Secondo il Corano “merita il paradiso
chi fa ridere i suoi compagni”. Per un proverbio ebraico: “come il sapone per
il corpo, così fa la risata per l’anima”. Ridere deve far bene, come
direbbe Lord Byron, che oggi sarebbe un po’ sconcertato per il film di Cats: “Ridi sempre quanto vuoi, è una medicina gratuita”. Edgar Watson Howe, pensando
al rimpianto di non ridere abbastanza diceva: “Se non impari a ridere dei
problemi, non avrai nulla da ridere quando sarai vecchio”.
Ridere allarga il nostro mondo. Per il
Dottor Seuss, padre della narrativa di infanzia: “Da lì a qui, da qui a
lì, le cose divertenti sono ovunque”. Per la psicologa Jean Houston “al culmine
di una risata l’universo viene gettato in un caleidoscopio di nuove
possibilità”.
Andiamo sui filosofi. Lao Tsu diceva:
“Non appena hai fatto un pensiero, ridi di esso”.
Friedrich Nietzsche, fosse poco incline
alle risate per molti, diceva: “Dovremmo considerare ogni giorno un giorno
perso, se non abbiamo ballato almeno una volta. Dovremmo chiamare ogni verità
falsa, se non l’abbiamo accompagnata almeno da una risata”.
“Anche gli dei amano le barzellette”,
sosteneva Platone, seppellendo in un colpo tutti i musi-lunghi di ieri e di
oggi. Qualcuno dovrebbe farci una t-shirt, scriverlo su tutte le pagine di
internet.
Ridere non è de-ridere, minimizzare,
sfottere, negare. Ridere è vivere nella misura in cui permette di
soprav-vivere, di guardare al di sopra i problemi, da un punto di vista
diverso, ragionandoci, facendo autocritica. I problemi si superano con le
risate, e se queste non hanno abbastanza “spinta” per rivoluzionare il nostro
mondo, permettono comunque ai nostri meccanismi interni di agire. Il solo
ridere produce endorfina e questo ci fa stare meglio. Per Carolyn Birmingham
“un sorriso inizia sulle labbra, un sorriso si allarga sugli occhi, una
risatina proviene dal ventre. Una bella risata scaturisce dall’anima, trabocca
e bolle dappertutto“.
Se ridere fa bene, dovrebbe essere un
diritto. Il diritto alla felicità, che credo che riguardi anche la libertà di
ridere, è arrivato ad essere quasi un Diritto Costituzione, nel 2019, come
proposta di revisione dell’articolo 3. Ma dal 2019 ad oggi cosa è successo? La
pandemia, la peste del nuovo secolo. Qualcosa di poco divertente.
Si può ridere di una malattia, specie se
grave, magari senza uscita? L’attrice comica Gilda Radner non aveva dubbi: “Il
cancro è probabilmente la cosa più spietata del mondo. Ma io sono una comica.
Persino il cancro non potrà impedirmi di ridere di quello che ho passato.” Il
dottor Madan Kataria constatava: “Non ho visto nessuno morire di risate, ma
conosco milioni di persone che stanno morendo, perché non stanno ridendo”. Vi
consiglio l’ottimo sito di Lara Lucaccioni, dove troverete queste e altre
citazioni, nell’articolo del 2018 “frasi e aforismi sulla risata”.
Ma visto che il Covid 19 è una malattia
così contagiosa, ancora senza cura, che ha necessitato per contenerla delle
leggi che hanno ristretto per il bene comune le libertà individuali, si può
riderci sopra? Il rischio, dicono gli esperti e molti giornalisti, non è
che “sminuendola troppo“ venga avvertita come meno pericolosa di quello che è?
Il rischio di riderne “adesso”, dicono i politici, non è vanificare i sacrifici
del Lockdown (una reclusione volontaria, ma sanzionata in caso di violazione)
del distanziamento sociale (un rimedio terribile, inumano, aberrante),
dell’indebitamento del paese (che ricadrà già su due generazioni) per
sostenere l’economia? Ridere “di questo momento storico”, pur delle piccole ipocrisie
e senza giustamente evocare i drammi veri, mentre lo stiamo ancora
drammaticamente vivendo, non può essere comunque nocivo “per la salute e ordine
pubblico”?
