sabato 8 ottobre 2022

Omicidio nel West End (See how they run) : la nostra recensione di un gustoso giallo meta-cinematografico in salsa Agatha Christie per la regia di Tom George

 


Siamo negli anni ‘50 a Londra, nel West End, la celebre via dei teatri. All’Ambassadors Theatre va in scena con il tutto esaurito l’adattamento del romanzo giallo Trappola per topi di Agatha Christie (interpretata da Shirley Henderson). Al termine della rappresentazione, dopo essersi accordato con il pubblico di tenere il segreto sull’identità dell’assassino una volta usciti dalla sala, tutto il cast si cambia d’abito e insieme ai dirigenti e ai produttori si appresta a festeggiare il traguardo delle cento rappresentazioni. A turbare la quiete della festa c’è Leo Kopernick (Adrien Brody) altezzoso regista americano fortemente voluto dal produttore cinematografico John “Wolfy” Wolf (Reece Shearsmith) e decisamente intenzionato a stravolgere lo spettacolo per il grande schermo. Leo in breve tempo dal suo arrivo a Londra è riuscito a inimicarsi gli attori teatrali principali,  Dickie Attenborough (Harris Dickinson) e Sheila Sim (Pearl Chanda), la produttrice teatrale Petunia Spencer (Ruth Wilson), lo sceneggiatore teatrale Mervyn (David Oyelowo) e il suo compagno Gio (Jacob Fortune-Lloyd), svariate altre persone e lo stesso Wolfy. C’è tensione nell’aria, fino a che la festa viene interrotta da un omicidio. Il cadavere viene ritrovato sul palco del teatro, su un divano al centro della scena.  L’agente Stalker (Saorise Ronan) e l’ispettore Stoppard (Sam Rockwell) radunano tutti i presenti tra le prime file del pubblico e iniziano le indagini, convinti che l’assassino sia tra di loro. Chi avrà commesso questo omicidio nel West End? 


Omicidio nel West End è un divertente giallo “alla Agatha Christie” in cui “va in scena” un celebre libro di Agatha Christie e in cui compare, tra i protagonisti, la stessa Agatha Christie. Il film di Tom George parla del modo in cui una storia “cambia narrazione” nel passaggio dal fatto reale al teatro, poi dal teatro al cinema, fino a fare ritorno alla realtà, modificandola a sua volta. È un continuo gioco di specchi in cui tutti i piani si intrecciano, confondono e sconvolgono e dove la presenza sulla scena della grande scrittrice, interpretata in una piccola ma gustosissima parte da Shirley Henderson, non fa che rendere il tutto ulteriormente surreale, sarcastico e labirintico. Adrien Brody è il curioso “ma non troppo“ narratore di questi eventi, Sam Rockwell è un investigatore disincantato “ma non troppo”, la Ronan è la classica collaboratrice/spalla empatica “ma (non) troppo”. Tutti i personaggi, pur nolenti, rispondono agli schemi più rodati della narrativa gialla e nello specifico alla trama di Trappola per topi, in una specie di “dannazione liturgico/narrativa” che li condanna a vivere, fino alle ultime scene, dentro noti e quasi profetici cliché. Noi come spettatori non siano da meno estranei dal loro senso di sconfitta e dannazione, laddove l’abile e un po’ luciferino sceneggiatore Mark Chappell, come faceva il buon Kevin Williamson di Scream, è sempre pronto e attento nel ricordarci, spesso attraverso il personaggio di Leo, i più classici trabocchetti e aspettative in cui è destinato a cadere ogni personaggio e ogni spettatore. C’è sempre un delitto che avviene in un luogo isolato dal resto del mondo, c’è sempre un detective disincantato, non mancano personaggi che a prima vista ci appaiono odiosi e che per questo consideriamo fin dall’inizio potenziali assassini. C’è sempre una serie di molti indizi “robusti” volti a portarci fuori strada, quando invece è sempre un piccolo particolare, apparentemente insignificante, “per veri detective”, quello che smaschera il colpevole. Tutti possono essere i colpevoli e noi possiamo e dobbiamo sospettare di tutti. In un film, a differenza di un libro giallo, deve poi accadere qualcosa di eclatante negli ultimi 20 minuti, perché il pubblico in sala, statisticamente, alla fine si ricorderà quasi solo esclusivamente di quel lasso di tempo. 


