venerdì 28 ottobre 2022

ll principe di Melchiorre Gioia: il nuovo film di Andrea Castoldi dal 27 ottobre al cinema

 


C’era una volta un principe che passava le notti tra sexy club e appartamenti borghesi, in cerca di affetto, sballo e amori clandestini. Di giorno, cadendo come vittima di una maledizione, lavorava sottopagato in un luogo senza sogni e prospettive, cercando solo di tirare avanti fino a sera, ricordando i tempi dell’amore e del liceo, quando aveva ricevuto da una ragazza carina il più dolce dei regali: una audiocassetta con tutte le canzoni più belle di quei tempi. Viveva con la nonna in una casetta piena di mobili antiquati e oggetti consunti, spostandosi tra le stanze quasi senza far rumore e senza lasciare traccia. Simile a un gatto, la sua vera casa non era lì, era ovunque, tra le mille stradine che si diramavano da Melchiorre Gioia, sempre in cerca di brividi, sogni e cantonate. Insieme a lui c’erano altre persone simili a gatti, che vivevano ai margini delle regole del mondo girando su se stesse, cercando di toccare con il muso la loro coda. Alcuni spostandosi nottetempo sui tram, affascinati dalla puntualità ed efficienza del trasporto pubblico e trovando pace in quel movimento costante che sa sempre “giungere a destinazione”. Altri sognando e rincorrendo lo sballo, nascondendo la droga dentro armadietti simili alle femmine robottone degli anni ‘70. Altri organizzavano orge scatenate aperte a tutti senza limiti di età, ma pretendendo dai partecipanti il silenzio assoluto, per non turbare i vicini e il proprio equilibrio interiore. Tutti questi uomini-gatto, al contempo trasgressivi quanto compressi, guardavano il mondo come si guardano i treni che passano, in un eterno trainspotting di noia e attesa di “qualcosa di meglio” che sembrava irraggiungibile. Fino a che il principe non si fece licenziare e comprò con la liquidazione una pelliccia, che lo rese ancora più simile a un gatto. 


Andrea Castoldi, regista di Non si può morire ballando (già recensito sul blog qui), ci racconta con un piglio quasi documentaristico della vita di una persona reale, incontrata in un bar dove era abitudinario avventore. Una persona buona ma forse sfortunata, misteriosa quanto gentile, sfuggente quanto malinconica. Silvio Cavallo viene scelto per darle corpo fin nei dettagli, dal mondo di muoversi e camminare al modo di affrontare la vita con garbo quanto timore. Così l’attore comico scompare e lo stesso film, che sembrava all’inizio, dai trailer, una commedia leggera prende strade diverse, esilaranti quanto però tragiche, infuse di quell’esistenzialismo proprio della vita vissuta ai margini cantato da Irvine Welsh. Tra farsa e sogno, dove la farsa è purtroppo il mondo reale. 