Domande non semplici, ma che sembrano
per molti spegnere sul nascere ogni possibilità di far ridere, almeno per
ora, anche di cose come i monopattini. Come reagiscono a ciò gli artisti
grafici, i registi, i cantanti? Per molti (forse per troppi) non si può ridere
delle leggi sull’uso o no delle mascherine, non si può ridere sugli
assembramenti, del rincaro dei prezzi, non si può ridere sulle opinioni
divergenti dei virologi, non si può ridere sulla solidarietà europea, non si
può ridere sulla mancanza di tamponi o mascherine, non si può ridere sui
politici, sull’informazione, sull’immigrazione, sui runner, sui
monopattini... Non si può ridere, dell’attualità. Ci rimangono gli
“audaci”, chi lotta per la satira e ha la forza di parlare di tutto, sempre con
il massimo rispetto di chi ha sofferto, come il disegnatore satirico Hurricane
Ivan. Di cui sta per uscire il divertentissimo Cronache dal Virus per Eris
Edizioni. Ma non è da tutti, per motivi personali quanto esterni, immagino. Per
i più rimane la possibilità malinconica, fino ad ora non contestata, di ridere
“del passato”, riguardare vecchi film, come quei ragazzi di Boccaccio che per
dieci giorni, in un medioevo afflitto dalla peste, si trovarono in un casale
isolato a raccontarsi storielle “fuori dalla quotidianità”, ma che
racchiudevano ciò che l'umanità non avrebbe dovuto perdere, i valori e lo
“spirito” che si sperava la peste non sarebbe riuscita a cancellare. Come fece
nel 2001 Hardball di Brian Robbins, uscito all’indomani dell’attentato alle
Torri Gemelle. Un film sul baseball e l’inclusione sociale, temi storici e cari
all’America, che riempì le sale in un momento in cui tutti i film erano stati
rimandati per la paura del terrorismo. La gente aveva bisogno di normalità ed
Hardball era la giusta elegia americana per riproporgliela, in un momento in
cui la società (e la socialità) sembravamo in frantumi. Se un film sul
baseball poteva riportare nelle sale gli americani, forse un cinepanettone
poteva ripetere il miracolo per gli italiani. Riuscire a ridere di un difficile
presente o cercare una risata consolatoria nei classici del passato o nella
fantasia. Questo è il problema.
Come si pone quindi Enrico Vanzina,
figlio di “Steno” e fratello dello scomparso Carlo, che pure in questo Lockdown
all’italiana non dimentica di ricordare, tra gli schermi delle televisioni
accese nelle case in cui si ambienta la pellicola, i grandi film della commedia
all’italiana del passato? Tra spezzoni di Ecceziunale veramente, Sapore di
Mare, I nuovi mostri, passando anche per il remake americano di Profumo di
Donna, seppur nel piccolo schermo, fanno così capolino Alberto Sordi,
Abatantuono, Calà, Gassman, mentre Vanzina sembra, almeno a livello più
superficiale, una farsetta che per le restrizioni logistiche delle
riprese sotto la pandemia ha il sapore di un atto unico teatrale. Ma Enrico
Vanzina cova qualcosa, vuole offrire qualcosa di diverso, vuole rompere degli
schemi. Purtroppo si ha la triste sensazione che non gli riesca.
Quattro-cinque attori in tutto, in scena
massimo 3 per volta per distanziamento sociale. Ambientazione limitata a due
appartamenti mentre all’esterno una Roma deserta causa lockdown è fotografata
dal cielo dai droni. Quasi impossibilità di creare scene di azione o gag
fisiche. Una bella sfida. La storia che mette a confronto una coppia
altolocata, composta da Ezio Greggio e Paola Minaccioni, con una coppia che
vive in periferia, formata da Ricky Memphis e Martina Stella. Il pretesto che
innesca la vicenda è che le coppie stanno per scoppiare per una questione di
corna, mentre lo Stato Italiano dichiara il lockdown per
Covid, costringendole ad una convivenza forzata fino a nuovo ordine. Avranno a
che fare con lo smart working, le code ai supermercati, le multe per gli
spostamenti, gli incontri virtuali, la difficoltà a sopportarsi a
vicenda.
Il personaggio di Ezio Greggio dovrebbe
richiamare i “commendatori erotomani” di Guido Nicheli e Renzo Montagnani.
