amanti clandestini
che lui non si ricorda di avere mai scattato. Senza nemmeno rendersene conto,
la sua vita sarà presto in pericolo a causa delle complesse tradizioni
locali.
Academy Two distribuisce in Italia
l’ultimo film di Jafar Panahi, acclamato con il Premio Speciale nella recente
Mostra del Cinema di Venezia. Il regista ha dovuto girare in clandestinità Gli
orsi non esistono e non ha potuto ritirare personalmente il premio in quanto da
luglio deve scontare una pena di 6 anni, per attività di propaganda contro il
regime iraniano, in ragione di una sentenza che dal 2010, per vent’anni, gli ha
inibito la possibilità di viaggiare, girare, rilasciare interviste dentro e
fuori l’Iran. Come nei precedenti lavori di Panahi, anche in questo film il
regista parla del suo difficile rapporto con l’Iran: una terra che ama
profondamente per la bellezza dei luoghi e la cordialità delle persone, ma
della quale non riesce a comprendere in pieno i meccanismi alla base
dell’intricato sistema giuridico e tradizionale. Panahi ci parla qui di come
anche all’interno di un bucolico paesino di confine, circondato dalla natura,
non si possa vivere in armonia a causa di immaginari “orsi” che ne sorvegliano i
confini. Gli orsi sono di sicuro i criminali che ossessivamente sorvegliano le
piste per i loro traffici, ma in senso lato esistono per il regista anche degli
“orsi figurati”, incarnazione delle leggi e delle tradizioni, non meno
pericolosi e insidiosi. È per non scatenare questi orsi, temuti e accettati
quanto interiormente accolti come un tratto identitario, che spesso la vita di
tutti i giorni si complica fino ad arrivare a delle spirali senza uscita.
Panahi “combatte questi orsi” esponendoli con chiarezza nelle loro
contraddizioni: dall’anacronismo e infelicità cui possono portare i matrimoni
combinati, a un sistema giuridico che non può accogliere la prova testimoniale
di un minorenne. Il suo è un cinema che usa un linguaggio semplice e diretto
per andare al nocciolo dei problemi, senza però dimenticare mai, nonostante
tutto, di inquadrare la complessità dell’animo umano, mettendone in luce con
rispetto dignità e frustrazioni. Se la critica di Panahi è al sistema, non
manca mai di uno sguardo bonario nei confronti delle persone che con questo
sistema devono pur conviverci. È un cinema che agli occhi di uno spettatore
occidentale risulta di importante valore sociale, proprio per il modo in cui
punta a costruire un dialogo costruttivo, etico quanto urgente, necessario
quanto difficile. È un cinema che fa riflettere sui diversi sistemi culturali
in cui si può osservare il mondo, un cinema che ci spinge a cercare
difficoltose ma possibili strade comuni lungo le quali riuscire a convivere
pacificamente, con la consapevolezza che non può esistere sempre un modo giusto
o sbagliato di vedere le cose e che tutti possiamo sbagliare lungo il percorso.
Panahi non è esente dal commettere errori e anzi evidenzia lungo tutto il film
i molti fraintendimenti culturali che lui stesso finisce per causare pur in
buona fede, per il solo fatto di essere un regista cinematografico. Gli orsi
non esistono è un film sull’importanza del dialogo ma pone così anche una
grande attenzione sull’enorme responsabilità che il cinema deve avere nel
raccontare la Storia. Nella Storia non esiste quasi mai un finale sul noto
adagio “e vissero felici e contenti”, motivo per cui le opere di stampo
documentaristico dovrebbero rifuggire l’idea di farsi ingabbiare in
consolatorie finzioni cinematografiche. Inoltre nella Storia la presenza di
un’immagine, una qualsiasi immagine pur ritratta di sfuggita, può avere sempre,
a livello giuridico, più valore di una testimonianza diretta. È il motivo per
il quale le immagini possono conferire e togliere immensi poteri ed è forse il
motivo per il quale registi come Panahi, che pur non si arrendono davanti a
nessuno, tutt’oggi sono messi all’indice o incarcerati.
Gli orsi non esistono è un film fortemente autobiografico, potremmo dire “alla Nanni Moretti”, su un regista iraniano che coraggiosamente e forse imprudentemente cerca di cambiare il paese che ama, attraverso il dialogo, l’amore e gli errori. La narrazione è asciutta, il ritmo veloce e quasi da film Polanskiano nella discesa kafkiana che va sempre più a delinearsi verso il finale, lo sguardo è documentaristico e gli attori si esprimono nella più assoluta spontaneità, risultando sempre credibili e ricchi di sfaccettature. È un film sulla forza e paura che possono infondere le immagini, forse l’unica cosa al mondo che può certificare davvero che “gli orsi non esistono”.
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