Oggi si semplifica tra Boomers o Millennials, ma tra gli anni ‘70 e ‘80, all’ombra della Milano da bere, iniziava a muovere i primi sbilenchi passi una intera generazione di falliti e perdenti, oggi diventati per lo più tra i più scapestrati e “randagi” dei quarantenni. I loro genitori e nonni avevano visto gli orrori delle guerre ma anche la ripresa economica, si erano costruiti con tenacia e impegno un lavoro e una casa, avevano offerto ai loro figli il meglio e “tutto quello che loro non avevano avuto da piccoli”, da un posto caldo e sicuro in cui vivere all’educazione scolastica superiore e universitaria, dalla scuola calcio ai giocattoli e i cartoni animati, dai sani valori sociali alle carezze. Nel frattempo le “vecchie regole del mondo”, saltate con la guerra, erano tornate in vigore, insieme alla “necessità” della società di smettere di continuare ad espandersi. Trovare un lavoro prestigioso era tornato a essere una questione di nepotismo e raccomandazione o di straordinaria fortuna. La scuola era in ritardo con il mondo, non solo dove nei corsi di informatica si studiava basic quando era già da tempo uscito il pacchetto Office, ma soprattutto laddove non si studiava la Storia oltre alla “resistenza” e al 1948, ponendo un limite alla coscienza culturale/politica ancora non superato. La tecnologia di suo  è decollata e ha fatto in modo che servissero sempre meno persone nelle fabbriche e uffici, l’economia si è aperta al mondo e ha deciso che era più redditizio aprire fabbriche all’estero che in Italia, delocalizzare. Il tasso di mortalità legato alle migliori condizioni di vita ha decretato che chi aveva già un lavoro dagli anni ‘70, magari subentrato dopo il genitore nella stessa mansione secondo un’usanza consolidata, non lo avrebbe mollato prima del massimo limite di età consentito, che ulteriormente esteso al netto della legge Fornero oggi in alcuni casi arriva al 2030. I genitori e nonni, un po’ all’oscuro di questi meccanismi e credendo ancora alla favola del “se ti impegni realizzarsi quello che vuoi”, avevano investito tanto sulle nuove generazioni e iniziarono a domandargli “Perché non ti trovi una brava ragazza e metti su famiglia?”; “Perché non cerchi un lavoro a tempo indeterminato?”; “Quando uscirai dalla tua cameretta per farti una casa tutta tua?”. I giovani degli anni ‘70 e ‘80, specie quelli nati ai margini delle grandi città come Milano e quindi principalmente lanciati in un mondo ultra competitivo, iniziarono presto a sentirsi non indispensabili per quella società. Non per un discorso politico di “contestazione”, quanto per una autentica “mancanza d’aria”. I migliori tra loro comunque ce la fecero e come la “legge naturale della competitività” vuole realizzarono imprese e sogni spettacolari. Gli altri, molti altri, quelli più emotivamente “schiacciati” e quelli che non hanno mai trovato un lavoro stabile o i soldi per comprarsi una casa o anche solo un’automobile, iniziarono la “fuga di cervelli” o “fuga dal cervello”. La fuga di cervelli vuole che qualche intrepido cerchi un lavoro all’estero, laddove la politica italiana si preoccupa solo di agevolare i contribuenti anziani e quindi maggiormente solvibili e affidabili pagatori di tasse. La “fuga dal cervello” è qualcosa di più pragmatico e consiste nel rimanere con il corpo in Italia, simili a zombie, ma con la testa tra le nuvole, cercando una propria identità e scopo. Rimestando nelle poche gioie del passato, cadendo nelle dipendenze e vivendo in quel mondo della notte dove è più facile incontrare altre persone “fratturate dalla vita” in cui riconoscersi. Solo l’ironia e l’autoironia, insieme ai ricordi felici di quando si era “bambini e per questo felici”, possono aiutare. Si parla oggi di hikikomori, di Net, di ragazzi che si uniscono in bande dove trovano una “vera famiglia”, ma non si parla abbastanza di questa generazione di quarantenni a cui la società ha negato il futuro quasi senza accorgersene, preferendo bollarli come bamboccioni e falliti, viziati e ingrati, politicamente poco interessanti e rilevanti. Castoldi mette un bel faro su questo mondo grazie al suo cinema asciutto e mutante, che parte dal registro di genere per poi umanizzare la maschera oltre la facile risata. C’è una domanda pressante che aleggia nell’aria senza risposta: cosa faranno questi uomini-gatto quando chi oggi si occupa di loro economicamente non ce la farà più, anche solo per sopraggiunti limiti di età? Possiamo chiedere a questi uomini-gatto di sistemare da soli i loro problemi, del fatto ignorando la loro esistenza? Silvio Cavallo dà corpo a una persona autentica quanto sfaccettata, umana quanto complessa, divertente quanto tragica, “contratta nelle emozioni” ma generosa nei fatti. È una persona che non si arrende perché è già andata “oltre la resa” e che resiste giusto inseguendo ricordi e affetto impossibili, ma a cui il mondo, da primo il mondo familiare, ha dato e  dà molto poco. 


Il principale di Melchiorre Gioia è un film piccolo, coraggioso e interessante, ricco di alcuni personaggi davvero unici, divertenti quanto fantozzianamente titanici, pieno di situazioni cariche di un quotidiano surreale quanto crepuscolare, qualche volta sognante. Il taglio delle riprese è quasi documentaristico ma la fotografia, giocando con i contrasti, rilascia una Milano dall’anima triplice. C’è una Milano dai colori e toni più caldi, che disegna il “sogno del passato”, il periodo felice della scuola e dell’amore in cui tutto è possibile. C’è la Milano della notte, carica di luci artificiali e quasi psichedeliche, ovattate. Luci che per questo, in qualche modo, rimandando anche loro a una realtà ugualmente sognante, sfumata nei contorni. C’è infine la Milano “di giorno”, dai contorni e colori spietatamente definiti, iper - reali, in cui la fuga dal reale è impossibile. 

I giovani attori coinvolti si dimostrano molto bravi e al netto di una storia che prosegue ondivaga tra accelerazioni e frenate, alla fine della pellicola si ha molta voglia di saperne di più, di scoprire dove il principe e gli altri anti-eroi di Castoldi andranno a finire. Perché sono personaggi  dentro i quali per molti sarà facile riconoscersi o riconoscere qualche amico. 

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