Paola Minaccioni è sulle orme dei personaggi aristocratici e arcigni di Luciana
Calandra e Franca Valeri. Martina Stella sarebbe il perfetto sogno erotico che
nella commedia sexy anni '70 starebbe insaponata sotto la doccia, spiata da
Bombolo o Vitali da un buco della serratura. Ricky Memphis potrebbe essere il
classico ragazzotto romano un po’ ingenuo dei primi Verdone.
Tutto però è ipotetico, i caratteri dei
personaggi non graffiano, l’azione non ingrana anche per il “distanziamento
sociale”. Martina Stella viene disinnescata da un modo di fare cinema che oggi
non prevede docce, salvo incorrere in sessismo e la natura “birichina” del
personaggio è ulteriormente castigata dalle regole Covid che rendono
impossibili agli attori tutti i tipi di contatti fisici. Ricky Memphis e la
Minaccioli, che pure aggiornano quelle maschere comiche citate all’epoca dei
siti per appuntamenti e alle chat del cellulare, non riescono a dialogare in
sinergia, forse anche perché gli attori devono recitare sempre a distanza
sociale e gli spazi di improvvisazione sono minimi. Ezio Greggio si smarca dai
“commendatori anni 70/80”, gioca con poca convinzione il ruolo del mattatore e
soprattutto diviene voce dell’anima fragile, inaspettatamente e
catastroficamente meta -drammatica, della pellicola. Greggio si carica
della frustrazione di Vanzina nel voler fare un film in cui si ride e riflette
di questo periodo, senza avere le convinzioni/autorizzazioni giuste per farlo.
Eccolo il nocciolo della questione, la
scena che fa di Lockdown all’italiana un film per certi versi unico e forse
interessante a un'analisi futura.
Ci troviamo sulla terrazza panoramica
della casa dell’avvocato che interpreta Greggio. C’è una ragazza avvenente e la
Minaccioni che hanno appena scoperto che Greggio è un “cazzaro”. Greggio parte
con un monologo in cui dice che è contento di essere un cazzaro, perché questo
è il suo ruolo positivo per immaginare il mondo, mentre ci sono in questo momento
delle persone che soffrono e si sentono senza speranza. È un urlo di dolore che
scappa dal personaggio senza che fino ad allora ce ne fossero le premesse. Un
monologo in cui parla la necessità di essere un comico in un momento come
questo, insieme alla frustrazione di non poterlo fare fino in fondo. Greggio
peraltro non riesce quasi mai a far ridere durante tutta la pellicola, ci prova
ma è agitato da questo tormento, i panni del suo commendatore/avvocato che può
solo parlare del fatto che è un cazzaro, quando ogni possibilità di fare satira
è di fatto uccisa sul nascere, gli stanno stretti. Dove Greggio risulta
naturale e a suo agio è in una scena in cui suona il piano, mentre gli altri
interpreti sono tutti in silenzio, con la Minaccioni che sul terrazzo cerca di
accarezzare una bandiera italiana. Poi si gira pagina, si torna a far finta che
siamo in una farsetta di fine anni ‘70 ma senza docce, quando al campanello di
casa di Ricky Memphis suona Riccardo Rossi, che interpreta il vicino di casa.
Forse il ruolo più bello. Rossi invita Memphis a “sfogarsi”, a liberarsi con
lui delle sue frustrazioni. Poi è lui ad aprirsi e nel modo più dolce e diretto
dice di avere paura di questo periodo. Ha paura di rimanere solo, ora che la
persona che amava non è più con lui. E’ allora il film riesce anche a
commuovere. Poi la farsetta continua, sempre più sfilacciata e stanca. Con gli
attori che sono costretti a tenere tra loro le distanze e indossando sempre più
con difficoltà i loro ruoli.
Lockdown all’Italiana è un tentativo
maldestro, ma sentito, di fare cinema in Italia adesso, con le regole e la
paura del Covid che aleggia ancora nell’aria. La trama gira su se stessa più
volte, si avverte il disagio generale della situazione, la comicità trattiene
in modo solo posticcio l’anima ingarbugliata e tormentata dell’intero progetto.
Non avere più in futuro film girati con il distanziamento sociale come questo
potrebbe per me essere già un ottimo deterrente, sprona davvero a mettersi la
mascherina per limitare il contagio. Magari anche due.
Ma comunque apprezzo l’incoscienza e
fragilità con cui questo piccolo film dell’epoca Covid ha provato, pur
fallendo, a farci ridere.
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