Le “trappole” narrative scattano sempre puntuali, i personaggi-vittime “ci cadono dentro” e noi, come pubblico, possiamo giusto aggrapparci all’ironia delle cose e a un'“appagante” chiarezza della messa in scena, che coccoli il “piccolo detective che vive in noi” a partire da una costruzione visiva ludico-elegante, una Londra anni ‘50 “perfetta per un giallo”, che cita molto e bene lo stile di Wes Anderson. Se molti personaggi finiranno “vittima dei cliché”, la follia dei personaggi più assurdi e sopra le righe, come in questo caso l’amabilissima/mattissima Agatha Christie, saprà regalare per lo meno una liberatoria risata. La “lezione” che vorrebbero impartirci Mark Chappell e Tom George, citando forse più Cluedo che Agatha Christie, sembra essere che anche per quanto riguarda il genere giallo, così come in molto del cinema horror, noi, da spettatori, ci appassioniamo troppo allo schema, guardando invece ai personaggi come a meri ingranaggi. Personaggi per lo più intercambiabili, pezzi di un puzzle che devono combaciare in un “disegno enigmistico”. Come i puzzle di legno che intaglia per hobby il detective di Sam Rockwell, personaggio più volte nel film (forse per contrappasso?) trasformato a sua volta ”in deus ex machina”, come un pezzo del puzzle adatto a più ruoli. Caratteristica che non può che confondere il personaggio della Ronan, dichiaratamente “esperta giallista” come si immagina parte del pubblico in sala. Sam Rockwell, dando fondo alle sue doti di artista sempre mimetico, riesce a a farci perdere del tutto nel “dolore nascosto” del suo ispettore Stoppard: ci fa guardare oltre al cliché, fisando quasi negli occhi (e facendo sentire un po’ in colpa) tanto la Ronan che lo spettatore appassionato di “enigmistica gialla”. È con la sua interpretazione sottile, che va oltre al quadro superficiale del detective “underdog”, vistosamente fallito e ubriaco, che Rockwell fa cadere la quarta parete (il muro immaginario tra spettatori e personaggi su schermo) più importante, tra le tante quarte pareti che Omicidio nel West End dissemina, rendendoci di riflesso più umana, nel fallimento, la Ronan. Anche per l’aggiunta di questa doppia prospettiva, unite alla voce narrante disincantata e “spoilerosa” di Brody, il resto dello spettacolo diverte, si apprezza per la complicata laboriosità della messa in scena, fa emergere spesso con l’ironia la classe con cui ogni personaggio (pur nolente) e ogni ambiente bene si incastrino nello schema. Sta alla fine allo spettatore valutare quanto l’ingranaggio per lui possa risultare ”stretto”, quanto sia in grado di “sorprendersi da giallista” in uno schema che scientemente e sadicamente anticipa che “non ci saranno e non ci potranno essere sorprese”. Quanto funziona per un horror meta-narrativo come Scream può quindi infine funzionare per gli amanti dei film gialli? Sta a voi scoprirlo. Noi abbiamo amato perderci nel raffinato esercizio di stile di questo continuo gioco di specchi. Abbiamo amato i personaggi che “urlano interiormente” per fuggire al cliché e siamo impazziti per una Agatha Christie come ce la siamo sempre immaginata (ma non abbiamo mai avuto il coraggio di confessarlo).


Disney dopo due lettere d’amore al genio di Agatha Christie (e anche un po’ a Indiana Jones), firmate da Kenneth Branagh (parliamo di Assassinio sull’Orient Express e Assassinio sul Nilo), porta in scena un altro divertito e divertente omaggio alla celebre scrittrice e drammaturga inglese. La trama è molto elaborata e gioca con gusto e sarcasmo nel confondere i diversi piani narrativi tra realtà e finzione, gli attori vivono e combattono dentro i cliché in cui sono incatenati, dal punto di vista tecnico è tutto ben confezionato e il ritmo, al netto di qualche “ingranaggio un po’ più allentato” funziona a dovere. Un modo certamente coraggioso e raffinato per mettere in scena un racconto giallo. 

Talk0

1 commento:

  1. Un film carinissimo. L'ho sicuramente preferito ai due Poirot di Branagh, mentre non arriva ai livelli del divertentissimo Knives Out.

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